Riccardo Redaelli LA DEMOCRAZIA NEI PAESI IN VIA DI

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Riccardo Redaelli LA DEMOCRAZIA NEI PAESI IN VIA DI
Riccardo Redaelli
LA DEMOCRAZIA NEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO
In questa conferenza non parliamo di tutti i Paesi in Via di Sviluppo (Pvs): l’etichetta Pvs è
davvero troppo complessa, oltre che contestata teoreticamente.
Ci limiteremo – limitarsi per modo di dire, dato che parleremo di una realtà enorme ed
estremamente differenziata – ad affrontare il problema di rappresentanza e democrazia nel
mondo islamico. Una macroregione immensa, quella del mondo musulmano, che non so se
esista davvero dal punto di vista socio-politico: io penso che esistano tanti “mondi islamici”’,
ossia società plurali e differenziate che vanno dal Marocco all’Asia centrale, o dall’Africa
subsahariana fino all’Indonesia.
Un’area su cui da tempo si è concentrata l’attenzione di analisti e politici, di media e della
pubblica opinione, con il timore ossessivo della “minaccia islamica”. Su queste tematiche –
dell’alterità ontologica dell’islam rispetto alla democrazia contemporanea – non voglio
parlare in senso polemico, ognuno ha le sue opinioni personali, anche se studiando la storia
dell’islam ne emerge la ricchezza culturale e politica, la capacità di “essere tollerante” con le
minoranze religiose in secoli in cui l’Europa era assolutamente intollerante. Io personalmente
non credo che le civiltà siano fisse, definite una volta per tutte, ma esistono periodi di crescita
e periodi di stagnazione, periodi di apertura e periodi di chiusura. Oggi certo l’islam vive una
fase difficile, in cui le spinte intolleranti e dogmatiche sono molto più visibili. Allora
cercheremo di capire perché è così difficile parlare di democrazia in questa vastissima area e,
soprattutto, che cosa intendiamo quando usiamo i termini democrazia e rappresentanza – e se
siano gli stessi concetti che hanno in mente le popolazioni di altre realtà storiche e culturali.
Con il termine democrazia noi generalmente ci riferiamo al sistema di rappresentanza
occidentale: l’evoluzione dello stato nazionale – vuoi come repubblica o come monarchia
costituzionale - che ha un suo parlamento eletto democraticamente, una rappresentanza dei
cittadini, libertà di associazione, di stampa, etc. Si tratta insomma di un modello sviluppatosi
faticosamente e dolorosamente nel corso dei secoli in Europa, in seguito alla affermazione
dello stato moderno e del cosiddetto ordine di Westphalia. Quando in seguito alle vicende del
colonialismo e delle fasi di decolonizzazione questo modello di statualità, rappresentanza
politica e di governo si espande in civiltà altre, in culture profondamente diverse da quella
europea, che cosa succede?
E’ impossibile dare una risposta unitaria. Perché il modello occidentale si incontra in modi
diversi con tradizioni diverse. Esistono nel mondo islamico realtà tradizionali tribali che – pur
essendo lontanissime dal nostro concetto di democrazia – hanno una gestione del potere
concordata e attenta alle istanze dei diversi gruppi sociali. Esistono modelli di rappresentanza
non elettiva – che non passano cioè attraverso elezioni – che per secoli hanno risposto alle
istanze di rappresentanza. Per contro, oggi assistiamo in quasi tutti i paesi islamici
all’adozione di meccanismi e criteri di governo e di rappresentanza che sono formalmente
simili alle nostre, ma che non portano alcuna libertà o democrazia effettuale.
Un esempio evidente è quello della repubblica islamica dell’Iran. In pochi sanno che in Iran vi
è un sistema elettorale in cui il presidente è eletto dai cittadini (uomini e donne sopra i 15
anni). Fra i candidati, una volta vagliate le candidature da parte del Consiglio dei guardiani, il
sistema è sostanzialmente democratico: tu voti chi vuoi, il regime non fa grandi interferenze, e
viene eletto chi ottiene più voti. Tanto è vero che nel 1997 venne eletto a sorpresa un
candidato riformista, Muhammad Khatami, che non era il candidato dell’establishment
conservatore, e voleva veramente democratizzare il Paese. Apparentemente questa è una
democrazia: il presidente eletto fa il governo che vuole e governa. Ma l’Iran per anni è stato
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un paese in cui - allorché gli studenti manifestavano a favore del presidente eletto della
Repubblica - la polizia li picchiava. Perché? Perché il sistema prevede sì un presidente eletto a
suffragio universale, prevedeva altri organi istituzionali elettivi, ma questi organi contano
poco: il vero centro del potere risiede altrove, in organi non elettivi.
Quindi non una democrazia ma neppure un regime senza rappresentazione, dato che le
elezioni non sono “finte”: c’è sempre incertezza su chi vincerà.
Un altro esempio – per certi versi opposto – è quello rappresentato dai paesi del Golfo, come
Arabia saudita, Kuwait, Qatar, Bahrein, Emirati Arabi Uniti. Fino a prima delle recentissime e
spesso solo cosmetiche riforme politiche, in questi paesi – tutti amici dell’Occidente e definiti
come moderati – non vi era quasi rappresentanza, per come noi la intendiamo: lì le donne non
votano ma non votano nemmeno gli uomini; in alcuni di questi emirati, la maggior parte delle
persone che vi abita non possiede la cittadinanza: si tratta di lavoratori stranieri. Ci sono un
po’ di occidentali strapagati e poi c’è la massa di filippini, egiziani, shrilanchesi, indiani,
pakistani, pagati pochissimo e di fatto privi di diritti politici e sociali.
In questi paesi non c’è alcuna forma di democrazia formale, però c’è una forma di
rappresentanza che è quella data nel sistema clanico-tribale: più o meno, tutti quelli che sono
cittadini degli emirati, del Kuwait, fanno parte di tribù, lignaggi, gruppi parentali allargati.
Qui il sistema tribale, che è molto forte in tante parti del mondo islamico, non è democratico
ma è rappresentativo: vi è una serie di capi delle diverse sezioni tribali di cui il potere centrale
deve tener conto, deve incontrare periodicamente. Non può governare “contro” di essi, ma
lavorare per ottenerne il consenso. In altre parole, il sistema non è democratico ma è in
qualche modo rappresentativo. Il problema è ovviamente quello dell’opposizione. Se è entro
certi livelli, questi centri di potere cercano di cooptarla, altrimenti si interviene con durezza
per eliminarla.
Insomma, esiste una pluralità di forme e modelli e una grande differenza nelle percezioni, non
è detto che il modello occidentale debba essere l’unico accettabile oggi. Certo io non faccio
parte di quelli che dicono che ciascuno ha il suo modello, e che non si possono fare delle
valutazioni sul grado di democrazia e libertà. Ci sono certo una pluralità di forme, ma ci sono
anche degli indicatori che ci dicono se un modello funziona o meno.
Il professor Giovanni Sartori aveva coniato, per districarsi in questo ginepraio, un sistema che
distingueva fra: “libertà di” (esprimersi, protestare, etc…) e “libertà da” (dalla polizia che ti
arresta se contesti, dalla corruzione indebita, che ci obbliga a far parte dell’unico partito che
c’è per accedere a certe cariche, etc.). Da questo punto di vista è indubitabile che il mondo
islamico abbia molti problemi oggi.
A noi può sembrare che il modello generale occidentale sia quello, in realtà, noi stiamo
vedendo il fotogramma di un film; siccome i fotogrammi scorrono lentamente, a noi sembra
che quello sia il modello, non è sempre stato così, non sarà sempre così, tant’è che vari
politologi ci dicono che il nostro modello di democrazia sta cambiando tantissimo.
Perché? Perché è un sistema sempre in divenire. Questa attenzione a non guardare al singolo
fotogramma ma in lunga prospettiva serve anche ad un’altra cosa.
Quando si parla di Islam e Medioriente, oramai, ci sono due linee opposte, entrambe le quali a
me non piacciono minimamente.
La prima è quella che “demonizza” l’Islam, che considera il radicalismo islamico (o
integralismo, o fondamentalismo che dir si voglia,) non un’espressione deviata e malate di
una religione che ha valori e basi differenti, ma la diretta conseguenza di un credo che alla sua
base ha la violenza, l’odio per il non-islamico. Il jihad e il fanatismo come elemento innato
alla religione.
La seconda è quella che considera il fanatismo islamico come qualcosa di completamente
estraneo alla vera religione islamica, che crede che il dialogo con le componenti islamiche
debba essere fatto a qualsiasi costo, che i taliban, al-Qa’ida, il terrorismo islamico, il
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dogmatismo eccessivo siano un’aberrazione totale, una deviazione da un percorso di
tolleranza.
Personalmente, credo che la realtà sia più complessa; mi piacciono molto le parole di un
autore musulmano: «Se infatti, complessivamente, i paesi arabo musulmani non sembrano
presentare attualmente tutte le condizioni favorevoli all'instaurazione di autentici sistemi laici
e se la transizione verso la democrazia urta contro un insieme di ostacoli di temibile entità,
sarebbe comunque troppo superficiale darne la colpa alla sola religione [...] E' innegabile che
l'atteggiamento spiccatamente dogmatico della maggioranza dei teologi, così come i discorsi e
la prassi dei gruppi radicali o l'utilizzo della religione come strumento di legittimazione
politica finiscono per dar conferma di tale percezione negativa dell'Islam»1.
Un altro autore afferma: "Islamic fundamentalism is both fully politics and fully religion"2.
Ma questo fondamentalismo non nasce dal nulla, è il risultato di un lungo periodo di tensioni,
delusioni, problemi economici e sociali, promesse tradite in epoca coloniale, delusioni patite
con la decolonizzazione che doveva portare libertà e progresso e ha portato per lo più regimi
corrotti, incapaci e autoritari.
E’ nella seconda metà del secolo XX che registra il prepotente ritorno sulla scena
dell’islam. Si tratta di movimenti dell’attivismo islamico che vedono e utilizzano l’islam
soprattutto come una ideologia politica tesa alla conquista del potere, una forza
“rivoluzionaria e popolare” capace di mobilitare le masse e di predicare la rottura dell’ordine
costituito. Tutto il mondo musulmano ne è scosso, e gli islamisti divengono rapidamente in
Occidente l’emblema di una alterità culturale minacciosa e pericolosa, la variabile principale
per analizzare i possibili sviluppi politici e sociali di tutto il Dar al-islam. Si tratta di
movimenti molto aggressivi, che affermano di rifiutare l’Occidente in quanto civiltà
irriconciliabile con l’islam. Ma contemporaneamente combattono anche l’islam praticato
meccanicamente dagli ‘ulema’ tradizionali, combattono le visioni riformiste della religione –
che appaiono loro come un allontanamento dai precetti coranici e dalla perfezione dell’islam
delle origini – e combattono con forza anche le spinte secolariste e nazionaliste.
Il nazionalismo in particolare, che era stata l’ideologia dominante in tutto il Medio
Oriente nei decenni precedenti, è attaccato con forza dal nuovi movimenti islamisti. I partiti e
i leader della lotta contro il colonialismo e gli alfieri della modernità nazionale – come il
Partito della Resurrezione Araba (il Ba‘th), Nasser, il regime imperiale dello shah Pahlavi, per
citarne alcuni – sono visti negativamente: il nazionalismo, secondo essi, indebolisce la umma
(la comunità dei credenti), imponendo divisioni artificiali e contrarie all’ordine voluto da Dio.
Disgregando l’unità dei fedeli, e indebolendo quindi l’Islam, il nazionalismo finisce per
divenire una dimostrazione di miscredenza.
Queste idee e questi movimenti sono il frutto della riflessione e dell’attivismo di pensatori e
di movimenti che iniziano a muoversi negli anni ’30 e ’40: L’Associazione dei Fratelli
Musulmani in Egitto, con la diffusione del pensiero di Hasan al-Banna e Sayyid Qutb,
l’indiano musulmano Mawdudi, l’ayatollah Khomeini, il quale riesce a dar vita a una
repubblica islamica in Iran, sono i riferimenti principali per l’islamismo radicale: essi faranno
dell’islam un’ideologia rivoluzionaria e d’opposizione capace di sconvolgere l’assetto
politico-istituzionale di tutto il mondo musulmano. Un’utopia affascinante, che promette di
restaurare la società giusta dei primordi dell’islam, di trovare soluzioni ai fallimenti
economici dei nuovi regimi usciti dalla fase di decolonizzazione, di eliminare gli squilibri
sociali e la dilagante corruzione, di proteggere le famiglie dalle impetuose trasformazioni
sociali imposte dalla modernizzazione, di dare voce al dissenso e di combattere
l’autoritarismo e la soppressione delle libertà civili. Il tutto restaurando in pieno i valori
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2
Lamchichi A., Islam, Islamisme et Modernité, Paris, L’Harmattan, 1994, pp. 52-53.
Jansen J. J. G., The dual nature of Islamic fundamentalism, London, Hurst, 1997, p. 1.
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profondi della civiltà islamica, espressi nel Corano. Il ritorno inderogabile alla Legge, la
shari‘a, e la sua piena applicazione nella società sono obiettivi conclamati. Non è l’islam che
deve adattarsi alla modernità. E’ la modernità che deve essere islamizzata.
La modernità o è islamica o non può essere accettata. Di conseguenza anche i concetti di
democrazia e di libertà devono conformarsi a una visione dogmatica e radicale dell’islam.
Ma detto questo va sottolineato un elemento spesso poco compreso dalle opinioni pubbliche:
se è certo che questi movimenti non sono democratici, e spesso sono violenti, essi
rappresentano l’opposizione a regimi anch’essi non democratici e violenti. Il problema non è
quindi l’islam, ma l’assetto politico di tutta la regione islamica che – con pochissime
eccezioni – vede regimi dispotici – religiosi o laici, filo-occidentali o anti-occidentali – che
negano i principi base della democrazia.
Il fatto che Hosni Mubarak in Egitto combatta contro movimenti islamici violenti, non ne fa
un presidente democratico. Anzi, è vero il contrario. Il radicalismo islamico si è storicamente
sviluppato anche come risposta alla mancanza di democrazia, alla chiusura di tutti gli spazi
associativi e di espressione. L’unico punto in cui si poteva esprimere dissenso, aggregarlo, era
spesso solo uno: la moschea. La moschea ha fatto così da volano all’opposizione, facendosi
portatrice delle ideologie dei grandi islamisti radicali prima citati.
E quindi nascono questi movimenti dell’islamismo radicale che sono specchio di
un’opposizione a regimi non più rappresentativi.
Per anni, l’Occidente ha pensato che i propri interessi fossero meglio difesi dal mantenimento
dello statu quo. Si aiutavano e pagavano regimi dittatoriali perché li si riteneva in ogni caso
più affidabili dei loro oppositori. Dopo l’11 settembre, no: Washington ritiene che tutto sia
ormai meglio rispetto al mantenimento dello statu quo. Nasce da qui la Greater Middle East
Iniziative (Gmei), lanciata dal presidente George W. Bush nel 2003, che dovrebbe favorire la
democratizzazione di tutto il Medio Oriente, vuoi per via pacifica – attraverso riforme – vuoi
per via militare, con interventi come quelli in Afghanistan e in Iraq. Un progetto il cui fine
ultimo era favorire e accelerare il processo di democratizzazione e di modernizzazione delle
società e delle entità statuali nel Medio Oriente, ma che per molti era un “invito al suicidio”
formulato a regimi considerati amici dagli Stati Uniti. Le critiche più stringenti tuttavia
vertevano sulla mancanza di consultazione preventiva da parte statunitense, con l’accusa di
“nuovo colonialismo” da parte di gran parte della stampa regionale. Inoltre, il progetto
escludeva l’argomento della sicurezza regionale e – soprattutto – evitava di parlare del
problema israelo-palestinese: un silenzio che ha irritato gli stati mediorientali, e ha provocato
nuove accuse sul “dual standard” della politica dell’amministrazione Bush, ritenuta troppo
schiacciata su quella israeliana. In definitiva, l’iniziativa Gme sembrava mancare di quella
legittimità e credibilità necessarie per spingere i regimi mediorientali ad affrontare – in modo
realistico e non puramente cosmetico – il problema della loro democratizzazione.
Il termine credibilità è – a mio giudizio – il concetto più importante per capire il problema del
conflittuale rapporto fra Occidente e mondo islamico in tema di democrazia: tutti gli attori in
gioco, per un motivo o per un altro, non risultano credibili.
Non sono credibili i troppi dittatori che da anni impediscono una reale democratizzazione dei
paesi islamici. Non sono spesso credibili le opposizioni, in particolare quelle legate
all’islamismo radicale, per le quali il termine “lotta alla tirannia” significa spesso lotta per la
conquista del potere e la creazione di stati dogmatici e intolleranti. Né credibili risultano i
tentativi occidentali: vi sono troppi “dual standard”, troppe evidenti difformità di giudizio.
Spesso in Occidente si è privilegiata la visione corta, tattica, e cioè: questi sono miei alleati,
sono quelli che sono, tamponiamo la situazione, li aiuto, chiudo gli occhi; in altri casi, come
l’Iraq, si è detto: il sistema è pericoloso, criminale, lo si abbatte. Il problema di fondo non è
fare, disfare, appoggiare dittatori perché utili alla war on terror o alle proprie politiche,
legarsi al potere tribale come nel Golfo Persico, promuovere una nuova democrazia come
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stiamo tentando di fare in Afghanistan e in Iraq. Il problema ha una dimensione strategica, di
lungo periodo. È una visione che cerca di trovare dei “discrimini” e dei criteri oggettivi per la
valutazione, ma che è rispettosa anche delle differenze. Tuttavia dei discrimini occorre
trovarli: ed essi devono essere credibili.
Il caso per me più evidente è quello dell’Asia centrale. In questi anni, in nome della guerra al
terrorismo, abbiamo appoggiato degli spietati dittatori. Questo produce degli effetti devastanti
sulla credibilità del sistema internazionale di farsi promotore di riforme democratiche.
Altro punto: non è detto che l’espressione democratica di una società sia necessariamente filooccidentale: concedere libertà a un paese non significa eliminare la crescita di forze radicali,
come testimonia la crescita dell’islamismo radicale nelle ultime decadi del XX secolo.
Charles Tripp ,uno degli studiosi inglesi dell’Iraq, lo aveva scritto con chiarezza nel 2002: in
un Iraq “libero”: «[…] Islamism, nationalism (Iraqi, Arab, Kurdish), anti-Zionism and antiImperialism may be as much part of the politics of ‘new’ Iraq as of the old […]»3.
Allora che fare? Come individuare questo “discrimine”? Io credo che si debba avere una
visione il più possibile autorevole e credibile (cioè basta con i tatticismi: “questo è nostro
amico allora chiudo gli occhi, questo è nostro nemico allora no”). Soprattutto, si deve avere
tempo. I nostri sistemi democratici, buoni o cattivi che siano, sono il frutto di secoli di
tensione e lotte di pressioni; non è pensabile che in società e in sistemi in cui non c’è mai stata
l’espressione liberale così si ottenga un sistema rappresentativo e liberale ottimale. Ma il
tempo è spesso quello che manca alla politica internazionale: la capacità o la possibilità di
ragionare su lunghi periodi.
Per concludere. Nel Medioriente di democrazia ne vedo molto poca; vedo molti sistemi di
rappresentanza, ma spesso tali sistemi non sono liberali. Mi sembra anche che vi sia una
crescente pressione interna per un cambiamento, un cambiamento che la comunità
internazionale – e l’Occidente in particolare – dovrebbero aiutare. Credo che il non fare nulla
sia non solo dannoso per noi, ma anche irrispettoso per questi tentativi. Ma so anche che il
dilemma è quale azione intraprendere, e come risultare finalmente credibili dopo decenni di
tatticismi, cinismi ed errori.
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http://www.whitehouse.gov/news/releases/2004/06/20040609-30.html
La “dichiarazione di Alessandria”, ossia la dichiarazione finale del convegno promosso dal
Governo egiziano e aperto ai rappresentanti della società civile di tutto il mondo arabo dal
titolo Arab Reform Issues: Vision and Implementation, tenutosi alla Bibliotheca Alexandrina
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