Uomo e donna mangiarono del frutto dell`albero

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Uomo e donna mangiarono del frutto dell`albero
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Uomo e donna mangiarono
del frutto dell’albero
Nella storia biblica del «peccato originale» il primo uomo si lascia prendere
dall’illusione di essere il centro di tutto e di non avere limiti; dalla pretesa di non
avere bisogno di Dio. Tutto ciò provoca una serie di guai: il mondo si fa ostile
e la morte è amara condanna.
A
bbiamo già sottolineato che la
rappresentazione del «giardinoparadiso» piantato ad Oriente non
è un resoconto scientifico, informativo,
«obbiettivo» in senso moderno. Quella
della Genesi è una narrazione «eziologica», che cioè vuole motivare qualcosa che
appare bisognoso di spiegazione.
L’autore prende le mosse dal dolore e
dall’insufficienza della creazione di Dio.
Lo tormenta la domanda sulla provenienza del peso del lavoro, dell’infruttuosità
del suolo, dei dolori della madre nel parto, della dipendenza della donna dall’uomo (nell’antica cultura semitica), della
paura della morte.
Tutto ciò non può venire da Dio perché
Dio è buono e tutto ciò che ha creato deve
essere stato buono sotto ogni aspetto.
Egli non può essere responsabile delle
sofferenze dell’uomo.
Così nel nostro testo l’autore delinea un quadro delle origini nel quale i
mali suddetti mancano. Questo sguardo
retrospettivo di Israele alle origini ha un
senso religioso: il testo discolpa Dio e
attribuisce la responsabilità della miseria
del mondo all’uomo che, nella libertà, ha
scelto il peccato.
Da tutto ciò nascono le affermazioni
sull’«albero del bene e del male» e sul
primo peccato. Affermazioni che sono
simboli bisognosi di decodificazione.
Tre sono i momenti del dramma presentati dal brano che leggiamo stasera
(Gen 3, 1-24): la tentazione, la caduta, la
sentenza di Dio che è anche annuncio di
salvezza.
Per l’autore sacro, la responsabilità del
male ricade sul serpente e non sul comando di Dio o su Dio stesso. Per questo
il racconto colloca l’inizio del male fuori
dall’uomo.
Fin da epoche molto antiche questo
racconto della Genesi è stato interpretato come la descrizione di un peccato di
superbia: l’uomo tentato ha voluto «diventare come Dio», decidere da solo ciò che
è bene e ciò che è male»; ha voluto darsi
la propria legge morale non accettando
di essere «creatura». Comprendete che,
come ogni peccato, non è un gesto che infrange una regola ma una scelta di fondo
che porta a finalizzare tutto a sé.
In quanto poi alla sentenza di Jahwé
essa è, in primo luogo, giudizio di condanna sul serpente che ha vinto ma la
cui vittoria non è definitiva. In secondo
luogo, il castigo della donna e quello
dell’uomo, indicano che si è prodotta una
ferita nel più profondo del loro essere e
che, infranta l’amicizia con Dio, tutto
si deteriora. Ora l’umanità guarderà il
mondo con occhi diversi e offuscati e lo
troverà duro e penoso.
Pur sapendo che questi racconti non
intendono soddisfare la nostra curiosità storica o scientifica, la fede cristiana
ci invita a prenderli sul serio. Il testo ci
mette di fronte alla nostra situazione di
umanità «decaduta», in lotta con il male
e ci dice chiaramente non solo che Dio
non è responsabile del male, ma che vuole la nostra salvezza.
Forse per questo la Chiesa all’inizio
della veglia pasquale, nell’Exultet, quando canta con gioia la luce del Cristo risorto, proclama senza esitazione: «Felice
colpa che meritò un così grande redentore. Senza il peccato di Adamo, Cristo non
ci avrebbe redenti…»
Il racconto
del peccato
originale
così come è
raccontato nel
capitolo terzo
del Genesi.
LA BIBBIA - 37
Dal libro della Genesi
capitolo 3, 1-24
Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte
dal Signore Dio. Egli disse alla donna: «È vero che Dio ha
detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?».
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Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del
giardino noi possiamo mangiare,
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ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio
ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare,
altrimenti morirete».
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Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto!
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Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero
i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo
il bene e il male».
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Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare,
gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza;
prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito,
che era con lei, e anch’egli ne mangiò.
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Allora si aprirono gli occhi di tutti e due
e si accorsero di essere nudi;
intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.
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Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino
alla brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero
dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino.
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Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?».
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Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino:
ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto».
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Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che eri nudo?
Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato
di non mangiare?».
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Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posta accanto
mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato».
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Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose
la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».
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Allora il Signore Dio disse al serpente:
«Poiché tu hai fatto questo,
sii tu maledetto più di tutto il bestiame
e più di tutte le bestie selvatiche;
sul tuo ventre camminerai
e polvere mangerai
per tutti i giorni della tua vita.
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Io porrò inimicizia tra te e la donna,
tra la tua stripe
e la sua stirpe:
questa ti schiaccerà la testa
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38 - LA BIBBIA
Il serpente
Improvvisamente, nel testo biblico, appare il serpente. Anch’esso è
creato ma non viene detto di dove
venga la sua malvagità.
Questo animale aveva un grande
ruolo nella mitologia. In Egitto il
serpente si opponeva al dio sole
durante la notte per impedirgli di
risorgere al mattino. Nei culti cananaici era un idolo molto comune,
simbolo della vita, della fecondità e
della sapienza.
Si ricorderà facilmente come questo animale è presente anche nella
mitologia greca quale simbolo di
Esculapio, il dio della medicina. Era
infatti credenza comune tra gli antichi che il serpente non si ammalasse
mai. Così anche oggi le farmacie
sono contrassegnate non solo da
una croce luminosa ma anche dalla
rappresentazione di un serpente che
avvolge un bastone con le sue spire.
Infine, era il serpente, nell’epopea di
Ghilgamesh, che rubava la «pianta
della vita» che l’eroe aveva conquistato con tanti sacrifici.
Il nostro testo vuole mostrare che
il peccato non viene dall’interno
dell’uomo, non fa parte della sua
natura (l’uomo quindi è responsabile dei suoi atti!) e non viene
neppure da Dio: viene dall’esterno.
Il serpente diventa così il nemico di
Dio e la tradizione biblica ha riconosciuto in esso il diavolo, traduzione
greca dell’ebraico satan (cf Sap 2,
24: «La morte è entrata nel mondo
per invidia del diavolo»).
Nel dialogo, il serpente si mostra
conoscitore del cuore umano; comincia con una domanda, accende
il desiderio del proibito che appare
seducente, spinge a commettere il
fatto.
«PRESE DEL SUO FRUTTO
E NE MANGIò»
Il gesto di mangiare il frutto dell’albero (v. 6) dev’essere qui interpretato come la realizzazione di quel
«diventereste come Dio» del versetto precedente. È la tentazione e il
miraggio dell’uomo, la grande menzogna. Pretendere di «essere come
Dio» significa voler godere di una
situazione di vita in cui tutti i nostri
desideri si realizzano e tutti i nostri
bisogni sono soddisfatti (si veda
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e tu le insidierai il calcagno».
Alla donna disse:
«Moltiplicherò
i tuoi dolori e le tue gravidanze,
con dolore partorirai figli.
Verso tuo marito sarà il tuo istinto,
ma egli ti dominerà».
All’uomo disse:
«Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie
e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato:
Non ne devi mangiare,
maledetto sia il suolo per causa tua!
Con dolore ne trarrai il cibo
per tutti i giorni della tua vita.
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Spine e cardi produrrà per te
e mangerai l’erba campestre.
anche la nota a pagina 35 sull’«albero della conoscenza del bene e del
male»).
Quindi il gesto di prendere il frutto
e di mangiarne è un’immagine che
vuole dire ben altro. La colpa dei
due esseri umani non fu quella di
mangiare una mela squisita.
Ma da dove viene allora quest’idea
quasi inestirpabile della mela? Essa
si fonda forse su un errore di traduzione dalla lingua latina. In essa la
stessa parola malum può avere due
significati: malum = male, malum =
mela. Così l’albero è diventato un
melo. Anche l’arte ha avuto la sua
parte nella storia della mela visto
che il frutto del paradiso terrestre
è sempre rappresentato come un
pomo.
«SI ACCORSERO DI ESSERE NUDI»
Qual’è la conseguenza del fatto
compiuto? Si «aprirono gli occhi
di tutti e due» (v. 7) e invece di un
innalzamento sperimentano una
degradazione umiliante. Scoprono
la loro nudità che sentono ora come
una vergogna. La nudità, nell’AT,
è infamia sociale; si denudano ad
esempio i carcerati, i condannati a
morte…
Ormai l’uomo non riflette più immediatamente la gloria del Creatore,
ha perduto la sua dignità. E la paura
entra nella sua vita: teme Dio e fugge il suo sguardo, il suo incontro.
I vv. dall’11 al 13 mostrano la paura
e la vergogna che accompagnano il
peccato. L’uomo attribuisce la colpa
alla donna, la donna al serpente.
In questo peccato originale non
è descritto solo il primo, ma ogni
peccato nel suo decorso: tentazione
- seduzione - atto - vergogna - paura
- dichiarazione di innocenza.
«SII TU MALEDETTO…»
Nel testo segue la sentenza punitiva di Dio sul serpente, sull’uomo e
sulla donna. Per il serpente la sua
punizione è la sua singolare forma
di vita (strisciare sul ventre, vivere di
polvere).
«Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe»:
significa che inimicizia mortale
regnerà ora tra l’essere umano e
il serpente, guerra aperta su tutti
i fronti tra il male e l’umanità. E
la stirpe che nascerà dalla donna
schiaccerà con il suo calcagno la
testa al serpente: fuor di metafora,
verrà qualcuno della stirpe umana
che vincerà il male, che distruggerà
la sua potenza.
Questo annuncio è chiamato, a
partire dagli antichi Padri della
Chiesa, «protoevangelo» cioè «primo evangelo», il primo barlume di
salvezza. La traduzione greca dei
LXX, traduce il pronome questa (=la
stirpe della donna), con questo, al
maschile, attribuendo così la vittoria
non alla discendenza della donna in
generale, ma ad uno dei figli della
donna: così è preparata l’interpretazione messianica che molti Padri
greci espliciteranno.
Applicando il testo al Messia, si implicherà anche sua madre e nascerà
così una interpretazione mariologica
del passo tanto che la traduzione
latina del passo «ipsa conteret caput
tuum» applicato alla Madonna è
divenuta tradizionale nella Chiesa ,
nella Liturgia oltre che nella statuaria sacra dove l’Immacolata è rappresentata appunto come colei che
schiacci il capo del serpente antico.
LA SOFFERENZA E LA MORTE
Nei vv. 16 e ss., la condanna colpisce
i colpevoli nelle loro attività essenziali. La donna come madre e sposa,
l’uomo come lavoratore. Naturalmente in testo non può significare che senza il peccato la donna
avrebbe generato senza dolore e
che l’uomo avrebbe lavorato senza
avere il sudore della fronte; o che
non c’era la morte fisica. «Tanto
LA BIBBIA - 39
Con il sudore del tuo volto mangerai il pane;
finchè tornerai alla terra,
perchè da essa sei stato tratto:
polvere tu sei e in polvere tornerai!».
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L’uomo chiamò la moglie Eva,
perché essa fu la madre di tutti i viventi.
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Il Signore Dio fece all’uomo e alla donna
tuniche di pelli e le vestì.
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Il Signore Dio disse allora:
«Ecco l’uomo è diventato
come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male.
Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche
dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre!».
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Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden,
perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto.
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Scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden
i cherubini e la fiamma della spada folgorante,
per custodire la via all’albero della vita.
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E IL PECCATO «ORIGINALE»?
C
i siamo accorti che nel testo biblico non abbiamo trovato l’espressione «peccato originale» con il quale abitualmente si designa il peccato dei progenitori raccontato
dal capitolo terzo del Genesi con le sue conseguenze sino a
noi. Da dove viene allora questa espressione?
Se il primo ad utilizzarla letteralmente è forse stato S. Agostino (V sec.), ma il suo senso è già chiaramente presente nel
5° capitolo della lettera di Paolo ai Romani.
«Come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto
tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato» (5,12). Adamo,
egli dice, è l’uomo e il suo peccato è anche il peccato di ogni
uomo, dell’umanità, del mondo. In questo senso ognuno dei
nostri peccati entra nel peccato di Adamo, lo ingrandisce, gli
dona consistenza. Così, «per la caduta di uno solo morirono
tutti» (5,15).
Ma per Paolo, l’affermazione del peccato originale è la
conseguenza di una verità molto più importante: noi tutti
siamo salvati in Gesù Cristo: «Come per l’opera di uno solo si è
riversato su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera
di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà la vita» (5, 18).
L’essenziale dunque è non dimenticare che noi siamo salvati ma per grazia. Il peccato originale dunque ci ricorda più di
ogni altra cosa che noi siamo salvati in Gesù Cristo.
40 - LA BIBBIA
varrebbe concludere, dal v. 14 che
prima del peccato i serpenti avevano
le zampe».
Dunque, anche prima del peccato
c’era sofferenza e morte, Adamo ed
Eva avrebbero sofferto e sarebbero
morti, ma avrebbero vissuto questa
condizione nella fiducia in Dio,
senza angoscia.
«Vita» e «morte», in questo contesto, significano dunque vicinanza a
Dio e lontananza da lui. Non va intesa la morte fisica, che colpisce senza
differenze tutti gli uomini, quelli che
osservano i comandamenti di Dio e
quelli che non li osservano. Questa
«morte» trasferisce l’uomo in una
sfera di male nella quale non c’è per
lui alcuna amicizia con Dio ma solo
la perdita della sua familiarità.
CHIAMO’ LA MOGLIE EVA
Malgrado la dura punizione, agli
uomini rimane un resto di speranza.
Questo è mostrato dalla assegnazione del nome alla donna, in ebraico
Hawah = Eva = madre di tutti i
viventi (v 20). Il miracolo della vita e
della maternità continuerà.
Li VESTI’ di PELLI
Dio punisce la ribellione dell’uomo
ma non lo lascia senza protezione,
non lo priva del proprio aiuto. La
Bibbia si serve spesso dell’immagine
del vestito per dire che Dio restaura
la dignità dell’uomo (Lc 15,22).
Questo versetto sulle tuniche di pelle ha alimentato, in ambito greco,
nei primi secoli, molte concezioni
strane sullo stato di Adamo e di Eva.
Per alcuni pensatori antichi, prima
del peccato Adamo ed Eva erano
solo la parte spirituale dell’uomo,
puri spiriti; il corpo, le tuniche di
pelli, sarebbe così stata la punizione
pesante della sua mancanza. Una
pura e semplice speculazione senza
alcun fondamento esegetico.
I CHERUBINI CUSTODI
Il nome «cherubini» corrisponde a
quello dei geni alati le cui raffigurazioni erano poste a custodia dei
templi e dei palazzi in Mesopotamia. Con questa immagine e con un
linguaggio fortemente mitologico,
l’autore sacro sembra voler indicare
che l’uomo, con il peccato, si colloca
«fuori dal tempio», rompe il suo
rapporto con Dio e fugge lontano
dalla sua presenza.