Una Ahnenerbe casalinga, quarta parte

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Una Ahnenerbe casalinga, quarta parte
Di Fabio Calabrese
Forse il momento di rimettere al lavoro la nostra piccola Ahnenerbe casalinga è
venuto prima di quanto mi aspettassi. Io non posso – naturalmente – fare alcun
paragone fra la Ahnenerbe del Terzo Reich e i miei modestissimi mezzi, ma la
propaganda e la censura democratiche intese a darci un’immagine falsata del nostro
passato, funzionano in una maniera strana: non esiste un’esplicita proibizione di
verità vietate, ma le poche cose davvero significative sono sommerse da un diluvio di
“informazione” falsa o irrilevante che circola in quantità enorme grazie ai media e
alla rete. E’ possibile allora, con pazienza, mettersi alla ricerca delle pagliuzze d’oro
nel fango e alla fine, se avremo fatto bene il nostro lavoro, mettere insieme un
dossier di elementi sufficienti a contestare “le verità” della cultura ufficiale.
Una cosa che non poteva non destare l’interesse di chi è impegnato in questo
genere di ricerca, è la storia dell’ipogeo di Glozel. Un amico mi ha segnalato un post
relativo a questa scoperta di cui, per essere sinceri, non ero minimamente informato,
comparso recentemente sul sito del centrointernazionale diricercastorica (scritto così
senza gli spazi fra le parole, se volete andare a controllare, probabilmente per
distinguerlo da altri siti con denominazioni analoghe), ma quella avvenuta in questa
località del centro della Francia, è una scoperta che risale al 1924, novant’anni fa.
A questo punto, ho fatto la cosa più ovvia, sono andato a controllare su Wikipedia.
Secondo quanto riferisce l’enciclopedia on line, la scoperta fu fatta nel 1924 da
un giovane agricoltore, Emile Fradin, che stava arando il campo assieme al nonno,
quando il piede della mucca che trascinava l’aratro si impigliò in una cavità.
Liberando la zampa dell’animale, Emile scoprì l’accesso a una cavità sotterranea. Era
l’inizio di una scoperta sconcertante, perché dall’ipogeo di Glozel uscirono all’incirca
tremila reperti fra ossa, manufatti di ceramica e pietre incise, molte delle quali lastre
che riportano una sorta di scrittura che nessuno è riuscito a decifrare. La cosa
straordinaria è che questi reperti sembrerebbero risalire a qualcosa come 8-10.000
anni fa e, se la loro autenticità fosse confermata, imporrebbero di retrodatare e
riscrivere completamente la storia dell’Europa. Non è spiegabile il disinteresse
dell’archeologia ufficiale per una scoperta come questa, se non con l’esigenza di
difendere da nuove scoperte antichi e radicati pregiudizi. Provate solo a immaginare
che marea di pubblicazioni, interventi mediatici e discussioni, se una simile scoperta
fosse avvenuta in Egitto o in Mesopotamia!
I pochi pronunciamenti dei ricercatori ufficiali sono stati perlopiù indirizzati a
bollare la scoperta come un falso, una bufala. Immaginiamo se un giovane
campagnolo diciassettenne come era allora Emile Fradin disponeva delle conoscenze
e dei mezzi per mettere in atto una truffa così complessa! E’ interessante il giudizio
di René Dussaud curatore del museo del Louvre, che concluse senza essersi degnato
di esaminarli, che i reperti di Glozel dovevano essere per forza falsi perché 8-10.000
anni fa non poteva essere esistita una civiltà, dandoci davvero l’impressione di
vedere uno dei pedanti che bollarono le scoperte di Galileo, uscire dalla tomba.
Un discorso analogo vale per le piramidi bosniache di Visoko che sarebbero state
individuate dal ricercatore e studioso dei materiali Semir Osmanagic. E’ proprio
l’evidente e preconcetto scetticismo dell’archeologia ufficiale che fa nutrire dubbi sul
fatto che non si tratti di bufale, ma di scoperte genuine.
Riguardo a cose tuttora misteriose, dove si è ben lontani dal poter dare delle
risposte definitive, come l’ipogeo di Glozel e le piramidi di Visoko, non disponiamo di
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risposte definitive, ma c’è una questione che possiamo comunque porre: la nostra
specie, homo sapiens esiste da qualcosa come centomila anni, non stiamo parlando di
bruti scimmieschi, ma di esseri umani come noi. La storia documentata copre gli
ultimi cinquemila. Per quale motivo escludere dogmaticamente che non possa essere
esistita alcuna civiltà preistorica, in quel 95% della nostra storia che ancora non
conosciamo? Abbiamo visto che molto spesso gli archeologi “ufficiali” respingono a
priori l’autenticità dei reperti di Glozel o la natura di manufatti delle piramidi di
Visoko perché la civiltà umana “non può essere” così antica come questi reperti
suggerirebbero. E’ un atteggiamento che ricorda molto quello dei pedanti
seicenteschi che rifiutarono la scoperta di Galileo dei “pianeti medicei”, dei satelliti
di Giove, perché sette erano le note musicali, sette i giorni della settimana, sette le
aperture del corpo umano (bocca, narici, orecchie, ano e genitali), e non più di sette
dovevano perciò essere anche i corpi del sistema solare. Io vi ho raccontato di aver
avuto in passato un’esperienza di contatti con il CICAP. Se non altro, posso dire che
è un’esperienza che mi ha permesso di capire parecchie cose. Sulle civiltà
misteriose, l’atteggiamento è quello del rifiuto a priori esattamente come nei
confronti del paranormale e dell’ufologia (e del resto del cosiddetto complottismo).
La credenza e la presunta casistica del paranormale contrastano con la
concezione della realtà naturale fondata su quattro secoli di ricerche scientifiche da
Galileo in qua, l’ufologia non tiene conto dell’immensità del Cosmo e delle distanze
interstellari, ma le civiltà misteriose? Cosa giustifica una posizione di rifiuto a priori?
Pensiamo davvero di poter dire che conosciamo tutto del nostro remoto passato? La
fobia del presunto complottismo fa il paio. Chi vede congiure dappertutto potrà
anche essere paranoico, ma chi pensa che la politica agisca sempre in base alle
intenzioni dichiarate da quelle persone di specchiatissima onestà che sono i politici,
merita il nobel dei cretini.
In campo politico nel senso più stretto del termine, gli esponenti di questo
laicismo da quattro soldi si contano invariabilmente fra gli atlantisti e i filo-sionisti.
Spirito critico? “Ma mi faccia il piacere!” (detto con le inflessioni e il gesto del
grande Totò). Costoro la pensano esattamente come l’establishment politicoculturale vorrebbe che tutti la pensassimo, intellettualmente proni come più non si
potrebbe essere, come se il potere non manipolasse anche la scienza.
Noi però dobbiamo fare i conti con un pregiudizio di altro tipo rispetto allo
strabismo mediorientale, alla fissazione della presunta “luce da oriente”. Per quale
motivo si vuole negare a tutti i costi che in quell’enorme spazio di tempo che
costituisce i nove decimi e mezzo della nostra storia su questo pianeta non possano
essere sorte e poi sprofondate nell’oblio intere civiltà? In fin dei conti, cosa esisterà
ancora di tutto quello che ci vediamo intorno, diciamo fra diecimila anni? Nulla, se
non delle tracce labilissime.
Bene, qui è visibile che ci confrontiamo con UN DOGMA della mentalità
contemporanea che ha assunto dimensioni e valenze tali da poter essere paragonato
a un dogma religioso, tanto più forte quanto più in contrasto con la realtà, il dogma
del progresso. Dicendo che il dogma progressista è una sfacciata falsità, in realtà
non si dice nulla di nuovo, l’aveva già evidenziato (lasciando perdere il lavoro
compiuto fra le due guerre mondiali da pensatori come Julius Evola e René Guenon)
un gruppo di scienziati riuniti nel Club di Roma nel 1970 con il celebre rapporto “I
limiti dello sviluppo”, dove si enuncia un concetto fondamentale che però in
definitiva è un’ovvietà: in un sistema limitato con risorse limitate quale è il nostro
pianeta, uno sviluppo illimitato è impossibile. Nonostante si tratti di un’ovvietà, “I
limiti dello sviluppo” provocò la canea progressista che riuscì a dare un’eccellente
dimostrazione del fatto che l’insulto e il ludibrio sono in grado di sopperire in
maniera eccellente alla mancanza di argomenti.
Ora provate a pensarci un attimo: se accettiamo l’idea che in quel 95% della
storia della nostra specie che ci è sconosciuto possano essere sorti e scomparsi nel
nulla interi cicli di civiltà, questo cosa implica per noi? Implica la consapevolezza che
nulla esclude che la civiltà moderna della quale siamo tanto orgogliosi possa andare
incontro allo stesso destino.
Per evitare, per esorcizzare questa idea “deprimente”, si preferisce mutilare la
storia della nostra specie, pretendendo che prima dell’Egitto dei faraoni non possa
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essere esistito alcunché se non bruti dalla faccia scimmiesca che andavano in giro
trascinando clave, pur di salvaguardare il pregiudizio che una volta avviata la civiltà,
essa sarebbe spinta a uno sviluppo ascendente, al raggiungimento di traguardi
sempre più elevati da una sorta di provvidenza immanente che s’incarna in questo
ridicolo idolo moderno che chiamiamo “progresso”.
La civiltà umana è forse molto più antica di quanto ci hanno raccontato, di quanto
se ne vuole negare anche soltanto la possibilità in nome del dogma progressista, ma
anche riguardo all’altro settore che ha interessato le nostre ricerche, quello più
remoto nel tempo dell’origine della nostra specie, ci sono delle novità interessanti,
ma per prima cosa è giusto che vi segnali una circostanza curiosa. Mi è stato
segnalato un articolo non recentissimo, risalente al 4 novembre 2011 apparso su
“National Geographic” che fa il punto sulle ultime scoperte paleontologiche, e la
gentile signora che me l’ha segnalato, altri non è che la moglie dell’amico che mi ha
segnalato il pezzo sull’ipogeo di Glozel. Due cari amici, una bella coppia dove la
consonanza ideologica è una delle cose che cementano il sentimento reciproco, una
fortuna che – devo confessare – io non ho.
Ma vediamo il contenuto di questo articolo. Uno studio condotto da un team
guidato da Stefano Benazzi dell’Università di Vienna ha accertato che alcuni
frammenti dentari fossili rinvenuti negli anni ’60 nella Grotta del Cavallo nella baia
di Uluzzo in Puglia e risalenti a 45.000 anni fa, non appartengono come si era finora
creduto, a dei neanderthaliani, ma all’homo sapiens anatomicamente moderno. I
reperti litici rinvenuti nella baia di Uluzzo sono serviti per classificare una cultura, la
cultura uluzziana che si riteneva fosse l’ultima cultura neanderthaliana europea,
invece adesso scopriamo che si trattava di sapiens.
Ma non ci fermiamo qui, perché l’articolo menziona un’altra ricerca condotta da
un team guidato da Thomas Higham dell’Università di Oxford che ha esaminato un
frammento di mascella risalente a 44.000 anni fa e rinvenuto in una caverna inglese,
la Kents Cavern. Anche quest’ultimo è risultato non essere neanderthaliano ma
sapiens.
Capite quello che significa? Se 50.000 anni fa l’eruzione del Toba fu davvero la
catastrofe planetaria immaginata da qualcuno e i nostri antenati erano ridotti a un
pugno di superstiti sperduti in qualche angolo dell’Africa, come hanno fatto nel giro
di pochi millenni a popolare tutto il Vecchio Mondo, ad arrivare in Italia e anche in
Inghilterra?
L’ipotesi dell’origine africana scricchiola sempre di più. Un ulteriore scrollone è
poi venuto dallo studio di un altro uomo fossile pugliese come quelli di Uluzzo ma
parecchio più antico, l’uomo di Altamura, i cui resti, dopo essere caduto in un
inghiottitoio carsico della regione, sono stati inglobati nella matrice calcarea.
Ebbene, quest’uomo risalente a 100.000 anni fa, classificato come preneanderthaliano, presenta delle caratteristiche che preludono al sapiens moderno, si
trova con ogni probabilità assai vicino alla biforcazione fra le due sottospecie umane.
Considerato che la Puglia non è Africa (non ancora, ma lo diventerà assieme a tutto il
resto dell’Italia se continuiamo a essere sommersi dall’ondata dell’immigrazione),
l’ipotesi dell’origine africana diventa sempre meno verosimile.
Mi è capitato di ritrovarmelo giorni fa in una di quelle discussioni a volte foriere
di spunti interessanti, a volte demenziali che si trovano su Facebook, l’argomento
che è un classico della retorica democratica su questo tema: “non esistono razze
pure”. L’implicazione è quella che dovremmo essere indifferenti al fatto di essere
soppiantati e che il nostro retaggio sia soppiantato da quello dei CUCULI che
l’immigrazione ci porta in casa.
Non esistono razze ASSOLUTAMENTE pure, ma è una questione di proporzioni.
Un certo scambio genetico fra le popolazioni umane è sempre esistito, come dimostra
il fatto che sono tutte mutuamente interfeconde, ma scambiare questo sottile rivolo
di geni che passava in altri tempi fra le genti del pianeta con la situazione attuale, è
come confondere un bicchiere di vino a pasto con un’assunzione da coma etilico.
Vogliamo fare un altro paragone tratto dalla biologia? I parameci sono protozoi,
minuscole creature unicellulari che hanno una caratteristica: sono attratti da un
ambiente acido, perché è soprattutto nell’acido acetico che trovano i lieviti e gli altri
microorganismi di cui si nutrono. Solo che si precipitano con uguale “entusiasmo”
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verso una goccia di acido solforico che invece li uccide. Questo meccanismo
comportamentale si è certamente evoluto perché in natura la probabilità che hanno
di incontrare acido solforico è enormemente più bassa che quella di imbattersi
nell’acido acetico. Quello che alle basse concentrazioni è benefico, a quelle alte può
essere mortale.
Il paramecio è una creatura microscopica, non ha un cervello, ma noi si. Vogliamo
che i paraocchi della retorica democratica rendano il nostro comportamento non più
intelligente del suo?
In queste cose non è il caso di (s)ragionare in termini di tutto o niente: poiché
L’ASSOLUTA purezza è irraggiungibile, allora accettare l’universale meticciato nel
quale la nostra gente è destinata a scomparire.
Pensiamo ai nostri figli: a ciascuno di loro trasmettiamo soltanto metà del nostro
patrimonio genetico, mentre l’altra metà deriva dall’altro genitore. Questo significa
forse che, non essendo la nostra fotocopia, non dovremmo interessarci di loro più di
quanto non facciamo con perfetti estranei?
I popoli europei si stanno avviando a una lotta mortale che deciderà della loro
sopravvivenza o della loro estinzione. Non è questo il momento di farci confondere
dalle bugie democratiche.
Fabio Calabrese
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