l`approccio generazionale come evoluzione del “marketing dell

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l`approccio generazionale come evoluzione del “marketing dell
La valenza identitaria dell’esperienza di consumo in
tempi di recessione
Stefano Gnasso
Docente di “Sociologia dei consumi” presso l‟Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
Premessa
A un anno dallo scoppio della fase acuta di una rilevante crisi finanziaria, di cui i
comuni mortali (e noi con loro) non intravedono i contorni, per non dire le cause, ci si
interroga, cosi‟ come è avvenuto, seppur a corrente alternata, negli ultimi cinque anni,
sulla esistenza, o meglio, sulla reale intensità di una crisi economica. Insomma: siamo
poveri o siamo ricchi?
Lungi dall‟essere in grado di valutare la valenza economica di tale congiuntura,
ci piacerebbe allargare lo sguardo e cercare di valutare quali siano gli atteggiamenti culturali sottostanti alla nostra, contemporanea, azione economica e come essi possano accentuare o depotenziare la dinamica di recessione che stiamo vivendo, in termini soprattutto di maggiore o minore inclusione sociale percepita. Soprattutto, poi, pensare a dare
una risposta di tipo culturale, per ridare un senso di inclusione sociale, prodromico, a
nostro avviso, di una ripresa economica.
Per fare quest‟ultima operazione è necessario situarci nell‟oggi, nella cosiddetta
postmodernità o ipermodernità che dir si voglia.
Nella fattispecie non crediamo sia possibile tornare a trent‟anni fa e piu‟, prendendo come data simbolica la pubblicazione de “La condizione postmoderna” di Lyotard; quindi non pensiamo che si possa, improvvisamente, tornare ad un‟identità sociale
tipica della modernità, intesa come un percorso monodirezionale, unico e cogentemente
teleologico, cosi‟ come non pensiamo si possa tornare alle grida nelle Borse, eliminando
la tecnologia che consente contrattazioni in tempo reale, in ogni parte del globo, ad ogni
ora della giornata. Ancor di piu‟ non crediamo che, allo stato attuale, possa essere possibile a livello di maggioranza sociale un progetto di moderazione consumista vissuto
con convinzione.
La volontà di prendere atto della situazione e di cercare di dare delle risposte adeguate
sul piano culturale, ci ha portato ad interrogarci sui temi dell‟identità, dell‟esperienza e
della narrazione condivisa. Crediamo che questi siano gli ambiti da indagare per rispondere ad alcune domande che ci hanno tormentato in questi mesi: se tutti gli operatori
finanziari erano in grado di conoscere, sino a due anni fa, il livello di rischio che si andavano ad assumere, perché se lo sono assunto? E‟ una questione economico-finanziaria
o una questione culturale? La cultura che fa da sostrato a certe scelte economicofinanziarie, poi, è propria solo di alcuni ambienti o appartiene piu‟ diffusamente al corpo sociale? Ad esempio, chi ha comprato una casa negli Stati Uniti, accendendo un mutuo che molto difficilmente avrebbe potuto estinguere, ha un atteggiamento culturale
cosi‟ diverso dalle elites che hanno creato i prodotti finanziari in questione?
Piu‟ precisamente: quali sono le nostre narrazioni, sociali e individuali? Prevedono ancora un destino? Come, eventualmente, riuscire a cambiarle?
Da qui passa il senso di inclusione ed esclusione sociale, che incide sul come affrontare la crisi in atto, influenzando la percezione di povertà o di ricchezza e le relative
prospettive di azione. E i relativi comportamenti di acquisto e di consumo.
1. Un’antropologia del consumatore
Si deve, infatti, rimarcare che il consumo ha delle dinamiche che solo in parte sono dettate dalla razionalità economica, soprattutto oggi, al tramonto della modernità, quando
la costruzione culturale settecentesca, Smithiana, dell' homo oeconomicus, sembra essere in crisi di prospettiva, non riuscendo a rappresentare efficacemente le dinamiche di
fondo del comportamento umano (vedi i casi scatenanti la crisi finanziaria di cui sopra).
Nel nuovo millennio, quindi, appare fondamentale (non solo per la disciplina del marketing) ricordare che l‟agire di consumo è, innanzitutto, un‟esperienza umana e che il
fatto che implichi una transazione economica non lo rende diverso dalle altre e non altera certamente il suo profondo significato psicologico e socioculturale.
Condividendo le precisazioni terminologiche di Gian Paolo Fabris:
La stessa etichetta di consumatore – inadeguata, restrittiva, ideologicamente connotata – è
datata e riconducibile al vecchio paradigma… se continuiamo ad usare la parola
consumatore è solo per convenzione, ma il suo significato è profondamente diverso da
quello originariamente attribuitogli1.
Si tratta, infatti, di un agire complesso, carico di valenze emotive e simboliche, esteso
ed eterogeneo, che pervade ormai ogni momento della nostra quotidianità, partecipando
alla creazione e alla diffusione di fenomeni e tendenze all‟interno del corpo sociale.
Il consumo si rivela così un‟area straordinariamente ricca anche per intravedere dinamiche sociali di più ampia portata.
Porre al centro l‟esperienza esistenziale e quotidiana di ogni singolo soggetto, inteso
non solo come consumatore ma anche globalmente come persona, diviene allora prioritario per comprendere il contesto socio-economico , quello spazio d‟intersezione fra società, mercato, aziende e individui, e soprattutto per comprendere la nuova figura di
consumatore che si va delineando.
Un atteggiamento di indagine non semplice da mettere in pratica, dato che, negli ultimi
25 anni, l‟economia, o meglio la narrazione dell‟ homo oeconomicus visto come il fine
della storia umana, ha tracimato in ogni aspetto della vita quotidiana2. Tanto che oggi
una crisi economica sembra determinare ogni sensazione di benessere o di malessere. E‟
necessario un faticoso cambio di paradigma, spinto anche dall‟esigenza di rimettere
dentro alcuni argini esistenziali il ruolo dell‟economia e del denaro nella vita delle persone.
Un passaggio di paradigma in cui, partendo da una nuova centralità della persona, occorre riscrivere regole, ridefinire strumenti di analisi e metodologie, introducendo nuovi
temi di riflessione e riferimenti valoriali.
Un passaggio di paradigma che potrebbe significare, per le attività aziendali e produttive, una rifondazione del rapporto con l‟individuo, ponendolo definitivamente al centro e
selezionando i processi produttivi compatibili con questa nuova centratura.
Un passaggio di paradigma che potrebbe far arretrare la transazione economica rispetto
ad una sorta di reciprocità, dove l‟impresa e l‟individuo si possano muovere in una relazione alla pari, segnata da un dialogo interattivo, continuo e sincero.
1
G. FABRIS, Il nuovo consumatore: verso il postmoderno, 2003, Franco Angeli, Milano.
p. 45.
2
L. GAGGIOLI, “Dalla crisi alla post-economy”, in “Popoli” n° 8/9 2009
Queste le possibili tensioni, per noi necessarie per una corretta ripresa economica; ma
quale è il punto di partenza, quale è oggi l‟identità del consumatore, e come ha interagito con lo sviluppo del consumo degli ultimi trent‟anni?
Dagli studi psicografici emersi nella seconda metà degli anni ‟703, infatti, si è colto che
il consumo ha una valenza identitaria. Noi riteniamo che ad avere valenza identitaria sia
l‟esperienza di consumo o, per meglio dire, il racconto che si fa di essa.
Pertanto è necessario riflettere sui temi dell‟identità, dell‟esperienza e della narrazione
per iniziare a dare una risposta al quesito.
2. Identità, esperienza e narrazione
Al contrario di quello che riteniamo sia avvenuto con la riflessione, sviluppatasi
negli ultimi dieci anni, in ambito economico-aziendale, a partire dagli Stati Uniti4, legata al filone di studi sul marketing esperienziale, noi vogliamo recuperare il quotidiano e
non lo straordinario per mettere in rapporto i tre temi, dato che riteniamo che esso sia la
materia prima dell‟esperienza. La tendenza, usata dalla prospettiva del marketing esperienziale, a voler saturare tutti i momenti vissuti affinché siano una serie di emozioni
indimenticabili, rappresenta solo un aspetto possibile e, tendenzialmente, marginale nel
nostro vissuto.
A tale proposito è utile ricordare alcuni studi e considerazioni. In particolare per
un discorso sociologico sulla quotidianità, riteniamo opportuno, ai nostri fini prendere la
nozione di “esperienza” in una specifica accezione, come forma di confronto, maturazione e quindi modificazione del soggetto in rapporto all‟altro da sé.
Fra i classici del XX secolo è soprattutto Walter Benjamin che ha riflettuto su
questo modo di usare tale concetto. L‟autore, infatti, parla di processo attraverso il quale
nel soggetto si deposita la memoria di ciò che ha vissuto, un percorso in cui egli ha la
facoltà di rivisitare i diversi momenti della propria storia e connetterli fra loro attribuendovi un senso. In questo senso l‟esperienza diventa sia un patrimonio, ovvero l‟insieme
3
W.WELLS, “Life Style e psicografia”, Edizioni Il Millimetro, Milano 1977
delle tracce lasciate in noi dalla vita, sia una capacità necessaria per trovare il filo conduttore della propria trama. Come scrive Victor Turner infatti “l‟esperienza è incompleta, a meno che uno dei suoi momenti non sia un atto creativo di retrospezione, nel quale
agli eventi e alle parti dell‟esperienza viene attribuito un significato. L‟esperienza è
dunque sia un vivere attraverso che un pensare all‟indietro. Ed è anche un volere o desiderare in avanti, cioè uno stabilire mete e modelli per l‟esperienza futura, nella quale si
spera che gli errori e i rischi dell‟esperienza passata saranno evitati o eliminati”5. Se
quindi l‟esperienza è un pensare all‟indietro, il modo più comune con cui si realizza
questo processo è il racconto. Raccontare infatti è dare una trama, un ordine e un certo
significato al passato: è dunque esattamente ciò che l‟esperienza attende come suo compimento. Quello che noi abbiamo vissuto può incontrare in ciò che un altro ci dice, in
ciò che ci raccontano un film, un libro o un‟opera d‟arte, le parole per essere detto, i
modi per essere riconosciuto, persino il suggerimento di quali sentimenti vi siano corrispondenti. E questo avviene nel corso della vita ordinaria, o in quegli eventi che, anche
se eludono la nostra routine entrano in discorsi che vanno a formare o che strutturano il
pensiero con cui affrontiamo la vita quotidiana. Così, anche in questo senso,
l‟esperienza è intrecciata alla vita quotidiana, ne fa parte. Per la loro capacità di lasciare
una traccia nel tempo, nasce quindi la necessità di creare esperienze che siano un fondamento per la nostra quotidianità.
Chiariti questi presupposti possiamo abbandonare Benjamin, il quale giunto a queste conclusioni affermò che in età moderna sia l‟esperienza che la narrazione si erano
atrofizzate6, per assumere a riferimento alcune riflessioni di Paolo Jedlowski che colgono, a nostro parere, il punto centrale della questione. Per inciso, non è sicuramente nostra intenzione negare la validità delle considerazioni di Benjamin, ma dal punto di vista
Piu‟ precisamente a partire dal testo di J. Pine e J. Gilmore “The experience economy”, Harvard Business School Press, 1999.
5
V. TURNER, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna, 1986, pp. 43-44.
6
L‟autore giustifica questa affermazione non solo attraverso i cambiamenti sociali avvenuti in età moderna (la perdita delle tradizioni, l‟avvento della macchina, ecc.), ma anche osservando i reduci della Prima Guerra Mondiale, i quali tornarono ammutoliti (lo stesso meccanismo si può ritrovare davanti ad altre
tragedie che hanno segnato il Secolo passato, come per esempio l‟Olocausto). Davanti al portato di alcune
tragedie non esiste, secondo l‟autore, all‟interno della società un discorso in cui quel vissuto può ricevere
senso, dal momento che è impossibile raccontare quello che a stento trova, nella cultura disponibile, le
parole per essere detto o udito.
4
di chi il processo attuale lo vive e ne fa parte si può affermare che l‟esperienza, e con lei
la narrazione, esistano ancora, e che forse stanno semplicemente cambiando aspetto.
Riteniamo infatti che le narrazioni partecipano alla costruzione sociale della realtà
ed aiutano a formare il tessuto di interpretazioni comuni all‟interno delle cerchie sociali;
in definitiva aiutano a portare il nuovo e l‟occasionale all‟interno della cornice del già
noto, del riconoscibile, attraverso dei meccanismi narrativi coerenti al tipo di relazione
in cui avvengono (è spesso la relazione a definire cosa sia giusto o cosa non sia giusto
dire ed in che termini). Per dirlo in poche parole, i racconti e con loro le narrazioni che
li formano, aiutano il sedimentarsi del senso comune7.
Vorremmo a questo punto ricordare che il senso comune è una conoscenza data
per scontata che definisce l‟idea che l‟individuo ha in rapporto a sé e al suo contesto.
Ma se da una parte i racconti che lo alimentano vengono resi oggettivi per limare ogni
dubbio e confermare quindi il proprio credo, dall‟altra parte non possiamo dimenticare
che l‟incerto accompagna costantemente il nostro quotidiano8. È quando si è all‟interno
di questa intersezione, nello spazio liminale di questo continuo gioco narrativo tra rassicurazione e inquietudine, quando si verifica che non è la relazione a comandare il tipo
di narrazione, ma al contrario è quest‟ultima che retroagisce sulla relazione modificandola, che si realizza una vera testimonianza della vita; questo perché chi racconta non lo
fa ricomponendo tutto all‟interno del senso comune, ma conservando qualcosa di enigmatico, lasciando in sospeso la domanda “e questa è la vita?”. All‟interno di ciò che non
“Per certi versi, il senso comune è una forma di memoria sociale. Esso si manifesta come un insieme
di regole, di precetti e di aspettative che orientano l‟agire di ciascuno entro il proprio mondo. Ma, per
altri versi, è anche altro: è il modo del pensiero secondo cui il mondo è dato per scontato. È cioè la
struttura che rende conto di ciò che ci appare ovvio, e dunque non problematico, familiare. La radice
di questa struttura è pragmatica: rimettere tutto costantemente in discussione è antieconomico, e lo è
innanzitutto in termini di energia psichica”. Paolo Jedlowski, Fogli nella valigia. Sociologia, cultura,
vita quotidiana, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 59.
8
Il dubbio è un lato dell‟esperienza che anche Benjamin aveva colto. In una lettera scritta negli anni
Trenta, (citata da Paolo Jedlowski durante il seminario “Il lavoro sul film”, del 5/6/2007, presso
l‟Università di Torino) l‟autore dichiarò che alla radice della propria teoria dell‟esperienza vi era un personale ricordo d‟infanzia. Benjamin raccontò che in seguito a una delle diverse visite che egli e la sua
famiglia eseguivano abitualmente durante le loro vacanze il fratello disse “dunque, saremmo stati qui?”.
La frase nella sua forma condizionale sostituisce alla certezza del nostro appartenerci, alla convinzione
dell‟immediatezza della percezione, il dubbio, un‟incertezza che suggerisce l‟estraneità del soggetto a se
stesso. Tema caro all‟autore che lo considera il risultato del contesto moderno, ma che sotto alcuni aspetti
può essere definito un tema atemporale, in grado di innescare riflessioni che forse ci permettono di capire
dove si nasconde realmente la possibilità di una ricostruzione esperienziale.
7
è sicuro si sedimenta il dubbio che qualcosa non andava lasciato per scontato, o che non
sia stato preso in considerazione, ed è quindi dentro a questo meccanismo che nasce la
possibilità di poter mettere in gioco nuovi discorsi che facciano progredire la coscienza
umana circa quello che è il nostro esistere e il nostro contesto. Lì, in quella fessura, si
può annidare la possibilità di creare un‟esperienza trasformativa. Bisogna a questo punto aggiungere che quando si verifica un discorso di questo tipo il narratore si offre come
testimone dell‟esistenza e il destinatario, simmetricamente, se è adeguato al racconto, si
presta come testimone della testimonianza.
Risulta allora evidente l‟importanza della figura del destinatario, il quale rappresenta l‟anello mancante per la chiusura del cerchio. Il ricevente risulta quindi avere una
responsabilità morale: infatti se l‟altro non può raccontare il suo vissuto, gli sarà impossibile riappropriarsene; è quindi fondamentale l‟esistenza di chi sappia e voglia ascoltare perché permette di completare il processo esperienziale.
3. La narrazione odierna del consumo
Da queste riflessioni emergono due considerazioni. La prima è l‟attitudine o meno
di certi discorsi ad aprire quella fessura affinché il dubbio si insedi, venga elaborato e
attraverso questo processo inizi ad entrare nelle narrazioni. La capacità di una forma
espressiva di aprire nuovi spazi semantici in grado di innescare una nuova riflessione
che non risulti scontata e sulla quale, quindi, la nostra mente non è per abitudine accomodata. La seconda è l‟abilità di predisporre un‟esperienza coinvolgente affinché il destinatario sia in grado di mettere in gioco la sua “responsabilità morale”.
Responsabilità morale, invocata da piu parti, ma ancora poco praticata dai piu‟;
basti pensare alla letteratura sull‟etica nel business, fiorita negli ultimi dieci anni, e alla,
sembrerebbe, scarsa influenza pratica di essa sui comportamenti contemporanei.
Basti pensare, soprattutto, all‟urgenza espressa nell‟enciclica “Caritas in veritate“,
del giugno 2009, relativamente al recupero di un‟eticità nell‟economia e, soprattutto, di
una cultura dell‟amore e della carità a livello personale.
Per poter iniziare a immaginare narrazioni che vadano in questa direzione è opportuno mettere a fuoco, come espresso in precedenza, l‟influenza del consumo sul senso
comune.
A riguardo, prendiamo come riferimento riflessioni condotte da Massimo Ilardi 9, laddove egli nota che dagli anni Settanta lo sviluppo del consumo è sempre meno collegato
ad un progetto sociale. Questo perchè, a partire da quel decennio si smette di seguire,
come vettore sociale, il sogno del successo, con le sue tappe segnate simbolicamente
(anche) dal consumo di particolari beni, ma ci si appropria (istantaneamente) del successo del sogno. Con il risultato che oggi siamo fieri dei nostri sogni e ansiosi di rappresentarli simbolicamente tramite il consumo o, meglio, diciamo noi, tramite il pieno inserimento nei flussi di consumo. Ansiosi al punto tale che non siamo disposti ad aspettare
momenti opportuni o, addirittura, disposti a fare sacrifici per raggiungere l'obiettivo.
Ansiosi anche a causa delle nostre identità molto deboli, dato che, con il postmoderno, il
processo identitario è diventato un processo molteplice, frammentato e rinegoziabile in
itinere.
Si è detto che il consumo ha una valenza identitaria ma oggi possiamo dire che non è
neanche più il consumo di un bene a dare un apporto alla nostra identità (debolissima),
ma è la capacità di reggere il ritmo del consumo: capacità da esplicare individualmente,
appagante, quindi, soprattutto in una condizione di solitudine.
Si può dire che siamo pienamente inclusi, pienamente cittadini della postmodernità, se
pienamente inseriti nel flusso di consumo10.
L'atto di consumo, pertanto, diviene uno stato di necessità da soddisfare individualmente.
Rimarchiamo, con Ilardi, che qui si apre spazio ad ogni tipo di conflitto; lo si può riscontrare, ad esempio, in recenti agitazioni sindacali che, più che tutelare l'occupazione,
hanno avuto l'obiettivo di tutelare il pieno inserimento nei flussi di consumo (simbolicamente: il diritto di cittadinanza).
Notiamo quindi che l'azione per tutelare (o conquistare) la propria inclusione sociale
tende a rompere gli equilibri della società tradizionale (moderna) ma, mancando di tensione sociale, non va a definirne di nuovi. In tali termini si puo‟ spiegare l‟urgenza di un
cambiamento culturale di tipo personalista, solidale, espressa nell‟enciclica prima citata,
9
M. Ilardi “Nei territori del consumo totale” Derive e approdi, Roma 2004
G.P.Parenti-S.Gnasso, La fine della meraviglia, Editori Riuniti, Roma, 2004
10
come peraltro espressa nel recente testo (2009) del cardinale Tettamanzi “Non c‟è futuro senza solidarietà”11.
La necessità di consumo, di conseguenza, può essere alla base di problemi politici, di
governabilità della pace sociale. Inoltre, cosa più sorprendente e, a nostro avviso, più
interessante per capire l'attuale dinamica socio-economica, può essere un problema per
il sistema di mercato.
Tale sistema è, infatti, bisognoso di ordine e, per questo, portatore di etica e di regole,
che sempre più, il consumatore, per essere tale, necessariamente deve trasgredire, stante
il suo stato di necessità. Il successo del sogno, infatti, non pone limiti, non consente,
quindi l‟appropriazione individuale di un percorso rituale, proprio del sogno del successo degli anni ‟50 e ‟60. Si forzano le “regole del mercato” perché gli individui non le
introiettano piu‟ nel loro percorso esistenziale.
Lo stato di necessità legato al consumo inoltre, paradossalmente, viene sempre più alimentato da sollecitazioni del mercato per favorirne il relativo sviluppo, in base alla considerazione (o meglio alla “legge di mercato”) che il consumo è il motore dello sviluppo
economico.
Sollecitazioni, queste, in un momento di recessione economica quale l'attuale, che, come effetto non troppo collaterale della loro azione persuasiva, non possono far altro che
alimentare un senso di esclusione sociale crescente (secondo una recente indagine dell'istituto Swg, tale sentimento è cresciuto di dieci punti percentuali in un anno e mezzo12)
e rinvigorire un sentimento di invidia sociale per gli “inclusi senza merito”, che possono
cambiare volto a seconda della contingenza.
Per inciso, data la nostra debole identità, ormai i nostri strali sembrano andare su qualunque categoria o gruppo sociale sia ancora dotata di una qualsivoglia identità: medici,
professori universitari, piloti, impiegati pubblici, etc.13 (Diamanti 2008)
Si può obiettare che lo stato di necessità legato al consumo possa essere reversibile. Obiezione corretta ma necessitante del fatto che si cambino i sogni citati da Ilardi, ovvero
che si vadano a modificare alcuni tratti costitutivi della nostra recente identità sociale.
11
12
D. Tettamanzi, “Non c'è futuro senza solidarietà”, Edizioni San Paolo, Milano, 2009
Indagine quantitativa “Walden” dicembre 2007
Come? Iniziando a lavorare sul piano oggi più direttamente coinvolto dai comportamenti individuali di consumo: il piano estetico.
Lavorando su un'estetica di durata e non sull'attuale estetica dell'effimero, si può iniziare a spostare l'individualismo dominante verso una dimensione personalistica, foriera di
una maggiore apertura sociale e di un maggior senso di inclusione.
Si può così cominciare a dare risposte anche su un piano esistenziale, affrontando il
problema della crescente mancanza di orientamento, ed offrendo una cornice di senso al
malessere interiore e allo smarrimento sociale.
3. Il ruolo identitario del brand e della sua narrazione
Per inciso, questa missione può essere svolta anche dalle aziende, che troverebbero una
nuova centralità sociale ed economica: l‟esperienza di consumo andrebbe a rafforzare
la sua progettualità e riaffermarsi fonte di investimento emotivo e di significato per
l‟individuo, riattivando il meccanismo del desiderio e la sua dimensione immaginativa,.
Il processo immaginativo appare la condizione indispensabile perché il consumo si confermi fattore identitario.
Diviene fondamentale, quindi, ricostituire questo spazio simbolico all‟interno soltanto
del quale gli oggetti acquisiscono valore per il soggetto e diventano capaci di mobilitarne il desiderio.
E‟ in questa fase in cui, pur non possedendo ancora il bene, già incominciamo a
immaginarne gli effetti sulle nostre vite, che ci convinciamo all‟acquisto e avviamo dentro
di noi quel processo trasformativo (della nostra autopercezione e della nostra immagine
sociale) che l‟entrata in possesso del bene andrà a completare14.
13
Ilvo Diamanti, La Repubblica, 2/12/2008
G. P. PARENTI, S. GNASSO, (a cura di), La fine della meraviglia, Editori Riuniti, Roma, 2004, p.
177.
14
In questo modo, l‟esperienza appare in grado di realizzare una sospensione creatrice,
carica di potenziali cambiamenti, arricchendo e trasformando profondamente chi la vive.
L‟esperienza davvero trasformativa è, infatti, quella capace di proiettare l‟individuo nello spazio potenziale sospeso tra il non più e il non ancora, in cui cominciare ad immaginarsi diversi, confrontandosi con il possibile e mettendosi alla prova.
Un limen rituale15, in cui mediare tra le spinte contraddittorie e ricercare un equilibrio
tra ribaltamento ed ordine, innovazione e tradizione, violazione e conferma.
Il luogo della sospensione e dell‟elaborazione; l‟interfaccia in cui il mondo tenta le sue
trasformazioni; l‟interstizio grazie al quale la realtà può compiere un‟immersione nella
possibilità, emergendone rinnovata16.
Una dimensione di passaggio, soglia (limen), di destrutturazione e transizione, ma di
grande creatività e produttività, in cui nascono nuovi simboli e paradigmi, che portano a
trasformazioni individuali e collettive, fondamenta di un nuovo equilibrio.
Si ritornerebbe, in altre parole, al sogno del successo, citato da Ilardi. Si ridarebbe ritualità al consumo.
Reintroducendo il rito l‟esperienza sarebbe trasformativa, non uno “scherzo
dell‟esperienza”, non un'esperienza liminoide, priva di direzione.
A questo punto è però necessario che il racconto, o, piu‟ latamente, il mezzo espressivo con cui l‟evento è stato pensato e realizzato, sia in grado di richiamare
l‟attenzione attiva e reale del destinatario.
In un gioco di alimentazione reciproca crediamo che nella misura in cui il meccanismo di rappresentazione è in grado di trovare legittimazione e di avvalorare se stesso,
il destinatario, anche se al momento sprovvisto, possa comunque acquistare nel tempo i
mezzi adeguati per farsi uditore e per assumere pienamente il proprio ruolo. Se un discorso diventa narrazione quotidiana, la consapevolezza si sedimenta nella coscienza
collettiva. A questo punto bisogna permettere al racconto di aprire quella fessura semantica all‟interno della quale coltivare quel dubbio che sappia essere portavoce di una
15
V. TURNER, From ritual to theatre: the human seriousness, Paperback, London 1982 (tr. It. Dal
rito al teatro, Il Mulino, Bologna 1986).
16
F. DI CHIO, G. P. PARENTI, Manuale del telespettatore, Bompiani, Milano 2003, p. 157-8.
nuova riflessione. In questo senso un‟esperienza può allora risultare davvero trasformativa.
Il punto è che le narrazioni, e piu‟ in generale l‟arte, appartengono alla sovrastruttura, cioè sono forme ideologiche che permettono agli uomini di concepirsi e rappresentarsi nella situazione reale in cui si trovano ad operare. Pertanto esse non sono separate
dalle questioni centrali della società, dall‟economia, dalla gestione del territorio, dei
suoi conflitti e dalla vita delle comunità.
4. Quali contenuti oggi
Punto chiave del sistema produttivo odierno è che non è possibile prescindere
dall‟attualità socio-economica per poter decidere cosa raccontare e come farlo. La descrizione, l‟analisi e l‟interpretazione della realtà diventano tre step sempre più fondamentali.
Inoltre non si puo‟ prescindere dal fatto che i cantori della civiltà moderna siano i media; sono le loro storie, i loro racconti, a offrire oggi dei modelli di riferimento e delle
linee guida. In uno scenario mediale sempre piu‟ complesso, dove, paradossalmente ma
non troppo, centrale è il contenuto.
Svincolato dal mezzo, disperso tra le varie piattaforme, non ha più un forte valore autonomo, ma rappresenta l‟oggetto del desiderio dell‟utente e il presidio imprescindibile
per le imprese del settore.
In una logica di fruizione multitasking, l‟utente vuole poter transitare attraverso il maggior numero di contenuti possibili, l‟obiettivo è il percorso in sé e non il raggiungimento
di una meta. Per questo il contenuto è diventato , per dirla con Baricco, un “sistema passante”17, cioè una dinamica che favorisce il transito da un‟esperienza all‟altra della sequenza senza prevedere uno stop su ognuna, ma privilegiando anzi il fluire veloce del
movimento (del resto Bauman ha più volte detto che la postmodernità è un´epoca liquida18).
17
18
A.Baricco, I Barbari. Saggio sulla mutazione, Fandango, Roma, 2006
Cfr. Z.Bauman, Vita liquida, Laterza, Roma-Bari, 2006
Quindi il contenuto, visto come un sistema passante, ha tanto più valore quanto più
facilita e rilancia il percorso fruitivo. Anche l‟esperienza si piega perciò a questo criterio; la tendenza prevalente è caratterizzata da un‟offerta che non propone esperienze
singole, esaltate nella loro valenza, apprezzate per il significato che hanno e il messaggio che comunicano, ma una sequenza di esperienze di fronte alla quale l‟elemento qualitativo passa in secondo piano, offuscato dall‟aspetto quantitativo.
Ma tale connotazione, se, rispetto al rilancio verso altri contenuti, non ha una direzione
o non è possibile per il consumatore introiettare una direzione, è problematica per
l‟identità del consumatore, dato l‟ appagamento effimero proveniente dall‟esperienza,
che, affondando le proprie radici nel terreno di una fruizione sbrigativa e poco approfondita, presto si rivela evanescente.
Soprattutto però si rivela problematica per la capacità dell‟azienda di generare ritorni
economici.
Dal momento infatti che l‟utente concepisce il contenuto come un passante, ne ha spesso una percezione gratuita, che è anche rafforzata dalla logica del Web.
Come generare ritorni economici da “passanti finalizzanti” (“Facebook” su tutti), contenuti che convogliano altri contenuti lungo il percorso di fruizione, ma senza una meta, o
un obiettivo predeterminato?
Piu‟ facile generare ritorni da “passanti finalizzati”, ovvero dove possa essere ritrovata
una direzione o quanto meno la presenza di un “fil rouge” in grado di agire alla stregua
di un tessuto connettivo, che integra le varie esperienze tra loro, strutturandole entro un
“frame”, all‟interno di una grande “architettura di progetto”. Un‟articolazione che puo„
essere complessa, che ricorda una grande ragnatela, intessuta accuratamente sulla base
di nodi tematici, che permettono di effettuare numerosi rimandi nell‟arco della sua superficie. Ci puo‟ essere assenza di linearità, purchè compensata da un‟organizzazione
che consente ad ogni fruitore di ordinare le esperienze messe a disposizione secondo i
suoi percorsi personali: grazie a questa sorta di “rete”, il soggetto riceve la possibilità di
arricchirsi tramite delle storie. Si innesca sostanzialmente una narrazione, composta da
tanti nuclei testuali dai quali il pubblico può, attingere a piene mani. Proprio in ragione
di questa opportunità di fare propri e riplasmare i contenuti messi a disposizione,
l´esperienza non si offre quindi in quanto oggetto di valore in se e per sé, ma come
mezzo che consente di cogliere un senso più celato. I fruitori non si trovano pertanto
dinnanzi ad una vasta gamma di esperienze che toccano tanti punti in modo superficiale
e appena orientativo, senza però soffermarsi su nessuno in particolare, bensì ad un insieme di esperienze che vengono lette secondo i canoni di un approccio costruito in senso verticale, ovvero che si dirige in profondità, finalizzato a scorgere e mettere in luce i
suoi meccanismi reconditi. L´idea è dunque quella di fornire un‟esperienza perché ci si
possa focalizzare sul suo senso, non perché ci si accontenti della sua immediatezza, delle sensazioni che consente di provare, di una gratificazione effimera: non l´esperienza
per il gusto dell‟esperienza, ma l´esperienza per il significato e il valore che essa dischiude.
Si recupera cosi‟ una antica concezione di esperienza. Essa non viene infatti intesa esclusivamente come strumento a cui si ricorre per aumentare l´attrattiva di un´offerta,
ma viene anzi legata “alla capacità di accostarsi alle cose una per una e di maturare
un´intimità con esse, di dischiuderne le stanze più nascoste.”19. In tal senso,
l´appagamento che la tecnica aziendale postula possa derivare dall‟esperienza, non si
riferisce tanto all‟intensità di un´emozione, alla pienezza di una sensazione, quanto alla
“magia di un istante, [a]ll‟intuizione lampo che scende fino in fondo e riporta a casa
l´icona di un senso, di un vissuto effettivamente accaduto, di un´intensità del vivere.”20.
Ancora una volta l´accento non viene posto sull‟intensità del vivere, ma sul senso che
l´intensità del vivere ha; non sul percorso, ma sulla ragione che spinge ad intraprenderlo.
La forza dell‟ ars persuasoria del “passante finalizzato” sta proprio nell‟esplicito coinvolgimento operato nei confronti del pubblico. Esso richiede dunque ai suoi fruitori una
partecipazione attiva, cercando di stabilire un rapporto diretto e stabile tra essi e i soggetti ideatori. Non si pone esclusivamente come esperienza ma come strumento in grado
di mettere in contatto produttori e consumatori, come relazione. L´esperienza non ha
pertanto l´obiettivo di convocare un mondo altamente emotivo che stimoli sensazioni
piacevoli e quindi appagamento; questo rappresenta solo un mezzo, per giungere a qualcosa d´altro. Il fine consiste piuttosto nella realizzazione di un coinvolgimento oggetti19
20
Baricco (2006), op. cit.
ibidem
vo, e proprio su questo si basa semmai la gratificazione che gli individui possono esperire.
Sul piano concreto, potremmo definire la console WII della Nintendo un “passante finalizzato” perché c‟è un duplice obiettivo: il superamento del gioco e la condivisione
dell‟esperienza, C‟è il gioco, ingrediente tipico del videogame, ma soprattutto c‟è la fisicità dell‟interazione ludica, che crea una continuità esperienziale tra mondo virtuale e
reale. Ciò significa che il piacere nasce soprattutto dal senso che hanno i gesti che si
compiono nel gioco, dal portato simbolico che queste pratiche possiedono
Facile capire perché l‟utente decida di comprarla: il possesso dell‟oggetto gli garantisce
un‟esperienza reale, condivisa e riconosciuta, ma non limitante, perché il suo percorso
può continuare attraverso altri livelli, altri giochi, altri amici.
Nello spot di lancio con Panariello, peraltro, il ruolo del prodotto aveva una funzione
ambivalente, giacché da un lato esso si rivelava un elemento determinante nella creazione del legame sociale e dell‟atmosfera gioiosa e gradevole che lo pervade, di converso, però, non era il protagonista del discorso e della narrazione: non veniva, infatti, mostrato il prodotto con le sue caratteristiche, bensì i benefici e gli effetti che esso portava
sul piano sociale. Ecco quindi che la creazione del legame sociale diviene la cifra dimostrativa della qualità e dell‟unicità del prodotto, diviene la ragione in più, la reason
why, lato sensu, che ne giustifica l‟acquisto. Acquistare la consolle Wii, non significa
quindi (o almeno non soltanto) divertirsi come pazzi, bensì avere la casa piena di amici
che non vedono l‟ora di sfidarci.
Una narrazione “passante finalizzata”, quella legata alla piattaforma Wii: da sfruttare
peraltro, entrata nelle case di milioni di utenti, per far entrare molti altri contenuti.
5. Quale nuova epica
Per rispondere ai bisogni esistenziali del consumatore, la marca deve quindi diventare
un elemento in grado di interpretare i suoi bisogni e capace di proporre coerenti nuove
esperienze di vita.
Tale creazione di relazioni profonde e durature con l‟individuo contemporaneo può avvenire solo se il brand crea mondi e personaggi mutevoli, ma sempre attuali, che gli
permetteranno di mantenere un senso di credibilità e autorevolezza; è importante che la
marca abbia “una storia da raccontare, che possa per un tempo determinato sovrapporsi
o confondersi con la storia dello spettatore”21.
Di conseguenza la marca contemporanea è sempre più relazionale e caratterizzata dalla
“grande capacità nella produzione di storie, racconti, che riprendano gli archetipi narrativi”22 attualizzandoli nel presente.
Il brand pertanto deve rielaborare continuamente il proprio mondo vedendo il passato
non solo come un serbatoio di ricordi, ma anche come un terreno da ri-scoprire in termini di stimolazione, ispirazione e creatività.
Ma come indirizzare questo serbatoio di ricordi, come vettorializzare i racconti?
Abbiamo detto che si deve tener conto del contesto sociale dove è situato il consumatore, che,come detto, ha una forte influenza nell'indirizzo di narrazioni efficaci. Ma piu'
precisamente è possibile individuare quali narrazioni rispetto ad altre, saranno apprezzate dal senso comune del destinatario, e quali potranno avere un potenziale di ingaggio
trasformativo presso di lui.
Una modalità di lavoro, questa, che puo' essere seguita da qualunque istituzione ma soprattutto dalle aziende aventi marchi rivolti al consumatore. Essa puo‟ essere usata per
organizzare gli elementi della marca attorno a narrazioni coerenti, in grado di trasmettere valori in cui il consumatore possa trovare punti di riferimento per la propria narrazione identitaria.
L‟applicazione di questo tipo di ragionamento ad una dinamica commerciale consente
di creare non più solo un mondo della marca, ma un intero universo simbolico in cui
tutto è finalizzato a rappresentare il brand, a sollecitare esperienze e sensazioni positive
che facciano sentire il consumatore parte integrante di quel processo.
L‟esperienza, messa in scena dalle aziende, emergerebbe così come una nuova categoria
di offerta economica . Come peraltro ipotizzato come ultimo step del processo di evoluzione dell'offerta aziendale da Pine-Gilmore nel 199923 nel testo che ha aperto il filone
di studi sul marketing esperienziale.
21
F. Morace, Società felici, Scheiwiller, Milano, 2004; p. 50
F. Morace, Società felici, Scheiwiller, Milano, 2004; p. 51
23
J.Pine e J. Gilmore “The experience economy”, Harvard Business School Press, 1999.
22
Cosi', empiricamente, si andrebbe a favorire, attraverso la narrazione creata attorno alla
marca, un'attribuzione di un valore identitario al prodotto da parte del consumatore; che
riceverebbe così un‟esperienza gratificante, dal momento che la percepirebbe come autentica in quanto contenente, in termini narrativamente appropriati, un‟illuminazione sul
nostro Destino.
Quindi favorirebbe una presa di coscienza del nostro ruolo nell'agire sociale di oggi,
favorendo una nostra assunzione di responsabilità.
Su questi presupposti si andrebbe a creare un indirizzo per una nuova epica collegata
all'attuale ipermodernità, elemento di cui si avverte la necessità sociale.