G. Lipparini: Le castagne dell`Ariosto

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G. Lipparini: Le castagne dell`Ariosto
Giuseppe Lipparini
Le castagne dell’Ariosto
in Passeggiate, Firenze 1923, pp. 41-49
Siamo scesi a San Pellegrino avendo salito il crinale da Sant’Anna a Pelago non per la comoda via
delle Radici ma attraverso la fitta boscaglia dei faggi. Abbiamo rifatto il sentiero che forse il Santo
percorse venendo dal lontano settentrione brumoso. Ci siamo affacciati, come lui, nell’ora dell’alba,
sulla grande vallata che l’Apuane serrano in fondo con i lor profili aguzzi e precisi.
Sostiamo prima di cominciar la discesa per le rocce scoperte. Tutta la Garfagnana è ai nostri piedi,
folta di boschi, recinta dalle alte vette che la incastonano come uno smeraldo enorme. A poco a poco la luce comincia a colpire le Panie azzurre che ne divengono rosse, poi discende adagio, metodica e lenta, nella valle. Sorge qua e là uno scintillare di acque. Il Serchio corre impetuoso in fondo.
L’aria è fredda e tranquilla. Senza il nostro mantelletto corto da pellegrini o da soldati, lo star fermi
così ci farebbe rabbrividire. C’è una luce così limpida che sembra abolir le distanze. Vediamo tutto
vicino con una nitidezza miracolosa. Ci pare che basti allungar le mani perché il mondo che vediamo si accosti e si fonda con noi e si annulli in noi e ci annulli in sé.
Le creature alate del buon Dio tacciono su questa altezza nuda. Se il mormorio dei rii e il fragore
del torrente non riempissero l’aria, noi sentiremmo i loro trilli punteggiare più giù il silenzio della
macchia. Lontano, verso il santuario, vediamo già saettar le rondini mattiniere.
Il Santo, venuto col bordone e col saio dalla Scozia remota dove era figlio di re, giunto su queste
rocce sentì che il luogo del suo destino era raggiunto. Allora scese un poco più sotto, al riparo dei
venti furiosi, e si costruì la sua capannetta di sassi.
Allora, eran luoghi selvaggi e però ancora più belli. Non v’erano case, non vi si scorgevano villaggi.
Forse, l’estate, qualche raro pastore saliva ai pascoli alti dalle selve della valle. Del resto, non vi
passavano altro che i malandrini e i lupi. La montagna non era rigata che da duri sentieri che la primavera e l’autunno trasmutavano in ruscelli impetuosi.
Non vi era la bella via maestra che con le sue curve sinuose scende a Castiglione di Garfagnana,
chiuso ancora nella cinta delle sue quattro mura, e a Castelnuovo, ove sotto i ponti le acque del Serchio e della Turrita si congiungono per scendere insieme alla conquista del piano.
Ma quando la santità cominciò a splendere e a odorare e le genti accorsero verso l’uomo di Dio che
si macerava in solitudine con un solo fratello, certo esse salirono per quella medesima corta per la
quale anche oggi noi potremmo, in un’ora e mezzo, scendere a Castelnuovo.
I sentieri e le corte sono sulle montagne i testimoni fedeli del buon tempo antico. Un esercito che
oggi volesse scendere dal modenese nella Toscana, varcherebbe le montagne per la grande via
Giardini attraverso i boschi dell’Abetone. Ma più in alto, sul crinale che si abbassa subito sotto il
Cimone, i pastori vi mostrano il sentiero per cui passarono Attila ed Alarico.
Più tardi, nella saletta affollata di uno degli alberghi che circondano il santuario, aspettiamo il nostro turno per la colazione. I clienti son molti e la cameriera è una sola.
Abbiamo ancora gli occhi pieni di azzurro, e respiriamo ancora il profumo delle ginestre arse dal
sole. Restiamo silenziosi con la nostra gioia intensa. Ma i vicini sono rumorosi e loquaci. Gustano
per antipasto le trote marinate che sono una specialità del luogo e che anche noi non tarderemo a divorare, perché la poesia e la santità non escludono l’appetito. Hanno visitato le mummie dei due
santi, ascoltata la messa, chiesta la grazia, fatto il voto. Ora la loro anima è contenta. Ragionano di
affari e di raccolti.
“Che stagione avanzata!” esclama uno. “Neppure i vecchi se la ricordano”.
“Quest’anno” soggiunge un altro, “si coglierà il 4 di ottobre; così il gelo non ci rovinerà le castagne”.
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“Le castagne! Le castagne!” obbietta il primo. “Come se a noi ce ne toccassero! Il porco Governo le
lascia partir tutte a beneficio dei pescicani della città”.
Le castagne?
Ecco che a questa parola il mio cervello improvvisamente si illumina.
Vi è mai accaduto di pensare a una cosa senza sapere a quale? di accorgervi che vi dimenticate di
una cosa o di una persona senza riuscire a ricordarvi qual sia quella cosa o chi sia quella persona? o,
peggio ancora, di sentire un’inquietudine sorda di cui ignorate la ragione e che poi si svela per qualche cosa che non avete fatto o non avete ricordato?
Ebbene, stamane, sull’alpe, il mio gaudio era stato interrotto a tratti da quella inquietudine. Studiavo
il bel paese, evocavo la figura del Santo e i suoi tempi feroci, scendevo col fiume a valle, risalivo
con lo sguardo alle Panie e rivedevo, nascosto laggiù dietro un gomito della montagna, l’eremo di
Castelvecchio; ma qualche cosa o qualcuno mi restavano come ostili o celati. Sentivo che qualche
cosa mancava nel mio pensiero, che avrebbe dovuto esserci e dominarlo quando seguivo le acque e
il loro tortuoso cammino.
Or ecco che quel discorso sulle castagne vinceva la mia amnesia, e mi faceva sfolgorare all’improvviso nella memoria un nome.
Ludovico Ariosto!
Dunque, pensando al Santo e al suo mistico pellegrinaggio, non mi ero ricordato di un altro grande
che i contemporanei chiamarono divino, e che Alfonso d’Este aveva mandato a Castelnuovo ad
amministrargli il gregge garfagnino. Eppure, è probabile che anch’egli fosse salito quassù, il magnifico governatore: e chi sa ch’egli non tornasse dall’alpe dopo un suo giro d’ispezione, quando
scrisse questi versi stupendi in una elegia che ricompra ottave troppo celebrate del Furioso:
Mentre ch’io parlo, il torbid’Austro prende
Maggior possanza, e cresce il verno, e sciolto
Da’ ruinosi balzi il liquor scende;
Di sotto fango, e quindi e quindi il folto
Bosco mi tarda; e intanto l’aspra pioggia,
Acuta più che stral, mi fiede il volto.
So che qui appresso non è casa o loggia
Che mi ricopra, e pria ch’a tetto giunga,
Per lungo tratto il monte or scende or poggia.
Né più affrettar, perch’io lo sferzi o punga,
Posso il caval, che lo sgomenta l’ira
Del ciel, e stanca la via alpestre e lunga.
Ahimè! E Madonna Alessandra era lontana; s’ella fosse stata con lui, egli avrebbe dimenticato il
maltempo e la montagna dura:
Poco il maltempo e loti e sassi e fiumi
Mi darian noia, e mi sarebbon piani,
E più che prati molli, erte e cacumi.
No; l’Ariosto non sentiva la bellezza della montagna, neppure quando per le valli scendeva fresca e
verde la bella primavera. Forse gli mancava il gusto del paesaggio naturale, a lui che ne aveva creati
di così stupendamente artifiziosi nel grande poema! Del paese montanino egli non vedeva se non
l’orrido e il brutto; brutto gli pareva anche ciò che non è leggiadro sol perché è vario e maestoso.
Neppure la Pania trova grazia presso di lui:
La nuda Pania tra l’aurora e il noto,
Da l’altre parti il giogo mi circonda,
Che fa d’un pellegrin la gloria noto.
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E neppure la valle, che sale al giogo con tanta grazia di curve e di avvolgimenti:
Questa è una fossa, ove abito, profonda...
E’ vero ch’era lontana la Corte, e non vi erano i cari amici e la dolce donna. Ma uno spirito moderno si sarebbe quetato e consolato in mezzo alle bellezze naturali.
Pure è vero che la Garfagnana era anche allora bellissima, ma che o garfagnini del tempo eran gente
birbona e i briganti infestavano il paese.
E poi, messer Ludovico doveva fare il governatore. Meglio di quando il magnifico cardinale Ippolito lo aveva di poeta trasformato in cavallaro; ma è certo che le cure del governatore non dovevano
essere le più grate a un uomo assuefatto ad onorare le Muse. Gioghi e fonti vi erano in abbondanza;
ma non vi si trovavano né Ippocrene né Parnaso!
Ora leggendo l’epistolario del poeta, si avverte come egli fosse davvero un eccellente funzionario,
tenero, ma non troppo, per i suoi sudditi, premuroso e franco verso il suo signore. Ma accadeva allora agli eccellenti funzionari quello che accade anche oggi. Non erano ascoltati. Il poeta inviava al
Duca ottime proposte; ma la burocrazia cortigiana non se ne occupava o rispondeva tarda e fiacca,
talché le cose andavano a rotoli, e il buono uomo se ne disperava. Che valeva essere severi, se poi il
Duca minchione largiva le grazie?
“Le troppe grazie che V. E. fa a questi uomini della Vicaria di Camporeggiano, li insanisce”.
Di dove si vede che in quel tempo anche i Duchi si lasciavano parlar chiaro. Oggi un onesto direttore generale insanirebbe lui, davanti a un simile periodo che gli venisse da un sottoposto.
Ma il poeta si occupava anche dell’annona (ed ecco che arrivano le castagne).
Io prego il lettore di meditare questo modesto episodio. Alle volte i poeti ne sanno più degli economisti; ed io credo che quanto scrisse l’Ariosto sull’argomento potrebbe essere studiato con profitto
da qualche commendatore.
La Garfagnana era anche allora grande produttrice di castagne. Ma essendo quello pressoché il solo
cibo di quelle popolazioni - il pan di legno cantato dal Pascoli - vi erano leggi e decreti che ne regolavano l’esportazione. Senonché, anche nel Cinquecento era facile violare i regolamenti, e i decreti
annonari venivano, come oggi, facilmente frustrati con concessioni ed eccezioni. Così, accadde che
gli abitanti di Meschioso ebbero, proprio in un’annata di carestia, il permesso di esportar le castagne. Era il novembre 1523, terminato da poco il raccolto; e l’Ariosto, prima di eseguire l’ordine ricevuto, così obbiettava al suo signore: “Ill. ed Ecc. Signor mio. Oggi uno mandato dagli uomini di
Meschioso mi ha dato una lettera di V. Ecc. per la quale mi commette ch’io lasci a quelli uomini
cavare di questa provincia tutte le castagne che hanno colte ne le selve lor proprie o in quelle che
hanno condotte ad affitto. Prima ch’io abbia dato lor licenza, ho voluto avvisare V. Ecc. che questa
Provincia si trova in gran carestia, ché ora il frumento si vende 20 bolognini lo staiolo, assai minore
del nostro stato di Ferrara, e le castagne, perché ne sono state pochissime, sono in più prezzo che
sieno ancora state poi ch’io son qui. E già son fatti cinque o sei mercati, che in tutto non è comparso
più che un sacco di grano. Intorno intorno tutte le tratte (i transiti) son serrate, che da nessun luogo
ne può venir granello. Di Lombardia, che forse ne potria venire, non ne compare se non pochissimo;
né anco ce ne verria, se non fosse ch’io ho fatto un ordine, che chi porta uno staro di frumento o
d’altro grano, può portar fuori due di castagne. Se V. Ecc., inteso che abbia questo ch’io scrivo, sarà
pure di volontà ch’io lasci portar fuori le castagne a tutti li sudditi lombardi suoi, io la ubbidirò, ma
questa provincia si affamerà di modo che di questo avrà poco obbligo a V. Ecc. Queste proibizioni
ch’ò fatte sono a mio danno; ma ho preposto l’utile comune al mio perché per ordine antico li
Commissari pigliano tre quattrini di ogni soma di roba da mangiare che va fuori. V. Ecc. comandi,
alla quale mi raccomando”.
Onesto Ariosto! Egli non avrebbe rubato sulla roba dei profughi, né si sarebbe arricchito con le
mance dei pescicani!
Ritorniamo al tramonto, per l’ampia mulattiera sassosa che conduce alle Radici. Domattina discenderemo verso la bassa Garfagnana, e, la sera, sosteremo a Castelnuovo, e sul ponte della Turrita evocheremo i fantasmi di Orlando e di Pellegrino.
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