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RASSEGNA STAMPA
mercoledì 29 luglio 2015
L’ARCI SUI MEDIA
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
WELFARE E SOCIETA’
DONNE E DIRITTI
INFORMAZIONE
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
CULTURA E SPETTACOLO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Repubblica.it del 29/07/2015
Grecia, la battaglia della solidarietà
L'iniziativa dell'Arci. Non c’è solo il livello politico, quello economico. La crisi greca è anche
una crisi di giustizia sociale. Un versante aggravato dalle restrizioni imposte ai prelievi
bancari. Per cercare di aiutare in concreto i cittadini greci, l’Arci ha aderito a una
campagna internazionale per sostenere i centri di solidarietà sociale diffusi su tutto il
territorio del Paese guidato da Alexis Tsipras. Solidarity For All: un appello ai cittadini
europei che vogliono contribuire per assistere i centri di mutuo soccorso della Grecia.
In una sola settimana l’Arci ha raccolto oltre 15mila euro. E adesso l’obiettivo è
raddoppiare la cifra entro il 5 agosto, quando una delegazione dell’associazione italiana
consegnerà ad Atene i fondi raccolti. Soldi che saranno utilizzati in tre direzioni:
I centri sanitari a Chios e Mytilini, organizzati dai volontari delle cliniche sociali greche, che
prestano la loro opera al servizio delle migliaia di rifugiati che arrivano in questo periodo
sulle coste e sulle isole greche.
Il riadattamento di un edificio destinato a diventare un rifugio per senzatetto ad Atene, che
deve aprire i battenti al più presto
La preparazione della campagna che per il terzo anno consecutivo fornirà, alla riapertura
dell'anno scolastico, libri quaderni e materiali didattici a scolari e studenti in stato di
bisogno.
Tutte le informazioni sulla campagna sono sul sito di Solidarity For All. Qui le coordinate
bancarie per effettuare le donazioni
twitter: @carminesaviano
http://saviano.blogautore.repubblica.it/2015/07/29/grecia-la-battaglia-della-solidarieta/
del 28/07/15, pag. 16
Riot, desideri in movimento di libera politica
Reportage. Tra gli ulivi del Salento mille ragazze e ragazzi si incontrano
per riprendersi tempi e spazi della propria vita. Due settimane di dibattiti
accaniti, in cui prende forma uno spicchio di «coalizione sociale»
Luciana Castellina
SANTA CESAREA (LECCE)
Si chiama «Riot» ( sommossa), per via della ribellione che cominciò con Genova, ormai un
secolo fa, una memoria fondativa per l’arco generazionale dei nati negli ’80 e nei ’90, un
evento di cui furono protagonisti quelli appena più anziani, da Tsipras in giù. È ormai
un’eco piuttosto lontana che si è però riattivata nel luminoso anno in corso con il possente
movimento contro «la buona scuola», per una scuola buona davvero.
È un campeggio che dura dal 23 luglio al 6 agosto, da 9 anni qui in Puglia, prima, ma era
abbastanza diverso ( non si chiamava neppure Riot), in Toscana. Non è un campingvacanza, o perlomeno non del tutto: serve alla «Rete della conoscenza» a mettere a punto
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la comune riflessione e strategia. Quando io arrivo– è solo il secondo giorno — sono circa
500, entro pochi giorni supereranno i mille.
Sotto gli ulivi, tra cicale assordanti
Camping La scogliera, Santa Cesarea Terme. Tende, bungalow, spiazzi aperti sotto gli
ulivi, servizi garantiti dal lavoro volontario, costo 11 euro al giorno per persona, i pasti se li
cucinano da soli in tenda. È collocato a mezza costa, a picco sulla scogliera mozzafiato di
queste baie che circondano Otranto, il mare difeso da scogli aguzzi. Più sotto c’è
comunque anche una piscina ma a fare il bagno non ci va quasi nessuno, se non per un
tuffo rapidissimo: non c’è tempo. Gli studenti che popolano Riot sono sempre riuniti nei
quattro spiazzi a diverse quote che consentono seminari, assemblee, dibattiti. I
partecipanti seduti su un po’ di sedie ma molti per terra, nell’ombra frastagliata degli alberi,
assordati da un inimmaginabile frastuono di cicale.
Quando arrivo, sabato sera alle undici circa, è in corso il dibattito sui migranti, animato da
Filippo Miraglia e altri dell’Arci, ci sono anche i leccesi (specialisti in materia), in testa Anna
Caputo, cui i ragazzi si riferiscono come «la signora di Nardò» perché non sanno che è la
presidente dell’Arci della provincia, lei ha parlato come se fosse abitante di questo luogo
simbolo dello sfruttamento, il paese dove pochi giorni prima è morto per fatica Mohamed,
un uomo sudanese di 47 anni.
In programma, nei 14 giorni di Riot, i dibattiti sono 25. Verrà a parlare praticamente tutto il
variegato arco della sinistra sociale e politica: da don Ciotti a Fratoianni coordinatore di
Sel, da Landini a deputati di 5 stelle, Possibile,e una del Pd, da dirigenti della Cgil (ma
solo quelli della Federazione lavoratori della conoscenza con cui c’è molta assonanza),
alla Linke, Sbilanciamoci, persino l’Udi con un affollatissmo evento su Donne e
Resistenza, subito finito in un confronto femminista.
Il dibattito cui debbo partecipare io è insieme a Samuele Mazzolini, triestino, ricercatore
presso l’Università inglese dell’Essex, con un passato di impegno in Ecuador e però
ancora giovanissimo. Il tema è d’attualità, almeno fra chi cerca un lume nel buio della
sinistra e insegue tutte le lucciole che si accendono, ora Podemos e Syriza: «Alto e basso,
Sinistra e destra». E dunque gli scritti sul populismo di Ernesto Laclau, diventato ispiratore
di Iglesias. Mazzolini è qui in rappresentanza di questo pensiero, io del secolo scorso, la
famosa, antipatica cultura politica novecentesca; che trova tuttavia insperate simpatie fra i
sedicenni. Finiremo di discutere all’una meno un quarto della notte.
Le discussioni qui cominciano alle 10 e mezzo del mattino e terminano intorno a
mezzanotte, quando da almeno un’oretta impazza il ballo che poi dura fino alle 4. Lo
gestisce un gruppo di dj fantastico, compagni di Campobasso. Al ballo partecipano tutti, i
più svogliati che hanno abbandonato prima della fine i dibattiti appena inizia, i più
impegnati quando terminano le assemblee che si dilungano. Finalmente relax .O meglio: il
contrario, perché la danza al ritmo imposto dai molisani è frenetica, l’ultimo rock con
sventolio di bandiere palestinesi.
I protagonisti, dai 16 ai 25 anni
Dai 16 (penultimi licei) ai 24–25, già in vista della laurea. I maschi, quasi senza eccezione,
con acconciature che mi fanno rabbrividire (rasatura laterale e cresta di gallo oppure
rasta). Ai tatuaggi sono ormai più abituata. “Normale” praticamente quasi nessuno (ma
forse ad essere anormali sono i maschi che frequento di solito). Rapature anche fra le
femmine, ma poche. Loro in T-shirt , talvolta camicie di velo, sui due pezzi (il costume da
bagno, anche se non si bagnano, non se lo toglie mai nessuno). Le ragazze sono
moltissime, sicure di sé, impegnatissime. (Penso all’austerità dei nostri convegni
studenteschi anni ’40-’50).
Sono quelli della «Rete della conoscenza», cui fanno capo tutti i soggetti della formazione:
l’Uds, studenti medi, nata nel lontano 1994 come sindacato affiliato alla Cgil, da cui si è
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staccata nel 2006 proprio perché non volevano , né potevano, essere solo sindacato. «La
conoscenza non è un settore, è al centro di molti processi; non è solo lavoro, ha una
potenzialità trasformatrice alta e per questo il suo protagonismo ha una valenza molto più
generale», racconta Riccardo Laterza, triestino, dall’anno scorso coordinatore nazionale
della Rete, contenitore anche di Link, associazione degli universitari e di tutti i soggetti in
formazione, la sterminata fascia precaria dei dottorandi o aspiranti tali.
All’origine della «Rete» e delle sue componenti non c’è solo, naturalmente, una diversa
idea della funzione di rappresentanza degli studenti, ma l’esigenza di una autonomia
politica non solo dalla Cgil ma anche dalle «giovanili» dei partiti, in particolare, è ovvio, di
quella degli allora Ds.
La loro autonomia la pagano molto cara: hanno perduto qualsiasi appoggio finanziario (di
cui invece continuano a godere quelli che sono rimasti nel sindacato, la Rete degli studenti
medi e la federazione studenti universitari direttamente legata al Pd). Per non parlare delle
altre ricche associazioni studentesche esistenti in Italia, a cominciare dalla più grossa,
Comunione e liberazione, il Movimento studentesco dell’Azione cattolica e quello
«nazionale», emanazione di Fratelli d’Italia. Nell’elenco c’è pure una sigla sconosciuta —
«Studicentro»- collegata all’Udc ma nessuno riesce a localizzarla.
In Francia, mi raccontano, le associazioni studentesche sono finanziate attraverso il
contributo di un euro versato assieme alla tassa di iscrizione all’università che ognuno
devolve a chi vuole. «Da noi ogni forma di finanziamento è bloccata perché ad averne
bisogno siamo solo noi», dicono. E così cercano di raggranellare qualche soldo con
progetti europei, quasi niente.
Sebbene la «Rete» sia molto strutturata, con coordinamenti nazionali e provinciali,
direzioni ed esecutivi per ciascuna branca e spostamento a Roma per il tempo del
mandato, per coordinare e girare l’Italia e far sorgere o per assistere sezioni già nate,
nessuno riceve retribuzione, solo un minimo rimborso spese. Nessun’altra organizzazione
oggi in Italia ha altrettanta disciplina organizzativa e strutturazione articolata come la
«Rete». (Fosse passata la sbornia dell’ultraspontaneismo?).
Non si tratta solo di organizzazione, le associazioni sono anche comunità: per l’addio di
Martina, di Monopoli e dell’Università di Bari ma da due anni trasferita alla Sapienza di
Roma perché fino a oggi nell’esecutivo dei medi e ora “promossa” a quello della «Rete»,
c’è stata una cerimonia qui al camping in cui tutti si sono abbracciati e commossi.
Da dove vengono, perché approdano alla «Rete», quanti sono? Le risposte sono
imprecise (non c’è tesseramento) ma convergenti: fino a qualche anno fa quasi tutti
provenivano da esperienze nelle giovanili dei partiti, anche se le avevano abbandonate.
Oggi non più. «Sono orfani della crisi della politica — dice Riccardo — cercano di colmare
il vuoto che sentono attorno impegnandosi sui temi della propria condizione di studenti in
questa scuola, in questa società. Ma a partire da qui si arriva al tema della liberazione dei
saperi, dell’abbattimento delle barriere d’accesso. Provocatoriamente, noi poniamo
l’obiettivo-limite della gratuità dell’istruzione a tutti i livelli, E però sappiamo che fino ad
oggi siamo stati troppo contro e troppo poco impegnati a definire che cosa vogliamo. A
ottobre ripartiremo all’attacco. Qui decideremo le nostre prossime scadenze».
Gli universitari, che fanno un po’ da tutori dei liceali, sono colti, seri, nessuna vena
estremista, molto concreti, riflessivi. Una perla nella grigia apatia dell’Italia di oggi.
La «Rete» fa parte della Coalizione sociale di Landini ma non per avversione ai partiti:
semplicemente per ora non sentono il bisogno di appartenervi, o non li hanno incontrati
sulla loro strada. Del resto, hanno stabilito per chi fa parte degli organi dirigenti
l’incompatibilità con l’appartenenza a un partito, per non subire le strumentalizzazioni del
passato. La cultura della lotta alla «casta», però, sembra essergli totalmente estranea.
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Mi siedo, al mattino, fra i circa 150 che partecipano al coordinamento dell’Uds, i medi. Una
fila ininterrotta di interventi, non più di 10 minuti a testa, moltissimi del sud. Così vengo a
sapere cosa vuol dire fare il liceo a Foggia («città di merda»); di Augusta, un posto che
conosco bene perché ai confini con Priolo, dove negli anni ’50 della costruzione delle
cattedrali nel deserto fu costruito qui un gigantesco polo petrolifero e io andai lì per uno dei
miei primi reportage, per Nuova generazione, il settimanale della Fgci. Non sapevo ancora
che avrebbe generato il cancro.
Poi uno di Campobasso che scherza quando si accorge che nessuno sa dove è il Molise:
«Molise chi?» — inizia, e poi garantisce che la regione esiste davvero. Dall’intervento di
un milanese so che almeno 25 compagni che avrebbero voluto venire al camping non
hanno potuto perché nelle ferie estive vanno a lavorare: «Come edili, operai, baristi. In
condizioni disumane. Il sindacato assente. E noi mica possiamo limitarci a parlare di
scuola!».
«Ma come si fa a parlare di sciopero a chi non può farlo?», dice un altra, mi pare
abruzzese (qui un po’ di indizi, NdR).
«L’Europa è terrificante»
Non parlano solo di scuola, ma tutti cominciano con la Grecia e poi l’Europa. «L’Europa è
terrificante», dice uno. E un’altra che «il governo Renzi è il più autoritario della storia». Un
pezzetto di Europa diversa cercheranno di costruirla anche a Riot: fra qualche giorno nel
camping si terrà un incontro con studenti di molti paesi europei.
Poi la presidente avverte che non ci sarà pausa pranzo, non c’è tempo. Uno per ogni
delegazione andrà alle tende e cuocerà la pasta, i pentoloni verranno portati su allo
spiazzo da un camioncino. Gli spaghetti verranno mangiati nel corso del dibattito.
Il mare azzurrissimo si intravede fra gli ulivi, vicino e attraente, ma non se ne curano. Le
cicale assordano, il caldo è micidiale. Il motto di Riot è «desideri in movimento»: per
questo spicchio della prima generazione del XXI secolo, il desiderio maggiore sembra
essere la riconquista della politica.
(Da quasi novantenne li trovo più simili alla mia di quanto sia stato con quella dei loro
anziani).
Da La Nazione.it del 28/07/15
Un po' di Africa... in Lunigiana
Iniziato a Filetto di Villafranca il festival dedicato all'intercultura, che
durerà fino a domenica 2 agosto
Villafranca (Massa Carrara), 28 luglio 2015 - E' iniziata, con la tradizionale parata nel
borgo di Filetto, la decima edizione di Mama Africa, uno tra i festival dedicati alla cultura
africana, più grandi in Italia. L'iniziativa è nata in un piccolo circolo Arci della Lunigiana Circolo Arci Torrano Cultura e Solidarietà - e successivamente si è allargato al Comitato
Arci Massa Carrara, con l' obiettivo di avvicinare i giovani ai temi dell'intercultura e
dell'antirazzismo.
Col tempo si sono uniti altri circoli arci, realtà associative e molti volontari che hanno
apportato nuove proposte, iniziative e pratiche. Laboratori, conferenze, incontri: il disco
parco 'Il nido', dove si svolge il festival, in questi gioni e fino a domenica 2 agosto, sarà
animato da centinaia di persone. Partecipano infatti decine e decine di giovani provenienti
da tutta Italia e da diversi paesi europei.
Quest'anno, in particolare, la kermesse è dedicata a due persone imprtanti, Mirko De Tan,
scomparso prematuramente lo scorso maggio, che ha semprre dato un contributo alla
reliazzazione di Mama Africa, quando si svolgeva a Mulazzo e Ibrahima Bah, detto
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‘Kounkure’, musicista molto amato dagli artisti del Mama Africa e scomparso ad appena
28 anni.
http://www.lanazione.it/massa-carrara/mama-africa-festival-1.1178473
Da Film.it del 29/07/15
Estate da spettatori con il nuovo cinema
cittadino
I film all’aperto nei centri urbani arricchiscono la stagione calda con
piccoli e grandi titoli per il pubblico
Autore: Alessia Laudati (Nexta)
La pausa stagionale dalle sale può essere anche molto ripetitiva dal punto di vista delle
novità di prodotti e storie. Tuttavia, se da una parte il mercato si arresta, aspettando la
stagione autunnale per ripartire con i propri prodotti più attesi, ciò che d'estate si propone
maggiormente innovativo per il pubblico è il passaggio dalla sala cinematografica al teatro
cittadino. Da Milano a Catania, dalle piazze centrali degli agglomerati urbani ai luoghi più
nascosti della città, vince l’arena pubblica e l’idea che a cambiare sia proprio il luogo di
fruizione dello spettacolo cinematografico.
D’altronde il cambio del format piace ai cittadini che attraverso il cinema all’aperto riescono
a godere contemporaneamente di due servizi, da un lato quello audiovisivo e dell’altro
quello prettamente partecipativo nei confronti degli spazi pubblici. Succede a Roma, dove
al lato delle manifestazioni storiche dell’estate romana, come l’arena locata sull’Isola
Tiberina, proliferano nuove aree dedicate all’intrattenimento di gruppo, grazie anche al
lavoro di comitati di cittadini autonomi.
É il caso del Festival Trastevere Rione del Cinema, che fino al 30 luglio, grazie al lavoro
dei ragazzi del Piccolo Cinema America in collaborazione con il I Municipio, ha trasformato
la Piazza di San Cosimato nel quartiere Trastevere in uno spazio dove poter assistere
liberamente alla proiezione di pellicole come Nuovo Cinema Paradiso, Grand Budapest
Hotel, a volte persino alla presenza degli autori. Il cinema all’aperto, però, non è una
prerogativa solo capitolina.
A Milano, fino al 30 settembre, l’Arianteo è la manifestazione che, presso l’Arena Civica al
Chiostro dell’Incoronata Porta Genova, offre il meglio della programmazione della stagione
in modalità all’aperto ma con cuffia wireless.
Tornando invece verso le Regioni centrali della penisola, a Firenze, fino al 31 luglio, la
rassegna Arene di Marte, presso gli Spazi del Mandela Forum, offre proiezioni all’aperto
dei successi di stagione, ma anche dei grandi classici della cinematografia internazionale.
C’è il pluripremiato Birdman, ma anche il Macbeth targato Polanski.
A Napoli invece troviamo Cinema intorno al Vesuvio, la kermesse organizzata dall'Arci
Movie nell'oasi naturale del Parco di San Sebastiano al Vesuvio, conclusasi l’anno scorso
con più di 30 mila adesioni, che fino al 31 agosto mostrerà alle stelle cosa può fare il
cinema in termini di partecipazione di pubblico e immaginario evocato.
Infine, è il turno di Palermo, dove ai Cantieri della Zisa l’intera città, e non solo, decide di
interrogarsi sui sentieri del cinema contemporaneo nazionale. Dal 23 luglio al 10 agosto
con due proiezioni al giorno, una alle 21 e una alle 23, Sotto le stelle della Zisa mette in
campo titoli noti e meno noti. Da Le cose belle, a Zoran - Il mio nipote scemo, e Spaghetti
Story, l’estate siciliana lascia spazio alle pellicole di piccola distribuzione che trovano nei
festival di stagione un circuito più che valido per farsi infine conoscere.
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http://www.film.it/news/film/dettaglio/art/estate-da-spettatori-con-il-nuovo-cinema-cittadino43436/
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ESTERI
del 29/07/15, pag. 7
«Safe-zone» turco-americana
Turchia. Ankara entra in Siria «contro i jihadisti». L’obiettivo vero da
colpire è la sinistra kurda. La Nato plaude a Erdogan ma si tiene fuori
dal «conflitto anti-Isis». Scontri nel Kurdistan turco: in fiamme gasdotto.
Hdp sotto tiro
Giuseppe Acconcia
È il sesto giorno della campagna anti-Pkk e Isis avviata dalle autorità turche il 24 luglio. Il
piano anti-terrorismo senza precedenti è stato giustificato con l’aggressione jihadista nella
città di confine tra Turchia e Siria di Suruç che lo scorso 20 luglio ha causato 32 giovani
vittime tra i socialisti che tentavano di portare aiuti al capoluogo del Kurdistan siriano
(Rojava) di Kobane.
Le basi del Partito dei lavoratori kurdi nelle montagne tra Turchia e Iraq non sono mai
state colpite così sistematicamente dall’aviazione turca come in questi giorni. Questo ha
chiuso la pagina del processo di pace con il partito di Ocalan, come confermato ieri dal
presidente turco. Recep Taiyyp Erdogan ha addirittura chiesto che venga tolta l’immunità
parlamentare ai politici del Partito democratico del popolo (Hdp) entrati per la prima volta
in parlamento con il 13% dei voti lo scorso 7 giugno.
Erdogan ha aggiunto che devono «pagare il prezzo dei loro legami con gruppi terroristici».
Hdp e Pkk hanno radici e una base elettorale comune. Per il momento i leader del partito
islamista moderato hanno escluso però la messa fuori legge di Hdp, richiesta dagli ultranazionalisti di Mhp.
I provvedimenti contro i jihadisti di Isis sembrano invece molto meno invasivi di quelli
contro i partiti kurdi. Nonostante gli annunci, il governo turco continua a mostrarsi alquanto
indulgente nei confronti di Daesh, che per mesi ha potuto operare sul territorio turco.
L’unica vera novità nella lotta contro Isis è la concessione delle basi nel Kurdistan turco a
Stati uniti e ai paesi della coalizione internazionale anti-Isis dopo mesi di riluttanza del
governo turco nel partecipare alle azioni contro i jihadisti in Siria in Iraq. Il vero obiettivo di
Ankara sono i partiti kurdi in Turchia e Siria. Il partito democratico unito (Pyd) che ha la
maggioranza nel Kurdistan siriano e persegue una lotta autonomia (contro al-Assad e le
opposizioni) conta di radici e di un’ideologia comune al Pkk.
Per il momento la Nato non interverrà al fianco della Turchia. Lo ha confermato ieri il
segretario della Nato in un vertice di emergenza tenutosi a Bruxelles e voluto da Ankara.
Jens Stoltenberg ha anche assicurato che l’Alleanza atlantica non è coinvolta nella «safezone» turca in territorio siriano, negoziata da Ankara con gli Stati uniti. Per Erdogan
questo permetterà a 1,7 milioni di profughi siriani di fare ritorno in patria.
Secondo il premier turco questo provvedimento doveva essere attuato da tempo per
evitare l’avanzata di Isis. Ahmet Davutoglu ha puntato direttamente il dito contro le
politiche del presidente siriano Bashar al-Assad, responsabile secondo lui di aver facilitato
l’avanzata di Isis. Ieri Erdogan ha discusso degli attacchi turchi anti-Isis anche con il
presidente francese, François Hollande, l’emiro del Qatar, Tamim bin Hamad al-Thani, e il
re saudita Salman. L’iperattivismo turco di queste ore ha portato Erdogan anche in visita a
Pechino, dove ha negoziato nuovi investimenti cinesi nella difesa missilistica turca.
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Di fatto la Turchia mette le mani in territorio siriano occupandosi direttamente della
sicurezza nel Nord del paese nelle mani dei combattenti kurdi con lo scopo di creare una
zona «Isis-free».
Nel suo intervento il presidente Erdogan aveva chiesto alla Nato di fare la sua parte nella
lotta al terrorismo nel suo confine meridionale. Anche il presidente russo Vladimir Putin ha
accolto con soddisfazione il nuovo impegno degli Stati uniti, al fianco di Ankara nella lotta
al terrorismo. «Meglio tardi che mai», ha detto Putin parlando delle operazioni di Mosca
contro al-Qaeda degli ultimi anni.
L’accordo sul nucleare iraniano e il piano turco di lotta al terrorismo hanno di fatto
riavvicinato Mosca e Washington su alcune delle principali crisi regionali, ridimensionando
qui il ruolo saudita.
Ma con il pretesto dell’attacco a Isis, la guerra turca prosegue soprattutto contro il Pkk.
Sono 1050 gli arresti in cinque giorni soprattutto di militanti di partiti comunisti e kurdi. 96
siti internet (per la maggioranza di sinistra) sono stati oscurati. Aerei da combattimento F16 hanno bombardato tre basi del partito di Ocalan a Sirnak (dove da giorni proseguono
gli scontri tra kurdi e polizia), a Hakkari e Xaxurke.
Il Pkk ha risposto con attacchi a Mardin, Amed, Erzurum e Bitlis. Ma tutto il Kurdistan turco
è in fiamme. Al confine con l’Iran un’esplosione ha colpito il gasdotto di Agri. Il ministro
dell’energia turco, Taner Yildiz, ha confermato che è stata opera di attivisti kurdi. Un
militare turco è stato ucciso a Malazgirt. Centinaia di persone sono scese in piazza a
Batman e Nusaibyn dove un ragazzo era stato ucciso dalla polizia. Sul fronte siriano, le
Unità di protezione popolare maschile e femminile in Siria (Ypg-Ypj) hanno ripreso il centro
della città di Hasaka, controllata da mesi dallo Stato islamico.
È un’importante conquista dei combattenti kurdi ma la zona è ancora oggetto di colpi di
coda dei jihadisti, come è avvenuto nelle scorse settimane a Kobane e Tel Abyad.
Del 29/07/2015, pag. 14
La Nato sostiene Ankara nella lotta ai jihadisti
Bombe sull’Is e sul Pkk
Manifestanti curdi ieri a Bruxelles hanno protestato contro i raid aerei
tuchi sulle postazioni del Pkk esponendo striscioni e l’immagine del
loro leader, Abdullah Ocalan
ARTURO ZAMPAGLIONE
NEWYORK. La svolta di Ankara, che dopo mesi di ambiguità e persino di complicità nei
confronti dello Stato islamico, ha deciso di combatterlo, ha ricevuto ieri il sostegno politico
unanime della Nato. «Tutti gli alleati sono solidali con la Turchia», ha detto il segretario
generale dell’Alleanza, Jens Stoltenberg, al termine di una riunione d’emergenza a
Bruxelles dei 28 ambasciatori della Nato chiesta dal governo di Ankara. Ma le varie
delegazioni hanno anche invitato i turchi — durante la riunione a porte chiuse e poi in
alcuni commenti pubblici — a moderare l’uso della forza contro il Pkk (il partito dei lavori
curdi) e a non abbandonare il processo di pace con la minoranza curda.
Fino alla settimana scorsa il presidente turco Recep Tayyip Erdogan era restio sia ad
attaccare l’Is al di là della frontiera siriana, sia a consentire al Pentagono l’uso della base
di Incirlik per raid contro i jihadisti. Riteneva prioritario sbarazzarsi del presidente siriano
Bashar al-Assad e pensava che l’Is potesse accelerare la caduta del regime di Damasco.
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Ma dopo l’attentato degli islamisti che ha ucciso a Suruc 32 persone, Ankara ha cambiato
strada: da un lato ha raggiunto un accordo con Washington su Incirlik e sulla creazione di
una grande zona cuscinetto contro l’Is nel Nord della Siria; dall’altro ha cominciato a
bombardare le postazioni non solo dell’Is, ma anche dei curdi in territorio siriano e
iracheno, abbandonando la strada del dialogo avviata due anni fa.
La nuova escalation anti-curdi rappresenta l’aspetto più problematico della svolta di
Erdogan. Il Pkk è ancora considerato un gruppo terrorista e sempre ieri, a Bruxelles, sono
stati condannati gli attacchi contro la Turchia ed è stato ricordato che «il terrorismo pone
minacce dirette alla sicurezza della Nato», ma è anche vero che i gruppi di peshmerga
curdi legati indirettamente al Pkk hanno difeso, con l’aiuto americano, le loro zone nel
Nord dell’Iraq e della Siria dall’avanzata del Califfato. Così, dopo l’entusiasmo iniziale, gli
esperti americani sono ora più scettici sul cambiamento turco. Molti parlano della volontà
di Erdogan di cavalcare il nazionalismo turco. E ieri in un editoriale il New York Times ha
evidenziato come gli attacchi anti-curdi di Ankara contraddicano l’azione anti-Is, mentre
non è ancora chiaro da chi sarà difesa la zona cuscinetto contro il Califfato, visto che i
siriani moderati addestrati dalla Cia non superano il centinaio. Intanto le autorità turche
sono in allerta per il rischio attentati sui mezzi pubblici di Istanbul.
Del 29/07/2015, pag. 14
Nel bunker dei Servizi “Infiltrati nel Califfato
per scatenare il caos”
Oppositori e Partito socialdemocratico accusano: “L’intelligence dietro
gli attacchi a Suruc e Kilis per giustificare i raid di Erdogan”
IL REPORTAGE
MARCO ANSALDO
UN PESANTE cancello grigio, un perimetro di muro alto quattro metri, finestre alte e
strette come feritoie. Il bunker del Mit, com’è chiamato il servizio segreto turco, è così
fortificato e sicuro da permettersi di risiedere sulla collina di uno dei quartieri più belli e
verdi di Istanbul, Besiktas. Se si è fortunati, girandoci intorno sulla via Serencebey- strade
silenziose, edifici di grande discrezione, di fronte il tranquillo Liceo Ataturk, più sotto la
prestigiosa Università Yildiz – ogni tanto il cancello grigio si apre facendo passare un’auto
lunga con i vetri oscurati. Oppure, da una porta laterale si vedono uscire uomini senza
divisa, ma quasi sempre vestiti allo stesso modo: abito nero, camicia bianca,
cravatta rossa. Solo accedendo dall’alto, da uno dei palazzi intorno, si riesca a dare una
sbirciata dentro la sede (quella centrale è ad Ankara) della celebre intelligence turca, un
servizio che ha pochi rivali al mondo per storia e affidabilità. Fu proprio grazie a un lavoro
raffinato del Mit che, nel 1999, le teste di cuoio turche riuscirono a individuare in Kenya, e
mettere nel sacco, letteralmente, il leader del Pkk, Abdullah Ocalan, scappato da Roma e
sparito nella sua fuga di 6 mesi in tre continenti diversi. Da sopra, il Mit di Istanbul,
acronimo di Organizzazione di Informazione Nazionale, appare possente nella sua
struttura tozza, anche se di proporzioni contenute. C’è un giardino curato con alberi
secolari, all’ingresso svetta la bandiera rossa con la mezzaluna e la stella, sul tetto satelliti
che sembrano grandi orecchie direzionate ovunque.
Mentre la Turchia, dopo i recenti blitz aerei diretti sia contro lo Stato Islamico sia contro il
Pkk, scivola sempre più nel pantano siriano e iracheno, il Mit oggi è sotto accusa. Due
critiche pesanti si sono abbattute nel giro di poche ore sull’intelligence, organismo che da
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qualche anno il Capo dello Stato, Tayyip Erdogan, tratta con i guanti. Ieri Fuat Avni, il
twittatore segreto ritenuto interno al governo conservatore islamico, ma molto critico al
punto da anticipare una serie di eventi puntualmente verificatisi, ha cinguettato 160
caratteri al veleno. Questi: «Per l’Is attaccare la Turchia, quando il Califfo (cioè
Erdogan, ndr ) e la sua banda sono i suoi più grandi sostenitori, è un nonsenso. Suruc e
Kilis sono entrambe decisioni del Califfo, non dell’Is». Suruc è la cittadina dove dieci giorni
fa un kamikaze dello Stato Islamico fece saltare in aria 32 persone, ritratte in un selfie
ormai tragicamente celebre, riunite mentre manifestavano per restaurare la biblioteca di
Kobane. A Kilis, pochi giorni dopo, è stato ucciso un soldato turco. Il twittatore segreto, in
sostanza, lancia l’accusa terribile di attacchi autoprovocati, che permettano una reazione
giustificata per i raid contro gli uni e contro gli altri.
Fuat Avni ha svelato anche un altro dettaglio: cioè che a una riunione decisiva sui passi
militari da intraprendere ci fossero le stesse persone che parteciparono nel marzo del
2014 a una conversazione imbarazzante, intercettata in un audio. Disse il capo del Mit, il
giovane e spregiudicato Ha- kan Fidan, davanti all’allora ministro degli Esteri, Ahmet
Davutoglu: «Se c’è bisogno, posso mandare quattro uomini in Siria. Li faccio sparare otto
colpi di mortaio sul lato turco e creare una scusa per la guerra. Possiamo anche fargli
attaccare la tomba di Suleyman Shah» (nonno del fondatore ottomano, il cui sito si trova
poco al di là del confine siriano).
Nei suoi tweet sempre accurati (capaci di anticipare le persone da arrestare), Fuat Avni –
un probabile collettivo di oppositori interni al leader turco – sostiene che Erdogan intende
creare il caos, dove gli agenti del Mit infiltrati nello Stato Islamico possano far seguire un
conflitto. Il twittatore “infedele” dice che Fidan avrebbe attivato le sue spie anche nelle
comunità curde. Il Presidente in questi giorni ha sempre recisamente respinto qualsiasi
tipo di accusa. Hakan Fidan è considerato un fedelissimo di Erdogan. Di lui lo scorso anno
si parlava come possibile ministro degli Esteri. Non ottenne quella posizione, e chiese
allora di presentarsi al voto per farsi eleggere deputato. Con Erdogan visibilmente
contrario, si consumò una rottura clamorosa. E solo dopo un faccia a faccia aspro, come
ha rivelato a Repubblica un’alta fonte politica turca, Fidan fu costretto a tornare sui suoi
passi, e al suo posto di capo del servizio segreto. La seconda bordata al Mit arriva dal
Partito socialdemocratico. In un rapporto presentato alla stampa, il gruppo politico afferma
che il Mit era a conoscenza dell’attacco bomba pianificato a Suruc. Il vice del partito, Veli
Agbaba, punta il dito direttamente sul Capo dello Stato. «Da quando Erdogan considera il
Mit come il proprio organismo di intelligence, uno che serve i suoi interessi invece di quelli
del Paese. L’arrivo di questi giovani militanti in città era noto al Mit, che non ha agito».
Sono in molti, così, ad alzare ora lo sguardo per capire che cosa si muova dentro il bunker
dell’intelligence. Che rimane, sulla collina, a dispetto delle faide consumate, dei progetti
segreti, dei piani svelati, nel più totale e grigio silenzio.
del 29/07/15, pag. 12
«A morte Saif»: una sentenza-farsa per
Gheddafi Jr
6 condanne all’ergastolo. Una trentina gli imputati. Le accuse: avere
represso nel sangue la rivolta del 2011 9 sentenze capitali emesse dalla
corte di Tripoli. Saif è detenuto da milizie legate al governo rivale di
11
Tobruk Pedina politica Il figlio del Raìs è nelle mani di un gruppo che ha
stretto alleanza con la tribù del Colonnello
DAL NOSTRO INVIATO TRIPOLI Una condanna a morte, che però non può essere
eseguita. Un delfino assurto a simbolo di un regime una volta odiato, che oggi è rimpianto
da molti. E poi le reazioni negative della comunità internazionale, che pure in larga parte
con il suo intervento militare nel 2011 ha contribuito a generare il caos odierno. Un Paese
diviso, impotente di fronte alla violenza interna, lacerato dalla memoria del passato e
ancor più dai progetti per il futuro.
Sono questi alcuni degli elementi che emergono dalla sentenza pronunciata ieri dal
tribunale di Tripoli nei confronti di Saif Al Islam, 43 anni, secondogenito di Muammar
Gheddafi, «il più politico» tra i figli del dittatore che secondo molti avrebbe forse potuto
sostituirlo per evitare il caos della guerra civile. Il verdetto era scontato. Dall’inizio del
«processo farsa» (come lo definiscono oggi il Consiglio d’Europa, Human Rights Watch e
numerosi altri attori internazionali) nel 2013, i responsabili delle milizie che dominano nella
capitale avevano espresso l’intenzione di applicare la massima pena contro i capi dell’ex
regime. Lo stesso Gheddafi venne linciato alle porte di Sirte dalla soldataglia di Misurata il
21 ottobre 2011. Vale la pena ricordare che i ribelli riuscirono a fermare il suo convoglio
solo grazie ai missili dei Mirage francesi. Centinaia di suoi fedelissimi vennero torturati,
fucilati sommariamente.
Il verdetto di ieri rappresenta l’epilogo coerente di quelle vendette. Con Saif dovrebbero
essere fucilati altri otto esponenti dell’ex regime: tra loro il capo dell’intelligence, Abdullah
Senussi, il responsabile della Guardia Popolare, Mansour Daud Ibrahim, quello della
sicurezza interna, Millad Raman. Ieri erano in aula, si trovano nelle prigioni di Tripoli, in
tutto sono una trentina. Sei sono condannati all’ergastolo. L’accusa è uguale per tutti:
avrebbero organizzato la sanguinosa repressione delle rivolte nel 2011, «incitato al
genocidio». Hanno sessanta giorni per ricorrere in appello.
Saif però ieri non c’era. Come già durante l’altra ventina di udienze pubbliche della corte di
Tripoli, ha seguito il dibattimento per video-conferenza dalla sua cella nei dintorni di
Zintan, oltre 160 chilometri a sud-ovest della capitale. E qui sta un altro degli elementisimbolo del disordine libico che emergono dalla sentenza. Tripoli propone, ma Zintan
dispone. La sentenza di ieri rappresenta la debolezza intrinseca del governo centrale privo
di autentica sovranità. Sulla carta quattro anni fa le milizie ribelli erano unite dalla causa
comune di abbattere la dittatura. In realtà già allora prevalevano le differenze tribali, gli odi,
persino i razzismi localistici, che del resto per quarant’anni Gheddafi aveva coltivato ad
arte secondo il classico «divide et impera». Solo l’intervento bellico della Nato aveva
permesso la loro vittoria. I ribelli avevano potuto godere del privilegio di restare divisi
anche se militarmente meno efficienti. Così, quando i miliziani berberi di Zintan nel
novembre 2011 avevano catturato Saif in fuga verso l’Algeria, si erano guardati bene dal
consegnarlo a Tripoli o al Tribunale Internazionale dell’Aja, che da subito ne ha chiesto
l’estradizione per fargli un «processo equo» .
Da allora Saif rimane «bottino di guerra» dei berberi, che nel frattempo si sono alleati al
governo di Tobruk e sono in guerra contro Misurata e Tripoli. L’aspetto più paradossale è
che oggi Tobruk ha rafforzato i legami con le tribù pro-Gheddafi. Risultato: Saif,
condannato a Tripoli, viene rivalutato come partner politico potenziale a Zintan .
Lorenzo Cremonesi
12
del 29/07/15, pag. 15
Gli Usa, i radar di Niscemi e il passaggio a
Tunisi
Se la Sicilia dice no, Washington punterà sul Maghreb, dove cresce
anche l’allarme per i jihadisti
DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK «Finalmente lo hanno capito anche loro». Negli
ambienti diplomatici raccontano che gli americani abbiano letto con un soprassalto di
interesse il documento conclusivo sulla Tunisia approvato dal Consiglio dei ministri degli
esteri della Ue, lunedì 20 luglio. Ormai non ci speravano più. Gli europei si impegnano a
«mobilitare l’insieme degli strumenti a loro disposizione nella lotta contro il terrorismo». I
ministri danno mandato a Federica Mogherini, Alto rappresentante per gli affari esteri e la
sicurezza comune, «di esplorare tutte le opzioni possibili e di portarle all’esame del
Consiglio il più presto possibile». L’Ue conta di essere pronta con un pacchetto di misure
concrete per settembre, mentre gli Stati Uniti hanno già offerto a Tunisi quei droni armati
che nell’aprile scorso il presidente Barack Obama aveva rifiutato al premier Matteo Renzi.
Il punto è che l’amministrazione Usa sente di essere già in ritardo. Gli specialisti del
Pentagono e dell’intelligence considerano la Tunisia un Paese prossimo al collasso e
quindi facile preda dei terroristi: dopo la fase dei «lupi solitari» potrebbero arrivare presto
le bandiere nere dell’Isis. Il governo americano lo ripete agli europei da settimane:
dobbiamo precipitarci ad aiutare Tunisi. Occorrono armi, mezzi militari, intelligence. Prima
stronchiamo le cellule terroristiche, poi parleremo di affari, di gas, di passaporti, di olio
d’oliva. Quanto sia acuto il senso di urgenza è apparso chiaro nei giorni scorsi, quando si
è diffusa la voce che il Pentagono potrebbe trasferire altrove la base Muos (Mobile User
Objective System) della Marina militare in costruzione a Niscemi, nel centro della Sicilia:
una struttura di vitale importanza per gli Usa e i Paesi occidentali. L’installazione di una
nuova piattaforma radar nel pieno del Mediterraneo completerebbe la rete globale di
protezione satellitare che fa perno sugli insediamenti in Virginia, nelle Hawaii e in
Australia.
Niscemi è stata prescelta nel 2011, ma i lavori, quasi finiti, sono stati bloccati diverse volte
per una serie di contenziosi collegati all’impatto sulla salute e sulla riserva naturale
orientata Sughereta. L’ultimo stop è stato imposto dal Tar che il 13 febbraio 2015 ha
accolto il ricorso degli ambientalisti. Ora il Consiglio di Giustizia amministrativa per la
Regione siciliana (equivalente del Consiglio di Stato) ha appena cominciato l’esame
dell’appello presentato dal ministero della Difesa che dovrebbe concludersi a settembre.
In caso di un «no» definitivo, Washington punterà su tre opzioni: Tunisia innanzitutto, poi
Grecia o Spagna.
Ma per gli Usa neanche con Tunisi è semplice collaborare. L’analisi sul terrorismo
elaborata dal premier secolarista Hadib Essid non convince fino in fondo il Pentagono. Il
governo tunisino sostiene di trovarsi di fronte a una minaccia alimentata soprattutto dalla
Libia: da lì provengono i jihadisti, lì si addestrano, qualunque sia la loro nazionalità. La
soluzione, quindi, è costruire un muro lungo i 160 chilometri di frontiera che attraversano il
deserto da Ras Jedir fino a Dehiba. L’intelligence americana, invece, segue anche un’altra
traccia. D’accordo: la Libia è fonte di pericoli, ma il terrorismo islamista tunisino è in larga
parte un fenomeno endogeno: nel Paese sono ormai migliaia i giovani estremisti pronti a
colpire. L’insidia, mortale, è già in casa.
Tutti questi temi sono stati discussi in un incontro tecnico-operativo il 14 luglio a Tunisi con
i rappresentanti del G7 che comprende, oltre agli Stati Uniti, Giappone, Germania,
13
Francia, Gran Bretagna, Italia e Canada. Gli americani hanno offerto droni armati per
colpire i rifugi e le centrali di addestramento dei terroristi, fuori o dentro i confini. Hanno
assicurato aiuto per dotare il famoso muro con la Libia di un sistema di sorveglianza, ma
hanno anche insistito sull’efficienza della polizia e sui controlli interni. Inoltre sempre gli
Stati Uniti hanno consigliato di scartare la proposta avanzata da Francia, Italia e Germania
di installare un centro per l’accoglienza dei profughi: la Tunisia è troppo fragile, va
preservata da altri sforzi. Mercoledì 15 luglio, il giorno dopo la riunione, il presidente
tunisino, l’ottuagenario Beji Caid Essebsi, commentava in un’intervista televisiva: «Solo gli
Usa ci stanno veramente aiutando nella lotta contro il terrorismo».
Il Maghreb, però, è un’area complessa. Nella logica di Washington l’eventuale
spostamento dei radar da Niscemi alla spiaggia tunisina di El Haoaria metterebbe insieme
l’esigenza di sostituire Niscemi e nello stesso tempo rafforzare la tutela del Paese,
dislocando una guarnigione di marines. Ma il 21 luglio il portavoce dello stesso presidente
Essebsi affermava: «Rimaniamo fedeli alla dottrina che risale alla nostra Indipendenza
(1956 ndr): rifiuto di ogni insediamento militare straniero». Ma hanno avuto un peso anche
le parole del ministro degli Esteri algerino Ramtane Lamamra: «La presenza degli Stati
Uniti nel Nord Africa è una provocazione e una minaccia per la nostra sovranità. La
Tunisia scelga tra la base Usa e le relazioni con l’Algeria». E la Tunisia è già abbastanza
impaurita dal caos libico per aprire un fronte di instabilità anche a ovest, con l’altro vicino.
Giuseppe Sarcina
del 29/07/15, pag. 19
Azioni simultanee. La strategia della Casa Bianca
Dalla Siria all’Africa, i due fronti di Obama
contro il terrorismo
NEW YORK
Barack Obama ha aperto negli ultimi giorni un aggressivo doppio fronte antiterrorismo: in
Asia, con la questione siriana e il problema Isis al centro della partita; il secondo in Africa
contro un nemico che appartiene alla stessa matrice, l’estremismo islamico, ma è più
sfuggente, fatto da Boko Haram, al-Qaeda, al Shabaab e dallo stesso Isis ciascuno in
grado di colpire con attacchi fantasma.
L’azione di Obama è stata simultanea. Da una parte l’accordo con la Turchia, pragmatico
e spregiudicato, per l’utilizzo di due basi aeree chiave, Incirlik e Diyarbakir, che
consentiranno di chiudere l’accerchiamento della Siria e dell’Isis da nord. Le basi turche
sono chiave per la lotta contro Isis e per garantire che quel corridoio di 60 miglia ai confini
fra Siria e Turchia, sia “libero” da terroristi. Sono basi che si aggiungono a quelle in Irak,
Dohuk e Irbil a est, Ain al Asad e Habbaniya a sudest, Muwaffaq Salti in Giordania a sudovest. Una manovra a tenaglia dunque per debellare Isis.
Il pragmatismo e la spregiudicatezza che oramai siamo abituati a riconoscere in certe
situazioni in Barak Obama accetta come contropartita che siano attaccate anche
postazioni del Pkk. La Turchia giustifica gli attacchi accusando il Pkk di violenza contro le
forze di polizia di Suruc, un piccola città a cavallo del confine dove Isis ha ucciso a sua
volta un poliziotto in un attacco terroristico.
Se l’accordo con la Turchia riguarda la partita siriana in Asia, ieri nel suo intervento
all’Unione Africana, al fianco di Nkosozana Dlamini Zuma, la presidente dell’Unione,
Obama si è rivolto a un miliardo di africani promettendo loro sviluppo, democrazia rispetto
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dei diritti civili parlando, come ha detto, da figlio di un africano. L’avere una donna al suo
fianco in rappresentanza dell’Africa non poteva essere sul piano simbolico un messaggio
più forte per l’emancipazione femminile che il presidente americano ha auspicato in ogni
sua tappa del viaggio africano. Ha anche raccontato di aver passato del tempo con i suoi
parenti nel villaggio dei suoi avi, indubbiamente un momento di grande emozione al quale
la platea ha reagito con un forte applauso.
Ma seppure al centro del discorso ci fossero promesse economiche e sociali, la parte
politica più importante ha di nuovo riguardato la guerra contro il terrorismo di matrice
estremista islamica. Obama ha promesso aiuti sia militari che di intelligence, ma ha
chiesto all’Unione Africana e alla signora Zuma, cresciuta nella lotta politica al fianco di
Nelson Mandela, di «rafforzare le forze militari panafricane per debellare i gruppi di
terroristi che cercano di conquistare territorio, soggiogare popolzioni e villaggi e spezzare i
confini che rappresentano la legalita».
La doppia azione in Asia e in Africa con messaggi e azioni molto precise per alzare il tiro
della guerra al terrore ha un obiettivo fisso, ossessivo che non riguarda soltanto la
sicurezza, ma che vuole piuttosto recuperare quella parvenza di ordine internazionale che
abbiamo perduto nei territori dilaniati dal terrorismo di criminali estremisti sia in Asia che in
africa, preservando i confini legittimi ad esempio per Siria, Irak, ma anche per lo Yemen e
per paesi africani a rischio.
Obama ha davanti a sé 18 mesi per raggiungere il suo obiettivo. Non è molto. Ma
certamente vorrà evitare che la Siria finisca in spezzatino come sta finendo la Libia
spartita fra gruppi di diverse provenienze etniche e religiose. Il problema? La Siria è già
uno spezzatino. E i bombardamenti aerei coadiuvati dagli attacchi dei droni hanno
dimostrato di poter raggiungere l’obiettivo solo fino a un certo punto. Ci vogliono e ci
vorranno forze di terra. La Turchia è pronta a schierare le truppe turcomanne. Ma si parla
di poca cosa. Di sicuro Obama torna dall’Africa con una escalation in corso. Una prova di
forza americana ormai dovuta da tempo.
Mario Platero
del 29/07/15, pag. 8
Tsipras tra troika e pro-dracma
Grecia. Ad Atene arrivano i negoziatori, con la richiesta di nuove più
pesanti misure. La Piattaforma di sinistra fa il pienone nel quartiere del
premier, con Lafazanis e il partigiano Manolis Glezos: «Non voteremo
nuovi Memorandum»
Angelo Mastrandrea
Con un occhio alla ex troika e un altro alla sinistra interna, Alexis Tsipras festeggia i 41
anni incassando il sì della Bce alla riapertura della Borsa e trovandosi in casa, nel suo
quartire di Kypseli un mega-raduno della Piattaforma di sinistra. L’opposizione interna di
Syriza ha infatti radunato i suoi militanti nel palazzetto dello Sport di Panellinios,
capeggiata dall’ex ministro dell’Energia Panagiotis Lafasanis e con in prima fila uno
scoppiettante Manolis Glezos, il partigiano ultranovantenne famoso per aver ammainato la
bandiera nazista dal Partenone e pronto a battagliare contro il governo Tsipras dopo
averlo sostenuto. Una manifestazione convocata per festeggiare un altro compleanno, il
quinto del sito web Iskra, che è stata interpretata come una dimostrazione di forza degli
oppositori in vista del congresso straordinario del partito, in programma a settembre, e
15
nella quale Lafazanis ha criticato la firma dell’accordo con i creditori («l’errore è stato di
non avere la volontà politica di seguire, se necessario, la strada di uscita dall’eurozona»)
ma, con qualche artificio retorico, ha affermato di sostenere ancora il governo «per
applicare il programma radicale con il quale siamo stati eletti, per rispondere al no del
referendum, ai Memorandum e all’austerità». Viceversa, ha detto Lafazanis, «non
sostengo un governo che firma nuovi Memorandum e li applica». Poi ha avvertito Tsipras:
«Se il governo si identificherà alla fine con i nuovi e vecchi Memorandum non si troverà di
fronte solo me ma la grande maggioranza di Syriza, quasi tutta la gente democratica,
progressista e di sinistra».
Duro anche Manolis Glezos, che ha affermato di considerare «il terzo Memorandum il
peggiore perché è stato firmato dal Megaro Maximou (la sede del governo Tsipras, ndr)».
La soluzione di Glesos è: «Né rottura né sottomissione, facciamo una tregua con i
creditori. Non prendiamo prestiti così non avremo bisogno di restituirli».
La divaricazione tra le due anime del partito sul piano strategico, innanzitutto, al momento
pare difficilmente conciliabile. Tsipras, che oggi rilascerà una lunga intervista alla radio del
partito Kokkino, ha chiesto un congresso straordinario aperto alla società per avviare un
«processo collettivo» in un partito che fin dall’inizio è un coacervo di movimenti e
organizzazioni della sinistra radicale che pian piano si sono mescolate e fuse. Ma, ha
precisato nella riunione della Segreteria politica, «obbligo di tutti noi è salvaguardare
l’unità di Syriza», obiettivo che condivide con il segretario generale Tasos Koronakis.
Ma è evidente che gli equilibri interni del governo si giocano soprattutto fuori: sarà la
capacità di Tsipras e compagni di non applicare le parti peggiori del Memorandum e di
varare misure «compensative» efficaci a determinarne le sorti. Sarebbe difficile
presentarsi dinanzi al proprio popolo dopo aver varato misure di austerità pesanti come
quelle che le istituzioni chiederebbero ancora di approvare (su tutte quella delle pensioni,
con un taglio drammatico del 30 per cento).
La road map di Tsipras prevede l’accordo per un terzo piano di aiuti entro il 20 agosto, lo
show down del congresso per poi andare al voto anticipato in autunno (sono state fatte
diverse ipotesi, l’ultima prevede le elezioni l’8 novembre).
Ieri sono entrati alla Ragioneria dello Stato i tecnici della ex troika, coprendosi i volti per
timore di ritorsioni. Oggi, con l’arrivo dei capi-missione delle istituzioni, cominciano i
negoziati veri e propri: sono in arrivo Delia Velculescu (denominata «Draculescu» quando
era a Cipro) per il Fmi, Declan Costello per la Commissione Europea e Rasmus Rueffer
per la Bce. Ci sarà pure un rappresentante del Meccanismo europeo di stabilità: si tratta
dell’italiano Nicola Giammarioli.
del 29/07/15, pag. 9
Grecia, uno stress test, contro la democrazia
e la legittimità della sinistra
Crisi greca
Boaventura de Sousa Santos*
L’Europa è diventata un laboratorio per il futuro. Ciò che sta succedendo lì dovrebbe
essere motivo di preoccupazione per tutti i democratici e specialmente per chiunque sia di
sinistra. Due esperimenti in questo momento stanno venendo messi in pratica — e quindi,
presumibilmente, stanno venendo controllati — in questo ambiente di laboratorio.
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Il primo esperimento è uno stress test sulla democrazia, la cui ipotesi di fondo è la
seguente: la volontà democratica di un paese forte può abbattere non democraticamente
la volontà democratica di un paese debole senza intaccare la normalità della vita politica
europea.
I prerequisiti del successo dell’esperimento sono tre: il controllo dell’opinione pubblica che
permette che gli interessi nazionali del paese più forte si trasformino nell’interesse comune
dell’eurozona; il proseguimento, da parte di un gruppo di istituzioni non elette (Eurogruppo,
Bce, Fondo Monetario Internazionale (Fmi), Commissione Europea), nella
neutralizzazione e nella punizione di ogni decisione democratica che disobbedisca ai
diktat del paese dominante; la demonizzazione del paese più debole così da assicurarsi
che non ottenga comprensione dagli elettori degli altri paesi europei, specialmente nel
caso di elettori di paesi che potrebbero disobbedire.
La Grecia è la cavia di questo agghiacciante esperimento. Stiamo parlando della seconda
operazione di colonialismo del ventunesimo secolo (dal momento che la prima è stata la
Missione di stabilizzazione ad Haiti nel 2004). È un nuovo colonialismo, condotto con il
consenso dei paesi occupati, anche se sotto un ricatto assolutamente inedito.
E, proprio come il vecchio colonialismo, la giustificazione che ora viene data è che tutto ciò
che avviene sia nell’interesse del paese occupato. È un esperimento in corso e gli esiti
dello stress test sono incerti. A differenza dei laboratori, le società non sono ambienti
controllati, a prescindere dalla pressione che si esercita per tenerle sotto controllo.
Una cosa è certa: una volta che l’esperimento sarà finito, e qualunque sia il risultato,
l’Europa non sarà più l’Europa di pace, coesione sociale e democrazia. Al contrario,
diverrà l’epicentro di un nuovo dispotismo occidentale, la cui brutalità rivaleggerà con
quella del dispotismo orientale già analizzato da Karl Marx, Max Weber e Karl Wittfogel .
Il secondo esperimento in atto è un tentativo di liquidare definitivamente la sinistra
europea.
La sua ipotesi di fondo è la seguente: non c’è spazio in Europa per la sinistra fintanto che
insista per un’alternativa alle politiche di austerità imposte dal paese che è egemone. I
prerequisiti per il successo di questo esperimento sono tre. Il primo consiste nel causare
una sconfitta preventiva dei partiti di sinistra , punendo con violenza quelli che osano
disobbedire.
Il secondo consiste nel far credere agli elettori che i partiti di sinistra non li rappresentano.
Fino ad ora la nozione che «i nostri rappresentanti non ci rappresentano più» era
l’argomento principale del movimento degli Indignados e di Occupy, rivolto contro i partiti
di destra e i loro alleati. Ora che Syriza è stata costretta a bere la cicuta dell’austerità –
nonostante il «No» del referendum greco convocato da Syriza stessa -, gli elettori saranno
sicuramente portati a concludere che, comunque vada a finire, anche i partiti di sinistra
abbiano fallito nel rappresentarli.
Il terzo prerequisito consiste nell’intrappolare la sinistra in un falsa contrapposizione tra
scelte del Piano A e scelte del Piano B. Negli ultimi anni la sinistra si è divisa tra coloro
che credevano che la cosa migliore da fare fosse rimanere nell’euro e tra coloro che
credevano che la cosa migliore da fare fosse lasciare l’euro. Delusione: nessun paese può
lasciare l’euro in maniera ordinata, ma, se un paese dovesse mostrare di essere
disobbediente, sarà espulso e il caos si abbatterà su di lui inesorabilmente.
Allo stesso modo chiedono una ristrutturazione del debito, che si è dimostrato essere un
tema molto divisivo per la sinistra. Delusione: la ristrutturazione avrà luogo quando sarà
funzionale agli interessi dei creditori – che è la ragione per cui l’altra questione principale
della sinistra è ora divenuta la politica del Fmi.
Gli esiti di questo esperimento sono parimenti incerti, per le ragioni sopra esposte.
Tuttavia, una cosa è certa: per sopravvivere a questo esperimento la sinistra avrà bisogno
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di rifondare se stessa al di là di ciò che oggi è immaginabile. Servirà molto coraggio, molta
audacia e molta creatività.
* Docente di sociologia alla Facoltà di economia dell’Università di Coimbra (Portogallo)
(traduzione di Bruno Montesano)
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INTERNI
Del 29/07/2015, pag. 10
Azzollini, il Pd ci ripensa e dà libertà di
coscienza Verso il no all’arresto
Oggi il voto in aula, Ncd chiede lo scrutinio segreto Ma in Giunta i dem
avevano detto sì ai domiciliari
LIANA MILELLA
ROMA . Ieri, durante tutti i lavori in aula, il senatore Antonio Azzollini, si è aggirato come
un’anima in pena passando da un colloquio all’altro. «Che fai domani, voti per il mio
arresto? Non farlo, sarebbe un errore, contro di me e contro questa istituzione... Quei
magistrati di Trani ce l’hanno con me, vogliono fottermi a tutti i costi, ma non hanno uno
straccio di prova... ». Descrivono così l’ex potente presidente della commissione Bilancio,
al cui vertice è stato per anni, come «un uomo spaventato», anche se non sarebbe
destinato a finire in galera ma solo agli arresti domiciliari, richiesta confermata anche dal
Tribunale del Riesame. Oggi, alle 9 e 30, parte la seduta per decidere il suo destino. E il
grande interrogativo della vigilia è come voterà il Pd, se per l’arresto oppure no. Che Renzi
non ami l’interventismo dei magistrati è cosa nota, che non voglia mettere zeppe alla sua
maggioranza altrettanto. Ma anche il Pd deve fare i conti con il parere favorevole della
Giunta per le autorizzazioni che ha votato per il sì. In aula lo ricorderà il presidente Dario
Stefàno di Sel, contro di lui Nico D’Ascola, uomo di Alfano, che farà la relazione di
minoranza. Venti dei 35 senatori di Ncd chiederanno il voto segreto che, a quel punto,
dovrà essere accolto per forza perché si tratta di un voto sulla libertà personale di un
collega. Sì, ma il Pd che fa? Agli atti, per ora, ufficialmente c’è solo una lettera di una
dozzina di righe, inviata via mail a metà pomeriggio, dal capogruppo Luigi Zanda ai suoi
senatori. Subito interpretata come una pieno via libera al “voto di coscienza”, quindi alla
piena libertà, quindi al no all’arresto, visti i dubbi che serpeggiano anche tra i Dem sulla
richiesta. Sullo sfondo il crack della Casa della divina provvidenza, reati pesanti come
l’associazione a delinquere, l’induzione alla corruzione, il concorso in bancarotta. «Libertà
di coscienza? Io non ho mai usato quell’espressione» taglia corto Zanda quando ormai è
sera. Leggiamo il testo della mail: «Per la prima volta in questa legislatura l’aula sarà
chiamata a esprimersi sulla richiesta di arresto di un senatore. In vista del voto, che
ciascuno di noi esprimerà secondo il proprio convincimento, vi invito a esaminare con
attenzione la decisione della Giunta dell’8 luglio ». Zanda aggiunge che il voto «non ha
come oggetto la valutazione delle eventuali responsabilità penali, ma esclusivamente la
sussistenza o meno del fumus persecutionis». Fumus che esiste secondo il relatore di
minoranza, l’avvocato reggino Nico D’Ascola.
«Proprio convincimento», libertà di coscienza. Siamo lì. Di fatto non esiste una perentoria
indicazione d’arresto data dal Pd, nonostante Matteo Orfini, il presidente del Pd, avesse
detto a caldo che bisognava dire sì all’arresto di Azzollini. Il Pd ha votato sì in giunta. Ma
adesso il fiato sul collo di Ncd e del capogruppo ed ex presidente del Senato Renato
Schifani s’è fatto pesante. Assieme a un’autotutela di casta che si avverte nelle molte
perplessità sciorinate dal Pd sulla necessità dell’arresto. I numeri giocano per Azzollini.
Strettamente sul filo, almeno ieri sera. Con un gioco tra Pd e M5S a buttarsi addosso la
responsabilità. Dicono i Pd: «Noi votiamo sì, ma M5S voterà no per poi scaricare la colpa
su di noi grazie al voto segreto». M5S di rimando: «Il Pd imbroglia le carte. Il nostro sì
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all’arresto, come già in Giunta, è senza dubbi. Sono loro che li hanno e non fanno altro
che parlarne in giro».
I numeri sono proprio stretti. Facciamo i conti alla luce dell’ultimo voto di fiducia, quello di
ieri. 163 per la maggioranza. Dove spicca il gruppo del Pd con 113 teste, 35 di Ncd, 19
delle autonomie. Vanno aggiunti, per portare il calcolo in fondo, i 36 senatori di M5S e i 31
del gruppo misto. Gli esperti di calcoli parlamentari ragionano su un dissenso nel Pd. Se
dovesse limitarsi a 20-25 contrari all’arresto, questo “buco” potrebbe essere ampiamente
riempito da M5S e gruppo misto. Ma se il numero di chi vota a favore di Azzollini, per fargli
passare l’estate in vacanza al mare e non chiuso tra le pareti della sua casa, aumenta e
tocca quota 50-55, allora la partita si chiude a favore di Azzollini. La maggioranza si
spacca, il Pd si frantuma nel partito del sì alle manette e quello del no alle manette.
I fatti certi sono quelli di una mattinata al cardiopalmo al Senato. Le relazioni di Stefàno e
di D’Ascola. Poi il via al dibattito. Primo fatto singolare, e sicuro indizio di un mal di pancia,
non c’è un delegato ufficiale del Pd che prenderà la parola, Zanda tace, e potrebbero farlo
tutti. A quel punto tocca ad Azzollini. Deve parlare per mezz’ora. Sperando di convincere i
colleghi che le toghe lo perseguitano. Tre ore, e si decide.
Del 29/07/2015, pag. 10
Il progetto del gruppo unico Verdini-Alfano
LA SCISSIONE OGGI L’ADDIO A FORZA ITALIA PER CONTINUARE A SOSTENERE
LE RIFORME ISTITUZIONALI
CARMELO LOPAPA
ROMA. L’ultimo gelido saluto tra i due ieri mattina, quando Silvio Berlusconi e Denis
Verdini si sono incrociati a un funerale a Roma. In serata il braccio destro di un tempo si è
chiuso nella sua stanza nella sede forzista di Piazza San Lorenzo in Lucina e ha portato
via gli ultimi scatoloni in via Poli, sede di “Alleanza liberalpopolare autonomie”, nuova
creatura con tanto di acronimo Ala già lanciato sui social. Questa mattina al Senato la
conferenza stampa di Verdini con gli altri nove, soglia minima per dar vita al gruppo, la
lista spedita già ieri al presidente Pietro Grasso.
Con il senatore toscano, lasciano Fi Riccardo Mazzoni, amico di vecchia data, e Riccardo
Conti (già transitato giorni fa al misto). Poi due pedine strappate al neonato gruppo di Fitto,
ovvero Eva Longo e Ciro Falanga. Infine i cinque provenienti da Gal: Lucio Barani che
sarà il capogruppo, Giuseppe Compagnone, Vincenzo D’Anna, Antonio Scavone e Pietro
Langella (proveniente da Area popolare). L’undicesimo, il forzista Domenico Auricchio,
non ha ceduto al corteggiamento. Alla Camera invece i sette deputati pronti a sposare la
causa di Verdini (Luca D’Alessandro e Ignazio Abrignani in testa, ma tra loro ci sarebbe
anche Saverio Romano) attenderanno qualche giorno: il tempo necessario a convincere
altri tre e dare vita quanto meno a un sottogruppo nel Misto (ne occorrono 10).
Nella presentazione ufficiale di stamattina Verdini non attaccherà sul piano personale
Berlusconi, ma punterà tutto sulla «necessità di portare avanti le riforme che abbiamo
voluto e votato», accusando semmai l’amico di una «retromarcia incomprensibile ai nostri
elettori». In ogni caso, la nuova formazione sarà un ulteriore mini sostegno per l’esecutivo
Renzi, con buona pace della sinistra pd. Che la prospettiva sia l’approdo in una più vasta
coalizione centrista - di cui Angelino Alfano e Pier Ferdinando Casini sarebbero tra i
promoter - non è un mistero tra i banchi di maggioranza. Il sottosegretario Ncd Giuseppe
Castiglione, in contatto coi siciliani Scavone e Compagnone, lavora già in quella direzione.
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Berlusconi saluta con sprezzo i partenti. «Abbiamo ripulito il partito, ci siamo liberati dei
professionisti della politica» ripete. Per adesso resterà «rintanato», osservando Salvini
«che ha raggiunto il suo massimo consenso, al 15 per cento, e Renzi in caduta libera»,
solo a settembre il ritorno sulla scena. L’ultimo veleno circolato nella sua cerchia porta al
vile denaro: ai 590 mila euro l’anno circa (59 mila per parlamentare) che il Senato girerà al
nuovo gruppo per il suo funzionamento.
Del 29/07/2015, pag. 11
“Intercettazioni irrinunciabili si cambi la
riforma del Senato”
GIUSTIZIA E RIFORME, I PALETTI DEL PRESIDENTE DEL SENATO
GRASSO
Giù le mani dalle intercettazioni, strumento «irrinunciabile», e disco verde a possibili
modifiche della riforma istituzionale. Il presidente del Senato Pietro Grasso, nella
tradizionale cerimonia estiva del Ventaglio con la Stampa parlamentare, entra nel pieno
del dibattito politico, lo fa a tutto campo, sottolineando anche la necessità di una chiusura
rapida del capitolo unioni civili. Perché «qualsiasi unione tenuta insieme da affetto,
solidarietà e condivisione merita di essere tutelata » e poi perché la sentenza della
Cassazione che apre in quella direzione risale al 2010.
Ma è sulle intercettazioni che la seconda carica dello Stato si dilunga, forte dell’esperienza
da procuratore nazionale antimafia. E poco importa che il testo sia all’esame della Camera
e non del Senato. Il capitolo sembra destinato a essere rinviato a settembre, dopo la
correzione targata pd per evitare l’effetto bavaglio. Ma nella maggioranza a Montecitorio
non viene ancora escluso un blitz in conferenza dei capigruppo che potrebbe rimettere in
pista la legge sulle intercettazioni per un’approvazione alla Camera proprio nell’ultima
settimana prima della pausa estiva. Grasso non ha dubbi. «Le intercettazioni, lo dico da
sempre, sono un mezzo di indagine irrinunciabile e indispensabile che non va in alcun
modo limitato. Quanto alla pubblicazione del loro contenuto, occorre conciliare diversi
principi democratici: la segretezza delle indagini, la riservatezza della vita privata, il diritto
all’informazione». E siccome «in questa materia esistono già diverse norme,
evidentemente non sempre rispettate, si potrebbe regolare meglio la gestione delle
intercettazioni, ad esempio attraverso un’udienza filtro che mantenga solo quelle utili al
processo». E il suo discorso è riferito anche alla cosiddetta norma anti-iene. «La
registrazione di conversazioni da parte di uno dei presenti è da sempre ritenuta legittima
dalla Corte di Cassazione: si tratta di strumenti di grande utilità per le indagini su reati
molto gravi, come le estorsioni, la corruzione, lo stalking». E alla magistratura,
ammonisce, non si chieda un ruolo di supplenza della politica.
Ma è l’uscita di Grasso sulla riforma del Senato ad aver colto di sorpresa maggioranza e
governo. Non tanto quando sottolinea che «occorre privilegiare la strada dell’accordo
politico alto, dell’intesa sui contenuti, piuttosto che la ricerca dei singoli voti». Quanto nel
passaggio in cui esorta a una modifica dell’articolo 2 del testo ora all’esame della
commissione Affari costituzionali, quello sulla nuova composizione. È lì che si
anniderebbe, a suo dire, «una contraddizione». Riguarderebbe la durata del mandato
senatoriale dei sindaci. E poi i compiti del Senato, più in generale. «Penso che l’Italia
abbia bisogno di un Senato di garanzia, come avviene in molte altre democrazie. E credo
che sarebbe equilibrato attribuire alcune funzioni esclusive e non concorrenti: funzioni di
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controllo, di inchiesta, di nomina, di raccordo con le istituzioni Ue». I tempi, ne è convinto
Grasso, in caso di modifiche non si allungherebbero. Plaude da sinistra Loredana De
Petris, «bene Grasso, si riapra la discussione sull’articolo 2». Gelo dal governo. «Non ho
letto l’intervento del presidente, non commento» taglia corto il ministro delle Riforme Maria
Elena Boschi, la quale da tempo ha escluso una riapertura del confronto (invocato dalla
sinistra dem) proprio su quella norma.
del 29/07/15, pag. 5
Senato, perché adesso si può cambiare
Massimo Villone
Nel discorso del Ventaglio il Presidente Grasso interviene auspicando un accordo per una
modifica della composizione del senato nella proposta di riforma costituzionale in
discussione. La possibilità di modificare il testo è al centro del dibattito politico. Perché, e
come cambiare?
Il problema viene dal clima politico mutato. Renzi ha perso un pezzo del Pd, e pagherebbe
un prezzo politico molto alto sostituendolo con ex-berlusconiani, comunque camuffati. I
numeri precari in Senato spiegano le sue più recenti mosse. Lo scambio tasse — riforme,
il patto con gli italiani, il richiamo al voto popolare. Il referendum confermativo sulla riforma
costituzionale è ormai certo, perché in senato il voto dei due terzi dei componenti che
potrebbe evitarlo è obiettivo irrealizzabile. Il premier gioca d’anticipo, lanciando fin d’ora
una campagna plebiscitaria, in puro stile berlusconiano.
Qui viene il problema tecnico. La proposta di riforma è stata approvata dal senato l’8
agosto 2014 e dalla camera il 10 marzo 2015, con modifiche. Per l’articolo 104 del
regolamento del senato «nuovi emendamenti possono essere presi in considerazione solo
se si trovino in diretta correlazione con gli emendamenti introdotti dalla camera dei
deputati». Il punto è che l’articolo 2, sul senato non elettivo imbottito di un ceto politico di
seconda scelta, ha visto cambiare nel dibattito alla camera una sola parola. Basta per
tornare, con un emendamento, al senato eletto direttamente dai cittadini?
Anche se il testo è ancora emendabile in altri punti, la sola modifica che oggi conta è
questa. Perché lo stesso Renzi ci si è inchiodato sopra, pur essendoci ottimi motivi, più
volte esposti su queste pagine, per non farlo. Ma soprattutto perché una battaglia
plebiscitaria si combatte con i bazooka e le scimitarre, e non con forbiti argomenti da
seminario. Non si discuterà del riparto di competenze tra stato e regioni, della corsia
preferenziale per il governo in parlamento, o simili piacevolezze. Si combatterà all’ultimo
sangue sullo scippo ai diritti democratici dei cittadini, sulla riduzione degli spazi di
democrazia, sull’autoritarismo strisciante. Soprattutto se, com’è molto probabile, saranno
in campo anche altri referendum, come sulla legge elettorale. E in un contesto avvelenato
dal preside sceriffo, dai bavagli per le voci scomode, dai tagli alla sanità camuffati da
razionalizzazioni di spesa, dalla insostenibile leggerezza dimostrata nei contesti europei e
internazionali. Certo, sarà un plebiscito su Renzi. Ma bisognerà vedere se il premier terrà
a galla il nuovo senato, o il nuovo senato tirerà a fondo Renzi.
Quindi, cambiare. Certo, una lettura rigorosa di regolamenti e precedenti dice che non
basta una parola emendata per rivoltare uno dei punti fondamentali della proposta. Anche
Grasso lascerebbe intendere modifiche limitate. Ma norme e precedenti vanno letti con
intelligenza. Soprattutto per la riforma della Costituzione. L’articolo 138 era stato voluto dai
costituenti per dare attraverso un ampio consenso stabilità e durevolezza alle architetture
fondamentali della Repubblica. Ha funzionato per decenni su due implicite premesse: il
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sistema elettorale proporzionale, e la convenzione per cui non si modificava la
Costituzione senza l’accordo dei soggetti politici in origine stipulanti (il cosiddetto «arco
costituzionale»). Per questo nel 1983 la Commissione Bozzi non partì fino a quando non ci
fu per le mozioni istitutive la firma dell’allora Pci con Giorgio Napolitano. E si capisce
perché i regolamenti parlamentari riducessero la seconda deliberazione ex articolo 138 a
un prendere o lasciare, precludendo la modifica del testo approvato in prima
deliberazione. La costituzionalità è dubbia. Ma in realtà non c’era bisogno di altro.
Tra il 1992 e il 1994 sono venuti meno sia il sistema proporzionale, sia l’arco
costituzionale. Ma è rimasta l’esigenza di durevolezza e stabilità. Non si fa una
Costituzione nuova per un orizzonte precario e a breve termine. E come si pensa di poter
dare oggi al paese una architettura stabile e duratura forzando le scelte di una
maggioranza raccogliticcia, gonfiata da un premio incostituzionale, sostenuta da salti della
quaglia e cambi di casacca determinanti? Una Costituzione palesemente espressione di
un consenso minoritario?
Nelle audizioni in corso in Senato è stato ricordato — in particolare da Besostri, oltre che
da me — un precedente del 1993 che legge la navetta in maniera elastica e ampia,
giungendo a una modifica dell’articolo 68 della Costituzione che diversamente non
avrebbe visto la luce. Se si dovesse ritenere preclusa questa via, è a mio avviso possibile
ricorrere a uno stralcio mirato. Per l’articolo 101 del regolamento, uno o più articoli
possono essere stralciati «quando siano suscettibili di essere distinti dagli altri per la loro
autonoma rilevanza normativa». Tale è certamente il caso per il senato non elettivo e
norme connesse. Sarebbe così possibile lasciare in piedi il superamento del
bicameralismo paritario, e il resto della riforma che — con qualche correzione — potrebbe
persino risultare dignitosa.
Le parole di Grasso possono intendersi come una possibile apertura. Ma per come si è
mosso finora il premier c’è poco da sperare che cerchi un compromesso onorevole.
Citando un autorevole osservatore della politica italiana, talvolta vorremmo che il premier
fosse un po’ meno furbo, e un po’ più intelligente. Crescerà?
del 29/07/15, pag. 4
Renzi attacca l’Ue e promette: meno tasse
sulle imprese, faremo meglio della Spagna
L’Europa dei bilanci «L’Europa legata ai bilanci ha smarrito l’ideale. Noi
torneremo Paese guida»
ROMA «Almeno un punto sotto la Spagna». Il presidente del Consiglio Matteo Renzi
rilancia il piano di riduzione delle tasse e annuncia uno degli obiettivi, ridurre la tassazione
complessiva sui profitti delle imprese al livello più basso d’Europa. «La combinazione tra
Ires e Irap porta l’imposizione fiscale sulle imprese in Italia al 31,4%.
La Germania è al 30%, la Francia più o meno è là. La Spagna è al 25% e noi vogliamo
arrivare almeno al 24%, un punto meno della Spagna» ha detto il premier davanti
all’assemblea degli ambasciatori in Italia, assicurando che il taglio delle imposte avverrà
insieme alla riduzione del debito pubblico, ma anche reiterando le critiche alle regole di
bilancio dell’Unione europea.
Renzi ha confermato il piano annunciato nei giorni scorsi, che partirà con l’abolizione di
Tasi e Imu sulla prima casa nel 2016 «per circa 5 miliardi di euro» e si concluderà con la
sforbiciata all’Irpef da 15 miliardi nel 2018. In mezzo, l’abbattimento delle imposte per le
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imprese. Oggi l’aliquota dell’Ires è pari al 27,5%, e a questa si somma un’Irap pari al 3,9%.
Il piano del governo è di intervenire su entrambi i fronti, con l’Ires ridotta al 21-22% e
l’aliquota dell’Irap ridotta di un punto, un punto e mezzo. «Insieme ai 10 miliardi del bonus
di 80 euro alle fasce più deboli della popolazione, e all’abbattimento dell’Irap per 5 miliardi
nel 2015, nell’arco di cinque anni — ha detto Renzi — l’Italia otterrà una riduzione della
pressione fiscale di 50 miliardi di euro».
Per finanziare il piano di sgravi fiscali il governo conta sulla revisione della spesa pubblica,
ma non potrà fare a meno di chiedere all’Ue ancora un po’ di flessibilità nella politica di
bilancio che, allo stato attuale, prevede il raggiungimento del pareggio nel 2017. Una
trattativa che non si annuncia facile. «L’Europa deve essere diversa da quella costruita in
questi anni» ha detto Renzi agli ambasciatori accreditati a Roma. «Abbiamo politiche
sbagliate: noi stiamo rispettando tutti i vincoli , stiamo facendo un lavoro straordinario, ma
questo non significa che quel modello lì vada bene. Una politica di sola austerità — ha
insistito il presidente del Consiglio — non può salvare il continente».
L’anno prossimo serviranno 12 miliardi per scongiurare l’aumento Iva, 3 per evitare il taglio
delle detrazioni, più i 5 per eliminare le tasse sulla prima casa e quanto necessario al
rinnovo dei contratti del pubblico impiego, oltre all’eventuale rifinanziamento della
decontribuzione sui nuovi assunti: tra 20 e 25 miliardi di euro. Il governo per ora ha messo
in cantiere una nuova tornata di revisione della spesa pubblica con l’obiettivo, piuttosto
ambizioso, di recuperare dieci miliardi di euro. Circa 6 miliardi di interventi potranno essere
coperti in deficit sfruttando le clausole di flessibilità Ue, che permettono di allentare un po’
la presa sui conti, a patto che proseguano le riforme, e che la deviazione sia limitata nel
tempo.
La coperta è dunque corta, ma il vero problema viene per il 2017 ed il 2018, perché non è
chiaro se sarà possibile invocare quelle clausole ogni anno, sistematicamente. Renzi
rassicura, «tutta l’operazione di taglio delle tasse si farà — ha detto — facendo calare il
debito», ma non demorde. «L’Europa di oggi attaccata alle regole di bilancio ha smarrito
l’ideale» ha insistito il premier, sicuro che «l’Italia tra 20 anni sarà leader in Europa e non
lo dico come training autogeno: se facciamo quello che dobbiamo fare, torneremo a
essere un paese guida».
Intanto il cambiamento è avviato, il Paese «si è rimesso in moto», e ora arriva la
sforbiciata alle imposte. «Con un piano con cadenza puntuale sostenuto dalla stabilità che
è tornata di casa in Italia. Su questo vogliamo investire per dimostrare — ha concluso
Renzi — che il nostro non è più il paese delle tasse».
Mario Sensini
del 29/07/15, pag. 6
2 agosto, ferita aperta
Bologna. Una petizione per ottenere la totale apertura degli archivi
Giovanni Stinco
BOLOGNA
Anni di promesse non mantenute hanno stancato i familiari delle vittime della strage della
stazione di Bologna. E così, in vista del 35° anniversario della strage neofascista (85 morti
e 200 feriti), le dichiarazioni sono dure.
Le promesse non mantenute dal governo Renzi sono tre: i risarcimenti e gli indennizzi alle
vittime; l’introduzione del reato di depistaggio; la reale apertura degli archivi che
potrebbero dire di più sul contesto in cui sono maturate le stragi, e soprattutto sui mandati.
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Cosa non di poco conto visto che per la bomba alla stazione di Bologna sono stati
condannati all’ergastolo i neofascisti dei Nar Mambro e Fioravanti, più Luigi Ciavardini,
condannato invece a 30 anni, ma a mancare sono ancora i nomi dei mandanti.
«L’obiettivo da raggiungere al più presto possibile è quello di dare piena attuazione alla
legge 206 per il risarcimento alle vittime delle stragi», diceva il 2 agosto di un anno fa il
ministro Giuliano Poletti. E un anno prima a rappresentare il governo nella giornata del
ricordo della strage era Graziano Del Rio. «Contiamo di garantire nel prossimo decreto
sicurezza alcuni provvedimenti sui risarcimenti, i tempi potranno essere pochi mesi.
Finalmente va a compimento un atto dovuto». Impegni che non si sono trasformati in fatti.
Sul web i familiari delle vittime hanno lanciato una petizione a cui hanno subito aderito le
associazioni dei familiari delle vittime delle stragi del treno rapido 904, dell’Italicus, di
Piazza Fontana, di Piazza della Loggia, e di via dei Georgofili.
Si legge sulla petizione, firmata anche dal sindaco di Bologna Virginio Merola:
«Credevamo di assistere alla svolta di un parlamento, di un governo che dopo decenni si
era accorto della sua storia, fatta di centinaia di morti per terrorismo e stragi e di famiglie a
cui è stata stravolta la vita e sospeso il diritto alla verità e alla giustizia. Credevamo di
essere testimoni del fatto che i tempi fossero maturi per cambiare, per invertire il senso di
questo perverso e inquietante sistema che nega alle vittime pure i risarcimenti. Ma un
cambiamento a metà, non è un cambiamento, bensì un modo per continuare — da parte
di chi ne ha interesse — a conservare il vecchio sistema con metodi diversi. Vi chiediamo
solo di mantenere le vostre promesse: risarcimento e indennizzo per le vittime,
introduzione nel codice penale del reato di depistaggio, e la reale declassificazione delle
carte sulle stragi da parte di ministeri e servizi segreti».
In realtà, qualcosa è stato fatto, ma non basta assolutamente. Il reato di depistaggio è
stato approvato a Montecitorio, ma poi si è arenato al Senato ad un passo dal voto
decisivo. Per i familiari delle vittime «è chiaro l’interesse a bloccare una legge che mette in
carcere i depistatori. Ma noi non intendiamo arrenderci». Di chi è la colpa? «Pd, Sel e M5S
ci stanno, sono gli altri che si mettono di mezzo».
Il provvedimento per aprire gli archivi è stato formalmente preso: la cosiddetta direttiva
Renzi del 22 aprile 2014 avrebbe dovuto provvedere alla «declassificazione della
documentazione relativa a gravissimi eventi che negli scorsi decenni hanno segnato la
storia italiana, con l’obbiettivo di rendere conoscibili in tempi più brevi tutti i documenti
tenuti dalla pubblica amministrazione». La procedura annunciata dal premier non si è
concretizzata come previsto, e i documenti resi disponibili dicono molto poco.
«Gli stessi apparati che fino ad oggi hanno tenuto ben chiuse le carte sulle stragi — si
legge nella petizione on line dell’associazione 2 agosto — sono quelli a cui la direttiva
affida il compito di renderle pubbliche. Senza nessun controllo esterno, lasciando a
ministeri e servizi segreti la possibilità di preselezionare gli atti e scegliere cosa versare».
Insomma, è «come se si fosse detto al ladro di consegnare la refurtiva e sperato che lo
facesse».
E infine c’è la questione dei risarcimenti. La legge 206, che avrebbe dovuto provvedere ai
risarcimenti, è stata approvata nel 2004, undici anni fa. Ma l’Inps si è messo di mezzo
sollevando ben dieci questioni tecniche, di fatto fermando tutto. «Quello è un istituto che
interpreta le leggi con l’obiettivo di non dare le pensioni. Almeno con noi fa così».
Amaro il commento dei familiari delle vittime: «Ad oggi stiamo ancora aspettando. Questo
è il trattamento vergognoso subito dai familiari delle vittime e dai feriti contro il quale ci
battiamo».
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Del 29/07/2015, pag. 2
LA GIOR NA TA
Marino vara la nuova giunta e sfida Renzi:
“Giudichi i fatti decoro e pulizia per la fase 2”
Nasce un monocolore Pd.Entrano il pro Tav Esposito,Causi Di Liegro e
Rossi Doria. Priorità anche a trasporti e casa
GIOVANNA VITALE
ROMA . Se due indizi fanno una prova, il Marino ter nasce senza l’egida di Renzi, sempre
più determinato a tenersi alla larga dalle «beghe romane», in attesa di quel «segnale» di
buona amministrazione «che finora non c’è stata». A certificarlo è lo stesso inquilino di
palazzo Senatorio presentando la sua nuova squadra, composta da 4 new entry vicesindaco con delega al Bilancio il deputato Marco Causi, ai Trasporti il senatore
Stefano Esposito, entrambi intenzionati a restare anche in Parlamento; alla Scuola e
Periferie l’ex sottosegretario all’Istruzione Marco Rossi Doria; al Turismo Luigina Di Liegro
- che fanno schizzare a nove gli assessori dimissionari in appena due anni e trasformano
l’alleanza di centrosinistra in un monocolore Pd.
Nel disperato tentativo di dimostrare vicinanza al premier, Marino cita l’sms che l’allora
sindaco di Firenze gli mandò «12 ore prima la mia proclamazione, nel giugno 2013, in cui
mi raccomandava di dormire molto perché i cinque anni successivi sarebbero stati
straordinari ma anche impegnativi». Poi però è costretto ad ammettere che «nelle ultime
24 ore non ho avuto contatti diretti con lui, ma avremo presto occasione». Segue una
lunga excusatio mirata a smontare le accuse di incapacità: «Quando sono arrivato in
Campidoglio non immaginavo di trovare le casse vuote, un miliardo di disavanzo,
criminalità organizzata e corruzione. L’unica cosa che mancava erano la mine antiuomo».
Una speranza, quella di ristabilire un rapporto col premier, alimentata dal commissario pd
Matteo Orfini, la vera levatrice di una giunta che nasce fragile. Renzi aspetta Marino alla
prova dei fatti, convinto che non avrà vita lunga. Lo fa intendere il capogruppo capitolino
Fabrizio Panecaldo, esponente dei rottamatori romani: «I prossimi mesi saranno decisivi, o
con questa “fase 2” arriva un forte choc o scatta la “fase 3”, tutti a casa». Una possibilità
che la guerriglia inaugurata da Sel in consiglio comunale, dove alla prima prova
sull’assestamento è mancato il numero legale, rende tutt’altro che remota. «Il Pd ha
preferito risolvere i problemi interni piuttosto che quelli della città», attacca Nichi Vendola.
«D’ora in avanti il sostegno a Marino sarà giudicato su ogni singola delibera». Ma il
sindaco tira dritto e illustra «il programma dei prossimi tre anni per cambiare la città: ora
vogliamo tempi certi e risultati visibili su decoro, pulizia, mobilità, casa e rigenerazione
urbana».
Del 29/07/2015, pag. 2
Matteo e il test dei tre mesi “Senza vero
cambio di rotta si va al voto in primavera”
IL RETROSCENA
GOFFREDO DE MARCHIS
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ROMA. «Non c’è un solo assessore renziano», dice Matteo Renzi commentando la nuova
giunta Marino. Ancora una volta il premier prende le distanze dall’amministrazione del
Campidoglio. Si tiene le mani libere, non ci mette la faccia e non è così sicuro che
l’ennesimo tentativo di salvare la Capitale con questo sindaco vada in porto. «Ci sono tre
mesi di tempo per vedere non dico la rivoluzione ma un’inversione di rotta», spiega ai suoi
collaboratori. Dopo di che, in caso di fallimento, Roma si dovrà preparare ad andare al
voto con due anni di anticipo, la prossima primavera. Insieme con Milano, Torino e Napoli.
Con l’incognita dell’Anno santo in pieno svolgimento.
L’umore a Palazzo Chigi è questo. Luca Lotti, il braccio destro delle partite difficili, si defila
(e non è da lui): «Non mi occupo di Roma». I cosiddetti renziani capitolini parlano
apertamente di «accanimento terapeutico» (Lorenza Bonaccorsi) e si mettono sulla riva
del fiume. Ma a questo punto il Marino ter ha bisogno dell’esecutivo che in cambio ottiene
un sostanziale commissarimento del sindaco. Del Giubileo infatti si occuperà il prefetto
Gabrielli con pieni poteri. Il governo glieli darà al più presto, nei prossimi giorni, «anche per
evitare, visti i tempi strettissimi, il ricorso a procedure d’urgenza negli appalti, una stagione
che appartiene al passato», sottolineano gli uomini del presidente del Consiglio. I
finanziamenti del governo per la Capitale verranno gestiti dal nuovo vicesindaco con
delega al Bilancio Marco Causi, già pezzo forte della giunta Veltroni, conoscitore profondo
di Roma e dei suoi conti. Una persona di cui Renzi si fida molto e che in sostanza riferirà
più a lui che al sindaco. Ai Trasporti, assessorato chiave di una città dove muoversi è
quasi impossibile, va Stefano Esposito, vicino a Matteo Orfini ma con un filo diretto a
Palazzo Chigi con il premier ancora prima che con i suoi fedelissimi.
Su questi tre pilastri si regge la scommessa di Orfini, commissario romano. Ma è anche la
scommessa del Pd. «Un grande partito come il nostro — spiega Orfini — non può non
considerare prioritario governare Roma». Questo è quello che ha detto a Renzi: una
rovinosa caduta di Marino si rifletterebbe sul governo e sul segretario dem, va fatta
un’ultima prova. Parole che il premier ha accolto con scetticismo ma «mettendosi a
disposizione », come ha detto sia a Causi sia a Esposito che lo hanno chiamato prima di
accettare. Non a caso già martedì è stato convocato nella sede dell’esecutivo il tavolo
istituzionale per le risorse da destinare a Roma. L’annuncio della nuova giunta perciò ha
sbloccato la situazione.
Restano altre scommesse in ballo. Quella di un gruppo di renziani è che Marino cadrà
comunque. La sua maggioranza, dopo l’uscita di Sel, balla su un voto di scarto. E non è
detto che Marino accetti senza ribellioni quella che molti chiamano già “giunta Orfini” e il
commissariamento forma- le o sostanziale di tutti i dossier più delicati di Roma: Giubileo,
mobilità, soldi. Tolti al sindaco e delegati a dirigenti non scelti da lui. Il tentativo, per
arrivare al 2018, è quello di creare una filiera stabile, dialogante, collaborativa che
attraversa una catena composta tutta da uomini del Pd: il premier, il presidente della
Regione Nicola Zingaretti, il primo cittadino Marino. La formula dovrebbe coinvolgere
quindi il partito ai massimi livelli, cercando di tenere tutti insieme questi ruoli in modo che
nessuno possa fare scherzi all’altro. Ma l’opinione del capo del governo è diversa. Non
vuole essere coinvolto nell’eventuale disastro perché «il sindaco è eletto direttamente dai
cittadini. Io l’ho fatto e so che gli onori e gli oneri sono di una persona sola». Non è sua
intenzione confrontarsi direttamente con Marino e anche in queste ore tra i due non c’è
stata nemmeno una telefonata. Al tavolo di martedì siederà per conto dell’esecutivo il
sottosegretario alla presidenza Claudio De Vincenti. E’ sempre capitato così, ma la
presenza di Renzi avrebbe dato un altro sapore alla nuova avventura.
Non c’è, quindi, e non ci può essere l’impronta del premier- segretario sul nuovo corso
della Capitale. Roma però chiederà al governo di non tirarsi indietro. Ovvero di dare un po’
di ossigeno alla città che ha presentanto un piano di rientro del debito di proporzioni
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giganti, che approva i bilanci in anticipo, che sostanzialmente anche per via di queste
misure non ha più un euro. Alla fine, dunque, in un modo o nell’altro il premier dovrà
entrare in Campidoglio garantendo una collaborazione alla giunta. Lo farà magari
bypassando Marino affidandosi a una squadra i cui campioni sono Orfini, Gabrielli,
Causi,Esposito.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 29/07/15, pag. 3
La relazione di Alfano sulla mafia: fatti gravi,
il sindaco ha sottovalutato
di Fiorenza Sarzanini
Non si propone lo scioglimento ma si lascia aperta la possibilità di una
«diversa valutazione»
ROMA La strada è tracciata, la relazione potrebbe arrivare a Palazzo Chigi prima della
pausa estiva. Il ministro dell’Interno Angelino Alfano non proporrà lo scioglimento per
mafia del comune di Roma, ma nella relazione al governo evidenzierà i «gravissimi
episodi» che hanno segnato l’attività della giunta guidata da Ignazio Marino per i rapporti
con l’organizzazione guidata da Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. Lasciando così
aperta la strada anche a «una diversa valutazione politica» da parte dell’esecutivo.
La proposta e la «ragion di Stato»
Lo prevede la legge ed è proprio questa la scelta del titolare del Viminale, dopo aver letto il
rapporto del prefetto Franco Gabrielli. Lo staff è al lavoro per redigere il documento che
nell’intenzione dello stesso Alfano dovrebbe essere calendarizzato nella riunione del
Consiglio prevista per il 7 agosto, l’ultima prima della pausa estiva. Nei prossimi giorni ne
parlerà con il presidente del Consiglio Matteo Renzi e insieme decideranno tempi e
modalità. Finora il confronto tra i due si è limitato a impressioni generali, Alfano sa bene
che Renzi ha sempre escluso l’eventualità che la capitale d’Italia possa essere
«commissariata» per infiltrazioni criminali. Una visione che condivide, non a caso —
fornendo indicazioni ai collaboratori che stanno stilando la relazione — ha più volte usato il
termine «ragion di Stato» per far ben comprendere quale deve essere l’approccio alla
questione che ormai da mesi tiene la Capitale d’Italia sulle prime pagine dei quotidiani. E
ha sottolineato la necessità di far capire bene quale sia il «livello di condizionamento della
macchina capitolina». La situazione politica è comunque in evoluzione, i rapporti tra
Marino e Renzi hanno fasi alterne, il ministro è convinto che alla fine il «verdetto» debba
essere collegiale. E questo percorso ha deciso di seguire.
Le «omissioni» e il ruolo del sindaco
Alfano sottolineerà, proprio come ha fatto Gabrielli, la «pesante infiltrazione» nella giunta
guidata da Gianni Alemanno e una minore influenza mafiosa dopo l’arrivo di Marino, sia
pur spiegando che la situazione rimane comunque «molto grave» soprattutto per quanto
riguarda i mancati controlli in alcuni settori fondamentali per il funzionamento della città.
Per questo citerà gli episodi elencati dai componenti della commissione — insediata
dall’ex prefetto Pecoraro — che invece si sono mostrati in disaccordo rispetto
all’attenuazione del pericolo tanto da sollecitare lo scioglimento del Campidoglio
ritenendolo «pesantemente condizionato». E sono proprio le loro considerazioni,
analizzate alla luce di specifiche circostanze, che il ministro vuole sottoporre alla
valutazione dell’intero consiglio dei ministri. Sia pur specificando come Gabrielli abbia
comunque dedicato una parte della sua relazione a quella «discontinuità» tra le due
giunte, anche tenendo conto che Alemanno è indagato per associazione mafiosa mentre
Marino non è stato coinvolto nell’inchiesta.
In questo capitolo affronterà il ruolo del sindaco che evidentemente «in alcuni casi non si è
reso conto di quanto stava accadendo all’interno del Campidoglio», oppure — e questa è
una carenza giudicata altrettanto grave — «ha sottovalutato il problema e le conseguenze
29
sull’affidamento degli appalti e sulla gestione della macchina amministrativa». È la linea
tracciata dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone quando ha chiarito — nel corso nel
comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza presieduto da Gabrielli — come «i tentativi»
di Marino di sottrarsi all’influenza dell’organizzazione di Buzzi e Carminati siano stati
«pochi e di scarsa efficacia».
Il Giubileo e l’attacco alla città
Nelle considerazioni finali del ministro dell’Interno un peso forte lo avrà certamente la
celebrazione del Giubileo straordinario che comincerà l’8 dicembre e metterà Roma ancor
di più al centro della ribalta internazionale. «Siamo città simbolo dell’occidente», ripete
Alfano e vista la «campagna» dei giornali statunitensi e francesi sul degrado di Roma
«immaginate che cosa potrebbe accadere di fronte a uno scioglimento per mafia» facendo
proprie le preoccupazioni dello stesso Renzi, ma anche di altri componenti del governo.
Considerazioni politiche che però devono tenere conto anche della parte tecnica e in
modo particolare delle conseguenze che la decisione su Roma può avere anche rispetto
allo scioglimento per mafia di altri Comuni. Su questo Alfano è chiaro: «Bisogna evitare di
creare precedenti pericolosi e così dare appigli che possano essere utilizzati in altre
situazioni. Non bisogna spuntare in alcun modo un’arma che funziona contro la criminalità
organizzata come quella che prevede di “commissariare” i Comuni infiltrati dalle cosche».
Certamente il ministro dell’Interno accoglierà la richiesta di rimozione dei funzionari, così
come sollecitato da Gabrielli, considerati più implicati di altri con l’attività di Buzzi, a
prescindere dal fatto che siano stati indagati o meno. E questo fornirà al governo anche
l’appiglio tecnico per evitare di motivare il no allo scioglimento. La legge prevede infatti che
non sia necessario indicare le ragioni che hanno convinto il governo a non decretare il
«commissariamento» quando vengono presi provvedimenti contro i dirigenti
amministrativi.
Del 29/07/2015, pag. 19
“Rostagno sfidava le trame dei boss ecco
perché fu ammazzato”
Trapani,la verità 27 anni dopo Nelle motivazioni delle condanne dei
mafiosi, depistaggi e collusioni
DAL NOSTRO INVIATO
SALVO PALAZZOLO
TRAPANI. Aveva scelto una delle canzoni più belle di Paolo Conte per la sua nuova
trasmissione in Tv. «Per capirne un po’ di più e per saperne un po’ di più non basta un
attimo»: così ripeteva lo spot, mentre Mauro Rostagno vestito di bianco si accendeva un
sigaro. Per capirne un po’ di più, il vulcanico direttore di Rtc indagava nei misteri di
Trapani. Fra mafia, massoneria e uomini infedeli delle istituzioni. Era il pane quotidiano
delle sue denunce durante il telegiornale. Per quelle denunce fu ucciso Mauro Rostagno
da un sicario di Cosa nostra su ordine di un autorevole capomafia: questo dice oggi una
sentenza della corte d’assise di Trapani arrivata ventisette anni dopo l’omicidio. Troppi.
Lo scrivono anche i giudici Angelo Pellino e Samuele Corso nelle 3.000 pagine del
provvedimento. Quando ancora il corpo di Rostagno era riverso sul volante della sua Fiat
Duna scattarono subito «colpevoli ritardi e inspiegabili omissioni» di chi doveva indagare.
Le conseguenze sono state devastanti, ribadisce la corte: «La soppressione o dispersione
di reperti, la manipolazione delle prove e reiterai atti di oggettivo depistaggio ». Dalla sede
30
di Rtc scomparve la videocassetta su cui Rostagno aveva scritto “Non toccare”. Lì,
probabilmente, c’era il suo ultimo scoop.
Dopo un processo durato tre anni e mezzo, adesso, i giudici non hanno più dubbi.
Sottolineano «tutta l’inconsistenza delle piste alternative a quella mafiosa». E scrivono che
Rostagno fu ucciso per le denunce fatte e per quelle che si apprestava a fare. Storia
attualissima. Perché i misteri di Trapani restano ancora ben custoditi. Proprio come
denunciava Rostagno nel 1988: fra mafia, massoneria e uomini infedeli delle istituzioni.
Sono i misteri che proteggono la latitanza dell’ultimo grande padrino, Matteo Messina
Denaro, che dal 1993 dovrebbe stare in carcere per le stragi di Roma, Milano e Firenze. E
invece sembra diventato imprendibile. L’ha ricordato il pentito Siino nel corso della
processo: «Il padre di Matteo, morto nel ‘98, mi parlava malissimo di quel giornalista. Don
Ciccio ripeteva: “È proprio un cornuto” ». Altri cinque pentiti hanno confermato il movente e
il contesto delle responsabilità attorno al capomafia Vincenzo Virga e al suo sicario
prediletto Vito Mazzara, incastrato anche da una impronta genetica ritrovata su un fucile.
Ma è dalle parole di Rostagno che sono ripartiti i giudici. Nella sentenza riportano gli
editoriali del sociologo giornalista. E commentano: «Bisognava mettere a tacere per
sempre quella voce che come un tarlo insidiava e minava la sicurezza degli affari e le
trame collusive delle cosche con altri ambienti di potere». Bisognava fare in fretta. Perché
di Rostagno era noto «l’impegno civile», il suo «essere sovente controcorrente ». Di
Rostagno era nota a Trapani «la profondità e l’acutezza del suo sforzo di studio del
fenomeno mafioso ». C’era un delicato lavoro d’inchiesta «sommerso » che Rostagno
stava portando avanti. Lo dicono alcuni appunti ritrovati. Raccontano del “Circolo
Scontrino”, della massoneria deviata, di protezioni istituzionali. I misteri di Trapani,
all’epoca sede di una struttura Gladio. «Anche su questo versante - scrivono i giudici Rostagno poteva essere una minaccia dopo aver scoperto gli strani traffici che avvenivano
a ridosso della pista di un vecchio aeroporto». Torna il tema dei depistaggi. La corte ha
trasmesso alla procura antimafia di Palermo le deposizioni di dieci testimoni che
avrebbero detto il falso. Nella lista ci sono anche due sottufficiali che fecero le prime
indagini, il carabiniere Cannas e il finanziere Voza. «Questa sentenza rende finalmente
giustizia a Mauro Rostagno », dice l’avvocato Carmelo Miceli, parte civile con Chicca
Roveri, la compagna di Mauro.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 29/07/15, pag. 16
Torino, blitz leghista nella sala in cui pregano
gli islamici
Lo spazio allestito in Comune durante un convegno. Fassino: offesa
indecente. Si muove anche la Procura
TORINO Un blitz di due consiglieri comunali leghisti, opportunamente filmato per essere
postato su Facebook, fa sparire i tappeti portati per consentire agli ospiti di una rassegna
dedicata alla moda islamica di pregare verso La Mecca. È accaduto nel municipio di
Torino, dove era in programma il Torino Modest Fashion Roundtable, che nel 2014 ha
generato un giro d’affari di circa 300 milioni di dollari e che entro il 2019 dovrebbe
attestarsi attorno a quota 484 milioni. Ora i due autori della rimozione-lampo, Fabrizio
Ricca e Roberto Cargonero, rischiano di finire a processo. Il procuratore capo del
capoluogo piemontese, Armando Spataro, ha chiesto alla Digos «accertamenti urgenti per
valutare la rilevanza penale dell’accaduto».
E in municipio impazza la polemica. Il più duro di tutti è il sindaco Piero Fassino, che parla
di «un’offesa indecente non solo ai musulmani ospiti della rassegna, ma alle decine di
migliaia di torinesi di fede islamica, che sono parte integrante della nostra comunità».
Secondo il primo cittadino, si è trattato di «una manifestazione d’ignoranza che nemmeno
una strumentalizzazione preelettorale può giustificare».
I due autori del gesto replicano di non avere nulla contro la religione di Maometto, «ma il
Comune di Torino, luogo laico e istituzionale, non deve avere luoghi di preghiera a
prescindere. Dopo la partecipazione alla chiusura del Ramadan, ora Fassino usa la Sala
Rossa per parlare di economia islamica. Non vorremmo che la vicinanza con questo
mondo fosse qualcosa di più che un dovere da sindaco». E se dal Pd parlano di «gesto
violento», l’ex presidente regionale leghista, Roberto Cota, contrattacca: «Non si è mai
visto che un luogo istituzionale diventi luogo di culto».
Davide Petrizzelli
del 29/07/15, pag. 8
LEGA SENZA FRENI
Da Firenze a Brescia, immigrati nel mirino
Una lunga estate calda, all’insegna della discriminazione e del dito puntato contro gli
immigrati. È la stagione quel che vuol farci vivere la Lega Nord, con dichiarazioni ed
iniziative a raffica in tal senso. Ieri è stata una giornata a suo modo “esemplare”, aperta
dall’annuncio di un raduno contro le politiche per l’accoglienza dei profughi della
Toscana. Infatti, il Carroccio organizzerà “una grande manifestazione” a Firenze nel
mese di settembre, con la presenza del segretario Matteo Salvini. Ne ha dato notizia il
capogruppo leghista in Consiglio regionale, Manuel Vescovi, che è intervenuto contro un
provvedimento della Giunta regionale toscana, che ha destinato 549 mila euro per
sistemare 31 immobili destinati all’accoglienza dei profughi. “E’ ora di finirla - ha
affermato Vescovi -. Dobbiamo ribellarci in modo democratico. A settembre prepareremo
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una grande manifestazione su questo tema, e ci sarà anche Salvini”. Da Firenze al
bresciano, dove la Lega Nord ha organizzato una campagna contro i profughi ad
Orzinuovi. In particolare, è stato chiesto di segnalare all’indirizzo della sede locale del
partito la presenza di profughi sul territorio. Partito che è anche pronto a tappezzare il
paese con dei volantini che spiegano l’iniziativa #segnalaclandestino. “Contattaci se
vieni a sapere che enti, organizzazioni o altri stanno ospitando i clandestini”, è l’invito
alla delazione sui fogli che saranno distribuiti da venerdì quando, durante lo svolgimento
del mercato del paese, la Lega allestirà un gazebo per raccogliere le segnalazioni.
Un’iniziativa che vorrebbe colpire la Giunta comunale, a guida democratica. “Eviteremo
l’invasione che invece vorrebbe l’amministrazione comunale che ha dato disponibilità ad
accogliere i profughi”, ha argomentato la segreteria locale della Lega. “Vogliamo
difendere la comunità e chi tradisce la comunità è giusto che venga escluso”
del 29/07/15, pag. 13
Via Internet l’odio verso i rom e i musulmani
Il 30 per cento delle segnalazioni riguarda insulti e offese che viaggiano
nel web . Come contrastarli
L’odio corre nel web. Per quanto serva moltissimo a comunicare e anche, in certa misura
a informare, il web offre la possibilità a veri e propri cecchini della tasteria appostati dietro
il compunter di colpire senza essere visti. O quasi. Gli insulti sono pesantissimi e a volte
hanno rilevanza penale quando si tratta di incitare gli altri a prendere a bersaglio una
persona o un gruppo di persone. Lo scorso anno Unar ha segnalato ai Social Network
347 casi di hate speech. La risposta è stata positiva, ben 326 link di post, tweet o
commenti sono stati effettivamente rimossi.
La ferocia colpisce le bacheche di facebook con toni come questi: “Lo dobbiamo fare eroe
nazionale per aver ammazzato un Rom di merda...a morte gli zingari!” “al rogo i negri”.
Una recente sentenza della cassazione ha stabilito che insultare sulla bacheca di
facebook equivale alla diffamazione a mezzo stampa. E, come se non bastasse , a
insultare sono anche autorità comunali, rappresentanti del popolo che però si
nascondono dietro nomi di invenzione, ma che in alcuni casi sono stati “stanati”. “Per la
lavorazione dei casi di hate speech sul web distinguiamo se hanno rilievo penale (cioè
reato di incitamento all’odio razziale sulla base della ex legge Mancino) o no – dichiara
Marco de Giorgi, direttore Unar - In caso di rilevanza penale agiamo di imperio con Oscad,
che è l’Osservatorio istituito presso la polizia per il contrasto alle discriminazioni e con la
polizia postale con cui abbiamo un accordo di collaborazione. Facciamo anhe
segnalazione alla Procura e in questi casi si procede all’oscuramento dei siti. Nei casi in
cui invece non c’è un profilo penale , scriviamo direttamente a Facebook o a twitter con
cui stiamo aprendo una collaborazione per condividerne le policies”. Unar può fare leva
su alcuni strumenti legislativi. “Ad esempio la direttiva 2000/31 sostiene che i provider
non sono responsabili dei contenuti fino a un certo linmite, cioè fino a quando un’autorità
non li chiama in causa. Per questo mandiamo loro le segnalazioni che non possono
essere eluse”, aggiunge De Giorgi. Di esempi ce ne sono tanti. I rom diventano bersaglio
A d essere presi di mira molto spesso sono i rom: “Bruciamoli tutti sti zingari ” , ““Io
anche!!! A fuoco sti zingari di merda!!!!!!! “, “A fuoco i campi rom” . Queste frasi e altre di
tenore simile sono comparse a un certo punto su quattro profili facebook individuati con
precisi nomi e cognomi. Unar ha scritto al social network e i post con i commenti non
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compaiono più. I n un caso a nascondersi dietro un nome di invenzione scrivendo frasi
offensive è stata una autorità pubblica. Un certo signore di nome Citiano de Concamarise.
Un bel giorno sulla sua pagnia Facebook decide di dire la sua rispetto alle popolazioni
rom. E senza mezzi termini scrive: “ “I Rom vanno termovalorizzati” . Unar fa una indagine
e scopre che l’autore di tali pensieri resi pubblici è il Sindaco di Concamarise, centro in
provincia di Verona, Sig Cristiano Zuliani. La pagina Facebook viene rimossa e il sindaco
presenta le sue scuse. Il caso dunque si chiude positivamente. A prendersela invece con
gli islamici sono anche alcuni consiglieri comunali, sia in carica che a fine mandato,
anche in questa vicenda l’intervento dell’Ufficio antidiscriminazioni razziali ha esito
positivo. Unar interviene anche in occasione della discreta mole di commenti razzisti
scatenati lo scorso anno riguardo a Miss mondo Italia comparsi nella pagina ufficiale del
concorso di bellezza. I commenti sono stati rivolti alla finalista Chrisolythe Songo, nata in
provincia di Cuneo da madre angolana e padre congolese, diciotto anni, molto bella, con
la pelle nera. L’Oscad ha segnalato la vicenda all’autorità giudiziaria di Bari. A rafforzare i
poteri di Unar, dell’Oscad e della polizia postale è giunta di recente la Cassazione. Poiché
inserire un post nella bacheca di Facebook significa dare alle proprie parole una grande
possibilità di diffusione, raggiungendo un numero indeterminato di persone, se il
messaggio è offensivo deve essere considerata “integrata la fattispecie aggravata del
reato di diffamazione», recita la sentenza. A rafforzare tale valenza è il fatto che
facebook viene usato per comunicare le proprie esperienze di vita anche a un numero
crescente di persone «in costante socializzazione». Una sentenza che sarà molto utile nei
casi di cyberbullismo, che vedono i giovani colpire con foto e scritte diffusi alla velocità
della luce l’adolescente divenuto bersaglio. Una modalità che può portare le vittime + a
tentare il suicidio.
Delia Vaccarello
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WELFARE E SOCIETA’
del 29/07/15, pag. 2
Il taglio passa con la fiducia
Il decreto. Il governo forza la mano per l’ennesima volta: in questo caso
è per decurtare di 2,3 miliardi il budget sanitario. Si ridurranno le
prestazioni e i medici che «sgarrano» potranno essere sanzionati. I
camici bianchi annunciano una protesta in autunno: «Non possiamo più
fare da bancomat al governo: gli ospedali hanno già dato 31 miliardi in 5
anni»
Antonio Sciotto
Ennesima riforma iniqua, ennesima fiducia. Anche in questa occasione, come era stato ad
esempio con il Jobs Act (ma è già la quarantaduesima volta per il governo Renzi) il
premier e il Pd hanno imposto al Parlamento una accelerazione e un aut aut: con 163 voti
a favore, 111 contrari e nessun astenuto il Senato ha approvato ieri la fiducia al Dl enti
locali e ai suoi 2,3 miliardi di tagli alla sanità nel 2015 (il testo passa adesso alla Camera e
dovrà essere approvato entro il 18 agosto). La ministra della Salute Beatrice Lorenzin ha
un bel dire che si tratta di «risparmi e non di tagli», ma decurtare una cifra simile a un
sistema già parecchio martoriato negli ultimi anni significa di certo ridurre il diritto
universale alle prestazioni.
Il taglio è pari esattamente a 2,352 miliardi di euro per il 2015 (e cifre analoghe sono già
previste per il 2016 e 2017) ed è stato inserito nel Dl enti locali grazie a un
maxiemendamento presentato dal governo. Nel maxiemendamento si dispone inoltre che
«con decreto del ministero della Salute da adottare entro 30 giorni dalla data di entrata in
vigore della legge di conversione del presente decreto, previa intesa» in sede di
Conferenza Stato-Regioni, sono individuale le condizioni di erogabilità e le indicazioni di
appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale».
In parole povere, sarà un ulteriore decreto, emesso dal ministero della Salute, a stabilire
quali prestazioni siano considerate «appropriate» e quindi prescrivibili a seconda della
patologia da cui è affetto il paziente, e quali no: divenendo queste ultime a pagamento. Il
maxiemendamento, viene sottolineato infatti da fonti parlamentari, non entra nello
specifica definizione dei nuovi criteri per l’appropriatezza delle prestazioni, disciplinando
solo che «le prestazione erogate al di fuori delle condizioni di erogabilità previste dal
decreto ministeriale» citato (quello che verrà prodotto dalla ministra Lorenzin) «sono a
totale carico dell’assistito».
E poi c’è il capitolo sanzioni, quelle che i medici dovranno subire se prescriveranno ricette
non appropriate: «In caso di comportamento prescrittivo non conforme alle condizioni e
alle indicazioni» che saranno disciplinate dal decreto stesso «l’ente richiede al medico
prescrittore le ragioni della mancata osservanza delle predette condizioni e indicazioni» —
recita il testo del maxiemendamento — e, «in caso di mancata risposta o di giustificazioni
insufficienti, l’ente adotta i provvedimenti di competenza, applicando al medico prescrittore
dipendente del servizio sanitario nazionale (Ssn) una riduzione del trattamento economico
accessorio, nel rispetto delle procedure previste dal contratto collettivo nazionale e dalla
legislazione vigente».
Il medico potrà dunque evitare le sanzioni se saprà motivare la prescrizione: Beatrice
Lorenzin ha spiegato che l’eccesso cautelativo di ricette (quelle prescritte per evitare
eventuali denunce) costa al sistema sanitario nazionale «13 miliardi l’anno», e proprio per
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tendere una mano ai dottori la ministra ha annunciato «riforme ad hoc, volte ad attenuare
l’effetto delle denunce».
Sempre in chiave di “riduzione degli sprechi”, il maxiemendamento prevede che l’Aifa
(l’agenzia del farmaco) concluda «le procedure di rinegoziazione con le aziende
farmaceutiche volte alla riduzione del prezzo di rimborso dei medicinali a carico del Ssn
separando i medicinali a brevetto scaduto da quelli ancora soggetti a tutela brevettuale»
ovvero tra farmaci branded e farmaci generici equivalenti.
Ma nel Dl enti locali ci sono anche altre novità, a parte i tagli alla sanità: innanzitutto per il
prossimo Giubileo. I pellegrini potranno stipulare una polizza assicurativa speciale, del
valore di 50 euro, che garantirà loro l’accesso all’assistenza sanitaria pubblica. Ancora, è
stata autorizzata l’assunzione di 1.050 poliziotti, 1.050 carabinieri, 400 finanzieri e 250
vigili del fuoco.
Anaao Assomed, associazione dei medici dirigenti, annuncia una mobilitazione in autunno:
«Ancora una volta la sanità pubblica verrà assunta a bancomat del governo, anche se dal
2010 al 2014 ha già dato 31 miliardi di euro e nel Dl enti locali si prevedono tagli per
ulteriori 7 miliardi fino al 2017».
E non si attenua la preoccupazione delle Regioni, nonostante il governo abbia spiegato
che i tagli verranno stabiliti insieme in Conferenza Stato-Regioni, visto che — parola della
ministra Lorenzin — non si tratta di altro che di una estensione del già concordato «Patto
per la Salute».
Del 29/07/2015, pag. 6
LA GIORNATA
Sanità, tagli da 2 miliardi il Senato vota la
fiducia Renzi: imprese, tasse giù
I medici: siamo alla frutta, in autunno protesteremo Il premier:nel 2017
imposte al 24%,sotto la Spagna
ANNALISA CUZZOCREA
ROMA . Dai 2,3 miliardi di risparmi sulla sanità ai cinquemila lavoratori socialmente utili
stabilizzati in Calabria. Dall’allentamento del patto di stabilità per i comuni del Veneto
colpiti dalla tromba d’aria di inizio luglio ai fondi stanziati per forze dell’ordine e pronto
soccorsi in vista del Giubileo di Roma (per i pellegrini pronta una “polizza sanitaria” da 50
euro). E poi fondi per i dirigenti delle agenzie fiscali, per assunzioni nelle scuole
dell’infanzia o all’Agenzia del farmaco, per la spartizione delle competenze e dei
dipendenti delle ex province, per il salvataggio del gran premio di Monza che riceverà 20
milioni di euro dalla Regione Lombardia. È un decreto omnibus, quello sugli enti locali
passato ieri in Senato dopo la fiducia posta - all’ora di pranzo - dal ministro delle Riforme
Maria Elena Boschi. I sì sono stati 163, i no 111, con una tenuta della maggioranza che il
gruppo pd- dopo l’assenza del numero legale lunedì - ha accolto con un metaforico
sospiro di sollievo. La prossima settimana alla Camera ci sarà il voto definitivo, appena in
tempo prima della pausa estiva. Nel maxiemendamento del governo sono state assorbite
tutte le norme inserite dal lavoro in commissione, con l’aggiunta di quella per la Calabria.
Proprio ieri, la regione era rimasta bloccata per le proteste sull’A3 e al porto di Villa San
Giovanni dei lavoratori socialmente utili che rischiavano di perdere il posto. Il salvataggio
del governo è arrivato in extremis, nonostante le resistenze incontrate da parte di Lega e 5
Stelle.
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La polemica si è concentrata tutta sui tagli al comparto sanitario: «Sono state riportate
notizie che non corrispondono al testo votato in commissione», ha detto il ministro Boschi.
«I tagli alla sanità recepiti in questo testo sono quelli concordati con le regioni in sede di
conferenza unificata il 2 luglio con voto unanime». Quelle stesse regioni, però, ora
protestano. Così come protestano i medici di famiglia e ospedalieri. La stretta sulle
prescrizioni di esami specialistici, con la possibilità di sanzionare chi ne segna di inutili
senza un’adeguata giustificazione, ha fatto infuriare le principali associazioni di categoria,
che annunciano una protesta nazionale per l’autunno. E accusano il governo: «Usa la
sanità pubblica come un bancomat». Dal ministero, invece, si pone l’accento
sull’eccessivo costo della medicina difensiva e sulle norme che consentiranno di ritrattare
al ribasso i costi di forniture mediche e farmaci. Lontano dal Senato, alla Farnesina,
Matteo Renzi fa invece un nuovo annuncio sul taglio delle tasse: «Nel 2017, con la
riduzione del costo per le imprese dal combinato Ires e Irap, vogliamo portare il costo della
tassazione sui profitti al 24%, l’obiettivo che ci poniamo è un punto sotto la Spagna».
Del 29/07/2015, pag. 6
Domande & risposte
Entro un mese arriveranno i protocolli del ministro Lorenzin che
vincoleranno le prestazioni a carico dello Stato. Di fatto, ci sarà una
stretta rispetto al passato che riguarderà medici e malati
Meno ricoveri e fisioterapie rischio di pagare
Tac e esami cosa cambia con il decreto
ROBERTO PETRINI
ROMA. Rivoluzione nella sanità, cambia tutto per esami di laboratorio, radiografie, Tac e
risonanze magnetiche. Ma anche per terapie riabilitative e per i tradizionali ricoveri
ospedalieri. Dopo il patto per la salute, recepito dal decreto enti locali, arriveranno entro un
mese i protocolli del ministro Lorenzin. La sintesi è che dovremo pagare di tasca nostre
molte prestazioni fino ad oggi gratuite. Vediamo quando e perché.
A QUALI ESAMI O RADIOGRAFIE AVREMO DIRITTO GRATUITAMENTE?
«Dottore, lei sa quel mio scompenso cardiaco, è vero che abbiamo fatto l’ecocardiografia
a febbraio, sono passati sei mesi, ma io non mi sento molto bene. Che dice? Non è il caso
di ripeterla?». La richiesta del paziente è quanto di più naturale: un po’ di ansia, la
necessità di essere semplicemente rassicurati, oppure la percezione reale di un sintomo.
Sta al medico decidere, ovvero stava al medico. Da quando entreranno in vigore, tra circa
un mese, i nuovi protocolli- Lorenzin che mantengono a carico dello stato solo analisi di
laboratorio e radiografie ritenute «appropriate » cioè utili, il medico dovrà attenersi a
precise disposizioni patologia per patologia, accertamento per accertamento. E se prima,
ad esempio, avrebbe potuto prescrivere, 3-4 o anche più ecocardiografie all’anno, in futuro
potrebbe doversi limitare ad una-due. Lo stesso potrebbe valere per le analisi per
colesterolo e trigliceridi: se si ripeteranno prima di cinque anni dovranno essere pagate di
tasca propria.
Spesso l’ansia, più o meno giustificata, dei pazienti si somma con i timori del medico e
allora la spesa lievita: è il caso classico del mal di schiena che fa scattare in molti casi la
risonanza magnetica. Le regole della professione di Ippocrate dicono che in «scienza e
coscienza » il medico debba individuare i «segni di allarme», poi aspettare qualche
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settimana e, se il paziente peggiora, procedere all’accertamento. Anche in questo caso, il
ministero dovrà stabilire tempi standard tra la presenza del sintomo e l’accertamento,
introdurre criteri di età e soprattutto individuare la patologia sospetta che dà diritto
all’analisi gratuita: se si indaga per una semplice ernia si pagherà, mentre con tutta
probabilità resteranno a carico del sistema sanitario nazionale i sospetti oncologici oppure
le complicanze post-chirurgiche.
CHE COSA CAMBIA PER I MEDICI DI FAMIGLIA? E CHE RISCHI CORRERANNO?
Comunque sarà bene abituarsi all’idea che in futuro riceveremo più di “no” dal nostro
medico di base. Difficile tentare di fare pressione sul medico: se non rispetterà i protocolli,
per compiacere il paziente o perché vuole mettersi al riparo da grane giudiziarie, rischierà
un taglio della propria remunerazione. Chi ha una mutua privata o un’assicurazione potrà
sempre cavarsela, gli altri no. Rimarranno a coltivare il tarlo poco sopportabile dell’ansia e
della preoccupazione. Ma c’è anche il caso che il sintomo sia vero e venga sottovalutato:
allora la questione diventa assai delicata.
Mani legate per i medici? I protocolli non sono ancora noti ma è il concetto di «standard»
che fa già discutere. Contrastare la prescrizione facile è piuttosto complicato: «Due
pazienti che hanno la stessa patologia non sono uguali, possono esser affetti da altre
malattie concomitanti: insomma solo il medico può decidere ciò che è meglio per il
paziente», spiega Costantino Troise segretario dell’Anaao (medici ospedalieri). «È
importante che i criteri di appropriatezza seguano le evidenze scientifiche e non siano
applicati in maniera burocratica altrimenti rischiano i pazienti, i medici e l’intero sistema
sanitario», osserva Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe.
CHE LIMITI CI SARANNO ALLE TERAPIE RIABILITATIVE?
L’altra partita sulla quale dovremo abituarci a grandi cambiamenti, è la riabilitazione: di
solito si pensa alla fisioterapia, ma è necessaria anche per patologie oncologiche e
dell’apparato respiratorio. La prescrive il medico ospedaliero dopo un intervento o un
ricovero: fino ad oggi non ci sono limiti, con i nuovi protocolli di appropriatezza, le sedute
saranno circoscritte a seconda della reale e presunta necessità del paziente. Ad esempio,
la protesi d’anca, patologia piuttosto diffusa, che oggi può richiedere anche un mese e
mezzo di terapie riabilitative potrebbe essere ridotta a seconda di età, gravità e altri
parametri.
SARANNO RIDOTTE ANCHE LE DEGEN-ZE OSPEDALIERE TRADIZIONALI?
Aspettiamoci pure, sperando fortemente di non incapparci, meno ricoveri ospedalieri
classici e maggiori degenze a casa propria. Ci sono già 108 patologie che possono essere
curate a casa con l’ausilio del Day-Hospital (vene varicose, sincope, disturbi dell’apparato
digerente ecc.): il pronto soccorso ti prescrive la cura e ti rispedisce a casa applicando,
dove funziona, una forma di assistenza a domicilio e, con una via vai di ambulanze per la
città, medicazioni e cure giornaliere.
Ma se oggi ci sono dei margini di tolleranza percentuali fino al 40 per cento: da domani
potrebbero non esserci più.
del 29/07/15, pag. 14
Opg, addio. Parola della Consulta
Fuoriluogo. La rubrica settimanale a cura di Fuoriluogo
Stefano Cecconi, Franco Corleone
La scorsa settimana è stata pubblicata la sentenza della Corte Costituzionale che ha
respinto per totale infondatezza il ricorso promosso dal Tribunale di Sorveglianza di
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Messina contro la legge 81 del 2014 sulla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari.
Veniva contestata la violazione di ben tredici articoli della Costituzione ed aveva come
punto centrale la contestazione dell’accertamento della pericolosità sociale basato sulla
base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni
(cosiddette ambientali) di cui all’articolo 133, secondo comma, numero 4, del codice
penale e inoltre la norma per cui «non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio
di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali».
La Consulta ha dunque affermato con nettezza la legittimità costituzionale della legge 81
sia nel procedimento legislativo sia nei contenuti e in particolare conferma che un malato
povero, emarginato, senza casa o abbandonato dai servizi non può diventare, per questa
ragione, socialmente pericoloso e finire in una istituzione totale per tutta la vita, come
troppo spesso è accaduto in passato. La storia degli ergastoli bianchi nasce proprio da
questa giustizia di classe.
Si conferma e si rafforza così l’orientamento di quella che abbiamo definito una buona
legge. Il tratto più interessante della nuova norma è di avere spostato il baricentro dai
binomi prettamente manicomiali «malattia mentale/pericolosità sociale e cura/custodia» ai
progetti di cura e riabilitazione individualizzati e all’affidamento al territorio. In particolare,
confermando orientamenti espressi in fondamentali sentenze precedenti, la decisione
della Corte ha stabilito che la regola deve essere l’esecuzione di una misura di sicurezza
diversa dalla detenzione, ieri in Opg e oggi in una Residenza per l’esecuzione delle misure
di sicurezza (Rems), salvo gravi situazioni ben fondate e motivate che devono costituire
l’eccezione.
Ora non possono essere più accampati alibi da parte del Governo, delle Regioni e della
Magistratura di Sorveglianza: sono ormai passati più di cento giorni dal 31 marzo, data
stabilità dalla legge per la chiusura dei manicomi criminali, come abbiamo denunciato nel
seminario di Firenze del 14 luglio. E’ ora di abbattere questo muro di illegalità. La
situazione di centinaia di internati che sono letteralmente sequestrati in strutture che non
devono più esistere viola l’art. 13 della Costituzione che si esprime chiaramente sui modi
di restrizione della libertà personale. Lo stato di diritto non può essere calpestato
impunemente. L’associazione Altro Diritto ha raccolto 58 istanze di internati nell’Opg di
Montelupo fiorentino in base all’art. 35bis dell’ordinamento penitenziario e rivolte al
magistrato di sorveglianza competente per far cessare la violazione dei loro diritti. Viene
dai pazzi una lezione di saggezza rispetto del principio dell’habeas corpus!
Il Governo deve immediatamente commissariare le regioni inadempienti che non stanno
applicando la legge 81 e non hanno potenziato i Servizi per la salute mentale. Compito
essenziale del movimento abolizionista è vigilare per impedire il risorgere di forme nuove
della logica manicomiale che deve essere superata per sempre.
La sentenza del 24 giugno non dà adito a dubbi. Si aprono, come ha scritto efficacemente
il costituzionalista Andrea Pugiotto, «contraddizioni, tanto inedite quanto feconde, al
sopravvissuto sistema del doppio binario», sia pure a codice penale invariato. Ancora una
volta la suprema magistratura indica un percorso per la piena realizzazione di una riforma
di civiltà. I diritti, anche in questo caso, aspettano la politica.
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DONNE E DIRITTI
del 29/07/15, pag. 1/6
Bisex, ubriaca di facili costumi
Bia Sarasini
È brutale, la sentenza del processo di appello che assolve sei ragazzi imputati di stupro di
gruppo, già condannati in primo grado a quattro anni e mezzo, un fatto avvenuto a Firenze
nel 2008. Brutale non solo perché dice che il fatto non sussiste, cioè che la ragazza ha
sempre consentito a quanto avveniva, ma per la motivazione. Che usa psicologia
disinvolta e cattiva letteratura per inchiodare la ragazza a «un’energica reazione».
Successiva ai fatti, «evidentemente per rispondere a quel discutibile momento di
debolezza e fragilità che una vita non lineare come la sua avrebbe voluto consumare e
rimuovere».
Insomma, il fatto che la mattina dopo la ragazza abbia denunciato sarebbe stato il
tentativo di riscatto di una il cui racconto «configura un atteggiamento sicuramente
ambivalente nei confronti del sesso». In altri termini, è il modo di vivere della ragazza che
è stato indagato, e che fornisce la motivazione dell’assoluzione. Insomma, se l’è cercata.
Una facile, una che ci è stata. Il collegio giudicante si offenderà di parole così riduttive,
rispetto a una sentenza che si misura nelle sottigliezze di un’interpretazione. «Un rapporto
di gruppo che alla fine nel suo squallore non avrebbe soddisfatto nessuno, nemmeno
coloro che nell’impresa si erano cimentati», è forse la frase-capolavoro di questa
sentenza, rimasticamento pruriginoso di cinema e miti letterari male assimilati, per
approdare alla nebbia indistinta: nessuno è colpevole.
È la scena che crea confusione. La protagonista non rappresenta «univocamente una
predestinata vittima di violenza», come ha detto uno degli avvocati dei condannati che
hanno ricorso in appello. Una ragazza libera, dal comportamento sessuale libero.
Bisessuale, femminista, militante lgbt. Una serata in discoteca, dove si è bevuto molto,
dove c’era già stato del sesso, tra la ragazza e uno degli imputati poi assolti. Dove c’era
perfino un toro meccanico, su cui si era esibita, mentre beveva molto, tanto da essere
«malferma sulle gambe», e all’uscita portata a braccia, dal gruppo. Tanto da suscitare
domande, sia di una coetanea che degli addetti della sicurezza. A cui lei ha risposto
cercando di rassicurare, che andava tutto bene. Insisto con i dettagli, che possono
risultare urtanti e fastidiosi, perché sia chiaro cosa vuol dire sostenere la libertà di una
donna. Il confine dovrebbe risultare limpido. Essere disponibile a giochi sessuali,
sbronzarsi, avere relazioni plurime, non essere cioè una ragazza «perbene», rende di per
sé una donna consenziente, una che non può dire: no, non voglio?
È stato molto citato, giustamente, «Processo per stupro», il film di Loredana Rotondo del
1979. A me viene mente anche «Sotto Accusa», il film del 1988 di Jonathan Kaplan con
Jodie Foster nella parte della vittima e Kellie McGillies che interpreta l’avvocata che la
difende. Una storia, a sua volta ispirata a un fatto vero, molto simile a quello di Firenze.
Penso che nel nostro paese – e non solo – ci sia molto bisogno di capire cosa sia la libertà
femminile. Non coincide con l’essere irreprensibili. Anzi. E agli uomini, ai ragazzi non si
chiede di esserlo. La sessualità è un terreno aperto, i giochi e le relazioni possibili sono
molteplici, non tutto è rubricabile nel bon ton e nel buon gusto. Eppure. Sei ragazzi intorno
a una coetanea, un’amica per uno di loro, ubriaca. È così ovvio trovare tutto normale?
Risolverla con: ci sta?
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Dice la sentenza di Firenze: «E qui davvero non vi è alcuna cesura apprezzabile tra il
precedente consenso e il presunto dissenso della ragazza che era poi rimasta in “balia”
del gruppo (“ho proprio staccato la testa, ho pensato di essere morta…, non pensavo più,
non guardavo più”)». È il passaggio chiave, brutale e crudele. Perché di fronte alla scena
di una donna, ubriaca, con sei uomini, in macchina, non la ascolta.
Anzi irride, rimarcando poi la mancanza di sufficienti segni di violenza.
Ieri sera, a Firenze, proprio alla Fortezza da Basso, c’è stata una manifestazione. Con lo
slogan: «La libertà è la nostra fortezza».
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INFORMAZIONE
Del 29/07/2015, pag. 29
E ora anche la Rete ha la sua Carta dei diritti
ARTURO DI CORINTO
L’accesso a Internet è un diritto umano fondamentale». Con queste parole la presidente
Laura Boldrini ha presentato ieri la “Carta dei diritti in Internet” nella sala del Mappamondo
della Camera dei Deputati. Frutto del lavoro di una commissione di studio composta da
parlamentari ed esperti, arricchita dalle proposte raccolte in una consultazione online
durata cinque mesi, la Carta è una sorta di decalogo dei diritti esigibili in rete relativamente
all’accesso, alla privacy, alla sicurezza di chi la rete la usa per lavorare, socializzare e fare
impresa, ma offre anche indicazioni specifiche per l’evoluzione e il suo “governo” futuro.
Ispirata alle dichiarazioni dei diritti dell’uomo, la Carta non presenta delle norme giuridiche
specifiche, quanto piuttosto dei principi che potranno guidare i legislatori nella loro attività
riconoscendo il carattere “libero e aperto” della rete come bene da tutelare. A chiarire lo
spirito dell’iniziativa è intervenuto il giurista Stefano Rodotà a capo della commissione:
«Abbiamo cercato di riequilibrare i diritti esistenti in Internet. Consapevoli del fatto che si
tratta di un materia in costante mutamento che non sopporterebbe la regola giuridica
minuta e fattuale, abbiamo lavorato su principi di riferimento definiti in prospettiva».
L’idea di una “Costituzione” per la rete ha la sua genesi nelle discussioni delle assemblee
delle Nazioni Unite, gli Internet Governance Forum, che da dieci anni discutono di come
usare Internet per la pace, lo sviluppo e la democrazia. Idea lanciata nel 2005 da un
gruppo di italiani, tra cui lo stesso Rodotà e il senatore verde Fiorello Cortiana, aveva
ottenuto le adesioni di Gilberto Gil, Lawrence Lessig e Richard Stallman. Tra fallimenti e
indifferenza dei governi che si sono succeduti, questa è la prima volta che la proposta di
una Carta dei diritti digitali si trasforma in una iniziativa parlamentare di «carattere
internazionale e spirito costituzionale», ha detto Laura Boldrini durante la presentazione.
Tra i principi dichiarati, l’importanza della formazione all’uso consapevole della rete, il
diritto alla privacy e all’anonimato, il diritto all’autodeterminazione informativa, il diritto
all’inviolabilità del proprio domicilio informatico, ma anche il diritto all’oblio, il diritto cioè ad
“essere dimenticati” dalla rete quando le informazioni che ci riguardano non sono più
attuali. Questa sorta di “Costituzione di Internet” prevede anche il rispetto della net
neutrality, quel principio secondo cui nessuno può limitare o ridurre la velocità di
trasmissione della rete o l’accesso a specifici contenuti, per favorire innovazione e
mercato. La Carta afferma anche il diritto a diffondere cultura e conoscenza in rete, nel
rispetto delle leggi, e l’importanza della tutela dei consumatori da sempre la controparte
più debole nel rapporto con le aziende che in Internet offrono i propri servizi.
Insomma un insieme di diritti che riguardano tutti e che hanno l’obiettivo di costruire la
nuova cittadinanza nell’era di Internet, perché, come ha detto Rodotà, «senza cittadinanza
non c’è democrazia».
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Del 29/07/2015, pag. 36
Il colosso americano arriva in Italia nella seconda metà di ottobre.E la
sfida si sposta su Internet Ecco come le emittenti italiane si preparano a
contrastare la multinazionale di Reed Hastings
Effetto Streaming e “on demand” nel
presente della tv palinsesti fai da te
ERNESTO ASSANTE
ROMA
IL CONTO alla rovescia indica che mancano ancora due mesi e poi il tanto atteso Netflix
sarà anche in Italia. Tv on demand, su computer, tablet, cellulare. Un abbonamento e via,
si può vedere quello che si vuole, quando si vuole. In streaming, via Internet.
Inimmaginabile fino a qualche anno fa, c’è chi avrebbe detto “fantascienza”. E invece tutto
cambia, anche per chi aveva già contribuito a rivoluzionare il mercato televisivo. Prendete
Sky ad esempio. Era tv satellitare, lo è ancora, ma adesso si vede ovunque, con Sky Go e
con Sky On line: «È cambiato il contesto e per lavorare al meglio devi evolvere », dice
Andrea Scrosati, vice presidente Sky. «Noi siamo un servizio di contenuti di
intrattenimento da vivere nella maniera migliore possibile. E dato che il modo in cui questi
contenuti vengono vissuti cambia continuamente, anche noi siamo in movimento». E la
pensa così anche Chiara Tosato, direttore commerciale di Infinity, la piattaforma di
Mediaset che mette a disposizione dei suoi abbonati 6000 titoli su ogni device: «Con la
nuova tv diventa centrale la modalità di fruizione del contenuto che deve adattarsi alle
esigenze di visione personalizzata dell’utente. L’offerta di Infinity risponde alla domanda di
un mercato in continua evoluzione ».
Quindi il prossimo cambiamento, con l’arrivo di Netflix a ottobre è la tv on demand? Beh, a
dire il vero c’è già, e anche di successo, visti i 215 milioni di download in un anno del
servizio omonimo di Sky. E non è solo satellite, perché ad esempio i download di Sky Go
sono stati 28 milioni. Numeri ai quali vanno aggiunti quelli degli altri servizi, i due più
importanti come Tim Vision (260.000 utenti nel 2014, molti di più oggi con tassi di crescita
a due cifre) e Infinity (350.000 abbonati), o i numeri altrettanto interessanti di Rai, che ha
visto la sua applicazione scaricata più di sette milioni di volte. Un mercato che si espande:
nei prossimi tre anni la crescita dei servizi di tv a pagamento sarà del 17% e la tv via
Internet crescerà circa del 24%. «Saremo uno dei motori di questa crescita», sottolinea
Daniela Biscarini, responsabile di Tim Vision «con grandi investimenti sia nella tecnologica
sia nei contenuti: arriveremo a 3,4 miliardi nel prossimo triennio, ma ci muoveremo anche
verso l’acquisizione di contenuti esclusivi».
L’arrivo di Netflix fa notizia, perché il colosso americano è una multinazionale, perché a
differenza di Sky, Rai e Mediaset opera soltanto online, perché è moderno, nuovo e
trendy, perché ha numeri colossali fuori dall’Europa continentale (62 milioni di abbonati,
ricavi in crescita del 24% in un anno, 50 paesi raggiunti nel mondo). Ma non sembra
spaventare i big italiani. Scrosati: «La concorrenza tra servizi on demand si gioca su due
elementi: i contenuti e come li fai vedere. E il prezzo ovviamente». Di certo l’offerta su
abbonamento rende tutto più semplice, soprattutto se non si usa il servizio sul televisore di
casa ma con smartphone, tablet e computer: il successo della visione on demand è basato
sulla comodità del servizio ma anche sul fatto che in casa ognuno può vedere quello che
vuole. La famiglia non è più davanti a uno schermo solo, il multitasking è costante. Ma
anche se le cose cambiano, non tutto cambia. Da quanti anni si dice che la tv generalista
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è finita? Talmente tanti che oggi non se ne parla quasi più. In tutto il mondo convivono le
tv con il palinsesto, gli orari, le scadenze, quelle tematiche e quelle senza palinsesto,
completamente on demand, le ultime nate. «E alla fine vinceranno gli operatori in grado di
far convivere sistemi diversi», sottolinea Scrosati. Arriva Netflix, la tv on demand avanza
ma la maggioranza del pubblico televisivo è pigro, scorre i primi dieci o venti canali e poi si
ferma, oppure sfoglia la home page del servizio on demand e difficilmente scava nel
catalogo. Come fare, dunque, a sfuggire all’ovvio e non perdere ore a cercare “cosa
vedere stasera”? La risposta sono i “raccomandation engine”, gli algoritmi che studiano
l’utente e cercano di presentare suggerimenti adatti.
Come sarà il futuro, quindi? Difficile fare scommesse, anche perché tutto cambia con
grande rapidità e magari in qualche scantinato della Silicon Valley c’è un ragazzino al
lavoro su un’idea in grado di rivoluzionare ancora il mercato televisivo dei prossimi anni.
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
del 29/07/15, pag. 2
I sindacati preparano il «Vietnam» giudiziario
contro la riforma della scuola
I sindacati della scuola iniziano a predisporre l’artiglieria contro il governo Renzi. Flc.Cgil,
Cisl e Uil scuola, Snals e Gilda sottoporranno alla Corte Costituzionale la questione della
legittimità della legge approvata definitivamente dalla Camera il 9 luglio e firmata dal
presidente della Repubblica Mattarella il 13. La riforma lede il principio costituzionale della
libertà di insegnamento, viola le prerogative contrattuali e attribuisce al governo «deleghe
spaventosamente ampie». I punti considerati «illegittimi» sono: la chiamata diretta,
l’estromissione del ruolo del sindacato e del contratto nazionale, i rapporti tra organi
monocratici e gli organismi collegiali. Il secondo fronte della battaglia sarà aperto davanti
alla Commissione Europea. I sindacati denunciano «l’insufficienza delle misuresulla
stabilizzazione che inopinatamente esclude docenti della scuola dell’infanzia, Ata e
seconde fasce». Sotto accusa la norma sui 36 mesi «fatta per punire con il licenziamento i
lavoratori che li maturano anziché il datore di lavoro (il Miur) che non li stabilizza». Terzo
fronte del «Vietnam» giudiziario: l’impugnazione dei provvedimenti emanati senza il
preventivo parere del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione (Cspi), esautorato dalla
legge ma ripristinato con pieni poteri da due gradi di giudizio. Poi ci sarà la mobilitazione
sin dal primo giorno, con una grande manifestazione in autunno. Tutti gli studenti
scenderanno in piazza probabilmente il 9 ottobre (è la data su cui si sta ragionando al Riot
Village dell’Uds in corso a Santa Cesarea Terme, Lecce). La ministra dell’Istruzione
Stefania Giannini si aspetta «un anno scolastico molto più affascinante rispetto ai molti
trascorsi. Può darsi che la protesta che è andata in vacanza ritorni, e allora ci
confronteremo, sulla base dei fatti concreti: le scuole a settembre avranno il doppio delle
risorse per il funzionamento».
del 2/07/15, pag. 21
Una «rete» per i cervelli in fuga
Il «capitale relazionale» è la carta dell’Italia per compensare il fenomeno
L’Italia ha una tradizione consolidata di Paese d’emigranti. Si dice che ai circa 60 milioni di
italiani che vivono nella penisola se ne aggiungano altrettanti all’estero. In passato il nostro
Paese ha esportato molte “braccia” alla ricerca di lavoro; negli ultimi decenni il flusso in
uscita è stato soprattutto di “cervelli”: ricercatori, medici, artisti, imprenditori, manager,
lavoratori qualificati. Non si tratta di brain exchange ma di brain drain: il flusso netto di
capitale umano altamente qualificato è fortemente sbilanciato in uscita.
Il trend è peggiorato significativamente negli ultimi anni, complici la crisi economica e il
diffondersi di un generale senso di sfiducia da parte dei giovani nel futuro del
Paese.Secondo una ricerca Editutto, dal 2002 al 2012 hanno lasciato l’Italia circa 68mila
laureati all’anno per un totale di quasi 700mila giovani. I costi della loro formazione è
stimata in 8-9 miliardi, più o meno quanto un anno di finanziamenti all’Università. Il
Rapporto Istat 2015 segnala che tra i dottori di ricerca il fenomeno raggiunge proporzioni
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preoccupanti: tremila dottori di ricerca del 2008 e 2010 (il 12,9%) vivono abitualmente
all’estero, quasi sei punti in più rispetto alla precedente indagine (7% dei dottori delle
coorti 2004 e 2006). A fare le valigie sono soprattutto fisici, matematici e informatici. A
fronte di questi dati in uscita, la capacità di attrarre talenti da altri paesi è molto limitata. Il
costo economico di avere un saldo negativo di mobilità intellettuale è enorme.
L’esportazione di capitale umano qualificato non costituisce solo una perdita di talenti e di
quanto investito per formarli. Le innovazioni prodotte dai cervelli in fuga saranno infatti
proprietà dei Paesi in cui sono state realizzate, dai quali l’Italia dovrà in qualche modo
riacquistarle. Conseguenza del brain drain è il cosiddetto “trasferimento tecnologico
inverso” e non sorprende che l’Italia mostri un disavanzo nella “bilancia tecnologica dei
pagamenti” che misura importazioni ed esportazioni di brevetti e conoscenze tecniche. Vi
sono poi i costi relativi allo “spreco di cervelli”, collegati a chi resta in patria svolgendo un
lavoro diverso da quello per cui si è formato.
Cosa fare? Contenere l’emigrazione qualificata imponendo vincoli e adottando politiche
coercitive è un’ipotesi inattuabile in un’economia globale. Più utile sarebbe rimuovere
alcuni dei problemi di fondo nel mondo accademico e in quello del lavoro mediante la lotta
a nepotismo e baronismo, il sostegno di merito e trasparenza, l’eliminazione delle rigidità.
Un’opportunità è poi quella di valorizzare l’importante tradizione di università e ricerca del
nostro paese. Il sistema universitario è tra i più antichi nel mondo, con Bologna, Parma e
Pavia ormai prossime al millennio; l’Italia, oltre ad aver contribuito alle più grandi scoperte
scientifiche degli ultimi centocinquant’anni, ha una lunga e riconosciuta tradizione di
creatività e di pensiero imprenditoriale innovativo, con importanti riflessi sulla tecnologia
mondiale. Basti ricordare la radio di Guglielmo Marconi, il microchip di Federico Faggin, il
personal computer dell’Olivetti.
Un’altra strada importante è quella di puntare sui centri di eccellenza di cui l’Italia ancora
dispone al fine di trattenere e attrarre talenti. È una strategia che richiede notevoli
investimenti ma che può essere perseguita con successo, come dimostra l’Italian Institute
of Technology di Genova. Con circa 100 milioni di euro di finanziamenti statali l’anno (e
altri 25 raccolti sul mercato), dal 2003 l’Iit ha attratto un migliaio di ricercatori provenienti
da tutto il mondo, prodotto oltre 3mila pubblicazioni e centinaia di invenzioni e brevetti, ed
è all’avanguardia in settori quali robotica, neuroscienza, scienze cognitive, nanostrutture.
Da non sottovalutare poi un’altra carta che l’Italia può giocare per compensare, almeno
parzialmente, il saldo negativo della mobilità intellettuale: sfruttare meglio la rete degli
italiani all’estero. In altre parole sviluppare il “capitale relazionale” dei cervelli italiani nel
mondo. L’estensione del network è significativa, la sua qualità elevatissima. Vari studi
hanno evidenziato il potenziale effetto di traino della diaspora dei lavoratori della
conoscenza, con particolare riferimento ai Paesi in via di sviluppo e a condizione che
Paesi più avanzati promuovano rapporti di collaborazione fra i “cervelli” che hanno accolto
e le loro comunità di origine. In questo senso è molto interessante l’esperienza indiana
nell’implementazione della strategia della “rete”. Negli ultimi vent'anni l'India ha valorizzato
le relazioni con molti indiani che vivono all’estero, soprattutto negli Stati Uniti e in Gran
Bretagna.
La strategia è stata facilitata, tra l’altro, dagli straordinari tassi di crescita del Paese, dal
miglioramento delle relazioni internazionali, dal rafforzamento dell’alleanza economicostrategica con gli Stati Uniti in funzione di contenimento della Cina. I risultati sono stati
straordinari.L’Italia non è l’India: le dimensioni – geografiche e demografiche - sono
inferiori e l’economia è avanzata anziché emergente. L’azione di networking non può
essere quindi sviluppata negli stessi termini. Tuttavia, tanti sono i modi per risvegliare e
valorizzare il legame con il paese di origine. Ciò consentirebbe di pensare ai “cervelli”
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italiani all’estero come a un'opportunità da valorizzare piuttosto che una fuga senza
ritorno.
Marco Magnani
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CULTURA E SPETTACOLO
del 29/07/15, pag. 32
Expo , summit della Cultura «Dialogo contro i
conflitti »
Per due giorni a Milano ministri, intellettuali e artisti di tutto il mondo
Elisabetta Soglio
Sono intellettuali e poeti, professori e architetti, storici e (pochi, in realtà) politici.
Rappresentano i ministeri della cultura di tante nazioni e all’Expo, dove da tre mesi si
stanno incrociando saperi e sapori del mondo, diranno che proprio la cultura può diventare
uno strumento di dialogo fra i popoli. Simbolo nel simbolo, insomma.
Venerdì e sabato nell’auditorium che si affaccia sul «decumano» si svolge la Conferenza
internazionale dei ministri della Cultura di quasi tutti i Paesi che hanno aderito all’Expo:
saranno rappresentati i colossi del pianeta, gli Stati dell’area euro e molti mediorientali.
Dall’Afghanistan alla Cina, dal Gabon alla Grecia, dall’Iran a Israele, dal Messico alla
Palestina,dall’Oman alla Russia, dal Myanmar alla Serbia, dalla Corea del Sud agli
Emirati, dagli Stati Uniti allo Zimbabwe, per dirne alcuni. E se viene da chiedersi cosa
abbiano in comune uno con l’altro, molti di questi, la risposta sta proprio nel messaggio
che la due giorni intende mandare: il patrimonio culturale, in tutte le sue forme ed
espressioni, è l’identità e la memoria storica di popoli, di civiltà e di ciascuno di noi.
«La cultura travalica i conflitti perché esprime valori riconosciuti a livello universale e la
diversità culturale va salvaguardata perché è il primo passo sulla strada del rispetto
reciproco fra mondi e modi di vita diversi», viene spiegato nel documento intorno a cui si è
costruito l’evento. I temi su cui si cercherà un confronto sono due in particolare e si
fondono tra loro: bisogna unirsi nella difesa dai conflitti armati e dalle catastrofi naturali che
minacciano il patrimonio. Verrà ribadita la necessità di individuare «meccanismi efficienti
ed efficaci» per proteggere i beni della cultura nel mondo: sia quando a metterli a rischio è
la mano del terrorismo; sia quando la natura si ribella e all’uomo spetta il compito, se non
è riuscito a prevenire il danno, almeno di ricostruire per restituire all’umanità quanto è
andato perso. Ed ecco altre simbologie: la sala che ospiterà i lavori sarà interamente
tappezzata da fotografie di Pompei (per ribadire che l’Italia si riconosce in questo
monumento e che siamo tutti un po’ figli di questa civiltà, ma anche per dare un segnale
politico, rispetto ai disservizi dei giorni scorsi). Invece, la cartella dei lavori di ogni delegato
si aprirà con un’immagine di Palmira, patrimonio dell’Unesco che l’Isis ha trasformato in
scenografia del proprio orrore.
Il ministro Franceschini insiste sul fatto che «per la prima volta nella storia su iniziativa
italiana, si riuniscono ministri della Cultura di tutto il mondo. Fuori dai nostri confini tutti
riconoscono il ruolo guida dell’Italia nel settore della cultura non solo per il suo immenso
patrimonio culturale ma anche per le straordinarie professionalità nei settori della ricerca,
dello studio, della tutela, delle professioni legate al patrimonio. Vorrei che anche gli italiani
fossero consapevoli e orgogliosi di questo primato». «Non dobbiamo permettere che
guerre, violenze e catastrofi cancellino la memoria del passato e per questo — conclude il
ministro — serve una maggiore collaborazione internazionale».
Lavorare insieme, dunque. Dopo il benvenuto alle delegazioni nello spazio della
Fondazione Prada, venerdì pomeriggio il ministro Franceschini aprirà la prima sessione
dei lavori e darà la parola al presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Saranno i ministri
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stranieri poi ad entrare nel vivo e in molti casi sono già le loro biografie a indicare il
cammino che la Conferenza vuole seguire. Interverrà ad esempio il ministro della Cultura
egiziano, Abdel Wahed Alnabawy: «Contrastiamo il terrorismo con l’arte e la cultura», è il
suo mantra. Il ministro afghano Abdul Bari è invece un intellettuale e poeta che nei primi
anni Ottanta si era rifugiato in Pakistan e negli Stati Uniti. Tante donne, poi. A cominciare
dal direttore generale dell’Unesco Irina Bokova, per arrivare a Rula Al Bandak, che in
Palestina è responsabile del ministero del Turismo e delle antichità: giovane esponente
della minoranza cristiana palestinese, aveva accompagnato il presidente Obama nella
basilica della Natività. Iscritto a intervenire anche Kripa Sur Sherpa, ministro della Cultura
in Nepal, nominato il 23 maggio scorso dopo le dimissioni forzate del suo predecessore,
accusato di aver male gestito la fase d’emergenza post sisma.
La prima giornata si concluderà con lo spettacolo alla Scala, dove va in scena il Barbiere
di Siviglia e il sabato, sempre a proposito di eccellenze milanesi, si ripartirà con la visita
guidata al Cenacolo. La seconda sessione di lavori verrà aperta da una lectio del
professor Umberto Eco e si concluderà con la visita ai padiglioni di Expo.
A fare gli onori di casa ci sarà il commissario unico di Expo, Giuseppe Sala, che parla di
cultura da un altro punto di vista: «Oltre alla tutela del nostro immenso patrimonio, direi
che dobbiamo concentrarci sulla sua valorizzazione. Con Expo in fondo abbiamo cercato
di fare anche questo: organizzare un grande evento e approfondire contenuti per
richiamare pubblico e proporre una visita che possa proseguire nei luoghi belli del nostro
Paese, lungo gli itinerari noti e in quelli meno battuti».
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