Tra erbacce e cemento Il posto delle mandorle
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Tra erbacce e cemento Il posto delle mandorle
02-12-08 magazzino 45p16 numero 45 anno 2008 13:48 Pagina 16 CAGLIARI/LO STATO DI ABBANDONO DEL COLLE DI TUVIXEDDU Tra erbacce e cemento L’area fenicio punica più estesa del Mediterraneo, già tenuta male, minacciata da un nuovo progetto di edificazione D alla terrazza all’ottavo piano di palazzo Cubeddu l’iscrizione della tomba di Caio Rubellio è una chiazza bianca fra sepolcri, erbacce, cemento. Nell’area fenicio punica più estesa del Mediterraneo, a Cagliari, Tu mortale che passi qui questa tomba ti sia di ricordo oggi è un messaggio appena visibile grazie alla cortesia di un’inquilina del palazzo. Chiavi e cancelli privati che concedono una vista su un bene pubblico. Un patrimonio minacciato da un nuovo progetto di edificazione, avallato da Regione e Comune nel 2000 ma bloccato due anni fa dalla politica ambientalista del presidente della Regione Renato Soru. Va ancora avanti, tra sentenze e ricorsi, il braccio di ferro tra la Regione da una parte e il Comune e l’impresa costruttrice dall’altra. Adesso però, se Soru non dovesse ritirare le dimissioni – ha un mese di tempo per decidere, quindi entro il 25 dicembre – la battaglia per la difesa di Tuvixeddu perderebbe, almeno per il momento, il suo protagonista principale. Per giunta in una fase cruciale visto che a metà dicembre ci sarà una nuova sentenza. Dalla seconda guerra mondiale in poi l’area di Tuvixeddu è stata edificata senza alcun riguardo per il suo valore. Secondo l’archeologo Alfonso Stiglitz, esperto di civiltà fenicio punica e docente all’università di Cagliari, l’area è grande almeno 60 ettari e conserva quasi duemila tombe puniche scavate nella roccia. A Cartagine ce ne sono poche decine. La necropoli della Karalis, sesto secolo prima di Cristo, si affaccia ancora tra i palazzi e sopravvive nelle cantine delle ville che accompagnano il visitatore sino al colle di Tuvixeddu. Uno slalom attraverso secoli di storia inciampando qua e là su una scuola alberghiera, il liceo classico, un centro servizi del Comune e un groviglio di antenne Telecom dismesse. Si passa per Viale Sant’Avendrace, l’Appia cagliaritana che in passato collegava la città con Turris Libisonis, l’odierna Porto Torres, 235 chilometri a nord dell’isola. In questo viale ci sono la grotta della Vipera, un sepolcro di età romana scavato nella roccia per la moglie di Cassio Filippo e la chiesa di Sant’Avendrace, costruita sulla cripta dove morì il santo nel primo secolo dopo Cristo. Pezzi di storia sopravvissuta alla devastazione a mezzo cemento. I colli erano due, Tuvixeddu e Tuvumannu, ma l’unico rimasto integro è il primo, al quale si accede salendo per le ripide viuzze costellate di ville. Da lassù si vedono i monti del Sulcis, il mare del Poetto, lo stagno, la torre di San Pancrazio del quartiere vecchio di Castello e quel che rimane di Tuvumannu. Lo sguardo affonda anche su una piccola cava punteggiata di elettrodomestici arrugginiti e materiale edile. Lì a fianco, sempre nello spiazzo panoramico, c’è un ex fortino militare, palazzi no perché l’area è demanio della Marina. Intorno invece si sono compiuti disastri, come quello da cui venne su il palazzo Cubeddu negli anni 90. Ambientalisti e archeologi hanno cercato di opporsi ma una sentenza del Tar accettata dal ministero cassò le loro ragioni insieme a un vincolo del 1909. “I legislatori di cent’anni fa – spiega Stiglitz – avevano sancito la salvaguardia del paesaggio e della prospettiva con un vincolo diretto, il bene in quanto tale, e uno indiretto, legato a luce, prospettiva e decoro”. Invece il cantiere fu autorizzato ed è così che la tomba di Caio Rubellio si vede a discrezione dei privati che abitano lì. Nel decennio 70 invece era luogo cult per i giovani cagliaritani che ci organizzavano le loro feste. Musica, archeologia e mattoni. Nella necropoli di Tuvixeddu la destinazione d’uso delle tombe varia negli anni dalla discoteca al rifugio dei senzatetto. Ora sono le case e i palazzi ad alienare il paesaggio. Quelli previsti dal nuovo progetto di edificazione renderebbero ancora meno fruibile la bellezza di Tuvixeddu. Un potenziale unico per lo sviluppo di un turismo archeologico fra i più interessanti al mondo, occasione che la città sembra ancora snobbare. DANIELA PISTIS IN ATTESA DELLA SENTENZA PROSSIMA VENTURA A ll’ufficio Unesco del ministero dei Beni culturali è arrivata lo scorso settembre la candidatura di Tuvixeddu e Tuvumannu a patrimonio dell’umanità. E chissà se prima ancora di spuntare questo riconoscimento l’area archeologica riuscirà a scongiurare gli ultimi imponenti progetti di edificazione autorizzati otto anni fa. Tar e Consiglio di Stato hanno cassato i vincoli allargati voluti dalla Regione che però tira dritto per la strada della tutela integrale, chiama a sostegno il ministro Bondi e continua a far appello al Codice Urbani. Della vicenda si occupa anche il parlamento: quattro senatori del Pd, Roberto Della Seta, Amalia Schirru, Guido Melis e Francesco Sanna, hanno istituito un osservatorio permanente e mirano a un’iniziativa legislativa per estendere il vincolo. Tutto è iniziato a maggio del 2006 con il blocco di un cantiere edile sancito da una delibera della giunta guidata da Renato Soru. L’atto è conseguente al Piano paesaggistico regionale, che prevede l’inedificabilità assoluta a meno di cento metri da ogni bene culturale e ambientale. Uno scossone per il mondo della politica e l’opinione pubblica perché il progetto di edificazione era autorizzato da un accordo di programma del 2000 in base al quale le amministrazioni regionali e comunali avevano deciso che a Tuvixeddu potevano convivere nuovi palazzi e un parco di 23 ettari. Invece la Commissione per i Beni paesaggistici istituita dalla Regione sulla base del Codice Urbani ha esteso l’area vincolata. E sulle modalità di istituzione della Commissione, nata con delibera e non con un atto legislativo, si sono espressi Tar e Consiglio di Stato evidenziando un vizio formale. Nel frattempo la Regione non molla: a settembre ha disposto un nuovo blocco dei cantieri di una delle sue imprese coinvolte, la Coimpresa, riuscendo a convincere l’altra, di Raimondo Cocco, a cedere 1200 metri quadri nell’area archeologica in cambio di un diverso spazio cittadino. Il prossimo atto, atteso per metà dicembre, sarà la sentenza del Tar dopo il ricorso dell’associazione “Amici della terra” che ha chiesto l’annullamento del primo nullaosta paesaggistico concesso alla Coimpresa nel 1999. D. P. MEMORIA/AVOLA QUARANT’ANNI DOPO Il posto delle mandorle L’ 16 inferno si scatena nel primissimo pomeriggio. Dura poco meno di mezzora. Il vento riporta in faccia ai poliziotti – una novantina, più tardi se ne aggiungerà un altro centinaio – il gas dei lacrimogeni. Subito dopo la sparatoria: ad alzo zero, come fa vedere, per dare “l’esempio”, un ufficiale (ovviamente) mai identificato impugnando un moschetto: forse è proprio lui – lo ricordava quattro anni fa Giorgio Frasca Polara in un articolo su Liberazione – il comandante invocato tutta la notte da un celerino ricoverato all’ospedale di Siracusa: “Comandante! Comandante! È un’infamia… È il tiro al bersaglio… Lasci stare la pistola! Così li stiamo ammazzando!”. Lunedì 2 dicembre 1968, Avola, provincia di Siracusa. Tra piante di agrumi e mandorleti, poco lontano dal paese, a Chiusa di Carlo, i braccianti bloccano la statale che porta a Noto. La lotta, in corso da settimane, ha tre obiettivi: l’aumento delle paghe (trecento lire in più); l’abolizione delle due zone salariali in cui è diviso il siracusano (nell’Italia delle gabbie retributive, che per fortuna di lì a poco cadranno, il muro tra nord e sud ritaglia in due aree anche la provincia siciliana); l’avvio delle commissioni paritetiche deputate a controllare il rispetto dei contratti – quindi pure a contrastare il caporalato –, istituite nel ’66 ma ancora inesistenti. L’aggressione poliziesca lascia sul terreno due morti – Angelo Sigona, 25 anni, di Cassibile, e Giuseppe Scibilia, 47 anni, di Avola – e quarantotto feriti. “Il posto delle mandorle”, il nome con cui quella terra è conosciuta – lo ricorda nella sua corrispondenza Mauro De Mauro, il giornalista dell’Ora poi rapito e ucciso dalla mafia –, diventa luogo di morte. Le motorette dei braccianti che bruciano – gli agenti hanno colpito di proposito i serbatoi – la strada lorda di sangue, e bossoli, bossoli ovunque: il deputato comunista Nino Piscitello, alla fine della giornata, ne raccoglierà più di due chili. Martedì 3, mentre lo sciopero generale blocca tutta l’Italia, gli agrari vengono richiamati al tavolo del negoziato da un governo dimissionario già da novembre – il governo “balneare” di Giovanni Leone, ministro degli Interni è Franco Restivo, sono in corso i colloqui per un nuovo centrosinistra guidato da Mariano Rumor e proprio Avola ha complicato le cose – e dopo quindici ore di trattativa sono costretti a capitolare. I fatti di Avola sembrarono segnare in quegli anni un punto di non ritorno. L’agraria, la vecchia agraria ottusa e avara – ferocemente reazionaria anche lì, come nelle campagne di Siracusa, le tecniche agricole erano assai più avanzate che altrove e uno si sarebbe immaginato un padronato un po’ più duttile –, questo particolarissimo ceto di possidenti con corredo di paghe basse e mercanti di braccia, pareva uscire di scena; e la polizia, di cui si tornava a chiedere il disar- mo nei conflitti di lavoro, tranne che a Battipaglia qualche mese dopo, non userà più le armi. Il ritorno del caporalato – vittime oggi i braccianti extracomunitari – e, su un altro versante, lo spirito che informa gli uomini in divisa – molti degli uomini in divisa – durante le manifestazioni di piazza – non si spara più ma la violenza può assumere altre forme, innanzitutto l’offesa della dignità delle persone: vedi Bolzaneto –, tutto questo ci dice, ancora una volta, che la storia non è mai una linea retta tesa verso il progresso. GIOVANNI RISPOLI Ai fatti di Avola, che l’1-2 dicembre sindacati e istituzioni hanno ricordato con una serie di iniziative, il 2 dicembre RadioArticolo1 ha dedicato una puntata di Ellecult con la partecipazione di Giacinto Militello, all’epoca segretario nazionale della Federbraccianti, Gino Carnevale, segretario generale della Cgil di Siracusa, e Claudio Giardullo, segretario generale del Silp Cgil (la puntata è disponibile in podcast su Radioarticolo1.it).