Untitled - Rizzoli Libri

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SOPHIE MORGAN
DIARIO DI UNA SOTTOMESSA
LA STORIA VERA
DI UN RISVEGLIO SESSUALE
Traduzione di Fabrizia Macchia e Maria Rosa Prencipe
BOMPIANI
Morgan, Sophie, The Diary of a Submissive
Copyright © Sophie Morgan, 2012
First published in 2012 in Great Britain by Penguin Books Ltd.
ISBN 978-88-452-7216-5
© 2012 Bompiani / RCS Libri S.p.A.
Via Angelo Rizzoli, 8 – 20132 Milano
Prima edizione Bompiani settembre 2012
PROLOGO
Forse sei uscito per fare una telefonata o, se ne hai l’abitudine, stai finendo una sigaretta veloce prima di rientrare nel tepore del bar. In entrambi in casi, attiriamo la tua attenzione, fermi
come siamo in uno spazio tra gli edifici, dall’altra parte della
strada e a poca distanza da te.
Non fraintendermi, con questo non voglio dire che io sia un
vero schianto, né che lo sia lui. Abbiamo l’aspetto di qualsiasi
altra coppia durante un’uscita serale, né vestiti in modo insolito
né particolarmente chiassosi, addirittura banali nel nostro
anonimato. Ma c’è un’intensità, qualcosa che si agita tra noi tale
da farti fermare, da costringerti a guardare nonostante faccia
dannatamente freddo e fossi pronto a rientrare per tornare dai
tuoi amici.
La morsa in cui lui mi serra il braccio è talmente evidente,
perfino da questa distanza, che per un fugace momento ti chiedi se lascerà il livido. Mi ha spinta contro il muro, con l’altra
mano impigliata nei miei capelli, e mi tiene ferma, così che
quando provo a girare la testa – in cerca di aiuto? – non ci riesco.
Non è particolarmente grosso o robusto, anzi lo definiresti
anonimo se mai ti prendessi la briga di descriverlo. Ma c’è qualcosa in lui, in noi, che per un minuto ti spinge a chiederti se va
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tutto bene. Non riesco a togliergli gli occhi di dosso e la palese
profondità della mia soggezione fa sì che per un secondo non ci
riesca neanche tu. Lo fissi intensamente, cercando di vedere
quello che vedo io. E allora lui mi tira i capelli, attirandomi ancora più a sé con un brusco movimento che ti porta ad avvicinarti
per intervenire, prima che quelle storie sui buoni samaritani che
fanno una brutta fine ti inondino il cervello e ti fermino.
Adesso che sei più vicino, lo senti mentre mi parla. Non ogni
parola, non sei così vicino, ma abbastanza per capirci qualcosa.
Poiché si tratta di parole eloquenti. Parole cattive. Brutte parole che ti portano a pensare che potresti dover intervenire da un
momento all’altro se la cosa degenera.
Troia. Puttana.
Mi guardi il viso, così vicino al suo, e vedi la furia divampare
nei miei occhi. Non mi vedi parlare, perché non lo faccio. Mi
mordo il labbro, come per reprimere l’impulso di reagire, ma
resto in silenzio. La sua mano mi stringe ancora più forte i capelli, fremo ma resto comunque ferma, non esattamente passiva
– percepisci lo sforzo che faccio per non muovermi, è tangibile – ma di certo controllata, mentre resisto all’assalto verbale.
Poi una pausa. Sta aspettando una reazione. Ti avvicini. Se te
lo chiedessero diresti che era per controllare che fosse tutto a
posto, ma intimamente sai che si tratta di curiosità, pura e
semplice. C’è qualcosa di selvaggio, primitivo nella nostra dinamica che ti attrae mentre al tempo stesso quasi ti ripugna. Quasi.
Vuoi sapere come reagirò, cosa succederà dopo. C’è un che di
oscuro eppure irresistibile in grado di rendere intrigante ciò che
normalmente ti farebbe orrore.
Mi guardi deglutire. Mi passo la lingua sul labbro inferiore
per inumidirlo prima di parlare. Inizio una frase, abbasso la
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voce e i miei occhi guizzano in basso per spezzare il contatto
visivo mentre sussurro la mia risposta.
Non riesci a sentirmi. Ma puoi sentire lui. “Più forte.”
Arrossisco. Ho gli occhi pieni di lacrime, ma non sai dire se
si tratti di dolore o rabbia.
La mia voce è più chiara, perfino forte nell’aria notturna. Il
mio tono è di sfida, eppure il rossore sulle guance che mi arriva
fino alla clavicola, visibile sotto alla mia giacca aperta, tradisce
un imbarazzo che non riesco a nascondere.
“Sono una puttana. È tutta la sera che sono bagnata al pensiero di te che mi scopi e ti sarei molto grata se adesso potessimo
andare a casa a farlo. Ti prego.”
Il mio tono di sfida si spezza sull’ultima parola, che viene
fuori come una flebile supplica.
Mi fa scorrere oziosamente un dito lungo l’orlo della camicia
– scollata abbastanza da lasciare intravedere il solco tra i seni,
ma non esattamente da sgualdrina – e rabbrividisco. Inizia a
parlare e il tono della sua voce fa sì che tu reprima l’impulso di
fremere.
“Sembrava quasi una supplica. Stai supplicando?”
Mi vedi iniziare ad annuire, ma la mano che mi tiene per i
capelli mi ferma bruscamente. Così deglutisco in fretta, chiudo
gli occhi per un secondo e rispondo.
“Sì.” Una pausa che si trasforma in un lungo silenzio. Un
respiro che potrebbe quasi essere un leggero sospiro. “Signore.”
Il suo dito sta ancora scorrendo lungo la curva dei miei seni
mentre parla.
“Direi che faresti di tutto in questo momento per poter venire. Lo faresti? Faresti tutto?”
Resto in silenzio. La mia espressione è cauta, cosa che ti
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sorprende avendo in mente l’evidente disperazione nella mia
voce. Ti chiedi cosa abbia incluso “tutto” in passato, cosa significherà adesso.
“Ti metterai in ginocchio e mi succhierai l’uccello? Proprio
qui?”
Per un lungo momento nessuno di noi due parla. Mi toglie le
mani dai capelli, si allontana un po’. Aspetta. Il rumore dello
sportello di un’auto che sbatte in lontananza mi fa trasalire e mi
sposto per guardare da una parte e dall’altra della strada. Ti
vedo. Per un secondo stabiliamo un contatto visivo, i miei occhi
si dilatano per lo choc e la vergogna prima di tornare a guardare
lui. Sta sorridendo. Assolutamente immobile.
Emetto un suono in fondo alla gola, mezzo uggiolio, mezza
preghiera, e deglutisco con fatica indicando la strada con un
vago gesto. “Adesso? Non preferiresti che...”
Mi preme le dita contro le labbra che ancora si muovono. Sta
sorridendo, quasi con indulgenza. Ma la sua voce è ferma.
Perentoria, addirittura.
“Adesso.”
Lancio un rapidissimo sguardo nella tua direzione. Tu non lo
sai, ma nella mia testa sto giocando a una versione molto adulta
di un gioco infantile: se non ti guardo direttamente, tu non sei lì
ad assistere alla mia umiliazione, non puoi vederla perché io non
vedo te.
Gesticolo nervosamente nella tua direzione generale. “Ma è
ancora piuttosto presto, c’è gente che cammina...”
“Adesso.”
Osservi pietrificato le emozioni contrastanti scorrermi sul
viso. Imbarazzo. Disperazione. Rabbia. Rassegnazione. Più di
una volta apro la bocca per parlare, ci ripenso e resto in silenzio.
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Per tutto il tempo lui si limita a rimanere lì. Mi guarda attentamente. Attentamente quanto te.
Alla fine, con la faccia in fiamme, piego le ginocchia e cado
sull’acciottolato bagnato davanti a lui. I capelli mi ricadono sul
viso rendendo difficile dirlo, ma credi di poter vedere le lacrime
brillare sulle mie guance alla luce del lampione.
Per qualche secondo rimango in ginocchio lì, senza muovermi. Poi mi guardi fare un profondo respiro preparatorio.
Raddrizzo le spalle, alzo lo sguardo e allungo le mani verso di
lui. Ma mentre con le mani tremanti tocco la fibbia della sua
cintura, mi ferma, dandomi un lieve buffetto sulla testa come si
fa con un animaletto fedele.
“Brava ragazza. So quanto è stato difficile. Adesso alzati e
andiamo a casa a finire. Fa un po’ freddo per giocare fuori
stasera.”
Con una mano sollecita mi aiuta a rialzarmi. Ti superiamo,
camminando sottobraccio. Lui sorride. Annuisce. Prima che te
ne renda conto e ti chieda che diavolo stai facendo, gli fai mezzo
cenno. Io guardo deliberatamente a terra, tengo la testa bassa.
Vedi bene che sto tremando. Ma quello che non puoi vedere
è quanto mi abbia eccitata l’intera esperienza. Quanto siano
duri i miei capezzoli nella costrizione del reggiseno. Quanto il
mio tremore derivi dall’adrenalina per tutto quello che si è svolto davanti a te oltre che dal freddo e dall’umiliazione. Quanto
mi entusiasmi. Quanto mi completi in un modo che non riesco
del tutto a spiegare. Lo bramo. Lo desidero ardentemente.
Non puoi vedere niente di tutto ciò. Tutto quello che vedi è
una donna tremante con le ginocchia sporche, che si allontana
sulle gambe malferme.
Questa è la mia storia.
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La prima cosa da dire è che non sono una pervertita. Be’, non
più di chiunque altro. Se venissi nel mio appartamento rimarresti più colpito dalla pila di piatti nel lavello che dalla mia segreta – non fosse altro perché il costo della vita di questa città è tale
che sono fortunata ad aver trovato un posto col soggiorno da
poter prendere in affitto da sola con il mio budget. Diciamo
semplicemente che la segreta non era proprio un’opzione.
Così, per rifarci a uno di quei noiosi stereotipi, non sono né
uno zerbino né una babbea. Non ambisco a stare tutto il giorno
davanti al forno mentre qualcun altro va a caccia per me e io
tengo accesi i fuochi della casa, il che è una fortuna, visto che a
parte un arrosto decente sono una frana come cuoca. Né assomiglio a Maggie Gyllenhaal in Secretary. Ahimè.
Si dà il caso che sia, nei momenti in cui il bisogno mi prende
e ho qualcuno di fidato con cui giocare, una sottomessa. Non lo
diresti, a guardarmi . È solo una sfaccettatura della mia personalità, uno degli elementi caratteristici che mi compongono,
be’, sì – che coesiste con il mio amore per le fragole, con l’impulso irrefrenabile di continuare a discutere caparbiamente
anche quando so di avere torto e la tendenza a denigrare il
novantanove per cento dei programmi televisivi e ad essere
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ossessionata dal restante uno per cento a un livello che fa paura
perfino a me stessa.
Lavoro come giornalista in una testata regionale. Amo il mio
lavoro e – non che sia proprio necessario dirlo – essere una
sottomessa non influisce su di esso. Francamente, se così fosse
finirei relegata a fare il tè e i racconti illustrati per la settimana
del libro in qualche asilo, un destino davvero peggiore della
morte. E poi le sale stampa sono come delle arene. È un mondo
competitivo e bisogna dare oltre che prendere. Io lo faccio.
Mi considero una femminista. Di sicuro sono indipendente.
Capace. Ho il controllo della situazione. Per qualcuno potrebbe
sembrare incoerente con le mie scelte sessuali, con le cose che
mi fanno godere. Per un periodo mi è sembrato stridente. Anzi,
a volte è ancora così, ma sono giunta alla conclusione che esistano cose molto più importanti di cui preoccuparsi. Sono una
donna adulta solitamente sana di mente. Se voglio cedere il
controllo di me stessa a qualcuno di cui mi fido affinché possa
condurci in un territorio che si riveli eccitante e sexy per entrambi, finché non lo faccio dove potrei spaventare bambini e animali, penso che sia un mio diritto. Mi assumo la responsabilità
delle mie azioni e delle mie scelte.
Tuttavia, mi ci è voluto un po’ per arrivare a questo punto.
Se la tv verità non si fosse appropriata del termine, trasformandolo in qualcosa che sembra al tempo stesso nauseante e
degno di un montaggio da video soft rock, mi spingerei a dire che
è stato un bel viaggio, ed è così che è nato questo libro. Non si
tratta di un manifesto né di un manuale, sebbene mi piaccia
pensare che se vi appassiona questo genere di cose e avete voglia
di esplorare, potreste ricavarne qualche idea. È semplicemente
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