Flessibilità e politiche del lavoro in Europa fra mercato e

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Flessibilità e politiche del lavoro in Europa fra mercato e
WWW.SOCPOL.UNIMI.IT
Dipartimento di Studi Sociali e Politici
Università degli Studi di Milano
Working Paper 06/09
Flessibilità e politiche del lavoro
in Europa fra mercato
e regolazione congiunta.
Roberto Pedersini
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Flessibilità e politiche del lavoro in Europa fra mercato e regolazione congiunta Roberto Pedersini Lo spunto per le riflessioni contenute in questo lavoro proviene dalla considerazione di una possibile contraddizione delle politiche europee nel campo del lavoro: l’impegno profuso nel sostegno di misure di de‐regolazione del mercato del lavoro, che trovano una loro declinazione “positiva” nelle politiche attive, e, allo stesso tempo, la conferma di un modello di regolazione sociale che assegna un ruolo importante alle organizzazioni di rappresentanza del lavoro, insieme a quelle delle imprese. La domanda fondamentale alla quale cercherò di rispondere è se e in che modo sia possibile combinare i due obiettivi centrali della strategia di Lisbona: un’economia dinamica e competitiva (che si affida essenzialmente ad una regolazione di mercato, coerentemente con la natura originaria della Comunità Europea come spazio economico comune) ed una società coesa (grazie all’azione dei sistemi di protezione sociale ed all’azione integrativa delle organizzazioni degli interessi e in particolare dei sindacati). Non è certo un tema nuovo nella riflessione delle scienze sociali, almeno a partire dall’analisi polanyiana sui difficili rapporti fra scambio di mercato e società. È, però, anche un tema di attualità: alcune recenti sentenze della Corte di Giustizia Europea hanno chiaramente mostrato come i principi della libertà economica e quelli contenuti nella Carta di Nizza, fra i quali rientrano molti diritti collettivi del lavoro, non siano conciliabili direttamente, senza una chiara e specifica regolamentazione nell’ambito del sistema giuridico europeo (Ballestrero 2008, Pallini 2008, Sciarra 2008). Secondo gli interventi della Corte, il contemperamento fra questi diversi principi, potenzialmente conflittuali, va realizzato esplicitamente dal legislatore comunitario; altrimenti, in ambito giurisdizionale, uno dei due deve quasi necessariamente lasciare il passo all’altro. E ultimamente sono le regole che proteggono il lavoro ad avere più spesso la peggio; proprio quelle che sovente vengono identificate come costitutive del “Modello sociale europeo” e garanti della coesione sociale. Sebbene proprio questi ultimi sviluppi segnalino come, probabilmente, la soft law non basti per rendere compatibili tali obiettivi potenzialmente contraddittori, la strada che si intende percorrere muove dalla sostanziale irrilevanza della questione nell’ambito della politica europea dell’occupazione. Al fine di guidare la trasformazione dei mercati del lavoro dei paesi membri verso una maggiore flessibilità ed un orientamento alle politiche attive, negli ultimi anni novanta fu formalizzato un sistema composto da linee guida proposte dalla Commissione ed approvate dal Consiglio dell’Unione Europea, Piani nazionali di azione e rapporti successivi di valutazione e raccomandazioni della Commissione, comprensive di elementi di peer‐
review. Dal punto di vista procedurale, fu sottolineato e richiamato in più momenti come il coinvolgimento attivo delle parti sociali nella redazione dei piani nazionali fosse un elemento importante. Per quanto riguarda, invece, la sostanza delle politiche, l’orientamento generale promuoveva un passaggio dalla focalizzazione sul posto di lavoro dei sistemi di protezione sociale all’enfasi sull’occupabilità (employability) e sulla tutela nel mercato del lavoro, attraverso le politiche attive. In questa area di azione dell’Unione Europea, forse più che in altre, prevale un approccio “integrativo” ai problemi della crescita e della qualità occupazionale, probabilmente necessario per far convivere una diversità estrema di modelli e di situazioni particolari nei vari stati membri, ma che a volte sembra scivolare verso la semplice addizione di approcci e strategie diverse. È una impostazione che deriva, almeno in parte, dai limiti formali posti alle competenze dell’Unione Europea in tema di politiche sociali. Così, le soluzioni vengono ricercate attraverso la definizione di procedure e meccanismi, a cui viene affidato il compito di selezionare le opzioni disponibili, con il coinvolgimento diretto degli attori interessati all’area di policy. Da 1 questo punto di vista, il metodo aperto di coordinamento, sperimentato inizialmente con riferimento alle politiche occupazionali, rappresenta bene l’dea di un percorso decisionale che parte dagli obiettivi e, procedendo a ritroso, seleziona le possibili soluzioni ed individua i problemi, garantendo buone opportunità di partecipazione ed apprendimento agli attori coinvolti, ma che presenta anche il rischio di cadere nel formalismo e di favorire la “cattura” degli attori sociali da parte dei tecnici che detengono e distribuiscono le informazioni. Qui non si vogliono, però, discutere le caratteristiche del metodo, ma si intende piuttosto sottolineare come esso rifletta un elemento essenziale della politica europea dell’occupazione: il fatto di non problematizzare l’esistenza di trade‐off o di contraddizioni fra gli obiettivi che assume. Anzi, nella fase più recente, l’assunzione della flexicurity come riferimento centrale delle strategie di riforme del mercato del lavoro e del sistema di protezione sociale più in generale (Commissione Europea 2007) enfatizza la possibilità di trovare combinazioni di politiche che superino nei fatti la presunta contrapposizione fra flessibilità (di mercato) e sicurezza (del lavoro). Ciò, ovviamente, non significa che manchi la consapevolezza dei dilemmi e delle difficoltà connesse alla realizzazione di certi risultati. Piuttosto, la scelta di una forma di regolazione “morbida” se, da un lato, attribuisce più responsabilità e capacità di intervento agli attori coinvolti, dall’altro, questa è la tesi, non consente di tenere sotto controllo gli effetti inattesi delle politiche concretamente promosse sulla stabilità e legittimazione dello stesso sistema di governance. Se questa forma di coinvolgimento delle parti sociali nella definizione delle politiche del lavoro rappresenta una declinazione, sia pur “minore”, della concertazione o del dialogo sociale, ci si può chiedere, allora, in che misura può contribuire a rafforzare il ruolo delle parti sociali e del sindacato in particolare, che, nello specifico, costituisce la parte più esposta alle conseguenze di uno spostamento verso una regolazione del lavoro che faccia più affidamento al mercato. Non si tratta di mettere in discussione la concertazione in quanto tale. In linea di principio, si può ritenere che sia comunque desiderabile un sistema che consente la ricerca del consenso sugli strumenti più adatti per raggiungere obiettivi condivisi, nella consapevolezza da parte degli attori sociali del fatto che, pur partendo da punti di vista diversi, non vi sia una radicale contrapposizione degli interessi, ma anche significative possibilità di convergenza. Si intende, invece, valutare quali siano le condizioni sostantive che rendono la concertazione uno strumento di regolazione consolidato, al di là di esperienze episodiche e instabili. Ciò comporterà, da un lato, l’analisi della mutevole natura degli scambi concertativi, in una relativa continuità strutturale, e, dall’altro, il riferimento al più ampio sistema di regolazione economica e sociale del quale la concertazione è solo un elemento. È importante sottolineare subito che la questione non riguarda tanto la regolazione europea, che appare, sotto diversi punti di vista, coerentemente promozionale in direzione del rafforzamento delle forme e degli spazi della rappresentanza del lavoro: basti citare gli interventi che hanno stabilito regole di informazione e consultazione a livello di impresa, la costituzione dei Comitati aziendali europei, il dialogo sociale di settore, l’art. 138 del trattato dell’Unione (ora art. 154 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea). Si tratta di un sistema che prevede, per la rappresentanza sindacale, un’azione di sostegno all’interno delle imprese e l’integrazione nel processo decisionale. Ma è un modello necessariamente incompleto ed astratto dalla realtà delle pratiche concrete. Il problema si pone quando queste politiche o i medesimi schemi si applicano nelle realtà nazionali. È qui che possono emergere contraddizioni, in rapporto alle caratteristiche specifiche del sistema nazionale di relazioni industriali. Ad esempio, in un paese come il Regno Unito, molte analisi testimoniano un effetto positivo della regolazione europea; nei paesi Nordici, l’incisività della normativa comunitaria è più limitata, a causa dei più alti standard di protezione del lavoro scandinavi e della relativa apertura alla concorrenza ed agli aggiustamenti di mercato; in Europa 2 continentale la situazione è più complicata: una parte significativa della tutela del lavoro si realizza nel rapporto di lavoro e, per questo motivo, qui più che altrove si possono concentrare gli effetti inattesi di uno spostamento del baricentro della protezione nel mercato del lavoro. Corporatismo, patti sociali e dialogo sociale: alcune brevi note L’idea che le organizzazioni degli interessi possano dare un contributo positivo alla regolazione economica e sociale è una componente costitutiva della tradizione pluralista in filosofia e scienza politica e trova importanti assonanze nell’analisi sociologica, a partire almeno da Durkheim. Nella letteratura più recente, vi sono stati momenti importanti di riflessione sulle forme organizzate di “governo associativo dell’ordine sociale” (Schmitter e Streeck 1985) in occasione delle fasi di diffusione di concrete pratiche concertative nelle economie avanzate, in particolare europee. Si è trattato di momenti più o meno lunghi (e significativi), ma tutto sommato con una debole capacità di estensione e consolidamento della concertazione al di fuori dei confini tradizionali del “pluralismo organizzato”, tanto da ispirare l’immagine di un “Sisifo corporatista”, i cui successi sono collegati a particolari congiunture che si presentano periodicamente nei paesi economicamente avanzati, per ragioni insieme ideologiche e pratiche (Schmitter e Grote 1997). La prima fase, sicuramente quella più lunga e con sforzi più numerosi e consistenti di analisi, si è collocata fra la metà degli anni settanta e gli anni ottanta del secolo scorso ed ha avuto come oggetto lo studio della capacità di diversi assetti istituzionali di governare la crisi delle società industriali, dovuta a molti fattori ed amplificata dall’impatto degli shock petroliferi degli anni settanta. In questa riflessione, lo “scambio politico” (Pizzorno 1994) appariva uno strumento con buone capacità di governo delle dinamiche macroeconomiche (Calmfors e Driffil 1988) (essenzialmente una moderazione della dinamica dei salari reali ed il contenimento della disoccupazione), nel quale intervenivano a livello centrale organizzazioni degli interessi caratterizzate da un tendenziale monopolio della rappresentanza ed un rilevante controllo delle proprie articolazioni decentrate. Si trattava di una pratica prevalentemente redistributiva, nella quale avevano un ruolo centrale il governo e la parte sindacale. Il primo metteva a disposizione risorse utilizzabili per bilanciare l’adesione della seconda a politiche di moderazione salariale. Ciò comportava la sterilizzazione del potenziale conflitto distributivo fra sindacato e datori di lavoro grazie ai benefici ottenibili attraverso l’azione ed il coinvolgimento nell’arena politica. L’inclusione sostanziale nel meccanismo politico‐decisionale nazionale poteva portare una serie di benefici ulteriori ai partecipanti: una maggiore legittimazione, il rafforzamento organizzativo, una più equa distribuzione dei benefici della stabilità macroeconomica, la maggiore prevedibilità connessa alla pace sociale. I maggiori elementi di crisi di questo sistema di regolazione sono stati individuati, da un lato, nel progressivo esaurirsi delle risorse disponibili per sostenere questo tipo di esperienze e, dall’altro, dalle crisi di consenso e di legittimazione che potevano coinvolgere le organizzazioni degli interessi, in presenza di una crescente distanza fra le finalità perseguite a livello centrale e le situazione e le istanze emergenti nei luoghi di lavoro (Regini 2000). Malgrado il declino dello “scambio politico” come pratica e come modello, la letteratura sul corporatismo ha trovato importanti e significativi sviluppi nel dibattito sulla varietà del capitalismo e nell’approfondimento delle caratteristiche delle cosiddette “economie di mercato coordinate” (Berger e Dore 1998, Dore 2001, Hall e Soskice 2001). Il secondo momento di affermazione delle pratiche concertative si è presentato nel corso degli anni novanta, con la serie di “patti sociali” che hanno accompagnato la trasformazione e la riforma di molti paesi europei, compresa l’Italia (Fajertag e Pochet 1997, Negrelli 2001, Regini 2000), nonché la transizione epocale dei paesi dell’Europa centro‐orientale (Advagic 2004). In Europa occidentale, la spesa pubblica non 3 era più una leva utilizzabile per favorire il consenso delle parti sociali. Anzi, proprio la riduzione della spesa pubblica diventava una priorità per garantire la stabilità macroeconomica, insieme al controllo della dinamica salariale. A questo si associavano politiche di ampliamento degli spazi di mercato. In questo caso, i patti sociali divenivano un strumento utilizzato dai governo per trovare consenso su interventi potenzialmente impopolari (ad esempio, in tema di pensioni), garantendo alle parti sociali una possibilità di intervento e di orientamento dei contenuti concreti delle riforme (Regini 2000). Si è trattato di esperienze a volte episodiche e spesso instabili (con l’interessante eccezione dell’Irlanda), nelle quali, al di là del momento della riforma non si sono sviluppati percorsi di costruzione di un sistema di regolazione concertativo. Anche in Italia, dove i Patti sociali hanno avuto una stagione importante nel corso degli anni novanta, non si è mai usciti da una situazione di incertezza e precarietà (Carrieri 2008), come segnalato anche dalle vicende della riforma del sistema contrattuale culminate nell’accordo non unanime del 22 gennaio 2009. Come sottolineato in precedenza, nel corso degli anni novanta, in Europa, parallelamente a quanto accadeva al livello nazionale, nell’ambito delle politiche economiche e del lavoro, si è sviluppato e consolidato un metodo di regolazione che fa affidamento su tre elementi principali: l’inclusione delle organizzazioni degli interessi del lavoro e delle imprese, la definizione di obiettivi generali per le politiche, e la ricerca di soluzioni attraverso un confronto aperto fra policy‐makers, esperti e parti sociali. Questi due ultimi aspetti rappresentano le caratteristiche distintive del metodo aperto di coordinamento, indicato come strumento di elezione per il coordinamento delle politiche europee dopo il Consiglio dell’Unione Europea di Lisbona del 2000 (Radaelli 2003), che secondo alcuni rappresenterebbe un nuovo paradigma della governance delle politiche europee (Sabel e Zeitlin 2008), potenzialmente portatore di una serie di effetti in termini di democratizzazione, partecipazione ed efficienza della regolazione. Tuttavia, qui non interessa approfondire le caratteristiche e le implicazioni del metodo, ma piuttosto le conseguenze per quanto riguarda il coinvolgimento delle parti sociali nella definizione delle politiche a livello nazionale. Da questo punto di vista, quello che è stato progressivamente identificato con il dialogo sociale (per analogia ed estensione rispetto al dialogo sociale europeo in senso proprio che è, in sostanza, una delega regolativa attribuita alla parti sociali europee in tema di politiche economiche e sociali in base all’art. 138 del Trattato dell’Unione) implica un ampio coinvolgimento delle parti sociali nella discussione delle politiche, ma non richiede un accordo esplicito, né necessariamente una tematizzazione degli interessi in gioco. Cerca, invece, di colmare eventuali asimmetrie informative e fornire una guida tecnica all’identificazione di problemi e soluzioni: ci si affida alla capacità di diverse linee argomentative di convincere le diverse parti coinvolte. Un presupposto fondamentale di questa forma di regolazione, che affida la composizione dei possibili contrasti fra la ricerca di maggiore competitività economica e coesione sociale ai meccanismi procedurali, è che il fatto stesso di partecipare rafforzi il ruolo degli attori coinvolti. Di conseguenza, per quanto riguarda le relazioni industriali, nella misura in cui i processi di policy‐making lasciano spazio all’intervento delle parti sociali, si assume che gli esiti siano tendenzialmente coerenti con il mantenimento della coesione sociale (e quindi confermino e consolidino il ruolo dei sindacati e delle organizzazioni datoriali). Questa, però, è una logica sostanzialmente autoreferenziale, che perde di vista l’elemento essenziale del legame con la rappresentanza e soprattutto con la rappresentatività degli attori coinvolti nel processo decisionale 1 . Il problema è, quindi, capire cosa accade se le politiche promosse portano ad un’erosione del legame che unisce rappresentanti e rappresentanti. In altre parole, e riprendendo la terminologia usata nel dibattito in 1
Un aspetto di cui la Commissione appare consapevole, a giudicare dall’impegno che profonde nella misurazione della rappresentatività delle parti coinvolte nel dialogo sociale di settore, anche se forse la preoccupazione prioritaria è la selezione in entrata. 4 Italia, ci si può chiedere fino a che punto ed in che misura la rappresentanza sindacale si può esprimere nella concertazione, senza tener conto di quello che accade alla rappresentanza tradizionale, in particolare nei luoghi di lavoro. Inoltre, se queste tre forme di regolazione fanno parte dello stesso genere (la partecipazione delle organizzazioni degli interessi al processo politico), la loro capacità di esprimere visibilmente la rappresentanza degli interessi è molto diversa: dalla tangibilità dello scambio politico, alla responsabilizzazione decisionale dei patti sociali, fino al coinvolgimento quasi tecnico del dialogo sociale. Se già lo scambio politico poteva trovare un limite nella distanza rispetto alle istanze della base, questa possibilità sembra ancora più evidente nel caso del dialogo sociale. Ma esistono almeno due domande su cui sarà importante tornare più avanti: a) mentre le prime due forme di regolazione sembrano quasi inevitabilmente collegate a congiunture particolari (un ruolo rilevante della spesa pubblica, una periodo di riforme strutturali), la terza si propone come metodo stabile di governance delle politiche pubbliche. Si può pensare, quindi, che possa rappresentare la forma di elezione della concertazione? b) con particolare riferimento alle politiche del lavoro ed alla flexicurity (ma potenzialmente anche in altre aree di policy), il dialogo sociale non rappresenta solo una forma di regolazione, ma può anche contribuire a creare nuove strutture di regolazione e, quindi, nuovi ruoli nei quali si possa esercitare la rappresentanza del lavoro. In altre parole, in che misura ed a quali condizioni la flexicurity può aprire nuove prospettive per la tutela collettiva del lavoro? Flexicurity: la costruzione di un concetto In via preliminare, è utile sottolineare che il concetto di flexicurity appartiene più al discorso politico, che al dibattito scientifico ed accademico. Ha cominciato ad essere utilizzato e ad assumere un ruolo significativo nella letteratura scientifica solo negli ultimi anni, in uno stretto legame con la discussione delle politiche di riforma del mercato del lavoro e quasi per rispondere alla domanda degli attori politici, specialmente di livello europeo, di soluzioni che potessero superare un’impostazione di tali riforme che veniva rappresentata e rischiava di apparire troppo legata alle iniziative di de‐regolazione di stampo neo‐liberista. Un’impostazione che, specie in un meccanismo decisionale multi‐livello, frammentato, tendenzialmente consensuale e connotato dalla presenza importante del dialogo sociale, come quello dell’Unione Europea, poteva risultare controversa e compromettere le misure e gli interventi collegati alla Strategia di Lisbona. In effetti, fino a tempi recenti, il dibattito scientifico ed accademico si è concentrato soprattutto sulla trasformazione della regolazione del lavoro e sui vari tipi di flessibilità del lavoro (si veda, ad esempio, Regini 2000). Molte riflessioni hanno sottolineato i rapporti fra flessibilità e protezione del lavoro, richiamando l’attenzione sulla presenza di relazioni complesse e non necessariamente univoche: non è scontato che una maggiore flessibilità del lavoro si traduca in minore sicurezza del lavoratore o della lavoratrice. Ciò discende dalla natura dei diversi tipi di flessibilità: ad esempio, si possono ritrovare esempi di flessibilità “ricca”, come la flessibilità funzionale o, più in generale, alcune forme di flessibilità organizzativa, che richiedono impegno, partecipazione e competenze, e di flessibilità “povera”, come la flessibilità numerica, che presuppongono solo un adeguamento quantitativo della forza lavoro, per accompagnare gli andamenti stagionali o congiunturali della produzione. 5 In altri casi, l’analisi dei cambiamenti più recenti del lavoro non si concentra sulle discontinuità legate all’introduzione ed alla diffusione di diverse forme di flessibilità, all’interno di un sistema che si caratterizza per vari elementi di rigidità, ma sottolinea piuttosto il passaggio fra differenti modelli di flessibilità (e di efficienza). Nell’analisi di Ronald Dore (2005), ad esempio, la flessibilità interna (che veicola l’efficienza produttiva ed organizzativa), è sostituita dalla flessibilità esterna (che sostanzia l’efficienza allocativa), con evidenti conseguenze, in negativo secondo l’Autore, per quanto riguarda la stabilità e la sicurezza del lavoro. In questa visione, si può dire che la flexicurity appartenga al passato e riguardi essenzialmente la gestione del rapporto di lavoro all’interno dell’impresa, mentre le possibilità di garantire sicurezza attraverso i meccanismi di mercato viene sostanzialmente trascurata. Ed è proprio sulla percorribilità di quest’ultima strada che, come si vedrà, si impegna l’elaborazione del concetto di flexicurity. Un primo passo in questa direzione viene compiuto dagli studi e dalle riflessioni che si impegnano direttamente sul campo della valutazione delle politiche occupazionali ed introducono una contrapposizione fra politiche passive e politiche attive del lavoro. Un contributo essenziale al dibattito internazionale su tali questioni proviene dal Jobs Study dell’Oecd del 1994 (Oecd 1994) che sottolinea l’importanza della flessibilità del lavoro per migliorare la performance del mercato del lavoro. In particolare, le misure raccomandate dall’Oecd (Oecd 1994, parte 3.b) includono un’ampia serie di interventi orientati ad incrementare la flessibilità del lavoro per quanto riguarda gli orari, i salari ed il costo del lavoro, ridurre “i costi di licenziamento”, attraverso una deregolamentazione del mercato del lavoro, rafforzare le politiche attive del lavoro, grazie alla trasformazione dei servizi per l’impiego, riformare i sussidi di disoccupazione ed i trasferimenti e migliorare le competenze delle persone in cerca di lavoro. Si tratta, in buona sostanza, di una strategia complessiva di ridefinizione delle politiche del lavoro e del mercato del lavoro al fine di ridurre l’inattività e la disoccupazione. Secondo quanto affermato dal Jobs Study “the focus throughout is on the design of policies which facilitate and encourage participation in work, thereby keeping to a minimum the numbers of those who have to live wholly on income support” (Oecd 1994, parte 3.a). In Europa, questo percorso viene proseguito con la presentazione del cosiddetto Rapporto Supiot nel giugno 1998. Il rapporto è stato preparato per la DG Employment and Social Affairs (ora Employment, Social Affairs and Equal Opportunities) della Commissione Europea da un gruppo di esperti, essenzialmente giuristi, economisti e sociologi, presieduta da Alain Supiot, docente di diritto dell’Università di Nantes II. Lo studio discute ampiamente il tema della flessibilità del lavoro e delle sue molteplici declinazioni. Inoltre, sottolinea l’esigenza di “combattere l’ideologia della flessibilità” (Supiot 2003, p. 187), che individua nella riduzione dei livelli di protezione una scelta ineluttabile, dettata dalla pressione dell’ambiente competitivo internazionale. Secondo il Rapporto Supiot, i margini di autonomia delle politiche del lavoro sono più ampi e si collegano essenzialmente alla possibilità di costruire “vantaggi competitivi assoluti”, che vadano oltre il prezzo e si fondino sulle risorse specifiche presenti nel tessuto sociale ed economico europeo, quali le specializzazioni produttive locali, le relazioni di prossimità fra gli attori economici, il capitale umano e le opportunità rappresentate dai moltissimi poli di sviluppo locale (Supiot 2003, pp. 186‐190). La generosità degli schemi di protezione sociale, contrariamente a quanto sostenuto da alcuni osservatori, non rappresenta un ostacolo alla competitività di un sistema economico (p. 194). Tuttavia, emerge l’esigenza di investire in forme di sicurezza attiva e specialmente nella costruzione e nell’aggiornamento continuo delle competenze delle persone. Piuttosto che fare dei sistemi di protezione sociale un mezzo per riparare a posteriori i danni, ritenuti
inevitabile, dell’economico, bisogna trasformarli in modo che siano in grado di fornire agli individui e ai
gruppi intermedi risorse per permettere loro di dotarsi di una sicurezza attiva contro i rischi e le incertezze
(Supiot 2003, p. 191, corsivo nel testo).
6 Senza mai utilizzare il termine flexicurity, l’idea che sia possibile rendere compatibili nel mercato del lavoro flessibilità e protezione dai rischi occupazionali viene esplicitata ed è collegata alla possibilità di definire un insieme di standard minimi da applicare e far rispettare nell’ambiente lavorativo ed extra‐lavorativo, garantendo l’intervento ed il sostegno delle politiche pubbliche secondo il principio di sussidiarietà (Supiot 2003, pp. 198‐204). Nell’ambito di tale riflessione sulla possibilità di coniugare flessibilità e sicurezza nel mercato del lavoro, non è un caso che il termine flexicurity cominci ad essere utilizzato per individuare una specifica combinazione di policy e, in particolare, uno specifico modello nazionale, nel quale il bilanciamento fra flessibilità del mercato del lavoro e “sicurezza occupazionale” appare attivamente perseguito. È nel dibattito sulle riforme del lavoro, che si sviluppa nei Paesi Bassi intorno alla metà degli anni novanta, che si fa strada il concetto di flexicurity; una discussione che coinvolge intellettuali, le parti sociali, specie attraverso l’azione della Fondazione del Lavoro (Stichting van de Arbeid, STAR), un organismo consultivo bipartito che costituisce un elemento centrale del modello di concertazione olandese, ed il governo, che alla fine del 1995 presenta un memorandum su “Flessibilità e sicurezza” (Wilthagen 1998). L’orientamento di tale proposta è rivolto espressamente a trasformare la regolazione del lavoro, ma le difficoltà che emergono in ambito politico rallentano il processo decisionale. Un contributo essenziale per sbloccare la situazione proviene dalla Fondazione del Lavoro che raggiunge un accordo articolato sul tema della flessibilità e della sicurezza nell’aprile del 1996. Raccogliendo altri risultati della contrattazione collettiva, specialmente in tema di lavoro interinale, si arriva alla presentazione della legge “sulla Flessibilità e sulla Sicurezza” nel marzo del 1997 (Wilthagen 1998), che sarà approvata nel 1998 ed entrerà in vigore il primo gennaio 1999. In estrema sintesi, la riforma introduce una serie di maggiori garanzie per i lavoratori e le lavoratrici a tempo determinato ed interinali e rende più agevole, da un lato, l’utilizzo dei contratti non standard e, dall’altro, il ricorso al licenziamento per motivi economici. L’intervento realizza, quindi, una combinazione fra maggiore sicurezza per gli “atipici” e maggiore flessibilità del mercato del lavoro, ossia una minore protezione del posto di lavoro di lavoratori e lavoratrici “tipici”. Riprendendo questa esperienza di policy‐making per la riduzione delle distanze fra insider e outsider e sottolineandone le specificità, Ton Wilthagen propone una definizione di flexicurity: The concept of flexicurity is one of the key concepts in current Dutch labour market policy reform as
from the autumn of 1995. The concept refers to certain inextricably related changes in the legal and social
(security) rights of so-called core-workers on the one hand and contingent, a-typical or flexible
workforces on the other hand. At the same time the concept also refers to a basic feature of negotiating
and policy-making processes in which the social partners (at several levels) and the government are
involved. That is: the pursuit of so-called ‘win-win’ outcomes. Third, again at least in the Netherlands,
the concept pertains to a shift from ‘security within a job’ towards ‘security of a job’, a shift that in its
turn is strongly related to changes in the economy and households and to the emergence of a
corresponding flexible system of social security (Wilthagen 1998, pp. 1-2).
La legge olandese sulla flessibilità e la sicurezza rappresenta, però, una applicazione tutto sommato circoscritta del concetto e ben si colloca nel “polder model” del miracolo olandese, che ha fatto della flessibilità dell’orario di lavoro e dell’utilizzo diffuso del part‐time un altro pilastro della convergenza fra flessibilità e sicurezza occupazionale, insieme alla moderazione salariale inaugurata con il patto di Wassenaar del 1982 (Visser e Hemerijck 1997). In effetti, nel dibattito internazionale, malgrado questa “primogenitura”, il termine flexicurity è stato progressivamente associato ad un altro modello nazionale, che forse si presta meglio ad essere utilizzato come riferimento più generale per il disegno di un sistema complessivo di politiche occupazionali e del lavoro. Com’è noto, si tratta del modello danese. È nell’assetto istituzionale che configura il cosiddetto “triangolo d’oro”, costituito da un mercato del lavoro flessibile, un 7 welfare generoso e politiche attive del mercato del lavoro ben sviluppate, che forse si ritrova nel modo più chiaro l’essenza della flexicurity (Madsen 2006). Questo secondo esempio conferma due aspetti centrali della flexicurity: il riferimento essenziale al mercato del lavoro e la sostanziale indeterminatezza dei contenuti di policy e, quindi, la necessità di un ancoraggio a casi specifici. Da questo punto di vista, il concetto di flexicurity oscilla fra due estremi: può rappresentare un riferimento generale per iniziative di riforma, in quanto indica il luogo dell’intervento (il mercato del lavoro) e l’obiettivo complessivo da perseguire (un bilanciamento fra flessibilità e sicurezza) oppure individuare uno specifico assetto istituzionale potenzialmente imitabile (il modello olandese, il modello danese e tutti gli altri possibili). Mentre la prima opzione costituisce al più una guida debole per la ricerca di un modello, seguendo le idiosincrasie di ogni situazione specifica, la seconda costituisce un’indicazione forte per le politiche, con il rischio, però, di trascurare i molti elementi di contesto che sostanziano ciascun modello nazionale. La flexicurity nel mercato del lavoro è per molti aspetti l’estrapolazione di un singolo elemento di un sistema di regolazione più ampio, che comprende altri ed importanti dimensioni, come suggerisce Ton Wilthagen quando inserisce nei tre punti che caratterizzano il sistema olandese un chiaro riferimento alla cooperazione fra parti sociali e governo per individuare soluzioni che portino a risultati positivi per tutte le parti coinvolte (o win‐win outcomes). Allo stesso modo, il caso danese appare più complesso di quanto evidenziato nella stilizzazione riferita alle sole politiche dell’occupazione. Per Kongshøj Madsen, in un contributo di fine anni novanta sul “miracolo danese”, elenca una serie di fattori che contribuiscono alla buona performance del mercato del lavoro danese e che vanno dalle politiche macroeconomiche espansive alle relazioni industriali partecipative, alla collaborazione fra governo e parti sociali, ad un sistema formativo ben sviluppato ed orientato a soddisfare le richieste di competenze che provengono dalle imprese (Madsen 1998, pp. 74‐78). In questo quadro, le politiche attive del lavoro ed il sistema di sostegno del reddito per i disoccupati sono solo due componenti, benché essenziali, del sistema complessivo che garantisce sicurezza. Lo stesso Madsen, in questo contributo, non usa mai l’espressione flexicurity e mette in guardia rispetto all’adozione di singoli elementi del modello, in quanto una simile operazione presenterebbe “un rischio elevato di non avere successo” (Madsen 1998, p. 78). Questa ambiguità del concetto di flexicurity non può essere facilmente superata e costituisce, allo stesso tempo, la forza e la debolezza delle iniziative che si propongono di realizzarla concretamente o di studiarne le caratteristiche. Allo stesso modo, il tentativo di utilizzare le esperienze concrete di flexicurity come ispirazione per la riforma del mercato del lavoro e del welfare ha portato quasi inevitabilmente ad estrarre singole policy o combinazioni di policy dal contesto di riferimento (come nel caso del “triangolo d’oro” danese o del rapporto di lavoro con tutele crescenti nel tempo, secondo l’esperienza olandese per il lavoro temporaneo), con potenziali ricadute che sembrano per molti aspetti contraddire alcuni dei già citati elementi costitutivi dei modelli originali e, in particolare, il ruolo dei sistemi di protezione fondati su dimensioni collettive e, fra questi, sulle relazioni industriali. Le frontiere della flexicurity: de­collettivizzazione e ri­mercificazione del lavoro Come evidenziato dai “casi esemplari” olandese e danese, il fondamento del concetto di flexicurity risiede nell’affermazione della possibilità di realizzare un collegamento fra flessibilità e sicurezza nel mercato del lavoro. Un collegamento che implica un sostanziale cambiamento di prospettiva rispetto all’analisi di Ronald Dore (2005) richiamata in precedenza: la flessibilità organizzativa e la sicurezza del lavoro nell’interpretazione di questo Autore appartengono ad una dimensione essenzialmente collettiva, che si realizza attraverso la regolazione legislativa del lavoro subordinato, le relazioni industriali e le politiche del personale indifferenziate. Tutti elementi che si riferiscono a gruppi omogenei di destinatari (il lavoro 8 dipendente, i lavoratori e le lavoratrici, il personale) e che riguardano, in ultima istanza, la posizione e la protezione del lavoro nei luoghi di lavoro ed all’interno dei processi produttivi. L’attenzione alla posizione nel mercato del lavoro privilegia, invece, una concezione individualizzata della sicurezza (e della flessibilità) che fa affidamento sulla possibilità e sulla capacità dei singoli lavoratori e lavoratrici di trovare un nuovo lavoro. È una condizione “atomizzata”, come “atomistico” è il mercato. Con la flexicurity, si passa, come è stato giustamente sottolineato, da una protezione del posto di lavoro (ma forse sarebbe meglio dire nel posto di lavoro, si veda oltre) ad una protezione nel mercato del lavoro. È ovvio che non esiste una relazione esclusiva fra protezione nel posto di lavoro e dimensione collettiva, da un lato, e protezione nel mercato del lavoro ed individualizzazione, dall’altro. Tuttavia, le due modalità di garanzia hanno maggiore affinità con uno dei due distinti luoghi dove avviene la tutela. Nel primo caso, l’individualizzazione della protezione nel lavoro può essere introdotta attraverso strumenti specifici (e le imprese sono meglio attrezzate della legislazione e delle relazioni industriali per raggiungere questo obiettivo); nel secondo, l’appartenenza a specifici gruppi di lavoratori e lavoratrici, più o meno ampi, può essere riconosciuta e posta a fondamento di particolari strumenti di protezione dall’assetto istituzionale, grazie all’azione del regolatore pubblico e delle associazioni degli interessi (soprattutto sindacali, ma anche imprenditoriali). La “collettivizzazione” della sicurezza nel mercato del lavoro è però spesso intrinsecamente instabile, precaria, incapace di sostanziare un’identità intorno alla quale si possa costruire un percorso di promozione progressiva. Ciò accade perché questo tipo di tutela si giustifica essenzialmente per la convergenza fra una situazione collettiva di svantaggio nel mercato del lavoro (che riguarda, ad esempio, i giovani, i lavoratori anziani, le donne, i migranti, i disoccupati di lungo periodo) e la condizione personale di disoccupazione. L’obiettivo, condiviso da tutte le parti coinvolte, è fare sì che la persona trovi al più presto un lavoro soddisfacente e, quindi, esca dal gruppo di riferimento, affrancandosi individualmente da un’appartenenza che è caratterizzata in termini negativi. Concentrarsi sulla protezione nel mercato del lavoro contribuisce, quindi, all’individualizzazione dei sistemi di sicurezza sociale e favorisce la responsabilizzazione personale rispetto ai propri destini occupazionali, con una almeno potenziale riduzione della solidità delle garanzie assicurate dal sistema, testimoniata soprattutto dalla riduzione della durata dei sussidi di disoccupazione e dall’introduzione di “obblighi di attivazione” da parte di chi cerca un posto di lavoro, una tendenza diffusa nelle recenti esperienze dei paesi europei. Un altro aspetto importante è la ri‐mercificazione del lavoro. Il sistema di protezione sociale non è più teso a togliere il lavoro dal mercato del lavoro o, più precisamente, a separare le chance di vita di lavoratori e lavoratrici dagli incerti successi sul mercato del lavoro, ma piuttosto a rendere meno aleatorio il destino occupazionale individuale, in un contesto nel quale i meccanismi di regolazione di mercato riprendono il sopravvento. Mentre i sistemi tradizionali cercavano di realizzare una protezione dal mercato del lavoro, quelli che vengono prefigurati dalla flexicurity, come già sottolineato, si fondano su di una protezione nel mercato del lavoro. Una questione aperta è se questo rappresenti solo un cambiamento nella modalità della protezione, senza perdite sostanziali e con il possibile vantaggio di un potenziamento delle possibilità di realizzazione personale, efficacemente colto nei termini di “capacitazione” (con gli inevitabili riferimenti al lavoro di Sen) o “empowerment”. Certo è che la combinazione di de‐collettivizzazione e ri‐mercificazione sembrerebbe ridurre, da un lato, gli spazi per l’attivazione di una rappresentanza collettiva e, dall’altro, la possibilità di confermare le acquisizioni della cittadinanza sociale. Flexicurity: con o senza il sindacato? In generale, appare abbastanza chiaro che la flexicurity può avere conseguenze significative sulla regolazione del lavoro all’interno delle imprese, in seguito all’indebolimento della posizione individuale e 9 soprattutto collettiva di lavoratori e lavoratrici, e portare ad un uso più diffuso di tutte le forme di flessibilità. Il riferimento al modello della flexicurity potrebbe implicare una minore rilevanza, e quasi una irrilevanza, dei livelli e delle forme di flessibilità consentiti dal quadro regolativo e praticati dalle imprese, grazie alla presenza di una efficace rete di protezione. Poiché l’enfasi è sulla maggiore efficienza del mercato del lavoro consentita da politiche che rimediano ai suoi fallimenti (il sostegno del reddito in caso di disoccupazione, i servizi di counselling e ricollocamento accompagnati da appropriati interventi di riqualificazione), diventa poco importante, e forse controproducente per l’efficienza del sistema economico nel suo complesso, la protezione del posto di lavoro all’interno delle imprese. Il punto è che proprio questo, in fin dei conti, è stato al centro dell’attenzione del sindacato industriale per tutto il secolo scorso (Dore 2005). È evidente che, malgrado quanto appena detto, la partecipazione alla costruzione di un sistema di flexicurity potrebbe consentire al sindacato di riaffermare la propria rappresentanza sociale e di aprire nuove possibilità di intervento e di tutela di lavoratori e lavoratrici nel mercato del lavoro, secondo modelli e strumenti di azione già sperimentati dal movimento sindacale alla fine del diciannovesimo secolo (Cella 2007). Tuttavia, la flexicurity sembra comportare, diversamente da quanto si realizzava nelle esperienze di fine ottocento, una riduzione della rilevanza della dimensione collettiva (almeno per quanto riguarda l’intervento nella gestione del mercato del lavoro) ed un allontanamento dai luoghi di lavoro. Il controllo collettivo dell’offerta di lavoro, all’interno del quale si realizzavano le forme di job placement, e la capacità di governare l’organizzazione del lavoro nelle imprese, attraverso la cosiddetta “regolazione unilaterale”, non appartengono all’orizzonte della flexicurity, che si riferisce essenzialmente ad un ambiente “atomistico” come quello della partecipazione al mercato del lavoro, dove conta la propria individuale “occupabilità”, magari in competizione con altri lavoratori o lavoratrici. Quindi, in un contesto molto lontano da quel controllo collettivo dell’offerta di lavoro che rappresenta la chiave dell’azione sindacale fin dai tempi delle analisi dei coniugi Webb. Rimarrebbe la possibilità da parte del sindacato di assumere un ruolo assicurativo‐solidaristico, continuando la tradizione delle casse di mutuo soccorso e delle più recenti forme di previdenza categoriale. Senza un radicamento nei luoghi di lavoro, però, e in un contesto di apertura alla concorrenza di operatori privati, anche le prospettive di questa azione appaiono problematiche, come mostra l’impatto della concorrenza fra fondi per la disoccupazione nel pur solido sistema di relazioni industriali danese (Lind 2004). Un investimento rilevante nelle forme di tutela nel mercato del lavoro da parte del sindacato sembra, quindi, problematico, soprattutto se corrisponde ad un indebolimento della sua posizione all’interno dei luoghi di lavoro. Tanto più che il principio della flexicurity non presuppone un ruolo per la rappresentanza del lavoro: si può fare senza sindacato. In sostanza, la partecipazione del sindacato alla costruzione ed alla gestione di un sistema di flexicurity, con ogni probabilità, non può essere intesa come una possibile panacea che risolva i problemi della rappresentanza e della regolazione, offrendo l’opportunità di realizzare, magari su scala europea, il cosiddetto “sistema di Ghent”, che sembra abbia garantito negli ultimi decenni i livelli più alti di sindacalizzazione in Europa (Western 1993, Blaschke 2000, Scruggs 2002). Infatti, oltre all’apparire di alcuni segni di crisi di questo stesso sistema (Böckerman e Uusitalo 2006, Dølvik 2008), non pare scontato che una simile integrazione riesca a rivitalizzare una rappresentanza indebolita nei luoghi di lavoro, proprio perché la flexicurity non la considera rilevante ed, anzi, tende a ridurne la forza. Piuttosto, la partecipazione alla gestione della sicurezza sociale potrebbe contribuire a consolidare una rappresentanza già forte o in crescita, in quanto completerebbe la presenza nelle imprese con il presidio del mercato del lavoro. Ma questa è una condizione che non appartiene, in generale, alla realtà attuale del sindacato europeo, mentre poteva rappresentare la situazione dei paesi del sistema di Ghent (Belgio, Danimarca, Finlandia e Svezia) nel secondo dopoguerra, quando si è consolidato quel sistema di 10 rappresentanza che poi, a partire dagli anni settanta, ha manifestato un andamento divergente rispetto alla generale flessione dei tassi di sindacalizzazione. Tali considerazioni riportano l’attenzione sulle relazioni bilaterali con i datori di lavoro, a livello nazionale e di settore e, forse più che in passato, all’interno delle imprese. È nella tutela degli interessi di lavoratori e lavoratrici nelle relazioni bilaterali, del resto, che il sindacato trova la legittimazione per un ruolo più ampio di rappresentanza sociale. La distanza e la separazione dalla propria base associativa erode, invece, l’efficacia della regolazione sindacale e può portare ad effetti paradossali di amplificazione del conflitto. Ciò significa che, per le relazioni industriali, è cruciale riuscire a combinare flessibilità e sicurezza nei luoghi di lavoro, evitando di separarle lungo il confine fra impresa e mercato del lavoro, al fine di rendere la prima più sostenibile. In questo senso, si potrebbe parlare di un significato più ampio di flexicurity che comprenda il sostegno ed il potenziale sviluppo di un tipo di flessibilità del lavoro che contenga, nei concreti modi di realizzazione all’interno delle imprese, elementi significativi di sicurezza. La flexicurity come sistema Le valutazioni precedenti, che sottolineano come alcuni aspetti della flexicurity sembrino portare verso un indebolimento della capacità delle organizzazioni sindacali di svolgere il proprio ruolo di rappresentanza del lavoro, si scontrano, però, con un’obiezione molto forte: pressoché tutti i paesi nei quali la letteratura individua la presenza di flessibilità attraverso il mercato del lavoro e sicurezza in termini di reddito e chance occupazionali mostrano forme concertative consolidate e sistemi di relazioni industriali partecipativi, a partire dalla Danimarca. Per cercare di rispondere a tale obiezione è importante tornare all’elaborazione del concetto e di come questa sia avvenuta essenzialmente per stilizzazione di casi concreti. Ad esempio, dell’esperienza Danese, che ha assunto ormai valore paradigmatico nella discussione sulla flexicurity, sono stati selezionati solo alcuni elementi, con particolare riferimento alle istituzionali del mercato del lavoro, sintetizzabili nella misura del’employment protection level (EPL) dell’Oecd, alle politiche attive ed al sistema di protezione del reddito. Sono stati trascurati, però, tutti quei fattori che rendono meno conflittuale l’utilizzo della leva della flessibilità numerica all’interno dei luoghi di lavoro, anche in sistemi dove il livello di protezione formale del posto lavoro è più elevato, come negli altri paesi nordici (Dølvik 2008). Uno di tali fattori è sicuramente il sistema di relazioni industriali che, nei paesi associabili alla flexicurity, presenta almeno due caratteristiche cruciali: il radicamento nei luoghi di lavoro e l’orientamento partecipativo, associato ad una piena legittimazione del ruolo di rappresentanza e regolazione sociale svolto dal sindacato. Ciò consente una notevole capacità di interpretare le esigenze che emergono nelle singole imprese e di affrontare proattivamente le questioni della produttività e delle riorganizzazioni e ristrutturazioni (Dølvik 2008). La fiducia individuale e collettiva rispetto alla garanzia delle proprie chance occupazionali e di carriera non è solo riposta nel sistema di regolazione e garanzia presente al di fuori dell’impresa, ma si fonda, prima di tutto, sulle forme di tutela nei luoghi di lavoro, attraverso le relazioni industriali e la rappresentanza sindacale. Di conseguenza, le trasformazioni della regolazione del lavoro connesse al concetto di flexicurity non possono essere rappresentante pienamente attraverso l’immagine dello spostamento della protezione dal posto di lavoro al mercato del lavoro. È una visione parziale, che si basa su una rappresentazione limitata delle esperienze di flexicurity. In altre parole, se la flexicurity vuole essere qualcosa di sostanzialmente diverso rispetto alla de‐regolamentazione del lavoro e se, come nella concezione dell’Unione Europea, 11 desidera confermare e rafforzare il ruolo delle parti sociali, e in particolare del sindacato, allora implica una significativa protezione anche nel posto di lavoro. In assenza di questa connessione fondamentale, le politiche di flexicurity possono introdurre un indebolimento o almeno una trasformazione delle relazioni industriali e della rappresentanza sindacale. Come afferma Lowell Turner in un recente contributo sulla union revitalization: “whether union strategies aim at promoting participation in the production of high value‐added goods and services, political power for broad economic reform, or basic organization and dignity for low wage service workers, successful outcomes depend on union strength, and especially on renewed organizing and mobilizing capacity” (Turner 2004, p. 4). Il fondamento dell’azione sindacale sta, in altre parole, nella capacità di essere presente e di esercitare la propria funzione di rappresentanza e tutela nei luoghi di lavoro. Conclusioni Queste brevi note consentono alcune prime e parziali conclusioni sugli argomenti trattati. Innanzitutto, le cornici “tecniche” della concertazione, come quelle presenti all’interno del processo di discussione delle politiche europee, hanno alcuni indubbi vantaggi in termini di possibilità di costruire un bagaglio di conoscenze ed interpretazioni comuni e di dibattito aperto sulle possibili soluzioni. Da quest’ultimo punto di vista, anche il fatto di non considerare esplicitamente le possibili contraddizioni e le problematicità esistenti fra i diversi obiettivi perseguiti potrebbe costituire un elemento di forza. Tuttavia, più che in altre situazioni, la distanza rispetto alle istanze della base si può ampliare e si può indebolire la riconoscibilità delle identità e degli interessi collettivi rappresentati. Per questi motivi, non sembra del tutto plausibile che il dialogo sociale, così inteso, possa assumere il ruolo della concertazione in senso proprio. Ci si può attendere che vi siano sempre pressioni per intraprendere iniziative diverse, di maggior impatto sulla base e sull’opinione pubblica, per ribadire i ruoli e le differenze, anche in termini simbolici. La relativa debolezza del dialogo sociale, come fattore di conferma e consolidamento del ruolo del sindacato, si amplifica se il contenuto delle politiche oggetto di confronto appare potenzialmente in contrasto con le forme consolidate della rappresentanza e della tutela sindacale. È questo il caso delle recenti iniziative in tema di politiche del lavoro, a livello europeo ed in molti stati membri, con particolare riferimento alla flexicurity. Non è un caso che le politiche a sostegno della flexicurity, invece di contribuire a ridurre e superare i contrasti sulla riforma del mercato del lavoro fra sindacati ed associazioni datoriali, abbiano spesso contribuito a confermarli ed abbiano sollecitato critiche sostanziali da parte delle organizzazioni sindacali (Keune e Jepsen 2007, Keune 2008, Pedersini 2008). Se la flexicurity diventa un modo per sostituire le forme di tutela realizzate dal sindacato nel posto di lavoro con una protezione nel mercato del lavoro, vi possono essere conseguenze rilevanti sui sistemi di regolazione e protezione del lavoro, attraverso la “de‐collettivizzazione” dei sistemi di garanzia e la “ri‐
mercificazione” del lavoro. Conseguenze che difficilmente possono essere completamente bilanciate da un impegno diretto e significativo del sindacato nel mercato del lavoro. In effetti, le esperienze concrete di flexicurity sviluppano la dimensione della protezione nel mercato lavoro (spesso con il coinvolgimento del sindacato), senza rinunciare a quella nel posto di lavoro. Per questo, il rafforzamento del concetto di flexicurity e la sua reale capacità di costituire un riferimento concreto per le politiche del lavoro passano probabilmente per un’analisi approfondita dei rapporti fra le due modalità, fra i due luoghi della protezione del lavoro. Ciò significa, anche, che la contrapposizione fra tutela sindacale e sistemi di flexicurity, che spesso viene enfatizzata nelle analisi che sottolineano la segmentazione del mercato del lavoro e la presenza di insider e 12 outsider, rischia di trascurare il contributo fondamentale che la prima dà alla seconda. Le difficoltà connesse alla realizzazione della flexicurity possono essere in parte dovute ai problemi di ricalibratura del welfare ed agli interessi costituiti messi in discussione da una redistribuzione di risorse scarse fra strumenti di protezione sociale diversi. Tuttavia, una parte altrettanto importante della questione può riferirsi al sistema di relazioni industriali: quelli volontaristici e poco istituzionalizzati, con bassa presenza nei luoghi di lavoro, a bassa fiducia ed antagonistici non sembrano poter contribuire alla flexicurity di tipo “danese”, perché non sono in grado di fornire un sostegno coerente all’interno dei luoghi di lavoro. Invece di indebolire le relazioni industriali ed il sindacato, in questi casi, forse una strategia più coerente con il modello di riferimento sarebbe investire in istituzioni partecipative all’interno delle imprese ed interventi promozionali della rappresentanza sindacale. Naturalmente, esiste sempre la possibilità di introdurre forme di flexicurity che siano del tutto indipendenti dalle relazioni industriali e che perseguano obiettivi molto importanti, fra i quali assumono particolare rilevanza l’aumento dei tassi di partecipazione e di occupazione e la riduzione della disoccupazione, specie di lungo periodo, in generale e per specifici gruppi di job‐seekers. In questo caso, però, si dovrà forse rinunciare ad alcuni “beni collettivi a produzione congiunta” connessi ad un solido sistema di relazioni industriali, in termini di partecipazione pluralistica, pace sociale e minore disuguaglianza salariale. Bibliografia Advagic, S. (2004), L'incerto sviluppo della concertazione in Europa centro‐orientale, in Stato e mercato, n. 71, pp. 165‐197. Ballestrero, M.V. (2008), Le sentenze Viking e Laval: la Corte di giustizia "bilancia" il diritto di sciopero, in Lavoro e diritto, vol. XXII, n. 2, pp. 371‐392. 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