05. Facimme Ammuina
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05. Facimme Ammuina
05. Facimme Ammuina Maggio 27, 2008 Who has time? But then, if we do not ever take time, how can we ever have time? (1) Ricordate? E’ la visionaria macchina da presa dei fratelli Wachowski a proiettarci in un mondo chiamato Matrix. In un futuro dominato dalle macchine. Reso possibile dalla finzione. Morpheus, Neo e Trinity sono al cospetto del Merovingio. L’improbabile scopo, farsi consegnare il Fabbricante di Chiavi. La missione impossibile, salvare Zion, l’ultima roccaforte della razza umana. E’ la disperata lotta contro un nemico che non può essere battuto. Una straordinaria metafora del difficile rapporto che noi, eredi dei grandi sconvolgimenti determinati dall’avvento della società industriale, abbiamo con le macchine, la realtà, il tempo, il consumo. Perché vi raccontiamo tutto questo? Perché proprio di tempo, tecnologie, realtà, consumo, tratteremo in questo capitolo. Lo faremo privilegiando lo specifico punto di vista di chi si prefigge di indagare lo spazio nel quale sono più evidenti le connessioni esistenti tra i diversi concetti e le conseguenze che esse determinano sulle nostre esistenze, nei confini di ciò che siamo e di ciò che per noi ha valore. Avremo modo così di approfondire questioni relative ai cambiamenti che si determinano nelle nostre vite ogni qualvolta cambia il nostro rapporto con il tempo, all’incidenza sempre più importante del consumo, al ruolo rilevante e controverso che in tali processi rivestono le nuove tecnologie, alle sempre più estese relazioni esistenti tra mondo reale e realtà virtuale. Per cominciare possiamo dire che il concetto di tempo può essere insidioso e banale, proprio come abbiamo pensato tutte le volte che ci siamo ritrovati come “Cesare perduto nella pioggia ad aspettare da sei ore il suo amore ballerina” (2), o ci siamo scoperti ad affermare, sentenziare, chiosare, con fare ironico o grave, che il tempo è relativo. Le ragioni di questa insidiosa banalità sono numerose. Ad alcune di esse abbiamo oggi accesso grazie al genio di Albert Einstein e alle sue teorie della relatività ristretta e della relatività generale. Altre ci vengono dalla considerazione che in fondo non sono ancora trascorsi 40 anni da quando, era il 1967, nel corso della tredicesima Conferenza Generale dei Pesi e delle Misure, si è convenuto che un secondo è un intervallo di tempo che contiene 9.192.631.770 periodi della radiazione corrispondente alla transizione tra i due livelli iperfini dello stato fondamentale dell’atomo di cesio 133 (3). Altre ancora dalla consapevolezza che il tempo dei romani non è lo stesso tempo di Benedetto da Norcia, quello dei contadini medioevali non è lo stesso dei lavoratori dell’industria tessile inglese del diciannovesimo secolo, così come quello scandito dall’alternarsi del giorno e della notte non è lo stesso tempo dell’Horarium, dei congegni astronomici ad acqua, dei primi rudimentali orologi meccanici in legno e ferro, dei tocchi e dei rintocchi delle campane, del pendolo oscillante, dell’orologio a molla da taschino e poi da polso che permette finalmente di conoscere l’ora in ogni luogo e in ogni momento. In definitiva, il tempo inafferrabile, che è la misura di tutte le cose, che tutto toglie e tutto dà, che non lascia alternative, non è stato e non è sempre lo stesso tempo né dal punto di vista scientifico, né da quello filosofico, né, tanto meno, da quello sociale. E ciò produce effetti e conseguenze sulle nostre vite, in particolar modo in questa fase nella quale i cambiamenti appaiono sempre più veloci e radicali e il modello sociale fondato sulla stabilità – dei valori, della famiglia, del lavoro – vive una profonda crisi. Nella fase precedente, chi ad esempio entrava in fabbrica come apprendista, si ritrovava nel corso degli anni operaio generico, specializzato, professionalizzato, fino a diventare a fine carriera, se proprio tutto era filato per il verso giusto, caposquadra o capoturno. E una aspettativa di carriera in qualche modo equivalente attendeva l’impiegato comunale o l’addetto alla contabilità in azienda. Per tutti, paga base, contingenza, scatto di anzianità ogni 2 anni, rinnovo del contratto ogni 3 o 4 anni, età e ammontare della pensione facilmente prevedibili non appena conquistato l’agognato posto di lavoro. E’ stata la storia di mio padre Pasquale, alla Società Meridionale Elettrica prima e poi, in seguito alla nazionalizzazione, all’ENEL; di Raffaele Parola, papà di Tonino, all’Italsider; di Gennaro Traino, papà di Salvatore, alla Mecfond; di Francesco Strazzullo, papà di Rosario, alla FIART: le stesse vite da mediano di tanti loro coetanei di Milano, Genova, Taranto, Bologna, Torino; la fierezza di poterci mandare a scuola; la voglia di darci una vita migliore di quella che avevano avuto loro; la convinzione che i loro sacrifici erano ripagati dal maggior rispetto sociale di cui godevano assieme alle proprie famiglie. Nella fase attuale, per dare l’idea dei tanti cambiamenti che ci aspettano o ai quali ci dobbiamo semplicemente abituare usiamo dire che la vita lavorativa è sempre meno un posto e sempre più un percorso (troppo spesso a ostacoli). E che presto o tardi coloro che potranno raccontare di aver lavorato in una sola fabbrica o in un solo ufficio troveranno posto di diritto nel Guinness dei primati, diventeranno personaggi da fiera delle rarità. E’ uno dei prezzi che paghiamo al cambiamento. Al tempo in cui la flessibilità assume sempre più i tratti della precarietà e imparare sempre nuove cose, acquisire nuove competenze e abilità diventa sempre più indispensabile per ricostruire i propri percorsi professionali, per non smarrire il nesso esistente le diverse esperienze di apprendimento e di lavoro. E’ il prezzo che paghiamo al tempo dei senza tempo. Quando non basta fare presto. Bisogna essere veloci. Sempre di più. La parola chiave? Correre. In una bellissima storia di Dylan Dog (4), il fumetto culto delle generazioni post Tex Willer, l’indagatore dell’incubo si trova alle prese con una categoria molto speciale di morti viventi. Diversamente dai loro colleghi dei film dell’orrore, canonicamente assettati di vendetta e di sangue, gli inquilini del cimitero di Lowhill, la cittadina nella quale l’autore Michele Medda ha ambientato l’avventura, ritornano alla vita semplicemente perché intendono recuperare tempo, quello che si sono accorti di non aver speso bene nel corso della loro vita, impegnati come erano a correre avanti e indietro, giorno dopo giorno, come forsennati. Il messaggio è fin troppo evidente, così come le sue connessioni con le vite che ci ritroviamo quotidianamente a vivere. La modernità sta cambiando, assieme al nostro approccio con il tempo, il rapporto con le culture, le storie, i modi di fare e di dire che abbiamo ereditato. Nel corso di un seminario di aggiornamento rivolto ai responsabili del marketing di una multinazionale del settore moda, la gentile e colta signora seduta due posti più in là, verso il centro del tavolo della presidenza, ha concluso più o meno con queste parole la sua relazione: “Quando decidete di lanciare un prodotto, non dimenticate che ciò che le persone cercano oggi non è la fama, ma la notorietà. La prima ha il pregio di durare, ma la si costruisce nel tempo, e purtroppo siamo destinati ad averne sempre di meno; la seconda è meno stabile e prestigiosa, ma ha il vantaggio dell’immediatezza e soprattutto rappresenta un traguardo possibile anche per chi non compierà mai un’impresa storica, per chi non ha le qualità o la fortuna per diventare un divo della musica, del cinema, dello sport. E’ esattamente su questa voglia di essere riconoscibili senza doversi impegnare troppo che dovete puntare”. (5) La mattina successiva, il caso ha voluto che il nostro posto nella carrozza 7, seconda classe, dell’Eurostar che da Milano tornava a Roma, fosse proprio di fronte a una coppia di simpatici ragazzi con treccine alla Bob Marley e tatuaggio bene in mostra. Come presi da una sorta di riflesso condizionato, ci sono tornate in mente Isa Mascanzi (così si chiama la valente signora che abbiamo scoperto essere la coordinatrice del settore orientamento di una importante agenzia di formazione) e le sue parole del giorno prima. Davvero non ci possiamo più permettere né un giorno da leone, né cento da pecore. La sola unità di tempo con la quale siamo costretti a fare i conti è l’istante. A rappresentare ciò che dura nel tempo è rimasto il nostro corpo e questo spiega forse la ragione per la quale gli assegniamo un ruolo sempre più importante. Iniziata con i jeans e gli eskimo, la ricerca di una identità diversa approda, con l’ausilio di tatuaggi e piercing, direttamente sul corpo, che diventa sempre più il luogo teorico attraverso il quale rifondiamo noi stessi e comunichiamo con gli altri. Paolo “Kikkio” De Gennaro, studente di Scienze della Comunicazione all’Università di Salerno, ha raccontato a propria volta in questo modo i suoi quotidiani affanni di studente “tipo”: “[…] Il non perdere tempo è diventato un’ossessione. […] Si corre a destra e a manca per cercare di non perdere i corsi, i seminari, i laboratori, le prove intercorso, i corsi di formazione, il lavoro part time, gli esami, fino a quando non si comincia a riflettere e a selezionare gli obiettivi. Ma purtroppo anche questo non basta, perché nessuno sta lì ad aspettarti. Tempo soggettivo e tempo sociale continuano a fare a pugni e l’unica possibilità è quella di ritornare a correre, più forte di prima, per riguadagnare il tempo perduto”. (6) Niente più tempi morti, insomma, nelle nostre vite. Non possiamo permettercelo. A nessuna età. Come dimostra l’agenda settimanale di un qualunque figlio della middle class italiana dagli 8 anni in su: la scuola e i compiti, tutti i giorni; sport, teatro o ballo, due o tre volte a settimana; l’appuntamento col dentista per dare una controllata alla macchinetta il mercoledì; il cinema o la festa di compleanno di qualche compagno di classe (o di modulo) il venerdì o il sabato; la domenica col papà, in particolare se ha la ventura di essere figlio di genitori separati. E’ una vita da stressati. Che sembra sempre a saperne troppo di più di tutti i concetti. Che ci sfugge. Nella quale il tempo diventa sempre più prezioso. Tiranno. Impalpabile. Irrecuperabile. Incomprensibile. Irraggiungibile. La morale della storia sembra, almeno a prima vista, abbastanza semplice. Il tempo è denaro. Divora ogni cosa. E dunque bisogna andare al massimo. Preferibilmente a gonfie vele. Conoscere le ragioni o la meta? Non è indispensabile. Ciò che conta davvero è non restare indietro. Raggiungere l’obiettivo. Qualunque esso sia. Ovunque esso sia. A qualunque costo. Nella realtà le cose sono però meno facili di quanto non appaiano, com’era solito ricordare un simpatico ometto coi baffi che pubblicizzava una famosa caffettiera quando ancora c’era Carosello a scandire l’ora in cui i più piccoli andavano a dormire. Non solo perché, diversamente da quanto accade nel poetico mondo dei fumetti, non è affatto detto che ci sia data una seconda possibilità per recuperare il tempo perduto. Ma soprattutto perché il perverso intreccio tra la velocità del moto e l’indeterminatezza della meta produce effetti distorcenti sulle nostre vite, sulla nostra capacità di dare loro un senso, mentre corriamo di qua e di là in cerca di un futuro che non c’è, che non vediamo, che si contrae sempre più pericolosamente sul presente. Noi oggi sappiamo che la possibilità di disporre di un’ombra lunga del futuro sul presente è legata al fatto di disporre di una risorsa preziosa come l’avere identità che, a sua volta, è data dalla stabilità dei riconoscimenti sui quali ciascuno di noi può fare affidamento nel lungo termine. E che quando questa stabilità si contrae, e le prospettive di futuro su cui in qualche modo possiamo proiettare noi stessi con gli altri, si accorciano, fino a ridursi al presente, si modifica il modo di definire i nostri interessi, i nostri bisogni, i nostri ideali, le nostre speranze, e ciò produce variazioni nella nostra capacità di orientarci nel mondo con gli altri. Il fatto che nella fase attuale le “fabbriche” che producono identità siano decisamente in crisi determina insomma effetti significativi sul terreno culturale, economico, politico, sociale. Sapendo chi siamo, avendo un’identità riconoscibile, abbiamo ad esempio più ragioni e motivazioni a competere, quale che sia l’esito, nell’arena democratica. La difficoltà di riconoscersi in quanto componenti di comunità stabili, in una fase in cui le agenzie che tradizionalmente assicuravano identità di lunga durata vivono una crisi per molti aspetti strutturale, determina al contrario un indebolimento delle appartenenze e ciò fa sì che diventi sempre più difficile impiantare rapporti umani duraturi, condividere obiettivi di lungo termine, riconoscerci stabilmente nella durata e dire, per questo, di essere con altri. Non è dunque un caso che a questa contrazione del futuro sul presente sia connessa la produzione di solitudine, dato che quando abbiamo una storia solida alle spalle e molto futuro davanti disponiamo per ciò stesso di risorse da condividere con altri. (7) Il fatto di potersi dichiarare seguaci di Bartali o di Coppi, del Partito Comunista o della Democrazia Cristiana, del Napoli o dell’Internazionale, e potersi riconoscere per ciò stesso all’interno di comunità formati da tanti, come noi, comunisti, democristiani, seguaci di Bartali e del Napoli e così via discorrendo, non è insomma soltanto un modo per dichiarare la propria fede politica o sportiva, ma anche uno straordinario strumento di costruzione di identità e, allo stesso tempo, un potente antidoto alla produzione di solitudine involontaria. Non a caso, ogni qualvolta vengono recise le radici con il nostro passato e le strade verso il futuro diventano più strette, si riducono drasticamente anche le possibilità di connetterci con altri e ci sentiamo più soli. Le cause all’origine della crisi identitaria sono state indagate da numerosi punti di vista. Così come numerose sono le terapie proposte per fare fronte a quella che appare come la caratteristica fondamentale dell’attuale fase della modernità. ( La famiglia, lo Stato, il partito, l’impresa, le strutture, tendono a perdere consistenza, autorevolezza, capacità di dialogo, in modo particolare nei confronti delle generazioni più giovani. La stessa teoria sociale fa fatica a darsi modelli, scenari, contesti, in grado di leggere e interpretare ciò che accade. Il risultato? I nostri stati di essere, e i nostri modi di fare, finiscono col ricordare sempre più da vicino quelli dei marinai imbarcati a bordo dei legni e dei bastimenti della Real Marina Borbonica allorquando, in occasione delle visite a bordo delle Alte Autorità del Regno, veniva loro impartito il comando “Facite Ammuina” . Di cosa si tratta? Presto detto: “All’ordine Facite Ammuina: tutti chilli che stanno a prora vann’ a poppa e chilli che stann’ a poppa vann’ a prora: chilli che stann’ a dritta vann’ a sinistra e chilli che stanno a sinistra vann’ a dritta: tutti chilli che stanno abbascio vann’ ncoppa e chilli che stanno ncoppa vann’ bascio passann’ tutti p’o stesso pertuso: chi nun tiene nient’ a ffà, s’aremeni a ‘cca e a ‘llà” (9). Accade insomma che, mentre nel mondo là fuori piccoli e grandi eventi si susseguono come indipendenti dalla nostra volontà, ci scopriamo sempre meno in grado di comprendere, meno interessati a capire. L’assordante rumore di fondo che pervade le nostre giornate ci segnala il carattere frenetico, il deficit di consapevolezza, la mancanza di scopo, che contraddistingue le nostre vite, ci avverte che ciò che facciamo ha sempre meno senso. Facimme ammuina. E finiamo col sentirci come “anime sperdute che si dibattono in una boccia di vetro” (10). Che fanno i conti, giorno dopo giorno, con vecchie e nuove paure. Che cercano rifugio e identità in un’automobile, un tatuaggio, nell’ultimo modello di telefono cellulare o di lettore mp3. Siamo esseri senza radici e senza memoria perennemente in cerca di prodotti in grado di conquistare uno spazio nelle nostre anime. Almeno fino alla prossima novità. Consumiamo vite e non solo prodotti. E ciò ci dice probabilmente qualcosa di significativo circa il ruolo e l’importanza del consumo nell’attuale fase della modernità. La questione non è naturalmente quella di assegnare al fenomeno che usiamo definire “consumismo” un carattere inedito che per molti aspetti non ha. L’impresa capitalistica ha bisogno per definizione di produrre sempre di più in sempre minor tempo. Per fare ciò, per avviare e consolidare il processo di accumulazione, è indispensabile che essa si dimostri sempre più capace non solo di produrre ma anche di vendere. Karl Marx lo segnala parlando della necessità del capitale di alimentare la riproduzione allargata, di puntare sulla massa piuttosto che sul saggio di profitto, di anticipare necessità imminenti, di soddisfare bisogni latenti, di produrre bisogni. (11) Ma lo stesso Henry Ford, quando decide di aumentare del 15 per cento le paghe medie dei lavoratori della sua azienda, ha chiaro il fatto che essi non sono soltanto costruttori di automobili, ma anche potenziali clienti, acquirenti, consumatori. Immagina che, per questa via, riuscirà non solo a “fidelizzare”, come si direbbe oggi, coloro che lavoravano nelle sue fabbriche, ma anche ad allargare il mercato per il suo mitico Modello T, quello che si poteva scegliere di qualunque colore purché fosse nero. La forma economica della società capitalistica, la produzione per il mercato, è insomma indissolubilmente legata alla vendita e al consumo. Fin dagli albori dello sviluppo capitalistico i nostri antenati di ogni parte del mondo industrializzato sono stati in vario modo condannati ad avere sempre meno tempo e sempre più bisogno di consumare. Dove sta allora la novità? Nel carattere sempre più ideologico, ossessivo, che, nella fase attuale, assume il consumo. E’ un’ossessione che da un lato permea la sfera classica del nostro rapporto con i beni materiali, sempre meno durevoli, al grido di “primo non riparare”, e dall’altro accorcia il ciclo di vita di ogni cosa che abbiamo intorno. Avete mai provato ad esempio a portare il vostro orologio Swatch da un rivenditore per farlo aggiustare? Nel caso intendiate farlo, sappiate che vi sentirete rispondere, in tono molto cortese, che non è possibile farlo. Che se tenuto con cura, uno Swatch non si rompe mai. Ma che una volta rotto, se ci tenete a rimanere nel club di quelli che pensano che “Time is what you make of it” (12), non avete altre possibilità che comprarne uno nuovo. Affermare che siamo sempre meno interessati a chiederci “chi siamo” e che diamo sempre più valore al “cosa abbiamo” non basta più a dare conto della radicalità del mutamento in atto. La fase nella quale il processo di induzione e di manipolazione dei bisogni era riferita sostanzialmente ai prodotti, alle merci, ai beni di consumo si avvia ad essere definitivamente alle nostre spalle. All’alba del terzo millennio, nel mondo nel quale ci catapultiamo ogni mattina uscendo di casa, imponenti fattori culturali, economici, sociali, politici, ci spingono a pensare, e a credere, che tutto ciò che dura, ivi compresi le idee, i sentimenti, le persone, sia un disvalore. Per strada come a casa, in auto come in ufficio, le nostre giornate sono scandite da spot, suggerimenti pubblicitari, consigli per gli acquisti che ci annunciano un futuro bello, giovane, ricco, di successo. Attorno al consumo organizziamo le nostre vite. Ciò che consumiamo definisce le nostre identità. Il messaggio è: consumiamo, dunque siamo. Ed è un messaggio di una straordinaria forza omologante. Capace di annullare le tante e rilevanti differenze esistenti tra popoli, culture, modi vita, diversi; tra il nostro essere cittadini e il nostro essere consumatori (13). Per quanto ci piaccia poco pensarci, la questione è di quelle assolutamente rilevanti. In quanto consumatori, siamo infatti naturalmente orientati, indotti, persuasi, a scartare tutto quanto non collima con i nostri gusti. Tutto ciò che non incontra le nostre preferenze, che non usiamo, che non incrocia le nostre abitudini, ha per noi scarso interesse. Piuttosto che identificarci nel soddisfacimento di bisogni articolati, desideriamo cose, oggetti, prodotti di successo che rispondano al nostro bisogno di sentirci persone di successo. In quanto cittadini, al contrario, abbiamo bisogno proprio della diversità delle proposte e della pluralità delle soluzioni per formare le nostre opinioni, per partecipare con un autonomo punto di vista alla costruzione del discorso pubblico. Come ha sostenuto John Dewey, nell’ambito del pubblico l’esigenza fondamentale “[...] è il miglioramento dei metodi e delle condizioni del dibattito, della discussione e della persuasione” (14). Accade invece che anche nell’ambito dello spazio pubblico si vada affermando una concezione del governo come forma di consumismo più che con caratteri di cittadinanza, e ciò determina un atteggiamento schizofrenico destinato a produrre effetti e conseguenze significative in una pluralità di ambiti, contesti, orizzonti. Prendiamo ad esempio la controversa questione relativa alle modalità con le quali, in una società liberale e democratica, si formano le preferenze, dato che, come sappiamo, la corrispondenza tra scelta e preferenza pone una serie di questioni non solo sul piano empirico ma anche su quello concettuale, teorico, etico. Da un versante ci sono le ragioni di coloro che sostengono che una persona che, potendo scegliere tra due strategie, comportamenti, idee, prodotti diversi, che chiameremo per comodità C e M, sceglie C, dimostra di preferire C piuttosto che M. E’ la tesi di chi ritiene che si sceglie ciò che si preferisce, tanto nel dominio della politica, quando cioè scegliamo in quanto cittadini, quanto in quello dell’economia, quando invece scegliamo in quanto consumatori. Tale tesi si avvale di un presupposto particolarmente solido in quanto non ci chiede di stabilire se sia “veramente” così, ma più semplicemente di prendere atto che qualsiasi altro sistema per individuare le “reali” preferenze di ciascuno è o impossibile o autoritario, in quanto presuppone l’esistenza di un terzo (persona, soggetto giuridico, Stato), che stabilisce i criteri per definire che cosa ciascuno debba preferire affinché le sue preferenze siano ritenute vere. Sul versante opposto ci sono le ragioni di coloro che sostengono che esiste una ricca varietà di casi nei quali l’equazione scelta uguale preferenza si dimostra falsa, dato che nella realtà delle nostre vite agiscono forme e forze, più e meno velate, di coercizione, che in qualche modo ci spingono a scegliere C piuttosto che M o viceversa. L’idea in questo caso è che ogni qualvolta accade che una persona scelga C su M non in seguito a una autonoma espressione della sua libera volontà ma perché indotta da qualche forma persuasiva, coercitiva, esterna, l’equazione in questione si dimostra falsa. Anche in questo caso esistono argomenti assai validi a sostegno di tale tesi e per molti versi basta dare un’occhiata da una qualsiasi finestra, una qualsiasi mattina, in una qualsiasi città, per rendersi conto che ci sono situazioni nelle quali l’asimmetria tra scelta e preferenza è assolutamente evidente. Le circostanze in cui la differenza delle scelte non equivale a una vera differenza delle preferenze, ma piuttosto a una differenza di opportunità sono in ogni caso sempre più numerose. Un caso diventato canonico, anche per l’attenzione che vi hanno dedicato a suo tempo Karl R. Popper e Papa Giovanni Paolo II, è quello che si riferisce alle forme sottili di coercizione o di condizionamento che derivano dal potere di informare, come nel caso della televisione o di Internet. Dato questo quadro, un primo punto di approdo potrebbe essere quello che ci porta ad affermare che, fermo restando le delicate questioni di tolleranza e pluralismo alle quali abbiamo già accennato, se si trova ragionevole l’idea che non sempre le scelta che una persona fa determinano per ciò stesso le sue effettive preferenze, è giustificato ritenere che ci sia la possibilità di attribuire alle persone delle preferenze per così dire migliori di quelle che esse effettivamente esprimono. Come? Ad esempio rendendo disponibile una più vasta gamma di opzioni, offrendo maggiori possibilità di guardare il mondo da più punti di vista, allargando per quanto è possibile il loro orizzonte. In particolare ciò può rivelarsi importante proprio nei casi che si riferiscono al potere di informare che, come sappiamo, è strettamente correlato a quello di formare, dato che l’attività di informare implica il modellamento delle preferenze. E un esempio paradigmatico è proprio quello che si riferisce alla funzione della televisione, il media che, anche al tempo di internet, più di ogni altro presenta aspetti e caratteri controversi. La TV crea miti. Li metabolizza. Li distrugge. Occupa pagine intere di quotidiani, tabloid, settimanali. Alla televisione dedicano attenzione persone, intellettuali, personalità di ogni tipo. Nelle nostre affollate e supertecnologiche metropoli, dove si raffreddano i rapporti umani e si lasciano un sacco di persone escluse, e dove i genitori sono sempre più indaffarati e stanchi per avere anche il tempo di giocare con i propri figli, sono davvero tanti gli ingredienti che spiegano e giustificano il predominio della cattiva maestra televisione. Se guardiamo al mondo dei più piccoli, la mancanza di luoghi nei quali essi possano incontrarsi e giocare con i loro coetanei senza necessariamente dover prenotare un campo di calcetto o la pizzeria, la pericolosità, vera e presunta, dei quartieri nei quali abitiamo, la sempre minore capacità di formare della famiglia e della scuola, contribuiscono ad esempio a dare un alone di oggettività al fatto che bambini e ragazzi di ogni età si ritrovino, per necessità o, peggio ancora, per routine, quotidianamente sbattuti per ore davanti ad uno schermo sempre acceso (i più fortunati finiscono con l’essere i video – pluralisti, quelli che hanno almeno la possibilità di alternare la TV con la play station, il game boy, il computer). Ma anche se guardiamo al mondo degli adulti, ci accorgiamo che in fondo le cose non vanno un gran che meglio: schiacciati dallo stress, dal lavoro, dalle responsabilità, dalle difficoltà economiche, anche i “grandi” riescono sempre più raramente a uscire di casa quando viene la sera, a ritrovarsi in discoteca, in balera, al cineforum o a un concerto, a seconda dei gusti e delle età, e finiscono fatalmente sdraiati sul divano, alle prese con la quotidiana sfida per la conquista del telecomando. E’ probabile che nella meticolosa, scientifica, masochistica, puntualità con la quale riempiamo le nostre case di televisori, spesso uno per ciascun componente della famiglia, e ci precludiamo finanche la possibilità di una comunicativa litigata con mariti, mogli, figli, per decidere su quale canale sintonizzarsi, sia racchiuso un ulteriore indizio delle complesse dinamiche che talvolta si stabiliscono tra carnefici e vittime, ma ciò non toglie nulla alla questione centrale: la televisione deve in massima parte la sua forza e importanza alla possibilità - capacità di agire su un’enorme quantità di solitudini involontarie. E’ innanzitutto grazie a questa sua capacità che essa è diventata, in particolar modo per le generazioni più giovani, una delle più importanti agenzie formativa di valori, modelli di comportamento, stili di vita. La televisione ci tiene compagnia, ci include, ci fa sentire meno soli. Da “piccoli” così come da “grandi”. In casa, quando siamo soli di giorno o stanchi di sera; e fuori, quando domani potremo commentare con i compagni di classe l’ultima puntata di “Art Attack”, ripetere con i colleghi di ufficio i tormentoni più simpatici di “Zelig”, verificare durante la pausa pranzo con quanti milioni di nostri connazionali, secondo i dati Auditel, abbiamo condiviso la visione del film della sera precedente. Allo stesso tempo, essa seleziona gli avvenimenti e le informazioni alle quali abbiamo accesso, influisce sui percorsi attraverso i quali si determinano le preferenze e le scelte di ciascuno di noi e dunque stabilisce criteri per rappresentare la realtà e definire ciò che è vero. E ciò ancora una volta suggerisce qualcosa di significativo circa l’importanza di limitare l’influenza coercitiva della comunicazione sia pubblica che privata, e di difendere il cittadino dal tentativo ricorrente di costipare la sua libera volontà, di coartare la sua autonomia, in particolar modo al tempo dei giganti della comunicazione, nella fase in cui il privato ha la stessa capacità di influenzare la pubblica opinione di quanta ne aveva in quella precedente lo Stato e si fa sempre più fatica a a tenere separati i confini e gli ambiti nei quali siamo cittadini da quelli nei quali siamo consumatori. E’ una sovrapposizione che appare sempre più evidente persino a livello di lessico, ad esempio quando affermiamo che un buon politico deve saper vendere il proprio messaggio, o quando ci chiediamo quale dei contendenti che partecipa a una competizione elettorale “buca” di più il video. E’ una sovrapposizione che appiattisce la complessa, articolata, ricchezza, del ragionamento politico, sul semplificatorio, assertivo, messaggio, della comunicazione promozionale. Come ancora Sunstein ha efficacemente spiegato, “sovranità del consumatore significa che i singoli utenti possono scegliere come vogliono, soggetti alle limitazioni rappresentate dal sistema dei prezzi, ed anche alle loro capacità economiche ed esigenze. […] L’idea della sovranità politica si basa su fondamenti diversi. Non dà per definiti o scontati i gusti degli individui. Esalta l’autogoverno democratico, inteso come requisito del governare attraverso la discussione, accompagnato dal dover dare conto delle proprie opinioni in ambito pubblico” (15). Il risultato? Invece che elaborare o maturare ragioni e argomenti che ci consentano di operare scelte meditate, ci ritroviamo sempre più spesso a decidere sull’onda di suggestioni istintive, ammiccamenti amichevoli, promesse improbabili. Scegliamo sindaci, senatori, presidenti di provincia o di regione con approcci e metodologie sempre più vicine a quelle che siamo soliti adoperare quando scegliamo un profumo o una cravatta. E’ la forza omologante del sistema, la sua tendenza a coprire ogni spazio disponibile, a rendere sempre più deboli, precari, difficili da attivare, i nostri meccanismi di difesa. Un caso di cui si è a lungo discusso è stato quello di Madonna, le cui canzoni vengono spesso presentate e lanciate sul mercato come esempio di una critica radicale nei confronti dell’establishment. In realtà, se è vero che da un lato esse contribuiscono alla diffusione, in particolar modo nella folta schiera di fan della cantante o dell’attore di volta in volta in questione, di punti di vista in vario modo alternativi rispetto a quelli dominanti, dall’altro è oggettivamente difficile non riconoscere la fondatezza delle ragioni di chi sostiene che è il sistema stesso a promuovere, per integrarla, tale critica. Visto in questa ottica, l’antagonismo del messaggio rappresenta l’altra faccia, il lato oscuro della forza del prodotto dello spettacolo così come l’obsolescenza è una componente intrinseca dei prodotti industriali. Secondo questa tesi, è in definitiva il sistema stesso che ad intervelli di tempo più o meno regolari produce le anomalie necessarie al mantenimento del suo equilibrio e dunque della sua sopravvivenza. Mettendo in questo modo sotto chiave ogni vera alternativa. Neutralizzando ogni vero antagonismo. Facendo in modo che l’unica possibilità effettiva sia l’adesione ipnotica al messaggio. A nostro avviso, lo scenario che in questo modo viene prospettato è eccessivamente chiuso, piegato su sé stesso, senza via d’uscita. In fondo, anche in faccende di questo tipo dovrebbe valere l’antico detto secondo il quale neanche al diavolo è dato di fare, assieme alle pentole, anche i coperchi. Il che, riportato al nostro esempio, potrebbe essere tradotto come la consapevolezza che più un sistema si avvicina alla perfezione, più si avvicina alla irregolarità totale. E’ una forma d’ironia oggettiva che fa in modo che non sia possibile giocare nessuna partita fino in fondo. Che aiuta a non perdere di vista il fatto mai banale che risolvere un problema significa prima di tutto creare le premesse perché presto o tardi, da qualche parte, ne spunti fuori uno nuovo. Che ci fa ritenere che l’obiettivo di minimizzare l’ingiustizia sia non solo assai più realistico ma anche molto meno pericoloso di quello che mira a modellare istituzioni per società perfette. Che anche nei casi più disperati ci permette di lasciare aperto uno spiraglio alla speranza. E alla possibilità di fare. Continuiamo insomma a ritenere che sia buona cosa evitare di approcciare i problemi cercando risposte definitive per mondi perfetti, ricette per vivere per sempre felici e vincenti. E che se è vero che ad ogni domanda possono essere date sempre più risposte, più o meno efficaci, onerose e interessanti che siano, è utile non abbandonare mai completamente il punto di vista dello scettico. E’ il punto di vista di chi prioritariamente si interroga intorno a ciò che sta accadendo. Sulle modalità con le quali talune cose cambiano e altre invece no. Sulle condizioni necessarie affinché tutto questo accada. Sulle caratteristiche sociali di coloro che saranno avvantaggiati dai cambiamenti in atto e quelle di coloro che invece, senza averne colpa, ne saranno esclusi. E’ il punto di vista che ci aiuterà ad affrontare anche le questioni collegate alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, alla loro, reale e supposta, capacità di trasformare i contesti e gli sfondi spazio temporali nei quali siamo abituati a vivere, di cambiare il nostro modo di pensare e interpretare la realtà. Noi oggi sappiamo che la promessa di una società basata sull’accesso è ancora molto lontana dall’essere mantenuta. Che la lotteria sociale, il basso reddito, la mancanza di istruzione, il luogo di nascita, la classe di appartenenza, continuano a tenere la maggior parte della popolazione mondiale lontana dai benefici prodotti dall’avvento delle nuove tecnologie della comunicazione, dagli effetti e dalle conseguenze positive che da esse sono determinati. Sappiamo anche che gli interessi di potere e di mercato mantengono il loro ruolo determinante anche nel nuovo contesto, nonostante non siano mancati, soprattutto nella fase cosiddetta pioneristica, nuovi protagonisti, volti e nomi prima sconosciuti che sono riusciti a conquistare un ruolo significativo grazie alla minore consistenza delle barriere all’entrata. (16) Sappiamo soprattutto che anche nella parte ricca di mondo, laddove le possibilità di accesso sono più ampie, continuiamo comunque ad essere ancora lontani da quella che Habermas definisce una comunicazione libera dal dominio e che la stessa idea, tanto cara a John e Nana Naisbitt, (17) che lo sviluppo delle nuove tecnologie determini di per sé un miglioramento della qualità della vita e un incremento di tempo liberato che può essere dedicato ad altre attività è ancora tutta da dimostrare e, in ogni caso, da conquistare. Se è vero, infatti, che la tecnologia, a partire da quella di consumo, aiuta a risparmiare tempo, fatica e, in molti casi, denaro, è altrettanto vero che la battaglia perché tutto questo si traduca effettivamente in un aumento del tempo liberato e in un miglioramento della qualità della vita è tutt’altro che vinta. Permane un’ambivalenza di fondo. Da un lato, in particolar modo se guardiamo a Internet, che dei nuovi media è indubbiamente il simbolo, l’emblema, il luogo non solo simbolico dove reale e virtuale si incontrano, la tempesta del cambiamento sembra avere una tale forza da travolgere ogni cosa. Dall’altro, resta il fatto però che neanche internet e le nuove tecnologie sfuggono alla regola che vuole che tutte le cose di questo pazzo, talvolta insopportabile, talaltra meraviglioso, mondo, presentano, nelle istruzioni per l’uso, un consistente numero di controindicazioni. Geoffrey Numberg, in un articolo apparso su “The New York Times” il 23 febbraio 2005 (1 ha ricordato ad esempio che “da uno studio del 2002, diretto da B. J. Fogg, psicologo dell’Università di Stanford, emerge che il popolo del web tende ad associare la credibilità di un sito internet al suo aspetto, piuttosto che agli autori e alle ragioni per le quali è nato”. Con toni decisamente apocalittici, Theodore Schick, capo del dipartimento di filosofia del Muhlenberg College, Pennsylvania, USA, si spinge addirittura ad adombrare la possibilità di un futuro minacciato da un uso improprio delle nuove tecnologie digitali, che egli teme possano avere gli effetti malefici degli anelli resi celebri da Tolkien: “Anche Frodo è attratto dall’anello, è Sam a ricondurlo sulla retta via. Dovremmo gettare nel fuoco queste conoscenze tecnologiche, proprio come il Consiglio di Elrond ha votato di distruggere l’anello” (19). Con un approccio sicuramente più razionale è Sunstein, nel volume citato, ha insistere su quella che a nostro avviso è la questione davvero rilevante, e cioè la possibilità che la diffusione delle tecnologie digitali possa avere, tra i propri non trascurabili effetti collaterali, quello di favorire l’insorgere di forme di estremismo, disprezzo per gli altri e per le loro opinioni, a tratti anche violenza, in quanto favorisce ed eleva a simbolo il confronto (attraverso ad esempio le chat o le comunità virtuali dedicate) fra soggetti che la pensano allo stesso modo. In un’inchiesta realizzata per “L’Espresso” all’inizio del 2005, anche Luca De Biase ha mostrato come proprio il terrore, l’odio, la guerra, non solo non abbiano risparmiato, ma abbiano trovato nel web una strada per auto alimentarsi. “Se ne chiude uno, se ne apre un altro. Sono come talpe che spuntano sulla Rete, attraggono con le loro immagini orrende e le loro violente parole numerosissimi visitatori da ogni parte del mondo. Poi scompaiono e si spostano altrove. Sembrano una malattia del Web che si diffonde come un’epidemia: invece sono la malattia del genere umano. […] I siti dei terroristi spiegano come tradurre l’odio, dal virtuale alle azioni concrete sul territorio: contengono in genere oltre a una sezione dedicata alla religione, un’altra che spiega come si costruiscono armi e trappole contro il nemico, manuali di guerriglia e filmati di operazioni militari. Infine, servono alla comunicazione interna dei gruppi terroristici e alla propaganda sulla cultura mediorientale minacciata dalla contaminazione occidentale” (20). La faccenda non è limitata solo ai temi “politici”, come dimostra ad esempio Ogrish, un portale dedicato a tutto ciò che è orribile, indipendentemente dalla provenienza, dalle finalità, dalla intollerabilità di questo guazzabuglio di atrocità messo insieme in nome del primo emendamento della Costituzione Americana che garantisce il diritto di espressione a ciascun cittadino indipendentemente dalle proprie idee e convinzioni. Ogrish è una sorta di blog implementato con la partecipazione del pubblico, che presenta scene scabrose, violenze assurde, mostruosità di ogni genere, tutto rigorosamente al massimo livello di brutalità possibile. Ciò offre a De Biase lo spunto per sottolineare che “chi odia, in Rete, può trovare costantemente nuovo alimento per il suo sentimento, può organizzare le azioni che decide di intraprendere per dar sfogo alla voglia di sangue, può fare proselitismo ed educare ai valori che ritiene debbano guidare il mondo. Internet si conferma una macchina che abbatte qualunque barriera alla comunicazione. Nel bene e nel male. Nel vero e nel falso” (21). La questione posta da Sunstein e, da un altro e complementare versante, De Biase, è, almeno da due punti di vista, assolutamente rilevante. Da un lato, infatti, ciò che viene messo in discussione, in particolare dallo studioso statunitense, è uno dei capisaldi teorici oltre che pratici della Rete, quello che si riferisce, per l’appunto, alla valorizzazione e allo sviluppo di aree di discussione e di approfondimento intorno a punti di vista, argomenti, interessi, specifici e condivisi. Dall’altro, i presupposti sui quali si basa trovano riscontro in più ambiti e contesti sociali, e ciò non fa che aumentare il livello di attenzione con il quale occorre valutarla, al di là di ogni giudizio o pregiudizio di valore, di ogni improbabile tentativo di liquidarla come rigurgito di un passato che dovremmo ormai aver buttato alle nostre spalle. Anche personalmente, nel corso degli oltre 20 anni trascorsi a trattare di salario, di condizioni di lavoro, di sviluppo, di legalità, abbiamo avuto modo di verificare come il confronto tra opinioni diverse produca inevitabilmente uno spostamento verso il centro delle posizioni e la conseguente emarginazione di quelle più estreme, mentre al contrario la discussione tra persone che condividono gli stessi interessi o finalità producano di norma una radicalizzazione delle posizioni in campo. E’ una consapevolezza che di norma non manca nella cassetta degli attrezzi di ogni buon sindacalista. Che non a caso, quando le condizioni lo permettono, preferisce “mediare” con i lavoratori nella fase di preparazione di una piattaforma rivendicativa, quando cioè si definiscono gli obiettivi e le richieste e dunque bisogna fare i conti con la spinta, del tutto legittima, a chiedere di più, piuttosto che quando bisogna valutare i risultati della trattativa stessa e gli scostamenti tra le richieste presentate e i risultati ottenuti che, in particolare quando si rivelano troppo significativi, finiscono col diffondere insoddisfazione, malcontento, critiche, defezioni. Dalla musica al calcio, dal cinema alle relazioni sindacali, le logiche che si mettono in moto ogni qualvolta si discute tra fan, tifosi, sostenitori, della stessa parte o di parte avversa, sono dunque del tutto similari, come è emerso anche da un piccolo esperimento che abbiamo provato a fare nel corso di una simpatica e nutrita festa tra amici. Individuati 5 fan di Maradona e 5 di Pelé (e ciò tradisce più che suggerire qualcosa di significativo circa l’età media dei partecipanti alla festa), abbiamo chiesto, a ciascuno di loro, di indicare, in maniera rigorosamente anonima, sulla base di 3 indicatori (doti tecniche, senso tattico, capacità di essere determinante), le ragioni per le quali ritenevano il proprio campione superiore all’altro. Sulla base dei risultati (7 di loro avevano assegnato la preferenza al loro idolo su tutte le variabili, 3 ne avevano assegnata 1 al campione concorrente) si è sviluppata una rapida e animata discussione. Quando già i nostri amici stavano tornando al tavolo per assaggiare un’eccellente torta di fragole, abbiamo chiesto loro di ripetere l’operazione. Ebbene, gli ultras dell’uno e dell’altro erano rimasti in quattro, cinque avevano assegnato 1 preferenza al campione avversario, 1 gliene aveva assegnato addirittura 2 (passando, di fatto, nell’altro schieramento). Detto che siete tutti invitati a fare una verifica sul campo ripetendo l’esperimento con gli atleti, i cantanti, gli attori che più vi piacciono, rimane il fatto che, anche al tempo di internet, la formazione di punti di vista autonomi, la discussione, il dibattito pubblico sulla base di opzioni alternative, rappresentano più che mai un’indispensabile premessa alla saggia deliberazione. E che tutto questo è reso semplicemente più impellente dalla quantità e dalla qualità delle informazioni che ci vengono propinate ogni giorno e dei cambiamenti che le nuove tecnologie stanno determinando non solo nelle nostre abitudini e nei nostri consumi, ma più in generale sull’insieme dei nostri modi di essere e di fare mentre viviamo le nostre vite di cittadini in fondo privilegiati della parte ricca del mondo. E’ forse utile sottolineare che anche nel regno della tecnologia, e dell’innovazione ad essa collegata, tutto ciò che sta accadendo non accade certo per la prima volta. In fondo l’intera storia dell’umanità, a partire almeno dalla “scoperta” del linguaggio, che ha permesso all’uomo Sapiens di avere la meglio sull’uomo di Neanderthal nonostante quest’ultimo avesse un cervello più grande, non è altro che una storia di evoluzioni ed innovazioni biologiche, culturali, tecnologiche. E’ bene non perderla di vista questa storia fatta di rivoluzioni, di novità sconvolgenti, di salti poderosi in avanti, non fosse altro perché ci può aiutare a capire e sopportare meglio quanto sta accadendo, e a guardare con un po’ più di fiducia verso il futuro. Ciò detto, possiamo aggiungere che ancora una volta la novità, che naturalmente c’è, non va cercata nel fatto in sé (22) ma nelle modalità con le quali lo sviluppo e il cambiamento tecnologico sono connessi ai processi culturali, sociali, economici, che caratterizzano l’attuale modernità. Il fatto che sia possibile conseguire una laurea, o lavorare, a distanza, trasforma, ad esempio, non solo il modo con il quale siamo abituati a studiare o lavorare, e conseguentemente la concezione e il rapporto con i quali storicamente ci siamo ad essi riferiti, ma anche il nostro modo di pensare e vivere lo spazio, le distanze, le relazioni con gli altri, siano essi studenti o lavoratori come noi, referenti in quanto professori o datori di lavoro, istituzioni come l’università o l’impresa. Insieme al modo di studiare e lavorare cambia insomma il modo di socializzare, il modo di vivere, il modo di pensare. Con indiscutibili vantaggi dal versante della maggiore flessibilità nella gestione dello spazio e del tempo; della possibilità di cambiare città senza necessariamente mettere a rischio il posto di lavoro o gli studi universitari; della riduzione dei costi e dei tempi di spostamento; della possibilità di dedicare più tempo ed essere più partecipe alla vita familiare; della gestione più flessibile dei tempi e dei contenuti delle attività di formazione e aggiornamento; della maggiore autonomia e, in svariati casi, motivazione. E con gli inevitabili svantaggi legati alla minore tutela per la salute, all’incremento delle spese domestiche, alle minori tutele sindacali, alla perdita delle forme tradizionali di relazione, comunicazione e apprendimento. In modo particolare proprio il fatto di studiare o lavorare da soli, di ritrovarsi confinati ciascuno nel proprio atomo, nella propria isola, rende in qualche modo più impellente la necessità di supplire al deficit di comunità che viene a determinarsi, di individuare più occasioni di scambio e di reciprocità. Si tratta evidentemente solo di un esempio tra i tanti possibili, che però ci dice di un mondo che cambia intorno a noi con una profondità e una velocità senza precedenti. E’ il mondo nel quale il valore di ogni singolo prodotto diventa sempre più dipendente dalle informazioni che in esso sono contenute; nel quale il futuro si trasforma da tempo a luogo; nel quale il mouse diventa la nuova chiave a stella (23). E’ il mondo nel quale l’eterna battaglia fra realtà e illusione si ripropone sotto le spoglie di reale e virtuale, i nuovi contesti spazio temporali nei quali vivere tra destini ineluttabili e speranze di libero arbitrio. Jean Baudrillard, nel corso di un’intervista su Le Nouvel Observateur (24) a fronte della richiesta di dare un giudizio su Matrix, il film nel quale molti commentatori hanno voluto vedere una trasposizione del suo pensiero, ha ancora una volta ribadito come in realtà, proponendo una struttura del racconto nel quale i personaggi o sono nella Matrice, cioè nella digitalizzazione delle cose, o sono radicalmente al di fuori, cioè a Zion, la città di coloro che resistono, i fratelli Wachowski abbiano rinunciato a mostrare ciò che accade nel punto di giuntura dei due mondi, per l’appunto ai confini, e come in questo modo abbiano finito col trascurare proprio l’aspetto più importante e interessante della questione. L’idea della zona di confine è a nostro avviso particolarmente intrigante proprio perché evoca prospettive dai contorni sfumati, segnala possibilità e opportunità che non sempre riusciamo ad afferrare. La stessa promessa di libertà che sembrava accompagnare l’avvento delle tecnologie digitali, e che sappiamo essere stata fino ad oggi sostanzialmente disattesa, rimane lì, sospesa, in bilico. Non cade, ma neanche riesce a prendere il volo. Dora Sondralto, 41 anni e non poche difficoltà a tenere assieme il lavoro al sindacato, il ruolo di madre e moglie, l’amore per la musica, i libri, i viaggi, la libertà, ha spiegato, nel corso di un seminario dedicato al tema, le ragioni per le quali dal suo punto di vista le tecnologie sono prima di tutto uno strumento per frullare in maniera più scientifica ed efficace le nostre vite. Con il suo racconto l’affascinante signora ha in buona sostanza suggerito almeno due elementi di riflessione alla comunità di sociologi, sindacalisti, formatori, che partecipavano all’iniziativa. La prima è data dalla metafora delle vite frullate, che sintetizza in maniera straordinariamente efficace il processo di progressiva frantumazione e disintegrazione delle nostre identità; la seconda dall’idea che è attraverso la tecnologia che tale processo esprime al massimo le sue potenzialità, la sua potenza. In definitiva, i concetti ai quali siamo soliti riferirci quando parliamo di tecnologia amica, collaborativa, intelligente, non sono affatto già dati, neanche per persone adulte, ad alta scolarità, con incarichi di responsabilità, abituati o comunque costretti ad avere a che fare tutti i giorni con mouse e tastiera. Se tutto questo è almeno in parte vero, una lettura possibile della questione potrebbe essere allora quella che ci porta ad evidenziare come lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione spinga fino al limite della rottura tanto i processi di inclusione quanto quelli di esclusione. Così come accade per (quasi) tutte le cose di questo mondo, anche le innovazioni tecnologiche, nonostante rivestano una rilevanza decisiva nei processi che assicurano la crescita delle nostre società, hanno degli spiacevoli effetti collaterali. Quello principale è sicuramente la riduzione del lavoro necessario per unità di prodotto, che produce effetti rilevanti sulle quantità di lavoro impiegate nella produzione di beni e servizi; determina una disoccupazione notevole e crescente, in particolar modo nelle fasi di stagnazione o di rallentata crescita; favorisce la diffusione di fenomeni di sottoccupazione e di precarietà; rende decisamente più debole la posizione nel mercato del lavoro di tutti coloro che per variegate ragioni mostrano di avere difficoltà ad adattarsi ai cambiamenti. Luci e ombre, dunque. Da un lato, potendo comunicare in tempi rapidi, accedere a risorse formative e informative a distanza, lavorare con più testa e meno braccia, il “catalogo” delle opportunità di partecipazione e di libera espressione che ciascuno di noi ha a disposizione diventa considerevolmente più ampio; come abbiamo visto anche nel capitolo precedente, abbiamo più risorse strategiche per fare scelte secondo autonomi criteri di giudizio, siamo più competitivi nello studio e nel lavoro, siamo più partecipativi. Dall’altro lato e conseguentemente, chi non per propria colpa si ritrova fuori, impossibilitato a usare in maniera partecipata e autonoma i nuovi media, vede aumentare la distanza che lo separa da chi è integrato, si ritrova a fare i conti con uno svantaggio ulteriore. Anche al tempo di internet la vera simmetria da conquistare non è insomma tanto quella, peraltro più supposta e sponsorizzata che reale, esistente tra coloro che utilizzano la rete, ma quella che collega le relazioni di potere operanti nella società reale, le diseguaglianze da esse generate, e i meccanismi di accesso che di fatto ancora oggi impediscono ad una fetta molto significativa di persone di utilizzare la rete, e di farlo in maniera consapevole. Se questo è il quadro, la domanda successiva è quella che ci porta a chiederci cosa possiamo realisticamente fare per consolidare le promesse di libertà, porre un argine alle diseguaglianze tra chi accede ed utilizza i nuovi media e chi resta fuori, ridurre gli effetti collaterali legati all’avvento delle nuove tecnologie. Diciamo allora che mettere in atto politiche volte a sostenere e sviluppare processi di diffusione e di moltiplicazione delle opportunità può sicuramente aiutare. Così come avviare processi in grado di attivare, rendere disponibili, mettere in rete, le risorse in ogni campo necessarie affinché le persone possano davvero conoscere di più e meglio, possano apprendere e dunque sviluppare ulteriori capacità, abilità, competenze. E’ a questo che in definitiva ci si riferisce quando si parla di accesso consapevole alla rete: all’insieme di risorse e diritti che possono sostenere concretamente ciascuno di noi nei propri sforzi per usare le nuove tecnologie avendo delle ragioni per farlo e per sopportarne i costi conseguenti, in termini non solo economici, ma anche di tempo e di impegno. Tutto questo riporta al centro della discussione una questione eminentemente politica, quella che si riferisce ai criteri di giustizia e di equità con i quali, dal punto di vista sociale, devono essere distribuite le risorse disponibili. Per molte ed evidenti ragioni - non ultima, è utile ribadirlo, quella di evitare di aggiungere quello digitale ai tanti divari già esistenti in questo nostro mondo ricco e diseguale - il criterio di urgenza dovrebbe suggerire, in questo caso più che in ogni altro, di privilegiare coloro che, per cause indipendenti dalla loro volontà, appaiono svantaggiati. Se tutto questo è vero, la domanda ulteriore diventa evidentemente quella relativa alle politiche che occorre mettere in campo per dare maggiori opportunità a tutti e in primo luogo a chi ne ha maggiore bisogno. E’ in fondo la domanda alla quale molti enti locali, i Comuni in primo luogo, hanno cercato di rispondere mettendo in campo iniziative tese allo sviluppo e alla diffusione di nuove forme di cittadinanza elettronica, alla costruzione di reti civiche che in diversi modi sostengono i bisogni di accesso dei cittadini alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Si tratta di sperimentazioni e di realizzazioni importanti, che però non riescono a crescere oltre un determinato livello, anche in conseguenza dei limiti di spesa con i quali oggettivamente gli enti locali si trovano a fare i conti. Occorre a nostro avviso proporsi di fare un passo ulteriore in avanti. Definendo ad esempio politiche articolate intorno a due nodi strategici: il primo è quello rappresentato dalla risorsa educazione, sulla quale avremo modo più volte e a più riprese di ritornare nel corso del nostro racconto; il secondo è quello rappresentato dall’universo largo di soggetti, come ad esempio associazioni, enti, organismi operanti nella produzione e nella diffusione di software open source, scuole, volontariato, cooperazione, ecc., che concretamente possono contribuire ad ampliare e sostenere una strategia di accesso universale alla rete. Gli obiettivi? Realizzare sinergie e costruire reti fra agenzie di formazione e di socializzazione in grado di offrire ai cittadini, in particolare ai più giovani, a quelli che si ritrovano a vivere in un mondo che non sembra più capace di pensare sul lungo periodo, la possibilità di avere pensiero strategico; ritrovare ragioni e motivazioni per imparare, per fare, per partecipare, non solo attraverso il consumo ma anche attraverso la produzione e lo scambio di contenuti e informazioni reso possibile dall’attuale fase di sviluppo delle nuove tecnologie della comunicazione; promuovere forme di partecipazione civica digitale, diffondere la cultura delle pari opportunità di accesso, in una logica non sostitutiva ma integrativa e complementare a quella che ci vede, ci dovrebbe vedere, impegnati nel mondo “reale”; rendere almeno un po’ meno irraggiungibile l’ideale di libertà connesso alla diffusione delle nuove tecnologie.