Flexicurity e integrazione dei giovani nei sistemi economici e sociali

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Flexicurity e integrazione dei giovani nei sistemi economici e sociali
Flexicurity e integrazione dei giovani nei sistemi economici
e sociali
di Renata Livraghi°
Abstract
Lo scopo di questo saggio è quello di valutare se i diversi
modelli di flexicurity, sperimentati nei diversi paesi europei,
possono costituire una misura di politica economica
multidimensionale efficace per integrare i giovani nei mercati
del lavoro.
L’ipotesi teorica adottata per valutare il paradigma proposto
dall’Unione Europea è il capability approach. I contesti
europei sono molto diversi sia per le capabilities dei giovani,
sia per gli achieved functionings raggiunti.
La flexicurity, nello schema teorico adottato, è un fattore che
favorisce la conversione delle capabilities dei giovani
(possibilità, opportunità) in modalità concrete di essere e di
fare (achieved functionings). Non accresce quindi le
opportunità reali dei giovani anche se di fatto favorisce il
processo di integrazione nei sistemi economici per coloro che
già hanno le potenzialità per attuarlo.
La flexicurity è quindi una condizione necessaria ma non
sufficiente per attuare l’integrazione e la valorizzazione dei
giovani nelle diverse società. In assenza di flexicurity le
possibilità dei giovani dipendono dalle strategie attuate dalle
imprese (diverse domande di flessibilità del lavoro), dal
funzionamento dei mercati del lavoro, dai talenti e dal capitale
umano dei giovani, dalla struttura sociale di appartenenza dei
giovani, dai sistemi di welfare state, dal capitale sociale del
contesto. Si aggraverebbero le problematiche ricollegabili alla
delocalizzazione e alla segmentazione del mercato del lavoro.
Crescerebbero i differenziali salariali tra i lavoratori con una
professionalità elevata e quelli non qualificati.
°
Università degli Studi di Parma, Dipartimento di Scienze della
Formazione e del Territorio ([email protected]).
1
1. Premessa
Molti giovani in Europa non partecipano attivamente ai
mercati del lavoro e non sono pienamente valorizzati. Vi sono
giovani disoccupati e molti altri “inerti” che non frequentano
processi scolastici, che non accumulano esperienze
professionalizzanti, che non risultano essere occupati nei
mercati del lavoro, i cosiddetti Neet1. L’agency2 è invece ciò
che permette di conseguire il benessere individuale e quello
collettivo, inteso come well-being3. Molti giovani in Europa
non hanno agency ovvero sono inattivi, disoccupati,
sottoccupati, discriminati, non riescono ad esercitare la libertà
in maniera positiva (Berlin I., 1990). Integrare i giovani nei
sistemi economici e sociali significa quindi creare la
“possibilità” per i giovani di praticare l’agency.
Se molti giovani in Europa non hanno agency significa
che siamo in presenza di “fallimento di mercato”4 che
1
Neet: “not currently engaged in employment, education or
training”, http://en.wikipedia.org/wiki/NEET
2
Agency è un concetto nuovo, per la teoria economica. È stato
introdotto da A. Sen. Esprime la consapevolezza di un individuo
nelle azioni che compie. Un individuo esercita agency quando è in
grado di discernere, di agire e di valutare i risultati delle proprie
scelte. In altri termine, l’agency esprime la capacità di agire di un
individuo, valorizzando le proprie “possibilità”, in armonia con il
contesto economico e sociale di riferimento. Il concetto di agency si
differenzia da quello di benessere perché include la specificità di
ciascun individuo nel suo esercizio della libertà.
3
Well-being significa benessere di una persona, inteso come qualità
della vita scelta in maniera consapevole, tenendo conto delle proprie
“possibilità”. Il concetto di agency non coincide però con quello di
well-being perché presuppone che vi sia anche la capacità di un
individuo di influenzare la realtà, in base a criteri personali anche in
contrasto con gli stimoli esterni e con le norme sociali e culturali
prevalenti. Si ha invece agency versus communion quando
l’individuo sceglie di appartenere a una comunità e agisce in maniera
cooperativa e armoniosa pur esercitando libertà positiva.
4
Fallimento di mercato è l’espressione utilizzata dagli economisti
quando le risorse materiali e quelle immateriali sono impiegate in
maniera inefficiente. In tale situazione vi sono “conflitti di interessi”
individuali che determinano risultati “cattivi” per la società nel suo
complesso. Le cause che determinano un fallimento di mercato sono
essenzialmente tre: la prima riguarda l’acquisizione di “potere” da
parte di uno o più agenti in modo tale da impedire ad altri i vantaggi
derivanti dall’attività di scambio. Ciò genera situazioni di
concorrenza imperfetta; la seconda ragione è dovuta alle esternalità
provocate da azioni compiute da agenti nella produzione di beni e
2
comporta precarietà ed esclusione sociale e ciò produce effetti
sul benessere individuale e sul processo di sviluppo
economico.
La problematica giovanile tocca tutti i paesi dell’Unione
Europea in maniera diversa e con intensità differente. Tutti i
sistemi economici e sociali europei hanno quindi inefficienza e
mancanza di equità5 in dimensioni diverse e per cause
differenti.
L’Unione Europea suggerisce ai paesi membri di
perseguire contemporaneamente sia la flessibilità nei mercati
del lavoro sia la sicurezza per i lavoratori, intesa come
occupabilità (employability), capacità al lavoro e di svolgere
un dato lavoro (work ability) e possibilità di accedere a un
sistema di welfare state in grado di rispondere ai nuovi bisogni
degli individui situati in contesti economici e sociali
caratterizzati da un continuo cambiamento. Tale paradigma
prende il nome di flexicurity derivante dalla contrazione dei
due termini inglesi flexibility e security6. L’attuale economia
globalizzata richiede una crescente flessibilità dei mercati del
lavoro, che determina discontinuità nella carriera lavorativa e
professionale delle persone, situazioni di disoccupazione e di
insufficiente reddito da lavoro. Per evitare che la maggiore
flessibilità di traduca in precarietà a danno delle prospettive di
vita dei lavoratori, la minore sicurezza del posto di lavoro deve
essere compensata con migliori opportunità lavorative e con
una maggiore protezione sociale, cioè con la sicurezza per tutti
servizi o da atti di consumo in grado di influenzare le azioni di altri
agenti seguendo vie diverse da quelle dei prezzi di mercato; la terza
ragione è da ricollegare alla natura di alcuni beni e alle modalità del
loro scambio. Si pensi, ad esempio, ai beni pubblici, risorse
condivise, costi di transazione, mancanza di agency, asimmetria
informativa.
5
Equità non significa uguaglianza. Equità vuol dire dare a tutti
l’opportunità di partecipare attivamente alla comunità a cui si
appartiene. Il ruolo delle istituzioni e della società civile è quello di
ampliare le opportunità di ciascun individuo, eliminando i vincoli
che determinano l’esclusione sociale. Il sistema economico non deve
quindi essere solo efficiente, nell’allocazione delle risorse e nella
produzione del reddito; esso deve anche assicurare l’equità, in modo
tale da garantire a ciascun individuo le risorse materiali e immateriali
necessarie per condurre una vita dignitosa. Ne deriva che l’equità è
un valore umano da perseguire e nello stesso tempo una condizione
necessaria per il perfetto funzionamento del mercato.
6
Tale concetto fu coniato, per la prima volta, dal primo ministro
danese Poul Nyrup Rasmussen nel corso degli anni ’90.
3
di trovare un buon lavoro e di avere reddito, in tutte le diverse
fasi della vita, attiva e non.
Tale concetto si traduce in una strategia di politica
economica multidimensionale che implica una simultaneità
degli interventi che accrescono la flessibilità con quelli che
migliorano la sicurezza, in modo tale da non dar luogo a dei
trade off. In assenza di tale simultaneità, un intervento a favore
della flessibilità potrebbe determinare una minore sicurezza
per i lavoratori coinvolti e un intervento volto ad accrescere la
sicurezza potrebbe, invece, determinare una minore
flessibilità. Se questo è esattamente il dilemma di fronte a cui
si trovano le politiche del lavoro di questi anni, con la
flexicurity si cerca di permettere sia ai lavoratori sia alle
imprese di cogliere gli aspetti positivi del processo di
globalizzazione, di innovazione dei processi produttivi e di
prodotto, della competitività. In assenza di interventi in questa
direzione si potrebbero aggravare le problematiche
ricollegabili alla delocalizzazione e accrescere la
segmentazione del mercato del lavoro, i differenziali salariali e
di reddito tra i lavoratori ad elevata professionalità e quelli non
qualificati, e più in generale tra tutti i cittadini.
Lo scopo di questo lavoro è quello di trovare una risposta
alle domande seguenti:
- la flexicurity favorisce l’integrazione dei giovani nei mercati
del lavoro e la loro partecipazione attiva alla società?
- vi è un modello di flexicurity per i giovani?
- vi sono percorsi di flexicurity diversi per i giovani, in base al
contesto e alle politiche sinora sperimentate nei diversi paesi
dell’Unione Europea?
- la flexicurity è in grado di eliminare la povertà tra i giovani e
contenere la crescita continua della disuguaglianza?
- la flexicurity facilita le progressioni professionali per tutti i
giovani?
- quali sono le condizioni per cui la flexicurity possa produrre
effetti positivi sulla qualità della vita dei giovani?
2. Il paradigma europeo della flexicurity
In uno scenario globale sempre più competitivo, le
imprese hanno bisogno di adattarsi al cambiamento e questo
può avvenire rendendo soprattutto più flessibile il processo
produttivo. Dal lato delle imprese, sembrano emergere cinque
modalità diverse di flessibilità: esterna (facilità di assumere e
di licenziare e di utilizzare contratti di lavoro diversificati);
interna (facilità di variare la quantità di lavoro utilizzata, senza
4
interventi formali sul rapporto di lavoro, modificando l’orario
e ricorrendo agli straordinari o al lavoro part-time); funzionale
(possibilità di spostare i lavoratori da una mansione a un’altra
o di modificarne le competenze); salariale (reattività dei salari
ai livelli di produttività e ai mutamenti delle condizioni
economiche); esterna funzionale (possibilità di affidare alcune
mansioni a lavoratori esterni senza ricorrere a contratti di
lavoro, ma esclusivamente attraverso contratti di prestazione
d’opera).
Anche i lavoratori hanno sviluppato nuovi bisogni e
preferenze diversificate, ad esempio in base al genere o alla
fase del ciclo di vita che attraversano. La flessibilità dei
processi produttivi può consentire di conciliare la vita
lavorativa con le proprie preferenze e con altre attività (lavoro
di cura, studio, volontariato, tempo libero, ecc.). I lavoratori
richiedono quindi una flessibilità dei mercati del lavoro
differenziata, in base allo stile di vita perseguito. Per altri
versi, la ricerca di una maggiore flessibilità richiede lavoratori
con un capitale umano sempre più elevato, con una maggiore
capacità di apprendere e di trovare soluzione a problemi nuovi.
A livello aggregato, se non si facilitasse e governasse il
perseguimento della flessibilità, la segmentazione del mercato
del lavoro tenderebbe ad aumentare: alcuni lavoratori
beneficerebbero dei frutti del progresso tecnico, mentre altri
avrebbero un lavoro instabile, bassi salari e sarebbero soggetti
a rischi rilevanti. Pur con le differenze tra le legislazioni dei
vari paesi, è quello che sta accadendo con la sempre maggiore
diffusione dei lavori atipici (cioè diversi, per forma o durata
del contratto o regime orario, da quello standard o tipico:
lavoro dipendente a tempo indeterminato, a tempo pieno e
orario «normale»).
Le persone hanno sempre più bisogno di partecipare
attivamente al mercato del lavoro e di divenire quindi
autonome e responsabili; concretamente, in un mondo in
continuo cambiamento, hanno sempre più bisogno di avere
un’occupazione. Ciò tende a mutare il tipo di sicurezza da
garantire ai lavoratori. Si hanno, infatti, quattro dimensioni del
concetto di sicurezza: del posto di lavoro (possibilità di
mantenere un determinato posto di lavoro per tutta la vita
lavorativa, che richiederebbe una legislazione molto rigida);
dell’occupazione (possibilità di essere occupati per tutta la vita
lavorativa pur in presenza di mobilità orizzontale e verticale,
grazie a opportunità di formazione continua e permanente ed a
politiche del lavoro attive); del reddito (attraverso
ammortizzatori sociali nel caso di perdita dell’occupazione);
della conciliazione della vita lavorativa con quella privata e
5
sociale (possibilità di mantenere l’occupazione avendo
l’opportunità di partecipare alle attività sociali, formative e di
soddisfare bisogni familiari).
Il diritto del lavoro e i modelli di welfare state hanno
recepito solo in parte le diverse dimensioni della sicurezza
domandate dalle persone nei periodi di transizione e di
cambiamento radicale. Sebbene vi sia un Libro Verde europeo
sul nuovo diritto del lavoro (pubblicato nel novembre 2006) e
alcuni paesi abbiano varato una legislazione per meglio
regolamentare i lavori atipici, si riscontrano tuttora molti
difetti nella protezione dei lavoratori: ridotta occupabilità,
accesso limitato ai trasferimenti sociali, carenza di politiche
attive per migliorare la mobilità e ridurre gli effetti negativi
delle interruzioni di lavoro sulle prospettive pensionistiche. I
modelli di welfare state non tengono ancora conto delle
differenze fra le fasi del ciclo di vita delle persone che sono
invece una componente essenziale dei modelli di flexicurity.
Sulla base della «strategia di Lisbona», l’Unione Europea si
propone di diventare l’economia della conoscenza più
competitiva al mondo, in modo da creare posti di lavoro più
numerosi e migliori e distribuire il reddito prodotto in maniera
più equa. Politiche ispirate alla flexicurity, in cui sicurezza e
flessibilità possono rafforzarsi reciprocamente, sono un
tassello di importanza cruciale per raggiungere tali obiettivi:
per questo l’Unione Europea ne caldeggia l’adozione da parte
degli Stati membri, anche rendendole suscettibili di
finanziamento con le risorse del Fondo Sociale Europeo.
Esistono vari esempi di politiche di flexicurity seguite da
vari paesi europei. Tra questi il modello adottato in Danimarca
da ormai più di un secolo ha guidato il dibattito perché
avrebbe dato ottimi risultati tanto economici quanto sociali,
riuscendo a coniugare la flessibilità contrattuale con la
sicurezza e la continua riqualificazione professionale dei
lavoratori. Tuttavia, in linea con i principi del coordinamento
aperto, in base al quale le istituzioni europee individuano
obiettivi comuni e attivano lo scambio delle informazioni sulle
«buone pratiche» nazionali, la Commissione europea lascia
liberi i Paesi membri di perseguire gli obiettivi congiunti di
flessibilità e sicurezza in base alle specificità nazionali.
Il lavoro di studiosi ed esperti ha comunque permesso di
identificare cinque componenti fondamentali, o «pilastri», su
cui dovrebbero basarsi le politiche di flexicurity, coinvolgendo
molti attori e molti campi d’azione: accordi contrattuali che
riescano a combinare flessibilità con partecipazione attiva e
sicurezza al fine di prevenire la segmentazione del mercato del
lavoro; strategie integrate di apprendimento lungo l’arco della
6
vita per assicurare l’«occupabilità» delle persone e
l’accumulazione di capitale umano; politiche del lavoro attive
ed efficaci per facilitare la mobilità e ridurre i tassi di inattività
e di disoccupazione; sistemi moderni di sicurezza sociale per
fornire un adeguato sostegno al reddito nelle diverse fasi della
vita; rapporti di fiducia e dialogo tra le parti sociali.
I paesi caratterizzati da elevato capitale sociale e
maggiore coesione sociale sarebbero favoriti nella
realizzazione di modelli di flexicurity. L’attuazione dei
principi comuni richiederebbe però la definizione di sequenze
politiche e di misure da negoziare adeguatamente, a partire da
quattro percorsi «a grandi linee» proposti dalla Commissione
europea sulla base del diverso profilo degli Stati membri:
affrontare la segmentazione contrattuale; sviluppare la
flexicurity all’interno delle imprese in modo da migliorare i
processi di mobilità, introducendo elementi di sicurezza per i
lavoratori; affrontare le carenze di competenze e di
opportunità dei lavoratori attuali e potenziali, favorendo la
formazione del capitale umano; combattere il lavoro
sommerso e offrire migliori opportunità reali ai disoccupati di
lungo periodo e agli inattivi.
In sintesi, i modelli di flexicurity tenderebbero a portare a
situazioni diverse da quelle che stiamo sperimentando, dove la
flessibilità è utilizzata solo per minimizzare i costi di
produzione all’interno di uno schema competitivo in cui le
imprese «vincerebbero» quello che i lavoratori «perderebbero»
in termini di aumento della precarietà e diminuzione dei salari.
Al contrario, la flexicurity si propone di non essere un gioco a
somma zero, ma un modello di politica economica che si
affida al mercato alla ricerca di vantaggi per tutti i soggetti
coinvolti e di un maggiore benessere della collettività. Ciò
implica, tuttavia, la capacità di condividere un «contratto
sociale» che comporta necessariamente da parte di tutti il
rispetto di un insieme di diritti e di doveri.
3. L’integrazione dei giovani in Europa nei sistemi
economici e sociali
I giovani non sono pienamente integrati e valorizzati nei
diversi paesi e ciò potrà sicuramente condizionare il loro
benessere nelle altre fasi del ciclo vitale se non possiedono una
buona formazione di base e una capacità di apprendere e di
valorizzare le esperienze accumulate.
Nel 2006, la percentuale di giovani europei che avevano
lasciato la scuola media superiore senza conseguire il titolo di
7
studio e senza frequentare altri processi formativi era del 15,3%,
ben al di sopra del 10% che il tasso obiettivo prefissato
dell’Unione Europea. Tale tasso risulta essere elevato
soprattutto a Malta e in Portogallo, dove circa 4 giovani su 10
lasciano il sistema scolastico senza raggiungere un livello di
formazione soddisfacente; lo stesso accade in Spagna dove 3
giovani su 10 non riescono a conseguire il titolo di studio della
scuola media superiore e in Italia dove si hanno 2 giovani su 10.
Solo il 77,8% dei giovani europei, con un’età compresa tra i
20 e i 24 anni possiede il titolo di studio della scuola media
superiore mentre l’obiettivo era quello di raggiungere almeno
l’85%.
I bassi livelli di formazione sono inversamente correlati con i
tassi di disoccupazione giovanile di lungo periodo7, con i tassi
di inattività e con la transizione scuola e lavoro.
Tra i 27 Stati membri, la Danimarca e i Paesi Bassi sono i
paesi che rilevano i tassi di disoccupazione giovanili minori
(6,6% rispettivamente nel 2006). Gli altri paesi che hanno un
tasso di disoccupazione giovanile minore del 10% sono:
Austria, Irlanda e Lituania. D’altro canto troviamo, invece,
alcuni paesi che hanno un tasso di disoccupazione giovanile al
di sopra del 20%. Essi sono: Belgio, Francia, Grecia, Italia,
Polonia, Romania, Slovacchia e Svezia.
Nella media europea notiamo solo 1,6 punti percentuali di
differenza tra i tassi di disoccupazione giovani femminili e
maschili (19,4% contro il 17,8% dei maschi nel 2006). A questo
proposito si rilevano invece rilevanti differenze nei diversi
contesti europei. Il caso estremo è quello della Grecia dove il
tasso di disoccupazione giovanile femminile è del 34,7% ovvero
quasi due volte maggiore quello dei maschi. Italia e Spagna
sono due paesi interessati da un rilevante divario di genere
perciò che concerne i tassi di disoccupazione giovanile.
Dai dati dell’Eurostat si ricava inoltre che i giovani inattivi
(Neet) raggiungono una percentuale media pari al 19% nel
2006. Sono giovani che non sono inseriti nei processi formativi
e neppure nei mercati del lavoro. Essi costituiscono un grave
problema di politica economica soprattutto se si tratta di giovani
drop out o scoraggiati. La mancanza di agency tra i giovani è
tuttavia molto diversificata tra i vari contesti europei. La
Danimarca e i Paesi Bassi hanno ancora una volta la percentuale
minore di Neet tra i giovani che hanno un’età compresa tra i 20
7
Nel 2006, il 30% dei giovani disoccupati con un’età compresa tra i
15 e i 24 anni era di lunga durata (più di 12 mesi) mentre per i
giovani compresi tra i 25 e i 29 anni tale percentuale saliva al 41%
(European Commission, 2007).
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e i 24 anni mentre la maggioranza degli altri Stati membri è al di
sotto o molto vicina alla percentuale media dell’Unione
Europea. In Francia, Italia, Polonia, Romania e Slovacchia tale
percentuale supera però il 20% mentre in Bulgaria si avvicina al
30%. La probabilità dei giovani di essere classificati come Neet
è strettamente correlata ai livelli di istruzione. C’è anche una
rilevante differenza di genere: le ragazze giovani con livelli
bassi di istruzione hanno una maggiore probabilità di essere
incluse nei Neet relativamente a quella presente tra i giovani
maschi.
Livelli elevati di istruzione non sempre tuttavia assicurano ai
giovani un inserimento adeguato nei mercati del lavoro. In molti
paesi europei i laureati risultano essere più disoccupati o inattivi
relativamente a chi possiede titoli di studio inferiori. Vi sono
inoltre giovani che hanno trovato occupazione in attività lontane
rispetto ai contenuti formativi acquisiti. Tali mismatches
generano forme di sottoccupazione, precarietà, part time subite
e quindi non scelte volontariamente dai giovani.
Alcuni paesi europei sono più efficienti e più equi di altri
nell’attuare l’integrazione dei giovani nei mercati del lavoro.
Essi sono: Svezia, Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi, Regno
Unito, Irlanda, Austria, Belgio, Portogallo, Slovenia,
Lussemburgo. I paesi meno efficienti e meno equi sono, invece,
i seguenti: Italia, Polonia, Ungheria, Grecia, Slovacchia,
Repubblica Ceca (Autori Vari, 2008).
4. Flexicurity e integrazione dei giovani: valutazione dei
modelli europei utilizzando il metodo del capability
approach
La ricerca ha adottato il metodo del capability approach e
quello del life cycle per valutare le politiche economiche e
sociali, adottate dai singoli paesi, a favore dei giovani. Sono
metodi normativi di valutazione sociale utili per verificare se,
nei diversi contesti, si investe sui giovani in maniera efficiente
ed equa (Autori Vari, 2008).
La flexicurity, nello schema teorico adottato, è un fattore
che favorisce la conversione delle capabilities dei giovani
(possibilità, opportunità) in modalità concrete di essere e di
fare (achieved functionings). Non accresce quindi le
opportunità reali dei giovani anche se di fatto favorisce il
processo di integrazione nei sistemi economici per coloro che
già hanno le potenzialità per attuarlo.
La flexicurity è quindi una condizione necessaria ma non
sufficiente per attuare l’integrazione e la valorizzazione dei
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giovani nelle diverse società. In assenza di flexicurity le
possibilità dei giovani dipendono dalle strategie attuate dalle
imprese (diverse domande di flessibilità del lavoro), dal
funzionamento dei mercati del lavoro, dai talenti e dal capitale
umano dei giovani, dalla struttura sociale di appartenenza dei
giovani, dai sistemi di welfare state, dal capitale sociale del
contesto. Si aggraverebbero le problematiche ricollegabili alla
delocalizzazione e alla segmentazione del mercato del lavoro.
Crescerebbero i differenziali salariali tra i lavoratori con una
professionalità elevata e quelli non qualificati.
I modelli di flexicurity hanno in comune componenti
fodamentali (i cosiddetti pilastri) e coinvolgono molti attori e
diverse aree di azione. L’identità del modello di flexicurity
dipende quindi dal contesto (dalle capabilities e dai diversi
fattori che determinato i processi di conversione delle
capabilties negli achieved functionings). In Europa abbiamo
modelli diversi di flexicurity e percorsi diversi di
realizzazione. L’efficacia dei diversi modelli dipende
soprattutto dalla pratica delle misure di life-long learning per
tutti i lavoratori, dalla diffusione del capitale sociale e dalla
capacità di delineare e perseguire le finalità dei diversi
contratti sociali
L’attuazione dei principi comuni richiede la definizione di
sequenze politiche e di misure da negoziare adeguatamente
con tutte le parti in causa.
I modelli di flexicurity tenderebbero a portare a situazioni
diverse da quelle che stiamo sperimentando, dove la
flessibilità è generalmente utilizzata solo per minimizzare i
costi di produzione all’interno di uno schema competitivo in
cui le imprese “vincerebbero” quello che I lavoratori
“perderebbero” nei termini di aumento della precarietà e della
diminuzione del salario.
La flexicurity si propone quindi di non essere un gioco a
somma zero, ma un modello di politica economica che si
affida al mercato alla ricerca di vantaggi per tutti i soggetti
coinvolti e di un maggiore benessere per la collettività. Ciò
implica la capacità di condividere un “contratto sociale” che
comporta necessariamente il rispetto di diritti e di doveri da
parte di tutti.
La flexicurity non è quindi una panacea né una strategia di
successo sicuro. Essa promette risultati ma richiede adeguati
investimenti per ampliare le capabilities e diminuire le
diseguaglianze strutturali.
Le politiche di flexicurity non esauriscono lo spazio di
tutela dei diritti dei lavoratori in materia di condizioni di
lavoro e di non discriminazione.
10
La cluster analysis ha fatto rilevare quattro modelli di
flexicurity dei giovani in Europa; emergono le differenze di
contesto, della qualità della vita (acheved functionings) e le
diverse possibilità (capabilities).
I pilastri dei modelli di flexicurity sono identificabili nelle
aree seguenti: contrattazione “flessibile” che favorisca la
mobilità e la crescita professionale dei lavoratori; strategie
integrate di lifelong learning; politiche attive del lavoro
efficaci; sistemi evoluti di sicurezza sociale.
La cluster analysis ha classificato i 27 paesi europei in
quattro gruppi rilevando caratteristiche e sfide comuni per i
percorsi di flexicurity e di integrazione dei giovani nei sistemi
economici e sociali.
I quattro gruppi di paesi si distinguono per: la
partecipazione attiva elevata dei giovani al mercato del lavoro;
per il capitale umano elevato dei giovani (formazione formale)
ed efficaci politiche del lavoro; per la bassa partecipazione
attiva dei giovani, per la carenza di strategie di lifelong learing
e per l’inefficacia delle poltiche attive del lavoro; per squilibri
elevati nei mercati del lavoro (tassi di occupazione giovanile
elevati insieme a tassi di disoccupazione giovanile di lunga
durata elevati) e livelli bassi nella qualità della vita.
La classificazione dei paesi nei quattro gruppi della cluster
analysis è la seguente: primo gruppo: Austria, Danimarca,
Paesi Bassi, Svezia, Finlandia, Regno Unito, Irlanda; secondo
gruppo: Francia, Belgio, Germania, Lussemburgo, Slovenia;
terzo gruppo: Grecia, Italia, Portogallo, Spagna e Polonia;
quarto gruppo: Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia,
Lituania, Slovacchia, Cipro, Romania, Bulgaria.
5. Riflessioni critiche sui quattro modelli di flexicurity dei
giovani in Europa
Primo gruppo
Le opportunità reali dei giovani (capabilities) che
appartengono a questi paesi sono generalmente buone: ci sono
percentuali basse di giovani che appartengono a famiglie con
un reddito basso (con l’eccezione dell’Irlanda e in parte anche
del Regno Unito); la qualità della formazione è in media con
quella europea (Oecd-Pisa); l’indice di sviluppo umano in
questi paesi ha i valori più elevati d’Europa; vi sono
percentuali elevate di giovani, con un’età compresa tra i 20 e i
29 anni, in possesso di scuola media superiore
11
Le sfide che incontrano questi paesi sono quelle di individuare
i giovani con livelli di povertà umana elevati e quindi di
progettare poltiche attive efficaci e mirate (giovani immigrati,
giovani a basso livello di capitale umano, giovani drop out)
per rafforzare le loro capabilities (possibilità) e di insegnare
loro a fare delle scelte razionali e ad agire in maniera
consapevole
Secondo gruppo
Le opportunità reali dei giovani (capabilities) che
appartengono a questi paesi sono generalmente buone: ci sono
percentuali basse di giovani che appartengono a famiglie con
un reddito basso; la qualità della formazione è in media al di
sopra di quella europea (Oecd-Pisa, con l’eccezione del
Lussemburgo mentre non vi sono dati per la Slovenia);
l’indice di sviluppo umano in questi paesi ha i valori più
elevati d’Europa; vi sono percentuali elevate di giovani, con
un’età compresa tra i 20 e i 29 anni, in possesso di scuola
media superiore
Le sfide che incontrano questi paesi sono quelle di favorire
l’innvozazione e il perseguimento della knowledge economy
poiché si rilevano rilevanti mismatch nei mercati del lavoro.
Misure innovative potrebbero essere sperimentate nei processi
di formazione, di apprendimento (non formale e informale) e
nella fase di transizione scuola lavoro. I modelli di welfare
state forniscono prestazioni minori relativamente a quelle
ricevute dai giovani dei contesti classificati nel primo gruppo
di paesi
Terzo gruppo
Le opportunità reali dei giovani (capabilities) che
appartengono a questi paesi sono molto basse: ci sono
percentuali alte di giovani che appartengono a famiglie con un
reddito basso relativamente al resto dell’Europa; la qualità
della formazione è sotto la media europea (Oecd-Pisa con
l’eccezione della Polonia che si avvicina alla media); l’indice
di sviluppo umano in questi paesi ha i valori che si avvicinano
a quelli medi dei paesi industrilizzati con l’eccezione della
Polonia che si scosta; vi sono percentuali elevate di giovani,
con un’età compresa tra i 20 e i 29 anni, in possesso di scuola
media superiore (con l’eccezione della Polonia che supera il
90%, la Spagna che è sotto il 66% e il Portogallo sotto il 50%).
12
Le sfide che incontrano questi paesi sono quelle di integrare I
giovani nei mercati del lavoro superando l’alternativa del
posto fisso e quella della disoccupazione. L’offerta di lavoro
femminile deve essere incentivata con politiche che
permettano meglio di conciliare il lavoro con la famiglia. I
NeeT rates (le persone inattive che non partecipano alla
formazione o che non hanno esperienze professionalizzanti)
sono molto alti e si dovrebbero incentivare le giovani donne a
partecipare attivamente nei mercati del lavoro. Le poltiche
attive del lavoro dovrebbero essere promosse (work fare e
servizi per l’impiego). La sfida principale di questi paesi è
quindi quella di accrescere le possibilità dei giovani di
entrambi i sessi. I livelli di formazione e quelli di
apprendimento sono davvero alquanto bassi relativamente a
quelli degli altri due gruppi precedenti (il Portogallo si colloca
a livelli ancora inferiori relativamente agli altri paesi).
Quarto gruppo – Nuovi stati membri
Le opportunità reali dei giovani (capabilities) che
appartengono a questi paesi sono molto basse: le percentuali
di giovani che appartengono a famiglie con un reddito basso
sono le più alte dell’Europa; la qualità della formazione è sotto
la media europea (Oecd-Pisa per quei paesi che partecipano
all’indagine); l’indice di sviluppo umano in questi paesi ha
valori più bassi di quelli riscontrati in precedenza; vi sono
percentuali elevate di giovani, con un’età compresa tra i 20 e i
29 anni, in possesso di scuola media superiore (con
l’eccezione di Malta).
Questi paesi hanno alcune caratteristiche simili: i contratti di
lavoro a tempo indeterminato e a part time sono ancora non
molto diffusi anche per la tipologia dei lavoratori studenti. I
mercati del lavoro di questi paesi sono presentati come
“flessibili”. Si potrebbe dire che le imprese hanno solo alcune
domande di flessibilità trascurandone invece altre; hanno
politiche del lavoro e sistemi di welfare state inefficaci.
Le sfide che incontrano questi paesi sono quelle di: dare una
protezione adeguata ai lavoratori della knowledge economy, di
rivedere la tassazione dei redditi da lavoro; di incentivare
strategie di lifelong learning inserendole negli accordi
contrattuali; di progettare politiche attive del lavoro per i
giovani disoccupati di lungo periodo e per I lavoratori disabili;
di accrescere l’indennità di disoccupazione e di creare nuove
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opportunità di lavoro per i giovani; di favorire gli accordi e I
contratti sociali tra le diverse parti sociali
6. Alcune questioni aperte
Si richiede quindi di costruire un indice di sviluppo umano
dei giovani complesso, per riuscire cogliere le priorità di un
contesto al fine di favorire il ruolo di convertibilità dei modelli
di flexicurity.
La ricerca suggerisce di fissare l’attenzione sulla qualità
della formazione formale per tutti (equità) e sui processi di
apprendimento, come condizione necessaria per sviluppare
strategie efficaci di lifelong learning future (Autori Vari,
2008).
Occorre formare professionisti in grado di gestire contesti,
in continuo cambiamento, con consapevolezza e responsabilità
individuale e sociale (applied ethical resources). I modelli di
flexicurity hanno l’obiettivo di far superare i fallimenti di
mercato che continuano a determinare e a moltiplicare
frequenti trade-off che richiedono competenze, sinora non
richieste, come la consapevolezza e il discernimento nelle
scelte motivazionali, negli obiettivi di medio e lungo termine e
la valutazione economica e sociale delle azioni intraprese.
La gestione dei potenziali conflitti nella scelta dei processi
produttivi, organizzativi nei diversi contesti economici e
sociali e nelle diverse modalità di attuazione deve essere
gestita da una governance, la cui soluzione deve essere
riconosciuta universalmente, sulla base dei valori prevalenti e
condivisi nel contesto.
Bibliografia
Autori Vari, 2008, Young in Occupations and Unemployment:
Thinking of their better integration in the labour market (Youth
Project, European Commission DG EMPL/D2.
Berlin I., 1990, “Sulla ricerca dell’Ideale”, in Autori Vari, La
dimensione etica nelle società contemporanee, Edizioni della
Fondazione Giovanni Agnelli, p. 3-19.
European Commission, Employment in Europe 2007, DirectorateGeneral for Employment, Social Affairs and Equal Opportunities,
Unit D 1.
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