PALLOTTINO M., MORO R. (2010), Cap. 3 Le conversioni di debito

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PALLOTTINO M., MORO R. (2010), Cap. 3 Le conversioni di debito
PER UNA
CITTADINANZA
GLOBALE
RAPPORTO SUL DEBITO
2006-2010
Tavolo Giustizia e Solidarietà - CEI
1
Capitolo 3 – L’azione della chiesa italiana
La campagna ecclesiale
Il contributo della chiesa italiana al movimento internazionale in favore della riduzione del debito
dei paesi poveri (che promuoveva attraverso questo tema una più ampia sensibilità sulle questioni
della giustizia economica), è stato convinto e ha prodotto risultati consistenti. La Campagna
Ecclesiale Italiana per la Riduzione del Debito Estero dei Paesi più poveri, venne lanciata nel marzo
1999 dalla Conferenza Episcopale Italiana (Cei) coinvolgendo tutta la chiesa italiana in risposta agli
appelli lanciati da Papa Giovanni Paolo II. Guidata da un omonimo Comitato, di cui facevano parte
rappresentanti delle aggregazioni laicali, del mondo religioso e delle chiese locali, la Campagna si
sviluppò secondo tre assi fondamentali: l’azione di sensibilizzazione, la pressione politica e la
costruzione di un gesto comune di assunzione di responsabilità.
L’azione di sensibilizzazione rispondeva ad un preciso obiettivo educativo e pastorale: creare le
condizioni per vivere con responsabilità il tempo del Giubileo, sensibilizzando intorno all’esistenza
del debito, le sue cause e le sue conseguenze. Venne organizzata una grande azione educativa, con
la produzione di strumenti di divulgazione utilizzati dall’intera comunità ecclesiale e spesso fuori di
essa, e si diffuse la consapevolezza di essere parte di una rete di connessioni locali e internazionali
che ci rendono corresponsabili di ciò che avviene nel pianeta. Da questa consapevolezza nasceva
un’assunzione di responsabilità che veniva indirizzata in particolare verso l’assunzione di stili di
vita coerenti con la domanda di giustizia che la Campagna sosteneva per i cittadini dei paesi
indebitati.
In tutta Italia si moltiplicarono le iniziative per informare intorno al tema del debito, e quello sforzo
- spesso frutto di un percorso comune di soggetti diversi all’interno della comunità ecclesiale, non
sempre abituati a lavorare insieme - proseguì in molti casi negli anni successivi con iniziative sul
territorio legate all’approfondimento dei temi della globalizzazione e della giustizia internazionale.
Un calcolo elaborato dal Comitato ecclesiale indicava in oltre cinque milioni il numero di persone
che fisicamente parteciparono ad un’occasione di incontro organizzata nel nostro paese nell’ambito
della Campagna ecclesiale, un numero che indica una grande disponibilità e voglia di partecipare, in
un paese che spesso appare poco coinvolto o interessato dalle questioni internazionali.
La domanda di partecipazione trovò una prima naturale concretizzazione nel secondo grande
obiettivo della Campagna: la pressione politica. I fondamenti della campagna e le indicazioni
contenute negli strumenti di divulgazione nascevano da una rigorosa elaborazione che aveva
preceduto il lancio. Su quella base, in dialogo con le reti internazionali e in particolare con le reti
CIDSE e Caritas Internationalis, venne chiesto al governo e al parlamento italiani di assumere
iniziativa politica in tema di debito. Sino a quel momento l’Italia non aveva avuto particolari
azioni e si limitava a seguire l’iniziativa internazionale. Alle forze politiche venne chiesto in modo
esigente di cancellare il debito verso l’Italia e operare per allargare l’iniziativa internazionale, che a
quell’epoca si limitava alla prima fase della iniziativa HIPC che abbiamo descritto, penalizzata da
gravi limiti che ne riducevano la portata. In particolare si chiedeva che il debito fosse cancellato,
che ogni cancellazione fosse legata alla riduzione della povertà (cioè che il denaro ‘liberato’ con le
cancellazioni venisse usato per finanziare la lotta alla povertà), e che la società civile locale venisse
coinvolta nelle scelta degli utilizzi, nel monitoraggio delle realizzazioni e più in generale in tutto il
processo di uscita dal debito, dando trasparenza ad accordi che sino a quel momento venivano
gestiti in modo riservato.
2
I frutti della campagna in questo caso furono rilevanti. Come già accennato, nel luglio 2000 il
Parlamento approvò all’unanimità la legge 209 sul debito. L’Italia fu così il primo paese a dotarsi di
una legge in materia fra i paesi creditori. La legge era il frutto di un lungo percorso negoziale in cui
il realismo delle proposte della società civile e, al suo interno, della Campagna ecclesiale,
convinsero anche chi aveva responsabilità istituzionali e sino a quel momento non aveva consentito
ad un cambio di prospettiva come quello proposto dall’iniziativa giubilare. Fu questo il risultato
più alto delle campagne sul debito dal punto di vista politico e tuttora, in presenza di una riduzione
dell’impegno italiano verso il Sud del mondo, se una continuità di azione si è mantenuta sul debito,
come illustrato nel capitolo precedente, si deve alla presenza della legge.
La 209/2000 prevedeva una clausola particolare per consentire la partecipazione di soggetti della
società civile italiana alle operazioni di cancellazione e conversione del debito. Questa fu il
risultato di un negoziato esplicito tra Campagna ecclesiale e governo italiano in ragione del terzo
grande obiettivo che la Campagna aveva lanciato: concorrere a realizzare una operazione di
conversione di debito con uno o più paesi indebitati col nostro paese.
Acquisita coscienza della situazione e chiesta alla politica iniziativa politica, i promotori della
Campagna lanciarono una ‘provocazione’ con il duplice scopo di offrire da un lato la possibilità di
partecipare ad un gesto comune di assunzione di responsabilità e di aumentare contemporaneamente
la pressione sul governo italiano. La provocazione consisteva nel lanciare una grande raccolta fondi
tra i cittadini italiani da usare per pagare il debito di uno o due paesi indebitati col nostro paese. Chi
aderiva alla campagna non intendeva più vestire il ruolo di creditore che alimenta una condizione di
ingiustizia e concorreva a interromperla. In qualche modo ‘tassarsi’ per pagare i debito equivaleva a
‘restituire’ ai debitore le somme ingiustamente pagate1.
Dal punto di vista pratico questo significava pagare il debito al suo valore reale 2, che nel caso dei
paesi africani pesantemente indebitati poteva essere valutato intorno al 10% del valore nominale. In
questo modo il governo italiano cessava di essere ‘creditore’ e simultaneamente il Comitato
ecclesiale, nuovo ‘creditore’, avrebbe annullato il credito in cambio del versamento da parte del
governo debitore dello stesso valore pagato in Italia, ma in valuta locale, su un fondo da crearsi
all’interno del paese e da utilizzare, con la partecipazione di governo e società civile locale, per
finanziare progetti di riduzione della povertà. In questo modo il debito sarebbe stato
completamente cancellato e non avrebbe suscitato nuove uscite in futuro, il denaro liberato veniva
usato per lo sviluppo e il processo sarebbe stato trasparente coinvolgendo la società civile locale.
Dal punto di vista della sostenibilità finanziaria, chiedere al governo locale di versare sul fondo in
tre anni in valuta locale il valore reale del debito era del tutto possibile. Sino al 2000 questi paesi
pagavano al nostro paese per il servizio del debito cifre equivalenti a circa il 3% del valore
nominale del debito. Si trattava di continuare a pagare queste cifre per tre anni, ma versandole su un
fondo che investiva nel paese con il protagonismo locale, anziché perderle pagando un paese
straniero.
La legge 209/2000 cancellava il debito e il Comitato, che ora non doveva più pagare il debito,
poteva mettere le somme raccolte per la remissione del debito a disposizione di iniziative di
conversione-cancellazione. Fu in questo quadro che si sviluppò quindi l’azione con la Guinea
Conakry e lo Zambia, sviluppata dalla Fondazione Giustizia e Solidarietà, la struttura formale in cui
il Comitato Ecclesiale per la Riduzione del Debito dei Paesi più Poveri si trasformò nel novembre
1
Considerare il debito utilizzando unità di misura diverse dal dollaro, come abbiamo illustrato nei capitoli precedenti,
mostrava una relazione debitoria che era già stata onorata: il debito calcolato con altre valute era già stato saldato e i
pagamenti che continuavano dovevano essere considerati non dovuti, sebbene sul piano giuridico formale il debito
secondo gli accordi rimaneva in essere.
2
Un titolo ha un valore nominale, quello di facciata scritto sul titolo stesso, e uno reale, cioè quello che il mercato è
effettivamente disposto a pagare per acquistarlo. Se il debitore è solvibile valore reale e nominale coincidono, se vi
sono forti fatiche da parte del debitore, quello reale diminuisce anche sensibilmente rispetto a quello nominale, sino al
valore che si stima il debitore sia davvero in grado di pagare.
3
2001.
In questo capitolo tratteremo diffusamente di quanto è stato realizzato in questi due paesi, ma è
necessario che queste azioni siano collocate nell’ambito della Campagna che abbiamo descritto.
Non si è trattato tanto di gestire in modo efficiente ed efficace somme raccolte per beneficienza, né
di identificare nel solo gesto di raccolta fondi e realizzazione delle conversioni di debito il
contenuto della campagna ecclesiale, quanto di mettere in atto una vera e propria azione di
cittadinanza in cui insieme, cittadini del Nord e del Sud del mondo hanno lavorato per educare e
incidere nelle loro comunità, cambiando le regole e ottenendo nuove leggi e condividendo idee e
lavoro per trasformare una relazione perversa in un’opportunità di sviluppo. È in questa prospettiva
che si è lavorato in Guinea e in Zambia, ed è in questa prospettiva che sono state accese relazioni
con molti partner stranieri, soprattutto in America Latina, per condividere percorsi e attenzioni.
Avere ospitato in Italia tre seminari internazionali della rete Latindadd (la rete latinoamericana su
debito, sviluppo e diritti), avere promosso incontri tra partner europei, africani e latinoamericani,
avere preso parte alle iniziative promosse dalle reti internazionali per chiedere insieme cancellazioni
del debito e protagonismo delle popolazioni locali è stato fare, con convinzione, esercizio di
cittadinanza globale.
Conversioni di debito e lotta contro la povertà: il contesto e le
ragioni
Se il fatto di riconoscere l’esistenza del problema di un eccessivo carico di debito rappresentava sin
dalla fine degli anni ’90 una convinzione relativamente consolidata, vi era molta maggiore
incertezza circa l’approccio da adottare per la sua riduzione. Molte delle voci più autorevoli della
società civile sostenevano in quel momento la necessità di una cancellazione unilaterale ed
incondizionata del fardello del debito. Si argomentava infatti, e non senza ragione, che la massa del
debito dei paesi poveri proveniva da un percorso ‘ingiusto’ nella sua stessa natura, che si alimentava
attraverso dinamiche di carattere finanziario e politico e la cui legittimità doveva essere posta in
questione. D’altra parte la cancellazione incondizionata poteva nascondere un pericolo: le risorse
rese libere dal venir meno degli impegni di restituzione del debito potevano essere usate senza alcun
controllo e in modo distorto. Anche tra le organizzazioni della società civile, ed in particolare quelle
del sud del mondo, era forte il timore che le operazioni di riduzione del debito si riducessero ad una
semplice partita di giro nella contabilità dei governi, senza che questo producesse alcun visibile
beneficio per le popolazioni già fiaccate da venti anni di aggiustamento strutturale.
Negli anni in cui si consolidò il consenso internazionale per un’accelerazione decisa del percorso di
riduzione del debito dei paesi più poveri apparvero più chiari i limiti delle politiche ‘strutturali’ fino
ad allora promosse dalle Istituzioni Finanziarie Internazionali. E’ infatti del 1999, lo stesso anno in
cui viene rilanciata l’iniziativa HIPC (Heavily Indebted and Poor Countries), l’esplicito
riconoscimento della necessità di una profonda revisione delle politiche fino ad allora seguite. E fu
proprio attraverso questa profonda revisione che venne identificata una nuova prospettiva strategica,
destinata a fare da sfondo di ogni riflessione sui temi delle politiche per lo sviluppo: quella citata
dei Piani Strategici di Riduzione della Povertà. I PRSP, come già evidenziato nel capitolo 2,
segnano un’evoluzione importante del panorama complessivo per almeno due motivi. In primo
luogo si richiede che la loro formulazione sia il prodotto di un percorso di consultazione e
coinvolgimento di tutti gli attori sociali. La questione del coinvolgimento della società civile
rappresentava infatti una sfida importante soprattutto a fronte delle critiche rivolte alle precedenti
politiche di aggiustamento strutturale, spesso elaborate direttamente nelle sedi delle Istituzioni
Finanziarie Internazionali in dialogo, più o meno lacunoso, con i soli governi dei paesi cui
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dovevano essere proposte. Il principio secondo cui i PRSP dovevano essere risultato di un percorso
di consultazione e dialogo rappresentava e rappresenta tuttora un elemento innovativo e di grande
interesse. Ciò non implica che questo principio sia stato sempre del tutto applicato. L’enfasi sulla
partecipazione ha effettivamente aperto degli importanti spazi di dialogo all’interno dei diversi
paesi, ma un’osservazione approfondita rivela che questa opportunità è stata in realtà offerta ad una
proporzione piuttosto limitata delle formazioni sociali che avrebbero potuto o dovuto fornire il loro
contributo3. Inoltre a distanza di qualche anno l’enfasi sulla partecipazione sembra essere calata
anche da parte di chi, come le IFI, l’aveva (finalmente) promossa dieci anni fa.
Il secondo elemento importante da sottolineare nella ‘stagione dei PRSP’ rispondeva direttamente
ad una obiezione che aveva frenato negli anni precedenti il ricorso a misure di riduzione del debito
dei paesi poveri. Molti di coloro che si opponevano alle cancellazioni argomentavano la loro
resistenza col rischio che le risorse liberate potessero essere impiegate in maniera indebita. I PRSP
rappresentavano invece la piattaforma, legittimata e condivisa secondo cui le risorse rese disponibili
potevano essere utilizzate, contribuendo così al superamento di alcune delle più forti resistenze alle
cancellazioni. Anche in questo caso occorre notare come questa enfasi, che negli anni intorno al
2000 era assolutamente diffusa, al punto di imporre degli specifici meccanismi di monitoraggio
della sorte delle risorse liberate dalla cancellazione del debito all’interno dei documenti di bilancio
pubblico dei paesi che beneficiavano dell’iniziativa di riduzione del debito, si verrà perdendo negli
anni successivi, fino a sparire quasi completamente4.
In generale l’approccio incentrato sulla cancellazione ‘pura e semplice’ del debito appariva peraltro
più coerente con la tendenza a promuovere una semplificazione delle procedure di amministrazione
dell’aiuto pubblico allo sviluppo dal punto di vista dei paesi che ne dovevano beneficiare. Proprio
nello stesso periodo in cui si sviluppava l’iniziativa di riduzione del debito, infatti, si faceva strada
la consapevolezza del peso che aveva per i paesi beneficiari la messa in opera di procedure diverse
per ognuno dei paesi donatori: reportistica, gestione delle controparti, missioni di valutazione e
verifica finivano per rappresentare un onere assai pesante per paesi con istituzioni relativamente
deboli. Questa considerazione condusse ad un percorso volto a definire un consenso internazionale
sulla semplificazione delle procedure, che sfociava, tra le altre cose, su di un sempre maggiore
ricorso all’aiuto diretto al bilancio pubblico, rispetto alla moltitudine di progetti, programmi e
dispositivi ad hoc che avevano dominato la scena degli anni precedenti. Le risorse disponibili da
parte dei donatori venivano dunque sempre più destinate al sostegno del bilancio pubblico dei paesi
riceventi, al cui interno le priorità di sviluppo sono definite dal governo, sia pure in dialogo con i
donatori, piuttosto che a finanziare specifiche iniziative bilaterali. La diffusione del sostegno al
bilancio implica lo sviluppo di una reportistica armonizzata per tutti i donatori, per lo più basata su
un numero relativamente ristretto di indicatori, piuttosto che su un gran numero di rapporti il cui
livello di dettaglio è direttamente proporzionale alle difficoltà della loro interpretazione, ma anche
della loro compilazione.
Il consolidarsi del consenso internazionale attorno a modalità di cancellazione (più o meno
condizionata) del debito, non eliminava però completamente l’esistenza di altre possibilità. Tra i
paesi creditori devono infatti essere citate alcune esperienze pionieristiche, come l’iniziativa
svizzera di conversione del debito, in cui si sperimentava la possibilità di utilizzare le risorse
ottenute con una riduzione del debito in un modo diverso rispetto al classico schema che vedeva un
coinvolgimento esclusivo dei governi creditore e debitore/beneficiario, e dove le risorse liberate
3
Per una trattazione più ampia di questo argomento, vedi il cap. 4 del testo già citato, FONDAZIONE GIUSTIZIA E
SOLIDARIETÀ, Impegni di Giustizia, Rapporto sul debito 2000-2005
4
E’ opportuno ricordare che dopo una prima ed una seconda generazione di PRSP, in molti paesi del Sud del mondo si
è ora passati ad una fase diversa, in cui i paesi si assumono la piena responsabilità della determinazione dei propri
percorsi di sviluppo. Anche la denominazione PRSP, vista come ancora troppo legata ad una iniziativa della Banca
Mondiale e del Fondo Monetario, è stata nella maggior parte dei casi abbandonata. In alcuni casi però gli elementi di
‘partecipazione organizzata’ che avevano caratterizzato la fase precedente sembrano fortemente indeboliti …
5
venivano direttamente impiegate su ben precise iniziative. Un altro elemento importante era poi che
tutto il percorso della cancellazione riguardava in realtà solo i paesi ‘HIPC’ cioè un numero
estremamente limitato di paesi. L’idea di conversione del debito, che aveva avuto una certa
popolarità soprattutto nelle prime fasi della campagna internazionale, rimaneva la strada maestra
per affrontare la grave situazione di tutti quei paesi che non rispettavano i requisiti per accedere
all’iniziativa HIPC .
Anche in termini più generali gli ultimi anni hanno tuttavia probabilmente segnato un ritorno della
riflessione in questo senso, forse anche a causa di alcune difficoltà emerse nell’applicazione
concreta delle politiche di supporto al bilancio, cui le politiche di cancellazione del debito finiscono
ormai per essere completamente assimilate per quanto riguarda il trattamento delle risorse.
Fioriscono negli ultimi anni iniziative di conversione di debito sia bilaterali, ad opera di vari
governi creditori, che multilaterali. Tra queste ultime è certamente significativo citare le conversioni
debt-to-health, con le quali il debito di alcuni paesi è stato utilizzato per finanziare il funzionamento
del Global Fund creato presso le Nazioni Unite per combattere l’HIV-AIDS, la tubercolosi e la
malaria.
Anche per quanto riguarda il mondo ecclesiale italiano, che aveva assunto posizioni di forte
impegno in favore di un approccio di cancellazione incondizionata del debito, uno sguardo alla
storia successiva indica un percorso di riflessione collettiva, che portò poi, in tempi più recenti
all’elaborazione di ulteriori proposte di conversione, come nel caso della proposta di conversione
del debito keniano, che, grazie alla pressione esercitata dalla campagna WNairobiW, portò alla
firma di un accordo di conversione tra Kenya ed Italia .
Queste considerazioni aiutano a collocare lo strumento della conversione del debito non in termini
alternativi alle cancellazioni, bensì in una relazione di complementarietà. Il debito deve essere
cancellato per ragioni di giustizia. Questo significa che i cittadini dei paesi indebitati hanno
rinunciato ai servizi che le risorse impiegate per servire il debito avrebbero potuto finanziare. La
conversione del debito è un modo per eliminare il debito e mettere in atto un percorso trasparente e
partecipato dalla società civile locale per riorientare in favore della popolazione e dei più poveri le
risorse liberate.
L’impegno della chiesa italiana in Guinea e in Zambia
A partire dal 1999, parallelamente all’impegno della campagna ecclesiale sul territorio italiano,
vennero avviati i contatti necessari a selezionare i paesi destinatari dell’iniziativa di conversione del
debito, e, una volta effettuata la scelta5, i primi contatti con le autorità civili ed ecclesiali in Zambia
e in Guinea per proporre ed introdurre l’idea dell’impiego delle risorse raccolte dalla campagna
ecclesiale in accordo con i governi e con il pieno coinvolgimento delle organizzazioni della società
civile locale. In entrambi i paesi venne avviato un percorso che portò alla formazione di un gruppo
di lavoro destinato a preparare la messa in opera dell’iniziativa.
Divenne inoltre necessario sviluppare un intenso dialogo con le autorità pubbliche italiane. Al di là
delle necessariamente scarne disposizioni di legge, il meccanismo attraverso cui si sarebbe potuta
garantire la partecipazione di queste organizzazioni a queste operazioni, rimaneva completamente
5
Per scegliere i paesi, vennero individuati in primo luogo i debitori che avevano un debito con l’Italia
proporzionalmente più elevato rispetto al loro debito estero totale. Quindi venne effettuata un’analisi delle condizioni
economico sociali, che portò a identificare una rosa di 12 paesi. All’interno della rosa si valutarono le situazioni
politiche, la presenza di eventuali condizioni di guerra, la presenza della società civile e della chiesa, e si arrivò a
selezionare Guinea Conakry e Zambia.
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da definire. Il dialogo tra i promotori della campagna ecclesiale, che nel frattempo si era trasformata
nella Fondazione Giustizia e Solidarietà e i competenti uffici del governo italiano, fu, nella fase di
elaborazione della proposta, estremamente vitale, anche grazie all’autorevolezza delle posizioni
sostenute dalla campagna ecclesiale. Queste erano infatti fondate su un’analisi originale
dell’esposizione creditoria dell’Italia verso i paesi poveri, che non aveva in quella fase alcun
precedente. Ma se con l’approvazione unanime da parte del Parlamento italiano della legge
209/2000 e con la conclusione del Memorandum di intesa tra la Fondazione e l’allora capo del
governo Giuliano Amato si era toccato il vertice positivo di questa collaborazione, la fase operativa
riservava qualche difficoltà: dapprima con la promulgazione ritardata e insoddisfacente del
regolamento di attuazione della legge 209/2000, che vincolava strettamente l’iniziativa italiana alle
analoghe iniziative intraprese a livello internazionale, e poi con il rifiuto da parte del governo
italiano, in particolare nel caso zambiano, di concludere un accordo unico che portasse a
compimento nello stesso momento sia la cancellazione del debito sia l’istituzione di un fondo di
contropartita destinato ad accogliere il contributo del governo locale e quello della Fondazione.
Nei contatti con le autorità dei due paesi identificati l’approccio portato avanti dalle strutture del
Ministero degli Esteri mostrò qualche differenza, dovuta anche al diverso contributo e
convincimento personale dei funzionari che si trovavano a gestire i dossier nei due paesi. Al forte
sostegno offerto alla proposta della Fondazione Giustizia e Solidarietà riguardo alla conclusione
dell’accordo con la Guinea fece riscontro, in particolare, un atteggiamento meno disponibile nel
caso dello Zambia a partire dal 2003.
Nel caso della Guinea, il collegamento con l’iniziativa internazionale di cancellazione del debito
non impose particolari ritardi sul percorso negoziale intrapreso tra le autorità guineane ed italiane.
L’accordo di cancellazione relativo al raggiungimento del decision point dell’iniziativa HIPC venne
firmato nell’ottobre 2001 e il primo accordo italiano sottoscritto in applicazione della legge
209/2000. Successivamente venne messo a punto il meccanismo di gestione della conversione del
debito che avrebbe avuto gestire una parte delle risorse cancellate insieme al contributo della
Fondazione Giustizia e Solidarietà proveniente dalla raccolta giubilare. In particolare si trattava di
1,5 milioni di Euro versati in valuta locale dal governo guineano, equivalenti a circa il 10% delle
rate di debito dovute all’Italia. L’accordo di cancellazione era stato firmato in occasione del
raggiungimento da parte guineana del decision point dell’iniziativa HIPC e annullava il servizio del
debito previsto sino al completion point, che si stimava di raggiungere in un triennio. Poiché la
maggior parte dei creditori annullava il 90% di queste scadenze e l’Italia il 100% si decise di gestire
la differenza tra cancellazione italiana e degli altri creditori, il 10% appunto, attraverso la
conversione di debito promossa dalla campagna ecclesiale. Il contributo messo a disposizione dalla
Fondazione Giustizia e Solidarietà viceversa ammontava a 6 milioni di Euro. Lo schema proposto
prevedeva un comitato di gestione in cui avrebbero preso posto un rappresentante del governo
guineano, e quattro membri nominati dalla Fondazione Giustizia e Solidarietà, tre dei quali cittadini
guineani, e rappresentanti della società civile di quel paese.
Il percorso istituzionale nel caso dello Zambia ebbe evoluzione ed esiti differenti. La prima
difficoltà da registrare era quella per cui, a differenza del caso della Guinea, non esisteva unanimità
all’interno del Club di Parigi circa l’accesso del paese all’iniziativa internazionale di cancellazione
del debito. Poiché il regolamento attuativo della legge italiana non permetteva di cancellare il debito
di un paese in assenza di intesa in merito presso il Club di Parigi, fu necessario attendere lo sblocco
della situazione anche per la Fondazione. Nell’attesa si sviluppò l’attività di preparazione, con la
costituzione di un gruppo di lavoro che aveva il mandato di identificare le possibili priorità di un
programma di conversione di debito. All’attività di questo gruppo di lavoro faceva da supporto
l’autorevole presenza attiva della chiesa zambiana all’interno della società civile di quel paese, ed
un alto livello di coinvolgimento e consapevolezza rispetto al percorso che avrebbe poi portato alla
formulazione del PRSP.
La storia di quegli anni testimonia però anche di una forte dialettica tra il governo zambiano e le
7
organizzazioni della società civile che seguivano con attenzione tutto il processo di cancellazione
del debito, e l’impiego delle risorse resesi libere all’interno del PRSP6. La costituzione del HIPC
Tracking and Monitoring Team, una commissione mista governo/società civile destinata a
monitorare l’impiego delle risorse liberate grazie alla cancellazione del debito, era stata in qualche
misura richiesta dalle Istituzioni Finanziarie Internazionali nel corso del 2000, proprio come
condizione per consentire l’accesso dello Zambia ai benefici dell’iniziativa HIPC. Il funzionamento
di questa commissione era stato tuttavia assai difficoltoso fino a quando venne interrotta la sua
convocazione, per asserita mancanza di ‘base legale’, dopo che erano stati rivelati e discussi alcuni
casi di cattivo uso delle risorse HIPC. Gli argomenti in favore dell’armonizzazione delle procedure
di cooperazione sono fondati, ma va riconosciuto come nel caso dello Zambia si sia fatto un uso
anche assai strumentale di questo principio, per aumentare lo spazio discrezionale di movimento da
parte delle autorità locali, senza che questo coincidesse con un aumento dell’efficacia nell’impiego
delle risorse pubbliche o con una maggiore trasparenza nei riguardi dell’opinione pubblica locale.
Il passare del tempo non giovò alla maturazione dell’ipotesi di conversione. Un accordo di
cancellazione venne firmato alla fine del 2003 tra Italia e Zambia e la negoziazione circa la
possibile messa in opera di un fondo di conversione di debito analogo a quello realizzato in Guinea
avveniva mentre avanzava la riflessione sull’armonizzazione delle procedure di cooperazione. Nel
novembre 2004, a differenza di quanto era stato scritto dai predecessori negli anni precedenti, il
Ministro delle Finanze dello Zambia dichiarò l’indisponibilità a realizzare l’operazione di
conversione, giustificandola proprio con l’incompatibilità tra questo schema ed il protocollo di
intesa firmato dal Governo dello Zambia con molti paesi donatori al fine di standardizzare le
procedure di cooperazione finanziaria.
Occorreva prendere atto della posizione del governo zambiano. Obbiettivo della campagna era
ottenere la cancellazione del debito, vincolarla al finanziamento della riduzione della povertà col
coinvolgimento della società civile, usando il denaro raccolto come leva per ottenere questi risultati.
La cancellazione era stata ottenuta con l’accordo firmato in applicazione della legge 209 e, stando
alla lettera dell’accordo firmato, le somme liberate erano vincolate alla lotta alla povertà. Ora si
trattava di monitorare che questo avvenisse e forzare il coinvolgimento della società civile locale in
questo processo. Venne dunque proposto un Comitato di Informazione, composto dai due governi,
da un membro della Fondazione in rappresentanza della società civile italiana e da un membro del
Catholic Center for Justice Development and Peace (CCJDP)7 in rappresentanza della società civile
zambiana. Al Comitato di Informazione il governo zambiano avrebbe consegnato ogni
informazione relativa agli interventi realizzati con le somme provenienti dalla cancellazione del
debito.
Parallelamente venne creato un fondo presso la Conferenza Episcopale Zambiana da gestirsi, in
analogia al fondo guineano, con il coinvolgimento della società civile zambiana. Su questo fondo, il
Justice and Solidarity for Poverty Reduction Fund (JSPRF), la Fondazione versò il denaro destinato
originariamente al fondo di conversione zambiano.
Con il Comitato di Informazione, creato con la firma di un Memorandum tra i due governi, e il
JSPRF si completa l’intervento in Zambia in coerenza con gli obiettivi della Campagna, pur in una
forma diversa da quella originariamente prevista. Il debito è stato cancellato, il Comitato di
Informazione partecipato dalla società civile locale può monitorare l’utilizzo delle risorse e il
denaro raccolto durante il Giubileo viene speso in Zambia attraverso un fondo che dà protagonismo
alle organizzazioni locali, aumentando le risorse finanziarie che la cancellazione mobilita per
l’investimento nel paese in favore dello sviluppo.
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Vedi, per una trattazione più ampia del caso Zambia, e del modo in cui il paese ha attraversato l’epoca della
cancellazione del debito, lo studio di caso contenuto nel “Rapporto sul Debito 2006-2008 (versione non definitiva)”,
distribuito in occasione del convegno “Debito, Giustizia e Solidarietà” svolto a Roma il 29 ottobre 2008, in particolare
le pp 151-164.
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In seguito prese il nome di Caritas Zambia.
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I risultati
Il percorso in Guinea ed il percorso in Zambia ebbero dunque evoluzioni e tempistiche diverse: sin
dal 2003 fu possibile riflettere in modo concreto su come mettere in opera il programma di
conversione del debito in Guinea, mentre i diversi passaggi necessari a livello internazionale
rallentarono ogni passo concreto in Zambia fino al 2005.
L’esperienza in Guinea
L’iniziativa in Guinea8 ebbe una preparazione ed uno sviluppo che permise sin dalle primissime fasi
di riflettere su come il dispositivo che sarebbe stato concretamente messo in opera si sarebbe
configurato come una vera e propria ‘messa in pratica’ dei valori che avevano animato la campagna.
L’attenta preparazione del coinvolgimento delle variegate espressioni delle società civile locale ha
costituito uno degli elementi fondanti dell’iniziativa in Guinea. Sin dalle ultime fasi della
preparazione dell’accordo bilaterale, alla fine del 2002, si rilanciò l’interscambio con tutte quelle
realtà che avevano dato il loro contributo al ‘gruppo di lavoro’ locale. Fu così possibile arrivare alla
firma dell’accordo (aprile 2003) con un lavoro preparatorio che rese possibile l’avvio relativamente
veloce delle operazioni di finanziamento. Si iniziò subito a lavorare sulla struttura tecnica che
avrebbe dovuto assicurare il lavoro necessario alla messa in opera delle attività del Fondo GuineoItaliano di Riconversione del Debito (FOGUIRED). Anche se l’accordo bilaterale recepiva infatti le
conclusioni del già citato gruppo di lavoro e fissava una ripartizione di massima delle risorse per
regioni, settori, e tipo di azioni finanziabili, rimanevano infatti da definire le modalità attraverso cui
i fondi disponibili sarebbero stati amministrati. Si trattava infatti di garantire da una parte il
massimo della trasparenza e dall’altra una reale possibilità di partecipazione per i diversi attori della
società civile guineana, che si presentava come estremamente articolata e particolare.
Gli ‘sportelli’ per la presentazione dei progetti dovevano essere dunque concepiti in maniera da
rispondere a questa realtà, ed articolati a più livelli, a seconda che si indirizzassero ad
organizzazioni relativamente strutturate (associazioni, ONG locali) oppure a piccoli gruppi di base
poco strutturati, i cosiddetti groupement. In particolare nei riguardi di questi ultimi si poneva poi un
doppio problema: in primo luogo, era necessario fare si che le informazioni riguardanti le possibilità
offerte dal FOGUIRED arrivassero sino nelle zone più remote, affinché la possibilità fosse
realmente messa a disposizione di gruppi e associazioni davvero ‘ai margini’. Questo tipo di
attenzione venne messa in pratica attraverso l’organizzazione di seminari di presentazione nelle
prefetture identificate e la diffusione dell’informazione anche attraverso le onnipresenti radio locali,
che trasmettono nelle diverse lingue parlate nel paese.
L’altro elemento a cui prestare attenzione è quello sul tipo di accompagnamento necessario per
favorire realmente il coinvolgimento dei gruppi meno strutturati. Se infatti si può in qualche misura
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Una trattazione assai più ampia del percorso che condusse alla realizzazione dell’iniziativa di conversione in Guinea si
trova nel già citato “Rapporto sul Debito (versione non definitiva)”, distribuito in occasione del convegno “Debito,
Giustizia e Solidarietà” svolto a Roma il 29 ottobre 2008, in particolare le pp 111-135.
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dare per scontato che alcune organizzazioni più grandi e robuste siano in grado di concepire e
realizzare una proposta di progetto conforme agli standard comunemente utilizzati, questo
certamente non si applica alla maggioranza delle organizzazioni di base, soprattutto quelle radicate
nelle zone geograficamente più marginali. Era dunque necessario costruire un meccanismo ‘di
prossimità’ in grado di recepire le domande di finanziamento, come di accompagnarne il
perfezionamento e di supportarne la messa in opera. Questo meccanismo venne realizzato attraverso
il coinvolgimento di un certo numero di strutture locali, ONG radicate nei territori in cui veniva
sviluppato il programma, e che servivano da ‘relais’ della struttura del FOGUIRED, che rimaneva a
Conakry. In seguito questo dispositivo venne irrobustito con l’apporto di due ONG italiane, che
vennero incaricate di lavorare a fianco di queste organizzazioni locali, in modo da rinforzarne le
capacità necessarie per interpretare al meglio il ruolo che gli era stato affidato. Elemento
qualificante del percorso compiuto fu il tentativo di inserire la lettura dello stato di avanzamento dei
progetti finanziati all’interno di un quadro di lettura del territorio e degli elementi di tendenze
sociali ed economiche in esso ravvisabili. Il risultato finale di questo consistente e articolato
insieme di interventi fu un sistema di monitoraggio estremamente attento ed efficace, mai concepito
in senso ‘ispettivo’, quanto piuttosto sempre coerente con un principio di accompagnamento e
costruzione delle capacità dei partner locali, valorizzandone la presenza sul terreno e la capacità di
‘fare rete’.
L’insieme delle attività sopra ricordate produsse una proposta recepita capillarmente, che sfociò in
490 progetti di piccole dimensioni, detti progetti ciblé (progetti ‘mirati’), direttamente presentati da
associazioni e gruppi di base a livello di villaggio. Il percorso di approvazione prevedeva per
ciascuna di queste iniziative un incontro diretto con i proponenti, la presentazione di un progetto
secondo uno schema semplificato, la revisione del progetto presentato e la compilazione di una
scheda fino all’approvazione formale da parte del comitato di gestione. A seguito di questo
percorso, venivano compiute una serie di visite di monitoraggio, il cui esito svincolava l’erogazione
della seconda tranche di finanziamento, e la valutazione finale. Si tratta di una mole di lavoro
davvero importante, il cui senso è testimoniato dall’elevatissimo tasso di successo dei progetti di
taglia piccola e piccolissima, senza uguali tra le iniziative comparabili intraprese nel paese.
Se il percorso che ha portato all’identificazione ed all’esecuzione di progetti di piccole e
piccolissime dimensioni rappresenta probabilmente uno dei caratteri più interessanti del
FOGUIRED, è però importante completare questa considerazione con le altre modalità messe in
opera per l’impiego delle risorse a disposizione. Il rischio di una elargizione a pioggia per piccoli e
piccolissimi interventi veniva superato con la concentrazione in un numero di aree relativamente
limitate (e scelte per l’elevata incidenza dei livelli di povertà), oltre che con il dispositivo sopra
sommariamente descritto. Era tuttavia importante cogliere l’occasione offerta da un possibile
intervento a più livelli. Vennero creato così altri sportelli di finanziamento che valorizzavano
l’iniziativa di organizzazioni maggiormente strutturate, in grado di sviluppare idee originali ed
innovative, e che permettevano, dove possibile e opportuno, di rinforzare l’intervento portato avanti
con i progetti ciblé. L’appoggio offerto ad alcune unioni e federazioni di produttori, fino al sostegno
alla piattaforma nazionale delle organizzazioni contadine bene illustra il tentativo di sostenere una
sinergia positiva tra i gruppi di base e le istanze federative. Accanto ai bandi ‘aperti’ venne infine
identificata la possibilità di promuovere direttamente progetti ritenuti prioritari dal Comitato di
Gestione. Vi erano infatti delle aree di intervento dove appariva necessaria un’iniziativa più decisa,
come nel caso del programma di alfabetizzazione funzionale, attività che era prevista da quasi tutti i
progetti ciblé, ma che, come venne messo in evidenza dal primo ciclo di valutazioni, non era gestita
in modo sufficientemente efficiente. Si decise quindi di identificare una ONG specializzata su
questa particolare tematica, che potesse svolgere questa attività in maniera coordinata a beneficio di
tutte le piccole associazioni di villaggio che stavano portando avanti dei progetti ciblé.
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L’idea che solo attraverso la collaborazione di tutti coloro che condividono la necessità di un
percorso di cambiamento sia possibile arrivare ad incidere positivamente nelle condizioni di vita
delle persone, e dei più poveri in particolare, è stato uno dei principi che con maggiore ostinazione
si è voluto perseguire nella messa in opera del FOGUIRED: relazioni tra attori della società civile
ed autorità pubbliche, pur nella situazione estremamente complessa del paese; relazioni
‘orizzontali’, con la sinergia tra progetti di natura simile che venivano stimolati a sviluppare
elementi di scambio e collaborazione; iniziative di collegamento ‘verticale’, con iniziative condotte
a diversi livelli della scena sociale, con lo scopo di rinforzare il ‘sistema’ nelle sue diverse
dimensioni; ed anche iniziative e partenariati internazionali, che, attraverso un percorso non sempre
facile, hanno condotto allo sviluppo di nuovi ponti tra la Guinea ed il mondo.
Nell’insieme i numeri parlano di un’operazione complessa, che ha fornito una importante occasione
di promozione umana e sociale in uno dei paesi più poveri del pianeta: 720 progetti (tra piccoli e
medio-grandi) realizzati con il coinvolgimento diretto o indiretto di almeno 400.000 persone.
Numeri dietro i quali si nascondono persone, storie ed iniziative che hanno permesso di promuovere
un miglioramento delle condizioni di vita sia in ambiente rurale, che nei centri urbani. Esempi di
progetti finanziati sono l’acquisto di macchine per pilare il riso, oppure la realizzazione delle opere
necessarie per consentire la valorizzazione agricola di un fondovalle, oppure ancora il
miglioramento nell’approvvigionamento di inputs agricoli. Numerose iniziative sono state rivolte a
migliorare la capacità di creare valore aggiunto, e di trattenerlo presso i promotori delle diverse
iniziative, invece di disperderlo attraverso catene infinite di intermediazione. L’acquisto di stock più
consistenti di olio di palma, ad esempio, assieme alla formazione delle capacità necessarie per la
gestione di questi stock, diventa il mezzo per realizzare economie di scala e fornire un mercato più
ampio con il sapone prodotto. Sistemi per l’essiccazione delle verdure, il loro impacchettamento, la
creazione di reti commerciali in grado di distribuire il prodotto non comportano grossi investimenti,
se non un po’ di formazione e la strutturazione di reti leggere che danno coscienza di poter trovare
un supporto quando necessario. Numerose iniziative di sostegno alla trasformazione agroalimentare
su piccola scala hanno dunque permesso alle famiglie protagoniste di questi interventi di
trasformare in ricchezza, e cioè maggiore sicurezza per il futuro, il frutto di una terra ricca e
feconda.
L’esperienza fatta in diverse zone della Guinea dimostra un grado elevato di protagonismo da parte
di gruppi e comunità. Si è trattato, in molti casi di offrire un piccolo contributo per generare risultati
di grande vitalità, sfatando una volta di più molti luoghi comuni sulla passività dei ‘beneficiari’ e
sulla sfiducia verso l’ipotesi di uno sviluppo pensato e condotto dalle comunità stesse. Il dinamismo
delle comunità locali si è tradotto nella richiesta di risorse finanziarie da impiegare per investimenti
e da restituire una volta che l’investimento è andato a buon fine. Forte è stata anche la richiesta di
sistemi per salvaguardare il proprio risparmio e metterlo a disposizione di chi può utilizzarlo: sono
state molte le iniziative con componenti di microfinanza, uno degli strumenti più importanti per
promuovere una reale autonomia dei beneficiari. L’attenzione al sostegno per le attività di
produzione ha assorbito la maggioranza delle azioni sostenute dal FOGUIRED, ma non meno
significativa è stata quella dedicata ad altri settori, come quello della fornitura di servizi essenziali
(formazione di base, sanità, acqua).
Collegare il livello ‘politico’ della campagna del debito, che puntava ad utilizzare le risorse a
disposizione come strumento finalizzato al ‘cambiare le relazioni’, con il livello concreto, visto non
tanto in termini di semplice realizzazione di progetti quanto piuttosto nella sua dimensione di
assunzione di responsabilità, ha profondamente permeato l’azione del FOGUIRED. E così, le
iniziative sopra delineate sono state completate da un certo numero di azioni orientate a favorire il
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dialogo con le istituzioni e la partecipazione delle organizzazioni della società civile al dibattito
sugli orientamenti delle politiche di sviluppo, con iniziative che hanno messo in evidenza il tema
della pace, della cittadinanza e della costruzione delle condizioni necessarie per farne esercizio reale
ed efficace. Si colloca in questo quadro il sostegno offerto ad esperienze interessanti ed innovative,
nelle quali associazioni e reti di associazioni si sono misurate con il Piano Strategico di Riduzione
della Povertà e con le sue implicazioni concrete.
Questo tratto distintivo del FOGUIRED è anche testimoniato dal livello di consapevolezza del
‘senso’ complessivo dell’iniziativa presente tra i promotori delle azioni: sentire raccontare della
motivazione di un impegno e di una mobilitazione che aveva portato ad utilizzare le risorse
provenienti dalla cancellazione del debito italiano, e sentirlo fare in una delle lingue locali della
Guinea in un seminario organizzato verso il termine delle attività all’interno del paese, ha costituito
un’esperienza sorprendente e bellissima che non va taciuta: si tratta infatti del percorso per il quale
coloro i quali vengono normalmente descritti e rappresentati come ‘i beneficiari’ di un intervento di
cooperazione affermano la loro partecipazione all’iniziativa piuttosto in termini di ‘cittadinanza’.
In conclusione l’ampio ventaglio di attori sociali coinvolti nell’esperienza del FOGUIRED ci offre
una lettura interessante sulla possibilità di incidere nei processi di riduzione della povertà. In
generale coloro che vivono in condizioni di maggiore deprivazione, sono anche coloro che sono
‘esclusi’ dal diritto di parola e dal potere di decidere. Sono dunque coloro con i quali è allo stesso
tempo più urgente e più difficile operare: si incontrano difficoltà nel trovare dei codici comuni e nel
tradurli in opzioni concrete, ma anche difficoltà logistiche nel raggiungerli e nello sviluppare azioni
da loro promosse. L’esperienza del FOGUIRED ha mostrato l’esistenza di queste due dimensioni di
esclusione, sociale e geografica, la necessità di un dispositivo organizzativo ‘ritagliato’ per
rispondere a queste caratteristiche, e l’efficacia del suo utilizzo.
L’ultima fase del lavoro del FOGUIRED ha coinciso con il forte aumento delle tensioni sociali e
politiche nel paese. Gli scioperi generali del febbraio e del giugno 2006 non furono infatti che tappe
nella direzione di nuove e più gravi turbative, che sconvolsero il paese tra il gennaio e l’aprile 2007,
senza peraltro mai interrompere il lavoro del Fondo9. L’ottimo grado di accettazione dell’esperienza
del FOGUIRED da parte delle istituzioni guineane, sia pubbliche che private, è testimoniato dal
versamento della terza tranche del contributo guineano che avvenne nel giugno 2007, onorando così
completamente gli impegni assunti da parte del governo: impegni molti avevano giudicato
improbabili all’inizio del percorso e, a maggior ragione, inverosimili incontrando una fase di tale
difficoltà per il paese. Questo elemento, da solo, testimonia un apprezzamento che non può essere
considerato solo formale. L’esperienza del FOGUIRED dimostra in ogni caso che anche in un paese
attraversato da forti contraddizioni come la Guinea è possibile pensare ad un percorso di utilizzo
efficiente di risorse finanziarie, purché questo avvenga attraverso un percorso di presa in carico dei
problemi e di valorizzazione del ruolo di tutti gli attori coinvolti.
L’esperienza in Zambia
Come si è accennato nei paragrafi precedente, l’iniziativa in Zambia ebbe un percorso diverso, e per
certi aspetti più tortuoso di quello guineano. Solo nel 2005 infatti, con l’accesso dello Zambia ai
benefici dell’iniziativa HIPC, e con la conclusione del negoziato tra i due governi, divenne possibile
9
Le tensioni si sono prolungate sino ad oggi in modo anche molto grave. Nel giugno 2010 il paese si avvia, non senza
fatica, ad un processo elettorale per dovrebbe produrre entro il 2010 un nuovo governo democraticamente eletto.
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passare ad una fase più operativa. Il gruppo di lavoro che era stato attivo nelle primissime fasi della
campagna in Zambia (secondo modalità simili a quelle messe in atto nel caso della Guinea) aveva
contribuito a mettere in evidenza alcune priorità, ed in particolare la necessità di un’azione decisa in
favore della fascia sociale dei piccoli contadini.
Come abbiamo spiegato in precedenza, al ‘Fondo Giustizia e Solidarietà per la Riduzione della
Povertà (JSPRF in acronimo inglese), creato nel quadro del CCJDP (poi Caritas Zambia), venne
dato il compito di concretizzare la possibilità di un vero protagonismo della società civile locale
nell’amminsitrazione del denaro proveniente dalla raccolta giubilare e di realizzare iniziative di
lotta contro la povertà in modo trasparente ed efficace. Il JSPRF si strutturò quindi coinvolgendo
una rappresentanza qualificata della società civile all’interno dei propri organi decisionali, anche
attraverso alcune strutture ‘ombrello’ attive nel paese: il CSPR (Civil Society for Poverty
Reduction), un’aggregazione di organizzazioni della società civile consolidatasi in occasione delle
consultazioni per la definizione della strategia nazionale di lotta contro la povertà, e la ZNFU
(Zambia National Farmers Union). Si selezionarono quindi 10 distretti nei quali operare, secondo il
mandato formulato dal gruppo che aveva effettuato un lavoro preparatorio, identificando nella
povertà rurale il principale tema su cui impegnarsi. Anche l’ampia presenza di espressioni della
chiesa italiana in Zambia fornì un contributo, attraverso una consultazione che mise in evidenza
l’importanza di intervenire nelle zone di povertà urbana, oltre che nelle zone rurali precedentemente
identificate.
L’intervento su un territorio così ampio richiese la messa in opera di strumenti appropriati,
soprattutto in considerazione del tempo assai limitato a disposizione: l’avvio del JSPRF fu infatti
possibile solo verso la metà del 2005, con il mandato a terminare l’allocazione delle somme
disponibili non oltre la fine del 2007. Dei 10 milioni di Euro inizialmente destinati ad essere
utilizzati in Zambia, 8 vennero assegnati in dotazione al JSPRF, mentre gli ultimi 2 vennero
utilizzati per due grandi progetti proposti dalla Conferenza Episcopale Zambiana: la realizzazione di
un nuovo ospedale di riferimento in una popolosa zona di Lusaka, ed il contributo alla messa in
opera della nuova Università Cattolica dello Zambia, operativa dall’inizio del 2007.
Questo notevole sforzo organizzativo ebbe come risultato il finanziamento di oltre 420 progetti,
identificati e realizzati secondo principi di rigorosa trasparenza. Il gruppo di lavoro attivo a partire
dal 1999 aveva identificato la povertà rurale come prioritaria, chiedendo che la maggior parte delle
risorse a disposizione venissero impiegate per migliorare le condizioni di vita dei piccoli contadini.
L’approccio che venne adottato dal JSPRF fu caratterizzato da una considerazione ‘olistica’ dei
problemi: le fasce sociali identificate non richiedevano soltanto un impegno in supporto del sistema
produttivo, ma un approccio più ampio.
Tra i settori maggiormente toccati dall’azione del fondo deve essere dunque citato quello educativo,
soprattutto grazie all’iniziativa delle attivissime ‘associazioni degli insegnanti e dei genitori’,
promotrici in molti casi del miglioramento delle strutture scolastiche esistenti. Basta infatti a volte
la presenza di due aule in più, di una biblioteca o di un laboratorio per permettere la continuazione
dei cicli scolastici fino all’ultimo anno delle superiori in zone fino a quel momento servite solo dalle
scuole elementari o medie. In molti altri casi le iniziative sostenute ebbero lo scopo di dotare alcune
scuole di piccole unità produttive, in grado di contribuire all’autofinanziamento delle attività. In
altri casi è stato sostenuto finanziariamente il completamento o la riabilitazione di strutture sanitarie
pubbliche. In tutti i casi in cui sono state compiute operazioni di questo tipo, mirate al
miglioramento di infrastrutture pubbliche, l’analisi preliminare ha puntato ad accertare l’esistenza
delle condizioni per un pieno utilizzo dell’infrastruttura realizzata, il reale funzionamento di scuole
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e centri di salute, la presenza di personale ed i motivi per cui si rendeva necessario un
miglioramento infrastrutturale,.
Ma anche nel settore della sicurezza alimentare il JSPRF ha offerto un contributo importante. In
Zambia si osservano infatti elementi contrastanti: da una parte una realtà che nel recente passato è
stata soggetta a ripetute crisi alimentari e carestia, dall’altra un potenziale agroecologico indiscusso,
con una importante biodiversità e sistemi produttivi tradizionali relativamente efficienti e raffinati.
La contraddizione si spiega soprattutto con la difficoltà di integrare il mondo dei piccoli produttori
agricoli negli scambi a livello nazionale. Questa considerazione giustifica in modo particolarmente
efficace l’azione condotta dal JSPRF nell’appoggiare le organizzazioni dei produttori a livello
distrettuale nel dotarsi di infrastrutture per l’immagazzinamento delle derrate agricole destinate al
mercato. Altri interventi più particolari hanno mirato a favorire lo sviluppo di specifiche attività
agricole, di allevamento, di piscicoltura, di microfinanza, in alcuni casi anche in collegamento ad
attività di carattere sociale.
Un sostegno destinato a migliorare la capacità delle comunità locali nello sfruttare le risorse
esistenti è anche quello fornito per riabilitare piccole infrastrutture rurali già esistenti anche se
ormai danneggiate a causa della mancanza di manutenzione. Canali, piccole dighe, protezioni per
l’attraversamento di torrenti, che nella stagione delle piogge tagliavano fuori ampie zone da ogni
comunicazione, sono esempi di opere di questo tipo. Anche questa è un’eredità del lungo periodo in
cui le istituzioni finanziarie spingevano verso la contrazione a tutti i costi del ruolo del settore
pubblico, senza curarsi delle conseguenze. Per tutti gli interventi di questo tipo, come anche nei casi
di realizzazione di opere fisiche (come adduzioni idriche, oppure, in qualche caso, centri di
formazione e di animazione sociale), si è posta cura particolare nell’assicurarsi della sostenibilità
delle opere realizzate, contribuendo al miglioramento di iniziative già in essere, o provvedendo alla
creazione o al rafforzamento di meccanismi di gestione appropriati.
Il tempo limitato a disposizione, l’entità dei fondi e l’estensione territoriale dell’intervento
rendevano assai difficoltoso il raggiungimento degli obiettivi prefissati. Nonostante questo i
mandati sono stati onorati e va a completo merito dello staff del JSPRF in Zambia che questi
obiettivi siano stati raggiunti, garantendo un livello qualitativo elevato e col pieno controllo delle
risorse disponibili. In un paese in cui non sono stati rari i casi di cattiva gestione delle risorse
pubbliche si tratta di un esito da guardare con soddisfazione. Un seminario nazionale svolto a
Lusaka il 16 luglio 2009 ha segnato la conclusione ufficiale delle attività del JSPRF. Le decine di
fotografie che tappezzavano la sala testimoniavano la concretezza dei risultati raggiunti, in un paese
dove in molti casi le risorse messe a disposizione per migliorare le condizioni di vita dei più poveri
hanno strade ed esiti talvolta tortuosi e poco decifrabili.
Uno sguardo al futuro
L’esperienza delle azioni condotte per la conversione del debito in Guinea e Zambia, parte
estremamente importante anche se non esaustiva del mandato della Fondazione Giustizia e
Solidarietà, è stata portata a termine nel pieno rispetto delle prospettive indicate dalla campagna
giubilare. Il clima particolare che segnò l’anno del Grande Giubileo dei 2000, la mobilitazione della
società civile internazionale, e le importanti trasformazioni attraversate anche dalle Istituzioni
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Finanziarie Internazionali alla fine degli anni ’90 , contribuirono a realizzare un’insieme di
condizioni del tutto particolari ed in buona parte non più ripetibili. L’esperienza vissuta in questi
anni non può né deve dunque essere pensata come ‘modello’ né, a ben vedere, deve essere letta
attraverso la chiave della ‘realizzazione di progetti’ in Zambia e Guinea. In coerenza con
l’ambizione iniziale della campagna, quella di utilizzare le risorse raccolte per rinnovare le relazioni
tra gli uomini in una direzione di maggiore giustizia, deve essere messo in evidenza il percorso che
ci ha resi più consapevoli del nostro essere cittadini del e nel mondo, e del modo in cui le questioni
della giustizia economica, dello squilibrio tra il Nord ed il Sud del mondo toccano la nostra
responsabilità di cittadini e di cristiani.
La prima riflessione che può essere fatta riguarda la relazione tra le organizzazioni della società
civile (al cui interno anche la chiesa, nel suo agire nella società, deve trovare un suo ruolo) e le
autorità pubbliche. L’intera campagna era costruita, sin dal 1999, su un presupposto di
collaborazione con i governi e di protagonismo della società civile dei paesi in cui ci si proponeva
di operare. L’idea della raccolta dei fondi finalizzata al cambiamento delle regole ed al
sovvertimento dei rapporti di ingiustizia, piuttosto che alla semplice realizzazione di azioni di
sviluppo, aveva come conseguenza necessaria il fatto che le risorse raccolte dovessero essere messe
in gioco nella relazione con i diversi attori, a partire da quelli pubblici. Nonostante la chiarezza
dell’impostazione iniziale non mancarono negli anni successivi alcuni elementi di ripensamento, ed
anche in qualche caso di tensione da parte di coloro che vedevano con diffidenza un legame così
stretto con le autorità pubbliche.
E’ chiaro che le caratteristiche particolari di ogni situazione rendono difficile paragoni e
generalizzazioni. E’ tuttavia altrettanto chiaro che un miglioramento sostenibile delle condizioni di
vita dei più poveri non potrà avvenire senza un impegno deciso ed efficace delle autorità pubbliche,
e qualsiasi forma di impegno non può prescindere dal dialogo con esse, né dalla riflessione su quale
debba essere in prospettiva lo scenario nel quale esse possano svolgere al meglio il loro ruolo.
Questo non implica naturalmente il pensare che le autorità pubbliche debbano in prima persona farsi
carico di ogni intervento, ma non vi è dubbio che da esse si debba pretendere un’attenzione al
quadro complessivo entro cui possono aver luogo i singoli interventi ed una funzione di garanzia a
particolare tutela delle fasce sociali più deboli e marginali. Si tratta qui di interpretare nel modo più
appropriato l’idea stessa di sussidiarietà: un ampio potere di autogoverno delle realtà sociali più
vicine alla base, all’interno di un quadro di solidarietà dell’insieme. La scelta di trasferire il potere
di decisione non avviene forzatamente e a causa dell’impossibilità per l’autorità pubblica di
svolgere il ruolo a cui è chiamata, ma per libera scelta dei corpi sociali intermedi che in questa
assunzione di protagonismo sono sostenuti da una certezza del quadro complessivo. L’equilibrio da
trovare è probabilmente quello tra un ruolo all’interno dei meccanismi, in cui le organizzazioni
della società civile sono in grado, consapevolmente, di assumersi un ruolo operativo e quello, a cui
non si deve in nessun caso rinunciare, di controllo e di dialogo esigente con le istituzioni pubbliche.
Nella corretta interpretazione di questo equilibrio, la chiesa può e deve svolgere un ruolo di stimolo
e di ‘lievito’ nei riguardi dell’intero corpo sociale. La ricerca di un equilibrio dinamico, attento al
bene comune, all’attenzione ai più poveri, alla partecipazione ed alla corresponsabilità di tutti è un
esercizio complesso in cui costante deve essere il concreto richiamo ai valori della giustizia sociale
ed economica. In coerenza con i mandati iniziali della campagna, questa è la prospettiva in cui si
sono mosse le iniziative in Guinea e Zambia; a fronte di un possibile collegamento più diretto ed
una titolarità più piena e diretta dell’iniziativa da parte della chiesa, si è preferito sviluppare un
ruolo di servizio ad un cammino la cui titolarità doveva essere lasciata alle autorità pubbliche ed
alle organizzazioni della società civile direttamente impegnate in percorsi di cambiamento e di
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giustizia. Questo ruolo particolare ha trovato realizzazioni diverse: un’importante e riconosciuta
testimonianza di attenzione e di dialogo in Guinea, paese a grandissima maggioranza islamica, ed
un dialogo ampio con le istituzioni in Zambia dove le strutture della chiesa locale competenti per le
questioni di giustizia e pace avevano già un posto importante nel contesto della società civile
impegnata nel dialogo con il governo.
L’altro elemento su cui riflettere è quello relativo al ruolo delle risorse che si rendono disponibili
all’interno di un percorso di questo tipo. Nell’analisi della situazione di deprivazione che
caratterizza alcuni contesti, si tende talvolta a rappresentare le problematiche esistenti come
‘mancanza di risorse necessarie per offrire le risposte adeguate’. La rappresentazione della carenza
di risorse come elemento centrale implica che mettere a disposizione le risorse mancanti possa
condurre in maniera pressoché meccanica alla soluzione della deprivazione, in una prospettiva che
persegue una giustizia definita su un registro solo ‘distributivo’ col quale si identifica il ‘rendere
giustizia’.
Ma non è la semplice distribuzione di risorse a generare giustizia: si tratta di una operazione che
può compiersi in un attimo, ma che finisce per avere effetti nulli, quando non addirittura
controproducenti, se non è messa al servizio di un percorso condiviso. Anche l’esperienza fatta in
Zambia e Guinea evidenzia con singolare incisività il contrasto che esiste tra i tempi dell’efficienza
organizzativa, che permette di condurre a termine i programmi nella durata prefissata, ed i tempi
della costruzione, che è in primo luogo la costruzione di possibilità e di relazioni. Queste riflessioni
diventano ancora più concrete se confrontate al tradizionale apparato concettuale dello sviluppo,
fatto di ‘bisogni’ e ‘beneficiari’. Di fatto l’idea di beneficiario sottintende una dimensione di
passività e di assenza di diritti: il beneficiario non è un ‘cliente’ che può pretendere il corrispettivo
di un prezzo pagato, né un membro che partecipa responsabilmente al governo di una
organizzazione, né un cittadino che concorre, attraverso forme di rappresentanza o di partecipazione
diretta, a determinare il modello di società in cui vuole vivere.
L’esperienza vissuta in questi anni, con tutte le sue particolarità, non si differenzia in partenza in
maniera radicale da altre esperienze di tipologia simile basate, sull’identificazione di ‘progetti’, di
‘bisogni’, di ‘beneficiari’. Ma è sorprendente notare come uno degli esiti dell’esperienza e della
riflessione sia forse proprio quello di scoprire all’interno del percorso stesso un’esigenza di
superamento rispetto a questo stesso apparato concettuale: il vero cambiamento può avvenire solo
quando nessuno si considera più ‘beneficiario’, ma quando si definisce come portatore di diritti e,
insieme, di responsabilità. Ed il diritto, in base a questa accezione, non si sostanzia in un ‘povero’
che fa appello al diritto di beneficiare di un progetto o di un servizio, quanto piuttosto nel ‘diritto
alla voce’, nell’esprimersi sulle priorità e sui cambiamenti necessari, e sul fatto di essere ascoltati.
Le risorse messe a disposizione e che produrranno effetti non sono dunque quelle usate in ‘progetti’
che hanno risposto ai ‘bisogni’ dei ‘beneficiari’, quanto piuttosto quelle che avranno animato dei
processi di protagonismo di attori sociali concreti, e ciò sia detto senza alcuna retorica o pretesa che
l’esperienza fatta in Zambia e Guinea rappresenti per forza l’esempio più cristallino di tutto ciò.
Riconoscere questo elemento significa rovesciare una concezione per cui è la disponibilità di risorse
a fare la differenza, risolvendo quella che talvolta ci appare come un’insanabile contraddizione
quando vediamo che l’abbondanza di risorse finisce in molti casi per aggravare problemi e
frammentazione piuttosto che risolverli. Allo stesso modo l’idea di giustizia che ne emerge non è
quella che viene concretizzata dalla maggiore disponibilità di risorse; quanto quella che viene resa
presente da relazioni rinnovate, più autentiche perché basate su una piena dignità di tutte le parti in
causa, e dunque per questo più ‘giuste’.
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Fedele ai suoi mandati originari, l’iniziativa in Zambia e Guinea ha iniziato un percorso alla ricerca
dei ‘poveri’, potenziali beneficiari delle azioni da intraprendere, per ritrovarsi alla fine del cammino
con altrettanti ‘cittadini’, soggetti attivi e titolari di diritti e responsabilità, impegnati nella
concezione e nella realizzazione dei loro stessi percorsi di cambiamento. E’ probabilmente in questo
modo che coloro i quali hanno avuto una parte, piccola o grande, in questo tragitto desiderano che
questo percorso sia ricordato: per la possibilità messa concretamente a disposizione di conquistare
uno spazio di protagonismo. Quello spazio nel quale attraverso le iniziative in Zambia ed in Guinea
si è riconosciuta la presenza di cittadini là dove forse non si era completamente preparati a trovarli.
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