Kabul tra brogli e guerra

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Kabul tra brogli e guerra
Kabul tra brogli e guerra
Venerdì 23 Ottobre 2009 23:01
di Michele Paris
Dopo giorni di frenetici colloqui e insistenti pressioni, il presidente afgano Hamid Karzai ha finito
per piegarsi alle richieste dei leader delle potenze occidentali occupanti, accettando il responso
della commissione elettorale internazionale che aveva dichiarato nulli quasi un milione e mezzo
di voti nelle presidenziali di agosto. Dopo l’accettazione del verdetto anche da parte del suo
avversario - l’ex ministro degli Esteri Abdullah Abdullah - sono iniziati i preparativi per una sfida
di secondo turno fissata al 7 novembre e che si preannuncia estremamente delicata a causa
delle precarie condizioni di sicurezza in cui versa buona parte del paese e delle persistenti
possibilità di nuovi brogli elettorali.
A partire da venerdì della settimana scorsa, il presidente della Commissione Esteri del Senato
americano, John Kerry, ha incontrato Karzai per ben cinque volte nel palazzo presidenziale di
Kabul per trasmettergli il messaggio della Casa Bianca. Per salvare la faccia di fronte alla
comunità internazione e consentire di mantenere una parvenza di legalità alle elezioni
presidenziali era necessario infatti acconsentire ad un ballottaggio, da tenersi oltretutto il più
presto possibile per evitare le difficoltà logistiche inevitabilmente prodotte dall’inverno in
Afghanistan.
Convinto dagli argomenti dell’ex candidato democratico alla Casa Bianca, nonché dalle
telefonate del Primo Ministro britannico Gordon Brown e del Ministro degli Esteri francese
Bernard Kouchner, Karzai alla fine è inevitabilmente apparso in una conferenza stampa nella
capitale afgana al fianco dello stesso Kerry, dell’inviato speciale dell’ONU Kai Eide e
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dell’ambasciatore USA Karl Eikenberry per annunciare la sua sottomissione agli ordini di
Washington.
Alle prese con la richiesta dei vertici militari in Afghanistan di inviare nel paese occupato
dall’autunno del 2001 altri 40.000 uomini, il presidente Obama per bocca del suo capo di
gabinetto Rahm Emanuel, seppure parzialmente smentito pochi giorni dopo dal Segretario alla
Difesa Gates, aveva chiaramente dichiarato di voler attendere di avere un interlocutore credibile
a Kabul prima di prendere una decisione definitiva. Per sollecitare Karzai e il suo entourage a
non frapporre ostacoli ad un secondo turno per scegliere il prossimo presidente afgano e porre
fine allo stallo politico, Obama ha così messo in moto i pesi massimi della sua amministrazione
e del Congresso.
Oltre a John Kerry, si sono fatti carico di “convincere” Karzai, anche con minacce più o meno
sottili, il Segretario di Stato Hillary Rodham Clinton, il consigliere per la sicurezza nazionale,
generale James L. Jones, e lo stesso numero uno del Pentagono, Robert Gates. Questi ultimi
due pare abbiano anche comunicato esplicitamente al Ministro della Difesa afgano Abdul
Rahim Wardak che le scelte di Karzai avrebbero potuto influire sul processo decisionale in
corso alla Casa Bianca per l’invio di nuove truppe fortemente volute dal governo di Kabul. Una
minaccia decisiva a quanto sembra, visti i rischi concreti di crollo del suo regime in caso di
mancato incremento delle forze di occupazione occidentali e il ricordo del feroce trattamento
riservato dai Talebani all’ultimo presidente filo-sovietico dell’Afghanistan, Mohammad
Najibullah; evirato, torturato, trascinato per le strade della capitale e ucciso con un colpo di
pistola prima di venire appeso ad un lampione nel settembre del 1996.
Nonostante la dichiarazione ufficiale di Obama, con la quale ha salutato la decisione di Karzai
di acconsentire al ballottaggio con Abdullah come un gesto di rispetto della legalità e della
volontà del popolo afgano, l’intera vicenda ha ricordato, se mai fosse stato necessario, chi siano
i veri detentori del potere in questo paese. La decisione di sbloccare l’impasse e fissare il
secondo turno elettorale è stata presa a Washington e imposta ad un presidente-fantoccio
ampiamente screditato sia in Afghanistan sia a livello internazionale. Karzai, d’altra parte,
rimane malgrado tutto l’alternativa più accettabile per gli Stati Uniti che vedono a questo punto il
ballottaggio di novembre come l’unica occasione per restituirgli una qualche credibilità agli occhi
del mondo e degli elettori afgani.
Nel primo turno delle elezioni presidenziali del 20 agosto scorso, Hamid Karzai era stato
accreditato inizialmente del 54,6% delle preferenze, un risultato che gli avrebbe permesso di
riconquistare immediatamente la presidenza. Alle sue spalle, Abdullah Abdullah aveva raccolto
il 27,8%. Assieme ai risultati provvisori erano iniziati a diffondersi però anche le accuse di brogli
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in moltissime sezioni, molte delle quali esistenti solo sulla carta e usate esclusivamente per
gonfiare il bottino di voti dei candidati. Dopo l’analisi dei ricorsi presentati da più parti, la
commissione elettorale delle Nazioni Unite (IEC) ha cancellato quasi un milione di voti
assegnati a Karzai - e poco più di 200 mila al suo principale sfidante - fissando il suo risultato
finale al 49,7%, cioè appena al di sotto della maggioranza assoluta dei consensi necessaria per
evitare un secondo turno.
I colloqui di Karzai con i rappresentati dei governi occidentali si sono incrociati negli ultimi giorni
con le trattative portate avanti assieme allo staff di Abdullah per un possibile accordo di governo
che avrebbe scongiurato l’ipotesi del ballottaggio tra i due sfidanti. Secondo alcuni giornali
americani, il negoziato, naufragato rapidamente visti anche i rapporti molto freddi tra i due, era
stato sollecitato da Washington, da dove ci si augurava di includere in un governo di unità
nazionale anche il candidato decisamente filo-americano Ashraf Ghani, fermo al 2,7% al primo
turno. Sia Karzai che Abdullah hanno però successivamente dichiarato di non essere stati spinti
verso un accordo da nessuno nella comunità internazionale.
Il ballottaggio del 7 novembre rischia in ogni caso di andare nuovamente in scena tra
manipolazioni del processo elettorale ed intimidazioni della resistenza talebana che imperversa
nelle aree orientali e meridionali del paese. Con un risultato che finirà verosimilmente per
rinforzare la presenza americana sul campo e confermare un governo corrotto e screditato a
Kabul. D’altronde, se la volontà del popolo afgano fosse veramente rispettata, come si
dovrebbe dedurre dalle dichiarazioni di Obama e degli alleati occidentali, le forze di
occupazione avrebbero dovuto lasciare l’Afghanistan già da tempo. Un’avversione all’escalation
militare condivisa anche dai cittadini americani, ormai ben poco sensibili alla propaganda della
guerra “giusta” dopo gli attacchi dell’11 settembre e alle pressioni della destra per aumentare
quanto prima il contingente militare. Secondo un recente sondaggio del Washington Post,
infatti, la percentuale degli americani contrari all’invio di nuove truppe è salita negli ultimi mesi al
61%.
Per stessa ammissione dell’amministrazione Obama poi, il motivo scatenante l’invasione
dell’Afghanistan nel 2001 sarebbe ormai venuto meno. Nel corso di un’intervista rilasciata alla C
NN
il 4 ottobre scorso, il generale James L. Jones aveva dichiarato che la presenza nel paese di
militanti legati ad Al-Qaeda è stimabile nell’ordine di un solo centinaio. A ciò si aggiungano
alcuni rapporti dell’intelligence, che hanno evidenziato la scissione in atto tra i Talebani e gli
uomini di Osama bin Laden in Afghanistan.
Un massiccio incremento di truppe in questo paese, in definitiva, non farebbe che accrescere il
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risentimento già sufficientemente diffuso nei confronti degli USA, alimentando ancor di più
pericolosi sentimenti nazionalistici. Basti pensare alla reazione avuta pochi giorni fa dai politici e
dalla popolazione civile in Pakistan dopo l’approvazione da parte del Congresso americano di
un pacchetto di assistenza di 7,5 miliardi di dollari. Se l’invio di aiuti in denaro ha suscitato
proteste così accese, nel caso del Pakistan a causa dei vincoli ad essi legati che sminuirebbero
la sovranità del governo locale, c’è da chiedersi seriamente quale sarebbe la risposta
all’indomani di un aumento sempre più probabile del contingente militare americano in
Afghanistan.
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