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INS II e III 1/2 pagina (Page 2)
ANNO XI NUMERO 284 - PAG III
IL FOGLIO QUOTIDIANO
VENERDÌ 1 DICEMBRE 2006
ATTACCO ALL’OCCIDENTE
Il Papa scalzo nellaTurchia che arresta al Qaida
ALLA MOSCHEA BLU. LA STAMPA ELOGIA BENEDETTO XVI E SMORZA LE MINACCE DEI TERRORISTI
Istanbul. Ieri Benedetto XVI ha fatto il
suo ingresso nella moschea blu di Istanbul
a piedi scalzi, accompagnato da alcuni religiosi musulmani: con loro ha osservato un
minuto di silenzio e scambiato doni che rappresentano la pace, delle colombe. Il Pontefice aveva già fatto cambiare opinione al
paese contro molte aspettative: “Il Papa ha
conquistato il cuore dei turchi”, ha scritto
un importante giornale, Posta.
La giornata di ieri è stata dunque particolarmente carica di simbolismo per le relazioni tra musulmani e cristiani. Anche chi
era sceso in strada a settembre per manifestare contro le parole pronunciate da Joseph Ratzinger a Ratisbona ha potuto apprezzare un Papa scalzo che entra in una
storica moschea. Prima di lui era successo
soltanto a Giovanni Paolo II: era il 2001, a
Damasco, e l’allora pontefice visitò l’enorme moschea degli Ommayyadi, in cui la tradizione vuole che siano conservate le spoglie di Giovanni Battista, uno dei profeti per
l’islam. La moschea blu di Istanbul è una
delle più importanti e belle del mondo islamico. Costruita agli inizi del XVII secolo, è
chiamata così per il colore delle maioliche
che la decorano. Il numero dei suoi minareti, sei, è superato soltanto dalla moschea
della Mecca, che ne ha sette.
A pochi passi c’è Santa Sofia, che il Papa
ha visitato, nel tardo pomeriggio, prima di
entrare in moschea. L’intera zona, una delle aree più turistiche di Istanbul, è stata isolata dalla polizia ancora una volta, incastrando nel traffico un’intera megalopoli.
Le misure di sicurezza sono state massicce
poiché i Lupi grigi, gruppo nazionalista extraparlamentare, avevano minacciato una
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Ankara puntualizza su Bartolomeo I
Forse la più lunga giornata di Benedetto
XVI in Turchia, la quarta, si è svolta tutto
sommato con tranquillità. Il Papa ha detto
che non dimenticherà mai la moschea ma è
sembrato soddisfatto anche del giro turistico a Santa Sofia. Oggi è un museo. L’immenso edificio è stato prima sede del patriarcato ortodosso di Costantinopoli. Nel
XIII secolo è stato trasformato in cattedrale cattolica. Solo nel 1453, alla caduta dell’impero romano d’oriente, è diventata una
moschea. Kemal Atatürk, nel suo sforzo di
laicizzare la nazione, nel 1935 ne fece un
museo. Non ha pregato, Benedetto XVI, all’interno, come fece Paolo VI nel 1967, in
occasione della sua visita in Turchia, creando più di un imbarazzo diplomatico. I nazionalisti e i partiti islamici si opponevano
alla visita in Santa Sofia, vedendo in questa
un tentativo della Santa Sede di “ripren-
dersi” l’antica chiesa.
E’ stata una giornata importante sul piano delle relazioni con l’islam e fondamentale sul piano di quelle con la chiesa ortodossa. Benedetto XVI ha assistito alla messa nella chiesa patriarcale di San Giorgio, al
termine della quale ha firmato un documento congiunto con il patriarca Bartolomeo I. Nel testo, l’unità della cristianità è
definita uno strumento di evangelizzazione,
ma il documento torna anche su un tema caro a Ratzinger: la necessità di curare un’Europa ferita dal laicismo. Gli incidenti diplomatici non sono arrivati da Santa Sofia, ma
il governo turco non ha gradito che il Pontefice si sia rivolto a Bartolomeo con il titolo di cui si fregia: “Patriarca ecumenico”,
universale. “Il patriarcato è un’istituzione
turca, così lo considera la legge”, ha detto il
portavoce del ministro degli Esteri. E’ stato
questo l’unico momento di tensione in una
visita che ha visto il Papa lontano dalla popolazione soltanto fisicamente. A parte l’intima messa di Efeso, di fronte ai fedeli, pochi lo hanno visto.
Oggi, Benedetto XVI celebrerà una messa alla cattedrale di Santo Spirito. La chiesa è piccola, spiega al Foglio padre Atanasio, da vent’anni parroco della chiesa di
Sant’Antonio, nel cuore commerciale di
Istanbul. Ieri mattina, il prete polacco ha
fatto montare davanti al suo altare un maxi
schermo. Ha mostrato la diretta della messa al patriarcato ortodosso ma, spiega, “non
avevo ancora avvertito nessuno e sono arrivati in pochi”. Oggi, invece, si aspetta moltissime persone. “Mi hanno chiamato in tanti, verranno sicuramente anche i musulmani per vedere la messa del Papa”. (ro.scol)
La“sorella”di Pamuk contro il buio nazionalista
ELIF SHAFEK, ACCUSATA PER UN LIBRO SUL GENOCIDIO ARMENO, CRITICA LA SOLITA EUROPA
me”. Mughniyah, purtroppo, non è solo un nome e neppure un mito
creato dai servizi di sicurezza occidentali e israeliani. Cronache attendibili della sua vita ci dicono che nel settembre del 1991 sua moglie
Saada Badr al Din, sua figlia Fatima nata nel 1984, e suo figlio Mustafa, nato nel gennaio 1987, l’hanno raggiunto in Iran. Il trasferimento è
dovuto a ragioni di sicurezza e di praticità. Il Libano rischia di diventare anche per loro una trappola infernale. Le squadre di eliminazione del Mossad e della Cia continuano la caccia a Imad. In quella guerra sporca anche mogli e figli possono diventare una preda. Anche
Imad non torna in Libano volentieri. Lavora quasi a tempo pieno all’interno dell’organizzazione dei pasdaran iraniani. Secondo fonti d’intelligence israeliane
e americane gli israeliani gli hanno affidato la
responsabilità di un’unità della Brigata Gerusalemme (al Quds) il reparto dei pasdaran incaricato delle operazioni speciali. “Mughniyah si allontana progressivamente dalle attività quotidiane e si avvicina sempre più alle Guardie della rivoluzione. Mughniyah ormai agisce e opera come una risorsa dei pasdaran svolgendo ruoli importanti in molti
ambienti operativi e realizzando obbiettivi legati alla politica estera iraniana. D’altra parte la protezione delle Guardie, le loro infrastrutture e le loro risorse garantite dallo stato conferiscono a Mughniyah una posizione di spicco anche all’interno di Hezbollah”. Secondo altre fonti d’intelligence americana Mughniyah non ha mai abdicato al suo ruolo di dirigente di Hezbollah e di responsabile della sicurezza esterna dell’organizzazione. Una parziale conferma verrebbe
dalle foto dei componenti della Suprema Shura divulgate dopo le nomine del 2001. L’unico esponente del Consiglio direttivo di cui non esista un’immagine viene identificato come Jawal Noureddin, un nome
senza riscontri nella passata gerarchia del Partito di Dio. I dirigenti di
Hezbollah se la cavano spiegando che il misterioso Noureddin è il responsabile della sicurezza del partito e come tutti gli uomini del mondo con questo tipo di incarico non può venir identificato.
Gian Micalessin
Foto Reuters
Istanbul. Per Elif Shafek, giovane scrittrice turca accusata di insulto alla Repubblica e all’identità, la visita del Papa è un
evento importante sia per il suo paese sia
per l’Europa. Al Foglio spiega perché non
si è mai aspettata una grande opposizione
al viaggio di Benedetto XVI. Shafek – nel
suo romanzo “Baba ve Piç” (Il padre e il bastardo) – racconta la storia di quattro donne armene e di uno dei loro figli, rimasto in
Turchia negli anni del genocidio (1915-1917)
e convertitosi all’islam. La sua colpa è stata semplicemente quella di raccontare il
genocidio, che rimane un tabù e insieme un
buco nero nella memoria collettiva della
nazione turca. E’ nata in Francia ed è vissuta in Spagna, ha studiato in Turchia e negli Stati Uniti, prima della gravidanza faceva avanti indietro tra l’Arizona, dove insegna all’università, e Istanbul. Ha una bambina di poco più di due mesi, nata proprio
nei giorni in cui il tribunale di Istanbul liberava lei dalla grave accusa. Come il premio Nobel per la letteratura, il turco Orhan
Pamuk, Shafek è stata una delle tante vittime del controverso articolo 301 del Codice
penale, introdotto soltanto nel 2005 da
Ankara. La bella scrittrice, capelli biondo
cenere e taglia fine, racconta anche nei
suoi commenti che compaiono su numerosi giornali turchi, l’amnesia storica del paese e il suo passato multiculturale, multietnico e religioso che crea una crisi identitaria intensificata dalla posizione del paese,
ponte tra Asia ed Europa.
Per Shafek la visita del Papa “ha implicazioni importanti sia per la cristianità sia
per il mondo islamico – ha spiegato al Foglio in un caffè di un sobborgo chic di Istan-
d’Israele (da trent’anni)
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manifestazione vicino alla moschea blu. E’
stato impossibile, per gli organizzatori, avvicinarsi. Poche decine di persone hanno
protestato nei pressi dell’università e qualche isolato personaggio ha gridato vuoti slogan contro Benedetto XVI per l’intrattenimento delle annoiate telecamere. Nessun
incidente, se non l’inquietante notizia dell’arresto di 18 membri di al Qaida in Turchia, che quasi tutti i giornali hanno tenuto
bassa. La polizia assicura che l’operazione
non è legata alla visita del Papa. Difficile
crederlo, però, ventiquattr’ore dopo il comunicato di “al Qaida in Iraq”, apparso su
Internet, che ha attaccato la visita definendola una crociata per far uscire la Turchia
dal mondo islamico.
bul – perché viviamo in un mondo polarizzato dove si pensa che cristianesimo e
islam non possano coesistere”. Per lei, Benedetto XVI in questa visita “ha assunto un
tono molto flessibile. Se chiarisce che non
esiste relazione diretta tra islam e violenza,
obbliga altri a essere più moderati”.
“Una nazione di amnesia collettiva”
Anche per Shafek, come per altri in Turchia, il viaggio del Pontefice è politico, non
teologico. “Quando il Papa fa dichiarazioni
negative viene visto come un simbolo di
islamofobia e turcofobia che crea risentimento e fomenta il nazionalismo”. In Turchia è il nazionalismo la grande minaccia,
secondo la scrittrice. Per questo motivo
considera fondamentale l’entrata di Ankara nell’Unione europea. “Allontanare la
Turchia dall’Europa significa dare potere
ai nazionalisti”. Non è il radicalismo islamico a spaventarla. “Perché il nazionalismo è più profondo, emozionale, radicato
nella società”. Sono stati i nazionalisti, assieme ai movimenti islamici più radicali, i
maggiori oppositori della visita di Joseph
Ratzinger nel paese. Elif crede che gli
estremismi creino altri estremismi e che
esista un legame tra l’islamofobia in occidente e l’antioccidentalismo in oriente che
“dobbiamo rompere”. L’entrata della Turchia è positiva anche per l’Europa, dove il
problema dell’immigrazione islamica diventa sempre più centrale.
“‘Possono islam e democrazie occidentali convivere?’ – si chiede. Su questo non
dobbiamo fallire”. Shafek racconta una
Turchia focalizzata sul futuro e non sul suo
passato storico. “Una nazione di amnesia
collettiva, fondata sull’amnesia”. Si riferisce alla rivoluzione linguistica sociale e
culturale portata avanti da Mustafa Kemal
Atatürk con la nascita della Repubblica nel
1923. “Quando si soffre di amnesia del passato non si ha la conoscenza di se stessi.
Per me è una responsabilità ricordare”. Il
laicismo europeo è un esempio importante,
dice Shafek. La tradizione laica europea ha
sviluppato democrazia: “Lo stato dovrebbe
mantenere la stessa distanza da tutte le religioni, ma non è il caso del mio paese
quando si tratta di minoranze ‘non’ islamiche”. Il Papa ha dimostrato solidarietà alle
minoranze cristiane della Turchia e ha parlato in favore della libertà di religione, tema controverso in Turchia e cui la Chiesa
di Roma si è mostrata spesso sensibile.
Nonostante ciò, dice Shafek, l’opposizione alla visita del Papa è stata limitata: “La
popolazione si è opposta a una dichiarazione, non alla cristianità. Molte persone sono
contente che il Papa sia in Turchia. E’ necessario capire che l’islam non è un blocco
unico, esistono differenti interpretazioni e
noi, in Turchia, siamo diversi dal resto del
medio oriente. La religione non è un’entità
congelata”. E’ gelosa della sua vita privata
ed è impaziente di tornare da Shehrazade
Zelda, la sua bambina. L’ha chiamata come
la principessa delle Mille e una Notte e come la moglie di F. Scott Fitzgerald: “Mentre
partorivo ho sconvolto i dottori: recitavo
pezzi del Grande Gatsby”. “Posso essere
processata ancora – spiega – ma questa storia ha un lato scuro e uno luminoso”: l’enorme solidarietà ricevuta da Elif dalla società civile e dall’intellighenzia turca.
Rolla Scolari
Nella legione straniera, dove marci o muori
arcia o muori è il motto della legione straniera, ma Gian Micalessin, giornalista da prima linea, l’ha vissuto sulla sua pelM
le dall’Afghanistan al Kosovo. Nel 1983, quando abbiamo iniziato
ad appassionarci ai reportage di guerra, eravamo al seguito dei
mujaheddin, i partigiani afghani che combattevano gli invasori
dell’Armata rossa. Vestiti come loro, con turbante, mangiavamo
quel poco che passava il convento e rischiavamo sotto i bombardamenti aerei dei sovietici, per raccontare una delle tante guerre
dimenticate. Centinaia di chilometri a piedi e un po’ a cavallo, fra
i monti e le pietraie afghane, dove il caldo soffocante di giorno e
il gelo di notte ti facevano schiattare. Per portare a casa la pelle e
il pezzo valeva solo un motto: marcia o muori.
Una quindicina d’anni dopo nel Kosovo serbo, dove nasceva la
guerriglia indipendentista, Gian e io ci siamo ritrovati di nuovo assieme in prima linea. Dopo essere finiti in un’imboscata dei serbi, con i proiettili traccianti che schizzavano davanti ai piedi, ci
siamo salvati per miracolo. L’unica via di fuga erano le Alpi “maledette” al confine con l’Albania. Un tragitto impervio e pericoloso da percorrere di notte, perché all’alba gli elicotteri sono venuti a cercarci come avvoltoi. Anche questa volta, marcia o muori, e
ce l’abbiamo fatta, portando a casa un buon reportage.
La bravura e la dedizione di Gian nel giornalismo di guerra è
nata con la scuola dell’Albatross, un’agenzia di tre giovani free
lance triestini che volevano girare il mondo, raccontare i conflitti e guadagnarsi la pagnotta alla rincorsa di una vita spericolata,
come cantava Vasco Rossi. Micalessin è uno dei tre e quando iniziò questo mestiere lo chiamavamo affettuosamente “Gian banana”, per il suo ardito ciuffo di capelli. Oggi ha 46 anni, una pelata come Yul Brynner e quasi un quarto di secolo di giornalismo
in prima linea alle spalle. Con i suoi articoli e reportage filmati
ha raccontato oltre trenta conflitti, documentando le guerre più
famose e quelle più ignorate.
In Mozambico, il 19 maggio 1987, abbiamo perso il pilastro dell’Albatross, Almerigo Grilz, il primo giornalista italiano ucciso in
battaglia dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Anche Gian ha avuto le sue disavventure come nello Yemen, in
guerra fra nord e sud, quando l’hanno sbattuto in una sordida ga-
lera non molto diversa dai tempi avventurosi di Lawrence d’Arabia. Oppure in Somalia, dove per settimane non sapevamo più nulla di lui e guardavamo sconsolati le mappe del desolato paese del
Corno d’Africa travolto dal caos della guerra civile. Per non parlare dell’Iraq, quando per raggiungere i soldati italiani a Nassiriyah ha sfidato la rivolta degli estremisti sciiti dell’Esercito del
Mahdi.
Ogni volta è riuscito a cavarsela affinando il suo modo di scrivere e trasformando gli articoli dal fronte in racconti tragici ed entusiasmanti allo stesso tempo. Indimenticabili i pezzi sul genocidio in Ruanda, con braccia e gambe delle vittime sepolte sbrigativamente nelle fosse comuni, che spuntavano dalla terra e diventavano pasto per i cani. Oppure da Grozny, dove ha raccontato
la guerra spietata, fra ceceni e russi, una vera bestia nera che fa
venire un brivido lungo la schiena a tutti i reporter che l’hanno
vissuta.
Gian non è solo un giornalista di penna. All’Albatross si è fatto
le ossa con le vecchie macchine fotografiche reflex e poi ha raccolto da Almerigo il testimone dei reportage filmati. I suoi sono gli
“occhi” della guerra come dimostrano le prime foto di battaglia
dalla giungla birmana dei partigiani Karen, oppure i filmati nei
Balcani. Un cacciatore di immagini, che non s’inventerà mai un
pezzo dal fronte al bordo della piscina di un grande albergo.
Il medio oriente lo ha rapito e assieme siamo tornati a vivere i
reportage sulla seconda Intifada dividendoci ogni mattina il fronte palestinese o israeliano, Gaza o Ramallah, Gerusalemme est e
ovest. Una volta l’hanno scambiato per israeliano nelle roccaforti palestinesi, ma un’altra è riuscito a intervistare il bombarolo del
Jihad o delle brigate di Hamas super ricercato. In Libano girava
con un ex miliziano cristiano, ottima guida nel sud roccaforte degli sciiti, mentre altri colleghi si facevano imbeccare da interpreti partigiani. Finalmente ha messo a frutto la sua esperienza sul
terreno per scrivere “Hezbollah, il partito di Dio del terrore e del
welfare”. Il problema è che Gian non ha mai tempo, fra articoli e
filmati, neppure, come lui stesso scrive, per sposarsi e fare figli.
La sua vita è il campo di battaglia.
Fausto Biloslavo