Stefania Lucamante 346 ANNETTE WIEVIORKA A USCHWITZ
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Stefania Lucamante 346 ANNETTE WIEVIORKA A USCHWITZ
Stefania Lucamante 346 ANNETTE WIEVIORKA A USCHWITZ SPIEGA TO A MIA FIGLIA TRADUZIONE DI ELIANA VICARI FABRIS POSTFAZIONE DI AMOS LUZZATTO Torino: Einaudi, 1999. 77 pp. L e domande da cui sono assillati gli adulti costruiscono in parte anche il mondo dei "perchè" dei nostri bambini. Di fronte all'orrore della guerra, del convoglio di ebrei dell'ottobre del '43, delle foto dei lager sui giornali, il fanciullo divino della Storia di Elsa Morante, Useppe, chiede impotente alla madre solo un continuo e ormai flebile pecché. "Perchè", ci chiedono i bambini. Ma dietro il nostro rispondere si cela spesso un inconsapevole desiderio di dare risposte semplici e razionali all'illogicità del comportamento dei nostri simili. Come spiegare il razzismo, come spiegare un avvenimento abnorme come Auschwitz e, conseguentemente l'antiebraismo religioso, l'antisemitismo, a dei bambini, a degli esseri che, in virtù della loro stessa età, dovrebbero essere esenti dal conoscere tali orrori? Al Museo dell'Olocausto di Washington, per esempio, l'ingresso è vietato a bambini di età inferiore ai dodici anni. "Il disonore dell'uomo è il Potere", scrive Morante nel suo "Piccolo Manifesto dei comunisti". Se ciò è vero, anche l'apice raggiunto dalla tragedia di Auschwitz troverebbe una sua spiegazione immediata. Come ricorda Wieviorka, all'interno della seconda guerra mondiale, Hitler conduceva un'altra guerra, personale, quella contro la diversità. Una diversità non solo razziale, ma slegata da qualunque connotazione precisa al di fuori di quella implicita nel suo stesso significato: diverso. "Diversi" erano gli anziani. L'eutanasia iniziò come pratica ben prima dei campi di concentramento. Poi vennero i meticci dei senegalesi della prima guerra mondiale stabilitisi nel bacino della Ruhr, i politici, gli zingari, i malati di mente, tutti coloro che in qualche modo avrebbero potuto intaccare la purezza della razza e che quindi, in quanto tali, dovevano essere radiati dal territorio tedesco. Questo il progetto iniziale, sino a Wannsee, nel 1942. Da questo momento in poi, una sistematica follia prende il sopravvento sul puro e semplice odio per il "diverso", un odio che spesso sembra riecheggiare negli episodi di violenza contro i turchi degli ultimi anni. Sei milioni di morti solo fra gli ebrei europei, un numero abominevole ottenuto grazie alla solerte partecipazione di tutto un nutrito personale amministrativo che stava obbedendo alla autorità superiore. Senza censimenti, senza registri con i nomi ebrei, tutto ciò Auschwitz spiegato a mia figlia 347 non sarebbe stato possibile. Occorreva un personale di sicura affidabilità che non prendesse posizioni contro il Potere, ma che invece ne assecondasse la follia attraverso il passaggio senza inceppi di carte, documenti, foto, registri, verbali, insomma tutto quello su cui si basa la burocrazia. Come scrive Amos Luzzatto nella postfazione alla traduzione italiana, "la porta del dominio assoluto e del terrore - esterno e interno - veniva aperta con la chiave specifica dell'antisemitismo razzista" (73). Per dimostrare il proprio potere, come quello del suo potente esercito, militare e burocratico, Hitler organizzò questa guerra all'interno dell'altra, "ufficiale". La guerra contro gli ebrei fu l'unica, a tutti gli effetti, da lui vinta. Lo sterminio degli ebrei europei non fu certo cosa da niente, ma grazie alla forte organizzazione e metodo, i risultati ottenuti furono quasi superiori alle aspettative del Führer. L'ironia su cui giocano le mie parole è in parte anche una risposta ai ripetuti tentativi, anche recenti, di vari gruppi e varie nazioni di dichiarare la loro estraneità al genocidio, al massacro sistematico degli Ebrei, come in parte al tentativo di accomunarlo ad altri genocidi. Crollata la neutralità della Svizzera con il pesante resoconto di 956 pagine degli otto esperti convocati appositamente per determinare la posizione del paese rispetto al Nazismo, crollata la tesi della presunta neutralità dei vari Churchill, Roosevelt, e, Stalin, per non parlare di Pio XII, la cui recentissima biografia, firmata dal giornalista cattolico John Cornwell non fa che riconfermare le numerose omissioni e sotterfugi di questo papa filo-tedesco, resta ora da continuare a parlare del fatto, continuare, come voleva, primo fra tutti, Primo Levi a raccontare. Far parlare i testimoni di tale abissale ingiustizia umana è ormai opera difficile, non solo perché i sommersi ci hanno lasciato prima di poterlo, ma anche perché i salvati (secondo le categorie date dallo stesso Levi) stanno scomparendo. Non si dovrebbe dimenticare però che far parlare i sopravvissuti vuol dire anche e sempre far ripercorrere loro percorsi della memoria fratturati da esperienze tragiche che, per ragioni di sanità mentale, molti di questi preferiscono non riesumare. Il trauma rivive nel momento in cui ci chiede a un individuo di raccontarcelo, di dare all'esperienza vissuta (in quanto subita) una sua forma verbale, la cosiddetta "testimonianza" del trauma. La testimonianza fa rivivere la sofferenza e il dolore di quella esperienza passata, una ulteriore ferita per individui già colpiti dall'atroce perdita (anche temporanea) della propria condizione umana. In questo libro della Wieviorka, la testimonianza del trauma, in questo caso particolare, di Auschwitz, perde la connotazione specifica legata e narrata da un individuo, come ad esempio nel caso del libro sul razzismo e sull'intolleranza verso altri Stefania Lucamante 348 gruppi etnici scritto da Tahar Ben Jelloun. Partendo dal dato più visibile di tale perdita del proprio essere umano, il numero sul braccio dell'amica Berthe, una madre, che è anche storica ed ebrea, spiega alla propria figlia cosa ha significato Auschwitz per milioni di persone. Seguendo il criterio voluto dalla storica polacca, ho letto il libro con mio figlio di dodici anni. Anche lui, come la figlia di Wieviorka, conosce la Shoah, anche lui conosce ebrei che hanno perso i loro genitori ad Auschwitz, anche lui ha visto La vita è bella. Non è esente dalla conoscenza del Potere, non gode di quella ignoranza nella quale persino noi della generazione dei quarantenni non-ebrei siamo vissuti per molto tempo. Le immagini di film, di programmi sull'Olocausto ha reso questo impossibile. Ed è giusto che sia così. Trovo giusto infatti che un bambino si renda conto di come altri bambini sono stati giustiziati e continuano ad esserlo (basti pensare alla Bosnia e alla Cecenia dei giorni nostri). Bisogna far sapere loro che il Potere distrugge. Ora si deve discutere sul come e quanto dire a un bambino, un bambino il quale trova ancora più potente la parola rispetto all'immagine. Leggendo l'efficace libro di Wieviorka, mio figlio infatti ha fatto questo commento. Alla fine della lettura mi ha detto che quello che avevamo letto gli faceva paura, molta paura perché continuava a pensare e a chiedersi come i nazisti potessero uccidere dei bambini, fatto che andava lentamente ricostruendo nella propria mente grazie alla viva immaginazione di un bambino di dodici anni. Ecco, penso che questa domanda, fra le tante possibili, sia da continuare a porre, instancabilmente, a tutti coloro che dichiarano che è ora di guardare avanti. Guardare avanti certo, ma continuando a dare informazioni reali e non manipolate attraverso discutibili revisionismi storici come quelli tentati da negazionisti, contribuendo a rendere vivo il ricordo, senza mai dimenticare cosa è successo. Questo è il nostro dovere di adulti nei confronti dei bambini che guardano verso il futuro, ma che comunque e sempre guardano, prima di tutto, noi adulti. STEFANIA LUCAMANTE The Catholic University of America, Washington, D. C.