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INSEGNAMENTO DI
DIRITTO PENALE I
LEZIONE II
“IL DIRITTO PENALE (PARTE II)”
PROF. SILVERIO SICA
Diritto Penale I
Lezione II
Indice
1 Divieto di analogia---------------------------------------------------------------------------------------- 3 2 Ipotesi di antefatto e di postfatto non punibile --------------------------------------------------- 13 3 Le norme a più fattispecie ---------------------------------------------------------------------------- 15 Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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1 Divieto di analogia
Dalla interpretazione va distinto il procedimento per analogia: l'applicazione analogica della
legge.
L'analogia è quel procedimento attraverso il quale vengono disciplinati i casi non
espressamente previsti dalla legge, mediante l'applicazione agli stessi della disciplina prevista per i
casi simili.
L'applicazione del procedimento analogico nel campo del diritto penale ha una particolare
disciplina.
L'art. 14 delle preleggi impone al nostro legislatore il divieto di applicare in via analogica le
norme penali, più precisamente stabilisce che:”...le leggi penali e quelle che fanno eccezione ai
principi generali non si applicano oltre i casi e i tempi in essa considerati”.
Da questa disposizione deriva in modo indubbio che il procedimento analogico è interdetto
nei riguardi delle norme penali in senso stretto, e cioè rispetto alle disposizioni che prevedono i
singoli reati e stabiliscono le relative pene (le così dette norme incriminatrici speciali), nonché
rispetto alle altre norme che integrano le disposizioni medesime, limitando i diritti dell'individuo.
Il divieto viene imposto anche dagli artt. 1 e 199 c.p., “nessuno può essere punito per un
fatto che non sia espressamente preveduto dalla legge, né con pene che non siano da essa
stabilite”; l'art. 199 c.p. stabilisce che:”...nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che
non siano stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa stabiliti”.
Il divieto di analogia nelle leggi penali non è fine a sé stesso, né è disposto per tutelare in
primo luogo la certezza del diritto; esso è un mezzo per estendere, quanto più è possibile, sfera della
liceità penale e ridurre al minimo la menomazione della libertà del cittadino.
Infatti, in forza del divieto di analogia, il giudice non può estendere analogicamente le
norme che sanciscono l'applicazione di pene e non può irrogare pene al di fuori di casi
espressamente previsti dal legislatore.
L'analogia va tenuta, però, distinta dalla confinante figura dell'interpretazione estensiva:
con tale operazione ermeneutica l'operatore del diritto, rimane pur sempre nell'ambito della norma
attribuendo un più ampio significato ai termini che la compongono mentre con l'analogia, egli esce
dai confini della norma in quanto il caso concreto non rientra nel contenuto di essa anche se
interpretata nella maniera più lata possibile.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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In sintesi, possiamo dire che mentre l'interpretazione estensiva è sempre legata al testo della
esistente, il procedimento analogico è, invece, creativo di una norma nuova che prima non esisteva.
Bisogna ora interrogarci se il principio del divieto di analogia è da ritenersi assoluto, o può
trovare una deroga con quelle norme che sono definite di favor rei.
Per coloro che sostengono che il divieto previsto dall'art 14 disp. prel. soddisfa un'esigenza
di certezza del diritto, ritengono che il divieto è da ritenersi assoluto: sia quando la norma è
sfavorevole a reo e sia quando questa è da ritenersi favor rei.
Mentre, per coloro che riconducono la ratio del divieto di analogia all'esigenza di garanzia
della libertà individuale contro limitazioni non espressamente previste e contro possibili arbitri del
giudice, allora il divieto deve essere circoscritto alle norme che sono restrittive, le quali soltanto
rientrano nel concetto di “leggi penali” espresso dall'art 14 disp. prel.
Tuttavia, la possibilità di estendere il divieto di analogia in favore del reo è ridotta dalla
stessa norma che impone il divieto.
Infatti, l'art 14 disp. prel. vieta l'analogia delle leggi che fanno eccezione alle regole
generali: così, le ipotesi più importanti, in cui si dovrebbe far valere l'analogia in favore del reo (si
pensi alle cause di esclusione del reato), incontrano l'ostacolo del divieto di analogia.
Il legislatore vieta in modo assoluto ogni possibile analogia a quelle norme che prevedono
cause di estinzione del reato e della pena, alle c.d. immunità ed alle cause speciali di non punibilità.
Infatti, la regola dell'intero sistema penale è che l'autore di un fatto penalmente rilevante,
antigiuridico e colpevole debba essere punito con le sanzioni previste dalla legge ed è solo
un'eccezione che egli resti in tutto o in parte impunito, per ragioni di opportunità politica.
Analogo discorso va fatto per le norme che prevedono circostanze attenuanti, infatti, queste
non ammettono estensione analogica, essendo il frutto della precisa scelta politico-criminale di
attribuire rilevanza attenuante a ben individuate situazioni, e solo a quelle: manca perciò una lacuna
involontaria nella disciplina legislativa.
Per una maggiore comprensione del divieto di analogia è bene fare qualche cenno all'istituto
denominato interpretazione.
Possiamo definire l'interpretazione come un momento della ricerca giuridica, finalizzato
all'indagine sul significato delle proposizioni che formano la norma penale.
L'interpretazione sarà autentica, quando ad interpretare il testo normativo è lo stesso organo
che ha prodotto la norma.
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Sia avrà interpretazione ufficiale, quando l'attività ermeneutica è svolta dai pubblici
funzionari dello Stato nell'ambito delle competenze istituzionali.
Quando i giudici sono chiamati ad emanare una sentenza, devono prima interpretare la
norma in modo tale da accertarsi che la fattispecie concreta sia sussumibile sotto quella data
fattispecie astratta; tale attività prende il nome interpretazione giudiziale.
In fine abbiamo l'interpretazione dottrinale, che viene realizzata dagli studiosi del diritto;
essa a differenza di quella giudiziale che è volta a risolvere di volta in volta il caso concreto, è
finalizzata ad indirizzare gli stessi organi giudiziari nella loro attività.
L'art. 12 disp. prel. stabilisce che:” nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro
significato che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di
esse e dalla intenzione del legislatore”
Così, tutti gli operatori del diritto che per le loro funzioni sono portati ad interpretare una
norma, devono necessariamente rispettare quanto riportato nell'art. 12 disp. prel.
Quanto più non viene rispettato il principio di tassatività, tanto più sarà necessario ricorrere
all'interpretazione.
Bisogna fare attenzione, perché l'interpretazione della norma, in particolare modo quella
giudiziale, rischia di violare il principio denominato “certezza del diritto”.
Tutti i soggetti che concorrono all'interpretazione si basano su dei canoni interpretativi: tali
canoni hanno lo scopo di individuare la portata e i limiti della tutela apprestata dal legislatore penale
nelle singole fattispecie.
Tali canoni interpretativi sono in tutto quattro:
a) Criterio semantico: tale canone individua il significato generico offerto dalla singole
parole che compongono la frase legislativa.
È lo stesso criterio indicato dall'art 12 delle preleggi, ossia lo stesso legislatore invita gli
operatori a riportarsi, nell'interpretare una norma, al significato comune delle singole parole
che la compongono.
b) Criterio Teleologico: con esso si cerca la funzione obiettiva che la disposizione di legge è
chiamata a svolgere nella società.
Così, attraverso l'elemento teleologico, le esigenze sociali penetrano nel processo di
determinazione dell'ordinamento giuridico positivo.
c) Criterio logico-sistematico: il criterio logico consente all'interprete di esaminare la norma
nella sua interezza, in modo tale da confrontarla e porla in riferimento con le altre norme.
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Più precisamente, questo secondo momento realizza la ratio del criterio sistematico,
che è volto a collocare la singola norma nel sistema giuridico; pertanto, l'interprete dopo
aver analizzato singolarmente la norma, deve necessariamente studiarla in riferimento con le
altre norme.
Solo in questo modo, è possibile riuscire a garantire l'unità concettuale
dell'ordinamento.
d)
Criterio storico: con esso si cerca di rintracciare nella norma lo scopo
suriettivo del legislatore, cioè il fine che si riprometteva il legislatore di raggiungere con la
creazione di quella data norma.
Attenzione, la storicità del mondo del diritto vieta di dare rilievo decisivo alla volontà del
legislatore: tale volontà si esaurisce nel momento stesso in cui l'atto normativo è posto.
Così, parte della dottrina sostiene che per poter correttamente interpretare una disposizione
giuridica, è necessario conoscere quelle condizioni obiettive della società, che costituiscono la
giustificazione funzionale della disposizione stessa.
¾
CONCORSO DI NORME PENALI
Concorso di norme penali è il convergere di più norme penali verso la stessa situazione di
fatto.
Il concorso apparente di norme ricorre allorché uno stesso fatto sembra disciplinato da
diverse disposizioni di legge, ma in realtà solo una di esse è applicabile al caso concreto.
L'istituto, pertanto, è speculare rispetto a quello del concorso di reati, configurabile quando
con una sola azione o omissione vengono commessi più reati.
Tali norme devono essere tutte perfettamente valide sia in senso tecnico, sia rispetto al
tempo, al luogo e alle persone: per es., non vi è concorso tra una norma abrogata e una vigente.
Se le norme concorrenti possono applicarsi tutte, si avrà un concorso effettivo di norme; se,
invece, l'applicabilità di qualcuna di esse esclude l'applicabilità di una o più altre, si avrà concorso
apparente di norme.
Bisogna, poi, chiarire che il concorso di norme, in quanto richiede il convergere di più
norme applicabili alla stessa situazione di fatto, non si configura se la norma è una sola.
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Questa impossibilità che una norma concorra con sé stessa sussiste pure rispetto a quelle
norme, che sono formate di più espressioni verbali (es. art 635 c.p.), ma esprimono un significato
criminoso unitario.
In questo caso, si parla di legge mista alternativa: e, anche se un soggetto compie più fatti,
ognuno dei quali sembra corrispondere a una delle espressioni verbali, il reato rimane unico fin
dall'inizio, sicché non si pone affatto il problema di decidere se il concorso sia apparente o effettivo.
In casi estremamente rari, può avvenire, però, che un medesimo articolo di legge contenga
più norme autonome tra loro.
Si tratta, allora, di una legge mista cumulativa.
Le norme incriminatrici che se ne ricavano possono concorrere tra loro e (se il concorso è
effettivo) dare luogo ad una pluralità di reati.
Sono tre i rimedi a cui è possibile far ricorso per risolvere i problemi che possono sorgere,
ogni qualvolta che ci si trova dinanzi ad un concorso apparente di norme.
Tali “rimedi” prendono il nome di rapporto di specialità, rapporto di sussidiarietà e rapporto
di consunzione.
Tra i tre criteri, solo quello di specialità trova esplicito riconoscimento nel nostro codice
penale, mentre gli altri due sono frutto della dottrina.
1) Rapporto di specialità
Per risolvere i problemi posti dal primo gruppo di ipotesi, il legislatore enuncia innanzitutto
il criterio di specialità, stabilendo che.:”...quando più leggi penali o più disposizioni della medesima
legge penale regolano la stessa materia la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla
legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito...” ex art 15 c.p.
Il rapporto di specialità tra due disposizioni si instaura quando una delle due disposizioni
(quella speciale) descrive una classe di accadimenti e l'altra (quella generale) descrive una classe
più ampia nella quale rientra per intero la prima.
Secondo la Suprema Corte di Cassazione:”...l'ordinamento positivo è ispirato, in materia di
concorso apparente di norme, al principio della specialità, consacrato nell'art 15 cod. pen.
Detto principio postula che una determinata norma incriminatrice (speciale) presenti in sé
tutti gli elementi costitutivi di un'altra (generale), oltre a quelli caratteristici della specializzazione;
è necessario, cioè, che le due disposizioni appaiano come due cerchi concentrici, di diametro
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diverso, per cui quello più ampio contenga quello minore ed abbia, inoltre, un settore residuo,
destinato ad accogliere i requisiti aggiuntivi della specialità...”.
Da ciò ne deriva che, quando tra due norme incriminatrici sussiste un rapporto di specialità
si ha un concorso apparente di norme (e non un concorso di reati) e al fatto concreto è applicabile la
sola norma speciale che “estromette” la norma generale.
Nei casi di specialità, si applica esclusivamente la disposizione speciale, e non importa se
essa preveda una pena maggiore, una pena minore o addirittura una situazione di liceità penale.
Secondo la Corte:”...il presupposto per l'applicazione del principio contenuto nell'art 15
citato è infatti costituito dalla circostanza che tutti gli elementi della fattispecie c.d. generale siano
ricompresi in quella c.d. speciale che ne prevede di ulteriori.
In questo caso, comunemente denominato di “concorso apparente”, si applica soltanto la
fattispecie speciale...”.
All'operare del rapporto di specialità è indispensabile una rigida unità naturale del fatto
verso il quale convergono le norme.
Infine, poiché si tratta di una relazione logica, e non di valore, può darsi il caso che una
norma speciale di liceità prevalga sulla norma generale incriminatrice.
Ciò è esplicitamente riconosciuto nel nostro diritto positivo all'art 51 c.p., il quale stabilisce
che un reato può essere escluso per l'esercizio di un diritto o per l'adempimento di un dovere.
Il principio di specialità si applica anche al concorso tra norma di diritto penale e norma di
diritto penale amministrativo.
Una norma è dunque speciale rispetto ad un'altra quando descrive un fatto che presenta tutti
gli elementi del fatto contemplato dall'altra- la norma generale- e inoltre uno o più elemento
specializzanti.
Specializzante può essere: a) un elemento che specifica un elemento del fatto previsto dalla
norma generale; b) un elemento che si aggiunge a quelli espressamente previsti nella norma
generale.
Si parla nel primo caso di specialità per specificazione e nel secondo di specialità per
aggiunta.
In senso diametralmente opposto a quanto ora detto, su muove l'orientamento di una parte
della giurisprudenza che interpreta la formula “stessa materia” nell'art 15 c.p. come sinonimo di
“stesso bene giuridico”, limitando così il campo di applicazione del criterio di specialità alle sole
ipotesi in cui la norma speciale tuteli lo stesso bene giuridico protetto dalla norma generale.
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A questo orientamento si obietta, a ragione, in primo luogo che la formula “stessa materia”
non evoca minimamente l'idea di un identico bene giuridico tutelato, stando piuttosto ad indicare
l'esigenza che uno stesso fatto sia riconducibile sia alla norma generale sia alla norma speciale; in
secondo luogo, si sottolinea che nessuna ragione di tipo logico si oppone a che si consideri norma
speciale una norma che tutela, accanto al bene tutelato dalla norma generale, anche un bene diverso.
Enunciando la regola secondo la quale, quando uno stesso fatto è riconducibile a due diverse
norme penali, se tra le due norme intercorre un rapporto strutturale di specialità, la norma speciale
prevale su quella generale (si applica cioè in via esclusiva, estromettendo la norma generale), il
legislatore prevede espressamente la possibilità di eccezioni a tale regola: fa salva infatti la
possibilità che la legge “stabilisca altrimenti”.
Alla regola della prevalenza della norma speciale potrà dunque derogarsi soltanto nel senso
della congiunta applicabilità di entrambe le norme concorrenti: sia di quella speciale, sia di quella
generale.
Si avrà pertanto un concorso formale di reati, e non un concorso apparente di norme.
2) Rapporto di sussidiarietà
Le difficoltà interpretative evidenziate in relazione al concetto di “stessa materia”, secondo
la dottrina, dimostrano semplicemente che il principio della specialità non può, da solo, risolvere i
problemi relativi all'apparente convergenza di norme verso la medesima situazione di fatto, né può
consentire sempre di individuare la norma applicabile nel caso concreto.
Il principio di specialità non esaurisce, pertanto, le ipotesi di concorso apparente di norme
penali: così, ulteriori ipotesi possono individuarsi attraverso il principio di sussidiarietà.
Vi sono taluni casi, nei quali le fattispecie penali limitano sé stesse, statuendo la propria
inapplicabilità per il caso che il fatto sia previsto come reato o come illecito penale amministrativo
da un'altra norma, senza richiedere alcun requisito (ad esempio l'art 517 c.p.).
La ratio di questa regola sta nel fatto che il legislatore, nel disciplinare materie previste
anche extra codicem, vuole evitare il duplicarsi delle sanzioni per quello che è sostanzialmente un
unico illecito e che è punito in modo presumibilmente più appropriato dalla legge speciale che
disciplina quella materia.
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Pertanto, una disposizione si dirà sussidiaria rispetto ad un'altra (norma principale), quando
quest'ultima tutela, accanto al bene giuridico protetto dalla prima norma, uno o più beni ulteriori
ovvero reprime un grado di offesa più grave allo stesso bene.
La logica della sussidiarietà guida il legislatore, in primo luogo, quando inserisce nel testo di
una norma incriminatrice clausole del tipo “qualora il fatto non costituisca un più grave reato”, “se
il fatto non è preveduto come più grave reato da altra disposizione di legge”, etc: clausole siffatte
connotano espressamente la norma come sussidiaria, escludendone l'applicabilità ad un fatto
concreto che integri anche gli estremi dell'altro e più grave reato.
3) Rapporto di consunzione
Parte della dottrina, per descrivere un rapporto fra norme che comporta l'applicazione in via
esclusiva di una di esse, affianca ai criteri della specialità e della sussidiarietà l'ulteriore criterio
della consunzione.
Il criterio della consunzione individua i casi in cui la commissione di un reato è strettamente
funzionale ad un altro e più grave reato, la cui previsione “consuma” e assorbe in sé l'intero
disvalore del fatto concreto.
L'idea della consunzione sta alla base della disciplina del reato complesso delineata nell'art
84 c.p., il quale dispone che “le disposizioni degli articoli precedenti non si applicano quando la
legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che
costituirebbero, per se stessi, reato”.
Così inteso, il principio di consunzione impone in primo luogo una interpretazione restrittiva
di quelle figure astratte di reato che sono costruite dal legislatore come il risultato del combinarsi di
più reati: in tanto è integrato il reato complesso, in quanto nel singolo fatto concreto sia presente il
nesso strumentale e funzionale che è alla base della unificazione legislativa di quei reati.
Il principio di consunzione trova altresì applicazione quando, pur in assenza di una figura
astratta di reato complesso, la commissione di un reato sia in concreto strettamente funzionale alla
commissione di un altro e più grave reato: si tratta delle ipotesi che parte della dottrina designa con
la formula “reato eventualmente complesso”.
A seguito di tali osservazioni possiamo affermare che, a fondamento del rapporto di
consunzione è il principio del ne bis in idem sostanziale, ossia “nessuno può essere punito più volte
per la medesima offesa ai beni tutelati dalla legge”.
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Da questo fondamento del rapporto di consunzione discendono le sue note peculiari, che lo
differenziano nettamente dal rapporto di specialità:
a) opera solo tra più fattispecie incriminatrici (mentre il rapporto di specialità opera anche in
presenza di una fattispecie di liceità o di obbligo);
b) comporta sempre la prevalenza della norma che prevede il reato più grave;
c) non richiede la unitarietà del fatto, ma solo la unitarietà del quadro di vita (ossia, identità
normativa del fatto), al quale le norme sono chiamate ad applicarsi;
d) siamo in presenza non di un rapporto logico tra norme, bensì ad un rapporto di valore; in
base al quale la norma che prevede il reato più grave ingloba in sé il reato meno grave.
Così, l'applicare anche la norma che prevede il reato meno grave condurrebbe ad un ingiusto
moltiplicarsi della sanzione;
e) anche se la norma che prevede il reato più grave ingloba in sé la norma che prevede il
reato minore, nulla esclude che la persona offesa possa ricorrere al risarcimento dei danni provocati
da entrambi i reati.
Per meglio comprendere quanto si è detto, è opportuno fare un esempio.
Mevio, spinto dalla fame e dalla povertà, ruba una mela dal reparto ortofrutticolo di un
supermercato, ma passando per una delle casse si impossessa anche dell'intero incasso.
In questo esempio manca la identità naturale del fatto che consentirebbe l'applicazione della
sola norma speciale; infatti, non è possibile applicare come ci suggerisce il principio di specialità la
norma speciale in luogo della norma generale.
Nel nostro esempio, se contestassimo a Mevio solo il reato p. e p. dall'art 626 c.p.,
lasceremmo impunito il reato più grave, che consiste nel furto dell'intero incasso.
Allora: poiché sarebbe assurdo punire più gravemente chi ha commesso il fatto complessivo
più lieve, non rimane se non ammettere che, agli effetti del principio di consunzione, del medesimo
fatto si deve giudicare secondo criteri normativi, e non secondo schemi formalistici.
Il fatto rimane il medesimo tutte le volte che alla considerazione umana e sociale esso
appare ancora un fatto unitario, unitario quadro di vita.
Ciò consente l'assorbimento del reato meno grave nel reato più grave, quando la valutazione
di questo da parte della legge sia sufficiente a ricoprire anche il disvalore del reato meno grave.
Più in generale, il principio di consunzione deve operare tutte le volte che la misura della
pena stabilita per un reato è sufficiente per esaurire anche il disvalore penale che astrattamente
avrebbe potuto dare corpo a un reato diverso.
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Secondo la Suprema Corte di Cassazione:”...tra le due norme in questione...deve
riconoscersi esistente il cosiddetto rapporto di “sussidiarietà”, ovvero di “consunzione”, ispirato
al principio del ne bis in idem sostanziale secondo il quale (anche fuori dei casi di vera e propria
specialità) nessuno può essere punito più volte per lo stesso fatto (ovvero, più precisamente, per la
medesima offesa ai beni tutelati dalla legge).
In particolare, il rapporto di consunzione, secondo la più autorevole dottrina in argomento,
è un rapporto di valore tra due norme incriminatrici, in base al quale l'apprezzamento negativo
dall'accadere concreto riconducibile ad un'unica condotta (la dottrina parla di “identità normativa
del fatto”) appare tutto già compreso nella norma che prevede il reato più grave, di guisa che
applicare anche la norma che prevede il reato meno grave condurrebbe ad un ingiusto
moltiplicarsi della sanzione.
In altri termini, il rapporto di consunzione comporta sempre la prevalenza della norma che
prevede il reato più grave, ovvero, più precisamente, quella che prevede il trattamento penale più
severo (anche quando il trattamento più severo si ricolleghi...alla sussistenza di una circostanza
aggravante specifica...”.
Sono un esempio di applicazione del criterio di consunzione, la c.d. “progressione
criminosa”, “l'antefatto non punibile” e di il “postfatto non punibile”; queste sono tutte ipotesi
in cui è evidente la mancanza della identità naturale del fatto verso il quale le norme incriminatrici
convergono.
Vi sono alcuni casi, nei quali la inapplicabilità di una norma segue all'applicabilità di
un'altra, sia perché quest'ultima è norma speciale, sia perché è norma consumante.
Il più importante di questi casi è quello del reato complesso, che sopra abbiamo visto, o
quello del reato progressivo, dove si passa da un fatto meno grave ad uno più grave; ad esempio
dal tentativo di omicidio all'omicidio consumato.
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2 Ipotesi di antefatto e di postfatto non punibile
Di fronte ad un unico fatto concreto riconducibile sotto due o più norme incriminatrici
l'alternativa che si profila è quella dell'applicabilità di tutte le norme incriminatrici (concorso
formale di reato) ovvero di una sola di quelle norme (concorso apparente di norme), che prevale o
perché speciale o perché principale o perché è norma che contiene e “consuma” l'altra o le altre.
L'alternativa fra concorso di reati e concorso apparente di norme si prospetta però anche
quando vengono commessi più fatti concreti cronologicamente separati, ciascuno dei quali integra
gli estremi di una figura di reato.
In questa eventualità, ad escludere il concorso (materiale) di reati e a far propendere per il
concorso apparente di norme non di rado è lo stesso legislatore, sancendo espressamente ora
l'inapplicabilità della norma o delle norme violate con i fatti concreti cronologicamente antecedenti
(c.d. antefatto non punibile), ora invece l'inapplicabilità della norma o delle norme violate con i
fatti concreti cronologicamente posteriori (c.d. post fatto non punibile).
La logica sottostante alle ipotesi di antefatto non punibile è quella della sussidiarietà: tra più
norme che prevedono stadi e gradi diversi di offesa dello stesso bene giuridico prevale, come norma
principale, e trova applicazione in via esclusiva, la norma che descrive lo stadio più avanzato e il
grado più intenso di offesa al bene, escludendo l'applicabilità della norma sussidiaria ( o delle
norme sussidiarie) ai fatti concreti antecedenti.
Accanto alle ipotesi espresse, si possono individuare ipotesi tacite di antefatto non punibile.
Anche in questo caso la non punibilità dell'antefatto discende dalla considerazione che si
tratta di uno stadio anteriore e meno grave di offesa al medesimo bene ovvero ad un bene meno
importante, ricompreso nel bene offeso dal fatto susseguente.
Queste ipotesi vengono talora inquadrate dalla dottrina nella categoria della progressione
criminosa.
Previsioni espresse di un post fatto non punibile sono assai numerose.
Si tratta, in primo luogo, dei casi in cui il legislatore sancisce la punibilità di questo o quel
fatto “fuori dei casi di concorso” in un fatto delittuoso antecedente.
Ad esempio, se taluno commette, come autore o partecipe, un determinato delitto e
successivamente aiuta un complice a sottrarsi alle investigazioni o alle ricerche dell'autorità,
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risponderà soltanto del primo delitto, mentre la condotta di favoreggiamento personale assumerà il
ruolo di postfatto non punibile.
Si delinea dunque in questo caso un concorso apparente di norme.
Altre volte il legislatore sancisce la punibilità di un determinato fatto “fuori dei casi
preveduti dagli articoli precedenti o dall'articolo precedente”, e cioè a condizione che l'agente non
sia stato autore o partecipe nella realizzazione del fatto o dei fatti preveduti in quell'articolo o in
quegli articoli.
Alla base delle norme che sanciscono la non punibilità di questo o quel fatto nei confronti di
che, come autore o partecipe, abbia realizzato un reato cronologicamente precedente, sta una logica
riconducibile all'idea di consunzione: la repressione del fatto antecedente esaurisce infatti il
disvalore complessivo e il relativo bisogno di punizione, posto che il fatto successivo rappresenta
un normale sviluppo della condotta precedente, attraverso il quale l'agente consegue i vantaggi
perseguiti attraverso il primo fatto ovvero ne mette al sicuro i risultati.
Le ipotesi di postfatto non punibile non si esauriscono peraltro in quelle espressamente
individuate dal legislatore.
Tacitamente le riserve “fuori dei casi di concorso nel reato” antecedente o “fuori dei casi
preveduti nell'articolo o negli articoli precedenti”, che comportano la non punibilità del reato
susseguente, operano tutte le volte in cui quest'ultimo reato rappresenta un normale sviluppo della
condotta precedente, con il quale l'agente consegue o sfrutta i vantaggi derivanti dal primo reato.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Diritto Penale I
Lezione II
3 Le norme a più fattispecie
Accade non di rado che una sola disposizione di legge preveda una serie di fatti, ai quali
ricollega la stessa pena.
Ad esempio, descrivendo il delitto di bancarotta fraudolenta, l'art 216 co. 1 l. fall. Punisce
“con la reclusione da tre a dieci anni, se è dichiarato fallito, l'imprenditore che ha distratto,
occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni...o allo scopo di recare
pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti...”.
Ci si chiede se in casi del genere la norma preveda un unico reato, realizzabile con diverse
modalità considerate equivalenti, o una pluralità di reati, che possono concorrere fra loro: si parla
nel primo caso di norme a più fattispecie (ovvero di norme miste alternative) e nel secondo caso di
disposizioni a più norme (ovvero di norme miste cumulative).
La maggior parte della dottrina ritiene che nel diritto vigente vi sia posto sia per l'una sia per
l'altra soluzione, rinviando all'interprete la decisione se ci si trovi in presenza di uno o di più reati.
Secondo autorevole dottrina, l'interpretazione dovrebbe sempre condurre a ravvisare un
unico reato, trattandosi della violazione di un'unica norma incriminatrice.
Invero, il tratto comune a queste ipotesi è che i vari fatti descritti all'interno dell'unica
disposizione rappresentano, sul piano sostanziale, o altrettanti gradi di offesa ad uno stesso bene
giuridico, oppure modalità diverse di offesa a quel bene.
D'altra parte, sul piano della tecnica legislativa, l'inclusione di quelle diverse, o più o meno
intense, offese a un medesimo bene giuridico all'interno di un'unica disposizione, con la previsione
della stessa pena, parla in senso di una unificazione legislativa di quei vari fatti, con la creazione di
un'unica norma incriminatrice, la cui violazione darà perciò vita ad unico reato. (MarinucciDolcini; Pagliaro).
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(L. 22.04.1941/n. 633)
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