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Memorie preziose sul dopoguerra siciliano
Silvestro Livolsi
STORIA E SOCIETA’
Si presentano alcuni scritti di Francesco Jovine, Jean Cocteau ed Elsa de Giorgi frutto di un loro viaggio in Sicilia negli anni
della guerra e della ricostruzione
Un quadro articolato e problematico della Sicilia del secondo dopoguerra, dibattuta tra istanze
separatistiche, ricostruzione e prime prove di autonomia, vien fuori dai reportage e dai diari dello scrittore
molisano Francesco Jovine, dell’attrice Elsa de Giorgi e dell’autore e drammaturgo francese Jean Cocteau.
Di seguito si offre una descrizione degli scritti e un’analisi del commento come stimolo ad un’utile rilettura
di scritti poco conosciuti di notevole interesse.
1. Jovine
Nell'autunno del 1945, lo scrittore molisano Francesco Jovine, venne in Sicilia, per seguire, come
inviato del quotidiano romano L'Epoca, i fermenti separatisti che agitavano l'isola. Jovine, autore già noto e
apprezzato per il suo romanzo La signora Ava (pubblicato nel '43), e per il suo impegno sociale sui temi e le
battaglie del meridionalismo, dal 27 ottobre al 13 dicembre, tenne, per il quotidiano diretto da Leonida
Rèpaci, una temporanea rubrica dal titolo “Separatismo siciliano” e in dieci articoli raccontò storie e
personaggi, passioni e umori, grandezze e miserie della Sicilia del dopoguerra.
Nel suo primo pezzo, del 27 ottobre, che ha per titolo 24 ore di Repubblica, Jovine informa che il
separatismo in Sicilia è davvero “nell'atmosfera e si giova di cento, mille ragioni, di innumerevoli impulsi
sentimentali, delle sottigliezze bizantineggianti degli avvocati, del candore degli illusi, delle torbide mene dei
reazionari, degli inconfessati interessi di gruppi politici e di clientele, della rozzezza mentale del popolo”.
Ma, constata Jovine, gli effetti concreti che gli agitatori del movimento separatista riescono a realizzare,
mischiandosi a briganti e criminali, ai quali chiedono aiuto e sostegno, sono gli assalti a piccoli e spesso
remoti e isolati municipi (Falcone, Montelepre, etc.) e l'instaurazione di fragili repubbliche locali che
durano a malapena un giorno, per svanire l’indomani.
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Nel pezzo successivo, in Sguardi verso cielo, del 31 ottobre, Jovine affronta un tema drammatico per
l’isola, denunciando la grave mancanza di energia elettrica, che rallenta la produzione nei luoghi di lavoro;
la sera fa assomigliare a catacombe, gli alberghi palermitani, con i corridoi e le stanze a malapena illuminate
con le antiche ‘lumere’ ad olio; e rende invidiosi i messinesi che al buio, di notte, vedono, ‘sfolgorante di
luce’, Reggio Calabria, al di là dello stretto.
“Tutti i giorni la Sicilia ha luce appena sufficiente per prendere coscienza delle sue tenebre”,
constata Jovine. Ed è questo solo un aspetto della grave e diffusa precarietà che caratterizza l’Isola e che
acuisce la voglia, di parte del suo popolo, di staccarsi dal continente, come continua a mostrare Jovine nel
suo articolo del 1 novembre dal titolo Viva la 49° stella, ricostruendo storicamente i sentimenti separatistici,
nati subito dopo il Risorgimento e ora incanalati in una consistente presenza organizzata, politicamente e
militarmente, soprattutto a Palermo, anche se variamente composita. Del movimento separatista, infatti,
nel capoluogo vi è un’ala ultra-conservatrice di cui fanno parte “un manipolo di baroni e marchesi decaduti
che ronza attorno ai pochi rappresentanti di famiglie principesche dal patrimonio ancora solido”, sotto la
guida della principessa Lanza di Trabia (“che è ancora donna piena di fascino, di mente perspicace e incline
all'intrigo politico”), che vorrebbe liberare la Sicilia e consegnarla al Re; un altro gruppo di latifondisti e
nobili parteggia, invece, per il “paternalismo illuminato” del primo sindaco separatista della città, Lucio
Tasca Bordonaro, ritenuto un agricoltore modello, che conduce delle tenute con i più arditi ritrovati della
tecnica agraria, non dimenticando neppure di preoccuparsi del benessere dei contadini. Tutti però hanno
un obiettivo comune e primario: “Immunizzarsi dal bacillo rosso” (come recita il titolo dell'articolo del 3
novembre), e fanno proprie le parole pronunciate dal leader maximo del separatismo nell'isola, l’on.
Finocchiaro Aprile: “le classi sociali, i partiti, i gruppi politici che paventano il comunismo, se vorranno
salvarsi non avranno che un mezzo: fare un blocco e aderire all'indipendenza della Sicilia”.
Per realizzare questo obiettivo e per mantenerlo, annota Jovine in Maffia che nasce e maffia che muore
(dell’8 novembre) “i separatisti pensano che la ‘Maffia’ sia sicuramente un elemento di ordine”, poiché “in
una regione che soffre della progressiva disgregazione molecolare dei poteri pubblici, in cui domina una
violenza armata imponente, sanguinaria, tumultuosa, sorprendente, senza carattere deciso o stabile, sia da
preferire un’altra violenza limitata nei fini, nei mezzi, di volto domestico di cui si conoscono il linguaggio e
il codice, che ubbidisce a norme abiette, ma tradizionali e inviolabili”. Nota però Jovine che la vecchia
criminalità organizzata sta mutando nelle forme, nei metodi, negli obiettivi della sua corsa al denaro e al
potere, traendo ispirazione dal gangsterismo di stampo nordamericano.
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Esempio di questa trasformazione della Maffia a Jovine pare di vederli in Papuzza, il capo mafia di
Adrano, grosso centro agricolo del catanese. Delle sue gesta e della sua ramificata organizzazione (“ha tre o
quattromila seguaci sparsi in tutta la provincia di Catania, perfettamente organizzati, la maggior parte dei
quali vive mescolata alla gente comune, ma ubbidisce fanaticamente agli ordini dell'invisibile capo”), Jovine
scrive, il 13 novembre, in Papuzza inaridisce le fonti. E se Papuzza spadroneggia nella parte orientale dell'isola,
a comandare nei grandi feudi della Sicilia centro-occidentale sono i campieri che a colpi di lupara si stanno
adoperandosi peri rendere vani i tentativi di riforma agraria voluti dal ministro Gullo: e sparano sui
contadini che vorrebbero avere la giusta parte dei prodotti dei campi, che hanno coltivato e raccolto col
loro lavoro. L'articolo I campieri sparano dalle alture (del 15 novembre) di queste violente intimidazioni dà
conto e soprattutto della triste vita dei braccianti e dei contadini giornalieri.
Dell’inferno delle miniere, invece, dove non vi è limite d’età in chi vi è condannato a lavorare, a
causa della miseria, Jovine parla nell'articolo Il divertimento del Caruso (del 17 novembre) raccontando della
sua visita alla miniera di Trabonella, dove a colpirlo, tra l’altro, è l’incontro con un ragazzo di dieci anni, di
nome Michele Milanese. È “bello, di tenere membra, di viso sottile e dorato con grandi occhi azzurri
pesanti e di antichissima malinconia”; ha addosso “come soli indumenti, un paio di mutandine tutte a
toppe, incrostate di mota e un cappuccio fatto con un cencio di impermeabile”. Pronuncia una sola parola:
“travagghiu”, ma viene subito ripreso dal capomastro che, mentendo spudoratamente, dice allo scrittore
che il bambino è lì per giocare a impastare lo zolfo.
Una visita a Catania,poi, diventa l'occasione per constatare come i pochi tentativi dell’imprenditoria
locale vengano vanificati dalla burocrazia nazionale: in Fiammiferi senza fosforo (uscito il 24 novembre), Jovine
racconta la tragicomica vicenda capitata ad un’impresa catanese che vedendosi negare pretestuosamente dal
governo l'autorizzazione a produrre fiammiferi, mette ugualmente in commercio, clandestinamente, le
poche quantità che aveva già realizzato: solo che questi fiammiferi, viene detto a Jovine, forse perché
“adombrati seriamente, per l’ostile trattamento, si rifiutarono d'accendersi, non solo sulle lastre di vetro
come si prometteva nella loro confezione, ma finanche sulla carta vetrata”.
È un’isola scandagliata in ogni sua parte, quella che prende corpo negli ampi racconti di Jovine,
ricchi di storie e di aneddoti, di rilievi e riflessioni che, ricercando le ragioni dei separatisti, illuminano sulla
realtà complessa del dopoguerra, sul feudo e indagano sul carattere e l’identità dei siciliani, sui loro pubblici
comportamenti. Il suo ultimo articolo dalla Sicilia dal titolo Esportazione dei cervelli, del 13 dicembre, offre il
ritratto del pubblico impiego isolano, della piccola e media borghesia impiegatizia che trasforma il suo
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ruolo di servizio in potere e crea attorno alla sua funzione, abusandone, clientela e sudditanza, perpetuando
così, nel rapporto tra cittadini e rappresentanti dello Stato, modi e mentalità feudali e borboniche. Per
questo gran parte dei funzionari siciliani parteggia per il separatismo: vogliono amministrare
“sicilianamente” – secondo i loro interessi e scopi personali – l’isola, allontanando il controllo del centro,
del governo e della politica nazionale.
2. Cocteau
Nella primavera del 1951 il grande scrittore francese Jean Cocteau intraprese un viaggio in Italia che
si concluse con un soggiorno di diversi giorni in Sicilia. Le impressioni della sua visita all’Isola, Cocteau le
appuntò in un testo manoscritto dal titolo Salut a la Sicile; testo che qualche anno dopo, nel marzo del 1953,
venne pubblicato sulla prima uscita di ‘Sicilia’, un mensile che nasceva in quell’anno per volontà
dall’Assessorato Turismo e Spettacolo della Regione Siciliana, che era edito da Flaccovio e che aveva per
redattori e collaboratori nomi importanti del giornalismo e dell’intellettualità siciliana.
Nel suo scritto, Cocteau constata che la Sicilia non è solo la terra delle grandi monumentalità
archeologiche e architettoniche né tanto meno l’isola del sole, pittoresca e folklorica, raccontata da tanti
viaggiatori frettolosi e disattenti che avevano diffuso stereotipi e luoghi comuni per turisti superficiali e
sprovveduti. “Non ci sono solo rovine in Sicilia e commoventi testimonianze di un passato con il quale
tutte le civiltà si sono sposate”, scrive Cocteaua iniziando il suo breve reportage che prosegue col dire:
“non ci sono solo le strade solitarie dove circolano i carretti dipinti con scene della Bibbia, trainati da
cavalli piumati che sembrano dover partecipare ad un torneo”. E poi, continua Cocteau, con chiaro
riferimento ai suoi sopralluoghi a Segesta e a Monreale: “non ci sono solo i templi morti e i chiostri con i
mosaici colorati”. E ancora, riferendosi alla singolare Villa Vilguarnera, visitata a Bagheria, con i suoi
ambienti grotteschi e fiabeschi, l’enfant terrible della letteratura francese, rileva: “non ci sono solo i giardini
della Bella e la Bestia e le terrazze battute da ondate di profumi”. E pensando al tragitto che dopo Palermo
e Trapani l’ha condotto per la remota e deserta campagna dell’entroterra, tra campi infiniti e dimore
patrizie, Cocteau, annota: “non ci sono solo i fuedi misteriosi piene di specchiere nere e di busti che
tendono le mani fuori dalle nicchie”.
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L’isola che Cocteau, in lungo e largo osserva nel suo viaggio, gli sembra contenga, oltre alla
magnificenza del suo passato – vistoso, importante e consistente – qualcosa di nuovo e progressivo: un
mondo del lavoro che sta dando vita a grandi opere di grande impatto sociale ed economico e una
popolazione tutta, che, uscita dal buio e dalle devastazioni della seconda guerra mondiale è impegnata nella
ricostruzione materiale e morale dell’isola: e pieno d’ammirazione, Cocteau mette ben in evidenza che “c’è
una grande diga in costruzione vicino a Troina, dove ingegneri e operai sembrano volare su carrelli sopra la
voragine, c’è Palermo che ricostruisce il suo Duomo, è c’è lo sforzo di tutte le persone per connettere il
passato con il futuro, ed essere così degne della loro autonomia, e alle quali – così concludeva il suo testo
Cocteau – “auguro buona fortuna con tutto il cuore”.
Ma quel tour siciliano del ’51 non fu per Cocteau solo motivo di esplorazione diretta ed entusiastica
di un’isola apprezzata per la sua storia, per il suo notevole patrimonio naturalistico e culturale e per la sua
volontà di crescita economica; fu anche l’occasione per un incontro del tutto particolare e fortemente
intenso sul piano emozionale, come testimonia Truman Capote (in A Capote reader, Penguin, 2002) che
racconta che in quel giro siciliano del ‘51 Cocteau si recò a Taormina, per incontrare, nella rinomata
località turistica, un suo illustre connazionale, lo scrittore Andrè Gide, col quale non si vedevano da
trent’anni a causa di una accesa rivalità intellettuale, di un’accanita competizione letteraria ma anche per una
strana e reciproca attrazione giovanile trasformatasi nel tempo in un inquieto odio-amore che li aveva
tenuti lontani per così tanto tempo.
Racconta Capote di aver assistito al loro incontro in una piazza della cittadina messinese, dove Gide
era solito andare, quasi ogni mattina, a sedersi in una panchina al sole, con accanto una bottiglietta di acqua
e qualche mandarino, taciturno e solitario come era solito stare a Taormina, “con l’aria di chi sta
prolungando ad occhi aperti, i sogni della notte”. Quando Cocteau lo vide, continua a narrare Capote, gli si
avvicinò, appoggiandosi sul suo bastone e mostrandosi a lui come aveva fatto l’ultima volta di tanti anni
prima quando lo aveva avuto di fronte e, “con la stessa ansia di piacere”, aveva cominciato ad accarezzargli
un ginocchio, poi le mani, arrivando sin a baciarlo sulla guancia, mentre “il Vecchio” (così veniva
soprannominato Gide a Taormina) rimaneva immobile e indifferente alle effusioni d’affetto di Cocteau,
che sembrava, scrive Capote, danzare come una libellula davanti ad un rospo dagli “occhi d’acciaio”, nella
speranza di risvegliarlo. Ma il rospo-Gide, piuttosto che trasformarsi in principe, “gracchiando” apostrofò
Cocteau con un invito a spostarsi perché gli stava impedendo la visuale. E quello a Taormina fu l’ ultimo,
rovinoso incontro dei due scrittori al caldo sole della Sicilia, poiché da lì a qualche mese, Andrè Gide morì.
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3. De Giorgi
La prima opera narrativa di Elsa de Giorgi (1915-1977) , attrice teatrale e cinematografica di
riconosciuta eleganza e bravura e raffinata scrittrice, uscì per Einaudi nel 1955 e aveva per titolo I coeitane.
Di quel libro, dal carattere ampiamente autobiografico, la rivista di critica letteraria Belfagor, diretta da Luigi
Russo, decantò il valore di lucida testimonianza storica sull’Italia del secondo dopoguerra e di limpida
scrittura, affermando fra l’altro, che tra le pagine più belle e intense vi erano quelle che raccontavano il
viaggio in Sicilia dell’attrice nel maggio del 1945.
La De Giorgi arriva nell’isola con la compagnia per la quale lavora e che ha in programma un tour
di spettacoli teatrali; pur essendo già stata in Sicilia avverte con rinnovata meraviglia “il colore, i profumi di
quella primavera”: “mi abbacinarono come una esplosione. Tutto era sproporzionatamente bello. Ci si
sentiva smorire in una scialbezza umiliata, vili e brulli contro quel suolo virulento, fra il profumo della
zagara, alto e vibrato come una musica. I sensi lungi dall’esaltarsi, si avvilivano storditi in una inerte
malinconia. La gente intorno si muoveva cauta, scura, piccola, con una mestizia negli occhi di dolcezza
vellutata. Gli uomini guardavano e dicevano ‘bedda’ come se piangessero. A teatro alcuni di loro, silenziosi,
sconosciuti, ci seguivano di città in città, con quella accoratezza scolpita sulle facce chiuse, e chissà che cosa
i nostri capelli biondi (miei e di un’altra attrice giovane) evocavano, a tanta nostalgia. Era allucinante –
cambiando città – il rivederli agli stessi posti, come se fossero restati sempre nel medesimo teatro”.
Al paesaggio idilliaco e al ritrovato calore umano si aggiunse in quei giorni siciliani un altro e
positivo evento a rallegrare la de Giorgi, che annota nel suo libro: ‘Fu in treno, correndo attraverso la
Conca d’Oro, che appresi la fine della guerra’. E poi considera, sulla base di quel che aveva visto nell’isola:
“La Sicilia sbalordiva per il suo distacco dalla tragedia che nel continente ci aveva sommersi sino
all’abbrutimento. Abituati ancora a nutrirci con l’equivoco di vivande che sembravano ciò che non erano,
rivedere nelle città siciliane il pane bianco senza bollini, il burro vero a intere forme rotonde, la carne,
quelle saporose, nutrientissime cotolette di pesce spada, fu per tutti una festosa meraviglia. Alcuni giovani
attori, quelli che avevano quattro o cinque anni meno di me non ricordavano, addirittura non sapevano,
che ci si potesse nutrire così. Il caffé, le sigarette, le automobili, la villeggiatura. A Mondello, vicino
Palermo, su di un monte più favoloso di quello di Capri, si tuffavano gli abitanti delle ville moresche che
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passavano su quella costa superba. In alcune città – intorno alle macerie – stagnava già la rassegnazione del
tempo a temperarne la tragedia. Altre conservavano le immemore vita delle cose indistruttibili. Ricordo
tornando dal teatro greco in carrozzella (un cavallo piagato che si muoveva penosamente fra un nugolo di
mosche fedeli), mi apparve nell’immensa piana verde di Siracusa, la scultura viva di un bambinello nudo,
tornito con malizia donatelliana, che correva tutto solo verso il segno azzurro, lontano dal mare”. E ancora
registra con stupore la de Giorgi: “i teatri erano gremiti, innumerevoli, al confronto col Continente, le
automobili. L’ospitalità squisita, di quella qualità quasi religiosa che non manca mai di affascinare il
continentale che sosta in Sicilia”.
Però l’armonia ritrovata e la felicità per un mondo nuovo, e carico di positive promesse, di cui
s’intravedeva l’alba, finito il buio tetro della guerra, lasciano il posto, un giorno che la de Giorgi si trova a
recitare in una grande città dell’isola, a un momento di sconforto e di malumore, quando l’attrice si trova a
dover fronteggiare uno scontro con una nutrita pattuglia di giovani studenti siciliani, sostenitori del
movimento separatista.
Questi, rappresentanti del circolo cittadino della “Corda Frates” una delle più grosse e organizzate
associazioni studentesche dell’isola, avevano chiesto alla Compagnia che replicasse solo per loro lo
spettacolo che portavano in giro nei teatri siciliani; lo stesso invito però avevano fatto un gruppi di
partigiani che erano ritornati dal nord in Sicilia: era stato detto loro di assistere, tutti insieme, allo
spettacolo. Al diniego dei giovani studenti e al loro rifiuto di compartecipare con i partigiani, la de Giorgi
scatenò la sua ira, affermando con forza che trovava riprovevole la loro posizione e che lo spettacolo
sarebbe stato unico e per tutti. Però quando ebbe inizio lo spettacolo, al rumoreggiare polemico del
pubblico separatista, la de Giorgi, entrata in scena e oscenamente insultata, fece calare il sipario, che si
riaprì solo quando, dopo momenti di tensione e rissa tra separatisti e partigiani, un gruppo armato di
quest’ultimi salì sul palco e intimò il silenzio: parlò solo una partigiana siciliana a cui era stato ucciso il
fratello dai fascisti, che spiegò quello che gran parte del pubblico mostrava di non conoscere, cioè il senso e
l’importanza che la Resistenza aveva avuto nella conquista della democrazia, e deplorò “l’incomprensione e
la sconoscenza che aveva accolto i partigiani in Sicilia”: così, appassionatamente, scrive la de Giorgi,
chiudendo il suo dettagliato racconto della movimentata serata a teatro (che è anche l’ultima serata siciliana
prima della partenza per Roma): “quella donna era semplice, rozza nell’aspetto e le sue parole tradivano la
consapevolezza di una conquista, ogni volta che le concretava in una idea. Pure, c’era qualcosa di potente
nella coerenza di quel dolore fuso alla logica del ragionamento. Mai ascoltato oratore più efficace. Giù in
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platea, il pubblico taceva, umiliato, commosso. Alla fine il viso della donna era rigato di lacrime ma la sua
voce continuava a dominare semplice e forte. Io l’abbracciai per prima, mentre la gente in platea e intorno,
applaudiva turbata e conquistata. Finimmo così, con qualcosa di buono nel cuore, quel giorno carico di
emozioni”.
La de Giorgi lasciava così una Sicilia che l’aveva entusiasmata per le sue bellezze e atmosfere e però
pure immalinconita per l’atteggiamento di una larga parte della gioventù che giudicò retrivo, che le “dette
l’impressione di turbinare nelle confusioni di equivoci offensivi” e di cui non condivideva la prospettiva
politica separatista.
Con l’isola però la de Giorgi – ricercata interprete di film dei più bravi registi italiani, da Camerini a
Pasolini, compagna per un lungo periodo di Italo Calvino – conservò un legame sentimentale, alimentato
anche dalla salda amicizia con Renato Guttuso e che la portò a pubblicare per l’editore siciliano Sciascia,
nel ’62 un suo volume di poesie, La mia eternità, illustrato proprio da disegni del pittore di Bagheria.
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