Renzo Piano “Fare architettura” Una lezione magistrale

Transcript

Renzo Piano “Fare architettura” Una lezione magistrale
AVVENIMENTI
Renzo Piano
“Fare architettura”
Una lezione magistrale
Renzo Piano
In viaggio insieme a Renzo Piano nel mondo dell’architettura.
Anzi del “fare architettura”. Un’emozionante esperienza alla
quale hanno partecipato oltre 3.000 persone che hanno
riempito il Palazzo dei Congressi di Bologna per seguire
la lezione magistrale dell’architetto genovese, organizzata
nell’ambito dell’edizione 2009 del Cersaie.
Se non schivo, solitamente parsimonioso e attento
nella gestione della propria immagine e in genere della
comunicazione, Piano si apre alla platea, composta in
gran parte da giovani, e parlando a braccio, attraverso un
percorso fatto di immagini proiettate, dipana il filo della
sua esperienza di architetto. “Un mestiere straordinario,
d’avventura”. E soprattutto un “mestiere del fare”.
“Ogni architetto - premette - per svolgere il suo lavoro
comincia da qualche parte. C’è chi, come molti miei
amici, comincia da un visione e poi, però, dato che è
bravo, pian piano arriva al costruire. C’è chi, invece, fa il
percorso inverso. Ma da qualche parte si deve cominciare.
Per me, per noi, si parte sempre dal fare. C’è una poetica
del fare, del costruire, c’è una bellezza del costruire.
La sfida straordinaria dell’ingegno di spostare sempre più in
là i confini. Di esplorare le espressioni dei materiali, delle
nuove tecniche”.
Se è vero che l’architettura comincia dal fare, “dal partire
dal senso e forza della necessità che guida le migliori
cose”, naturalmente, poi, non finisce lì. É anche “l’arte del
celebrare, del rappresentare, dei desideri. E solo quando la
capacità di rispondere ad un bisogno reale riesce a coincidere
con la necessità di rispondere ai desideri, ai sogni, è lì che
l’architettura diventa straordinaria”.
14
Per riuscire in questo compito l’architettura deve essere
“un’arte di frontiera, contaminata, ma non in un’accezione
negativa, perché, in certi casi, non è male che sia contaminata
dalla realtà e che quindi si arricchisca”. Deve, poi, essere
“un’arte corsara, nel senso che dentro c’è anche tanta rapina.
Una rapina a viso scoperto, fatta per restituire”. E, ancora,
l’arte “di chi accetta di correre dei rischi, certo anche di fare
errori. L’arte che corre il mondo”. Proprio come devono fare
i giovani che vogliono diventare architetti che Piano sprona,
appunto, ad andare, correre, scoprire il mondo.
Il padre in cantiere, Genova. Le radici
Il viaggio e la narrazione di Renzo Piano partono – come è
logico – dalle origini, le sue. Siamo nel ’47. Un’immagine
di cantiere. “A questa foto sono molto attaccato” dice.
“Quello che vedete con il cappello è mio padre ed io, anche
se non sono ripreso, ero lì, da qualche parte. Mio padre era
un costruttore. Io sono cresciuto nei cantieri e quando ci
passi tanti anni il miracolo del costruire, per cui le cose si
trasformano, ti resta addosso. E questa è una delle mie radici.
L’altra è Genova, le sue navi, il suo porto. Sono cose che non
si spiegano e che sino a quando non hai cinquanta anni non
le capisci nemmeno. Poi, però, cominci a capire che le radici
contano davvero. Che le hai e tornano sempre a galla”.
Il Centre Georges Pompidou e “l’ansia di sociale”
“E naturalmente – rileva Piano, mentre sullo schermo appare
l’immagine del Centre Georges Pompidou – quelle forme di
navi da qualche parte sono andate a finire. Questa, è una
sorta di nave che si è ritrovata in mezzo al Marais, a Parigi”.
“Quando ci siamo trovati, insieme a Rogers, a progettare il
Beaubourg io avevo 33 anni, lui un po’ di più. Abitavamo
a Londra ed eravamo una specie di Beatles. Vincemmo il
concorso con 681 partecipanti e ancora adesso non ho capito
perché e soprattutto come abbiano potuto lasciarci fare. Però –
continua Piano – ciò che conta è che l’edificio funziona e oggi
è amato. Gli edifici, quelli che contano, non entrano subito
nella ritualità, negli affetti. Hanno bisogno di guadagnarseli gli
affetti e oggi questo edificio e la piazza sono entrati negli affetti,
funzionano, sono amati, vissuti, sono un punto d’incontro”.
Il Beaubourg, ricorda l’architetto genovese, seppe cogliere
“l’ansia di sociale” che caratterizzava quegli anni (tra il ’71
e il ’77, anno di inaugurazione) e lo fece attraverso l’idea
di fabbrica. “Un’idea che molti ci contestavano come se
fosse una bestemmia, mentre noi naturalmente eravamo
felicissimi, perché era chiaro che l’idea di fabbrica era servita
per contraddire l’idea invece molto intimidente di centro
culturale di pietra”. E quindi l’edificio “doveva sì esprimere una
fabbrica, ma soprattutto un senso di apertura, di tolleranza”.
Cominciare a confondere sacro e profano. “Il Beaubourg –
conclude Piano – non ha creato la trasformazione dei musei,
ma l’ha interpretata. E’ stato il momento in cui i musei hanno
cominciato ad essere vissuti in maniera molto più aperta”.
Rigenerazione urbana ad Otranto. L’ascolto e la partecipazione
Altre immagini. Inizio anni ’80. Il primo lavoro di
Piano con l’Unesco. Partendo dall’idea che “un centro
storico deve essere studiato nell’unità, le pietre insieme
alla gente, realizzammo un’unità portatile, montata
nel centro di Otranto”. Attorno all’unità mobile, che
servì a svolgere analisi sugli edifici utilizzando tecniche
conoscitive “rubate letteralmente dalla medicina, per
capire e per fare delle diagnosi molto più precise”, si
coagulò anche un aspetto molto importante del progetto,
quello dell’ascolto e della partecipazione”.
“Non vi immaginate gli scempi che si fanno quando si decide
di demolire. Non solo si butta giù e si cancella ogni traccia,
ma soprattutto si manda via la famiglia che è dentro la casa
interrompendo una spirale virtuosa, la connessione che c’è
tra le pietre e le persone. E’ un fatto che si perpetua a fin di
bene, ma è disastroso”. Ecco perché prima di procedere, oltre
e insieme allo studio e all’analisi degli edifici, è importante
ascoltare chi ci vive, chi ci abita.
“Il tema della partecipazione - riprende Piano – ricorre
continuamente nel mio lavoro. Di esperienze come quella
dell’assemblea di piazza ad Otranto ne ho fatte tante. Ho
passato la vita a discutere ed è difficilissimo”. Ma il fatto che
sia un ‘metodo’ difficile, sottolinea, non vuol dire che bisogna
abbandonarlo. Perché se è vero che “ascoltare è una delle arti
più difficili” e, soprattutto, “non è l’arte dell’ubbidire”, è
altrettanto vero che “ascoltare significa capire”. E per questo
“un bravo architetto deve sapere ascoltare”.
L’importanza del lavoro di gruppo
Un’altra immagine. “Questa è una scena di lavoro di
team nel giardino di casa mentre lavoravamo sulla Menil
Collection a Huston”. Lavorare in gruppo è una cosa molto
importante ma anche difficile. “Perché tutti dicono che si
lavora in gruppo, team work, ma in realtà, poi, si lavora a
cascata, che è diverso. Per me – dice Piano – il vero team
www.shutterstock.com/izoom
Centro Georges Pompidou, Parigi
15
| n. 6 |
NOVEMBRE - DICEMBRE 2009
work si realizza quando l’informalità raggiunge livelli tali per
cui ci si dimentica chi ha detto qualcosa o chi ha inventato
qualcosa”. E’ una sorta di ping pong rapido. Contesti nei
quali “non sono mai riuscito distaccare il momento creativo
dell’architetto, da quello dell’ingegnere, del tecnico o
del costruttore. Adesso, c’è un grande nuovo tema che ti
costringe a lavorare insieme per cui il team work è diventato
fondamentale. E’ il tema della sostenibilità, l’energia e il
rapporto con l’ambiente e con il contesto dell’edificio”.
“La Menil Collection a Huston è stato il primo caso in cui
abbiamo lavorato sulla luce naturale che arriva su tutto l’edificio.
Qui – ricorda Piano – veniva ancora Reyner Banham, un
critico di architettura straordinario che scrisse ‘The architecture
of well-tempered environment’, un libro sull’architettura della
cose impalpabili. E questa è un’architettura fatta di luce, di
trasparenza, di leggerezza: la luce di questo museo diventò un
elemento importante del nostro lavoro”.
"Parco della Musica" Auditorium, Roma
L’aeroporto Kansai di Osaka. L’avventura e il lavorare con
le persone
“Questo è un lavoro di cui vado molto fiero e del quale
parlo perché ha una dimensione completamente diversa.
Quando costruimmo l’aeroporto era il più grande del
mondo”. Un’opera realizzata su un’isola che prima non
c’era. “Quando, prima di partire coi lavori, dissi che volevo
andare sul luogo del cantiere - ricorda Piano - i giapponesi
non capivano e non sapevano come spiegarmi che non
c’era. Che non c’era niente. Noi, ovviamente, lo sapevamo
e andammo lo stesso. Prendemmo la barca, ancorammo in
mezzo al mare e ci mettemmo ad ascoltare. L’arte dell’ascolto
di cui parlavo prima rispetto alle persone, esiste anche nei
confronti dei luoghi. Perché i luoghi parlano, hanno storia.
Anche se ci si trova in mezzo al mare”.
Fare architettura significa lavorare con molte persone. “Ad
un certo punto, in questo progetto, abbiamo lavorato con
10.000 operai, un esercito. C’erano in campo due grandi
imprese giapponesi ciascuna delle quali cominciò a lavorare
da un estremo opposto con l’obiettivo di trovarsi al centro
16
dopo un anno e mezzo. Ricordo che pensai, fra me e me,
non ci riusciranno mai. E loro, invece, prima mi dissero
il giorno preciso in cui l’avrebbero fatto. Poi lo fecero,
trovandosi esattamente dove avevano detto”.
“Si trattava di persone straordinarie e orgogliosissime.
Ogni giorno lasciavano il cantiere, come se si aspettassero
il terremoto. E nonostante in 38 mesi di cantiere abbiamo
avuto ben 36 terremoti nessuno si è fatto male”. E tutto
questo, aggiunge Piano, è significativo non perché è
architettura, ma perché è “fare architettura”.
L’auditorium di Roma. Quando la forma parte dal suono
Dal Giappone a Roma, un salto geografico, a significare
ancora una volta che “questo continuo spostarsi, muoversi
per la terra, dà l’idea di come l’architettura sia un mestiere di
avventura. Un mestiere in cui continui ad incrociare il tuo
destino con persone che hanno dentro un’energia”. A Roma,
ricorda Piano, “il rapporto con i musicisti come Claudio
Abbado, Maurizio Pollini e tanti altri è stato straordinario”.
Anche per affrontare uno fra gli aspetti determinanti del
progetto, la scelta dell’acustica. “Guardate questa sala per
2.780 persone. E’ una cassa armonica di legno e questi pezzi
di legno sono tutti scolpiti. Qui si è partiti dal suono per
dare forma all’involucro che lo accoglie”.
La chiesa di Padre Pio a San Giovanni Rotondo e il rapporto
con i materiali
Un cantiere di pietra. “Un materiale straordinario.
Una volta si scalpellava, adesso ci sono macchine digitali
che la tagliano in modo preciso e ti consentono da fare cose
eccezionali”. D’altra parte “l’architettura è fatta di materiali
e il lavoro fatto sui materiali è molto importante perché
il legno, la ceramica, la terra cotta, la pietra, sono antichi,
quanto la Terra e vanno reinventati”.
Berlino, Potsdamer Platz, 1991. Di fronte alla forza dei luoghi
“Il luogo dove abbiamo costruito, Potsdamer Platz, era
diventato un vuoto quando, nel ’61, con l’inizio della
guerra fredda e la costruzione del muro venne fatta tabula
rasa. Era vuoto e spaventoso, perché un luogo di grande
sofferenza, che avrebbe potuto dire tante cose, era, invece,
pieno solo di fantasmi”.
Mancavano, rileva Renzo Piano, quelle “tracce del passato, che
normalmente usi come fortunata presenza, che ti guidano,
ti danno delle linee, una disciplina e sono importanti perché
a quelle ti agganci per non restare completamente aperto”.
Un foglio bianco fa paura. E a Potsdamer Platz c’era, al
tempo stesso, “un foglio bianco, perché tutto era sparito”, ma
anche e soprattutto, “un foglio intriso di dolore, di tensione.
Un progetto molto drammatico”. Ed emblematico, visto
che dei 5.000 operai impegnati sul cantiere solo 500 erano
tedeschi e come fece notare a Piano l’amico e scrittore Mario
Vargas Llosa, che all’epoca abitava a Berlino, “il luogo
Moreno Maggi - Rpbw, Renzo Piano Building Workshop
ANNO I
della più terribile intolleranza che la storia dell’umanità
avesse mai registrato” veniva ricostruito da 5.000 persone
fra cui turchi, egiziani, russi, insomma razze e nazionalità
che venivano da ogni parte del mondo. E l’architettura è
anche questo. Cambiare il mondo. Sostituire “un luogo di
intolleranza con un luogo di tolleranza”.
Justine Lee (grande), Ishida Shunji (piccola) - Rpbw, Renzo Piano Building Workshop
Il centro culturale Jean Marie Tjibaou e il canto degli edifici
Da Berlino al Pacifico. In Nuova Caledonia, dove lo studio
di Renzo Piano ha progettato il primo ed unico Centro
Culturale del Pacifico, un complesso composto da dieci
edifici intitolato alla memoria di Jean Marie Tjibaou, leader
del popolo kanaki, una delle tre grandi etnie del Pacifico
insieme ai maori e agli aborigeni. Un popolo la cui cultura è
sostanzialmente del gesto, del movimento, della danza, del
suono e del teatro.
Il materiale usato per la realizzazione degli edifici è il
legno, “antico come il mondo e che si può reinventare
all’infinito”. Un’energia naturale perché “cresce con il
sole, il vento e l’acqua”. E che, in questo caso, è stato
scelto perché parte della cultura locale. “Questo è un
progetto interessante – sottolinea Piano – perché si
colloca a metà strada tra l’architettura e l’antropologia”.
L’architetto, infatti, “deve essere anche antropologo,
deve capire le persone”, la loro cultura. “Quando gli
alisei soffiano, questi edifici iniziano a cantare, hanno
un suono. Se ci pensate, anche queste sono cose rubate,
ad una cultura”. E non è un caso che i kanaki abbiano
riconosciuto il complesso come edificio loro.
La sede del New York Times. La luce e i colori della
‘Grande mela’
“New York è una città che amo, una città atmosferica che alla
sera, quando c’è il sole, diventa tutta rossa. Dopo la pioggia è
tutta blu. E’ una città che cambia in continuazione. L’idea di
partenza nel costruire la sede del New York Times - racconta
Piano - era di fare una torre, alta 250 metri, dove catturare
questa mobilità della luce, del colore, attraverso la ceramica”.
Tenendo conto “che gli edifici catturano la luce, prendono
il colore della luce”, per ottenere l’effetto desiderato, spiega
l’architetto genovese, si pensò alla ceramica e vennero
progettate e realizzate 360.00 ‘baguette’ di ceramica bianca.
Come sempre in architettura le scelte partono da ragioni molto
pratiche. “Se devi realizzare un edificio a torre - continua Piano fai un vetro trasparente per bloccare il gradiente termico oppure
ciò che abbiamo fatto noi. Se si calcola con attenzione il ritmo
delle ‘baguette’ fai qualcosa che non riceve mai direttamente
il sole, ma dall’interno vedi fuori. Ed è ciò che abbiamo fatto,
lavorando su questa logica in modo rigoroso. Anche qui è la
pura forza della necessità che ti guida”.
E il risultato è che l’edificio del New York Times, come
si vede da un’immagine, “prende la luce, mentre gli altri
non la prendono. E’ un edificio metamorfico e le ‘baguette’
hanno un loro ruolo preciso”.
La California Academy of Sciences e la sostenibilità
ambientale: un edificio che respira e vive al ritmo della terra
Altra immagine. “Qui siamo in California a San
Francisco e questa è la California Academy of Sciences.
California Academy of Sciences - San Francisco
17
Marcello Castigliego
La Chiesa di San Pio da Pietrelcina a San Giovanni Rotondo
Un grande edificio costruito agli inizi del ‘900 e danneggiato
dal terremoto del 1989. E’ uno dei primi e grandi musei della
scienza che nacque nel 1850 su una nave a vela che, durante
la buona stagione, andava a girare per il mondo raccogliendo
reperti, tornava nella cattiva stagione e attraccava al porto di
San Francisco diventando un museo”.
All’interno del progetto realizzato dallo Studio di Renzo
Piano maggiore rilevanza ha l’edificio che gli americani
chiamano “Exhibit n.1” e che è stato classificato Platinum
nel Leed System. Un edificio che consuma pochissima
energia e nel quale è stato utilizzato moltissimo materiale
riciclato. “Il tetto - spiega Piano - è ricoperto solo da specie
vegetali locali che non hanno bisogno di annaffiatura
ma solo di acqua atmosferica che catturano durante la
notte. Si tratta di essenze, che abbiamo sviluppato con
gli scienziati e che poi sono state selezionate dai botanici
nell’arco di quattro anni affinché il loro stesso contenitore
nel tempo diventi terra”. Sulla copertura sono poi state
collocate delle bocche che quando all’interno c’è troppo
caldo si aprono. “E’ un edificio che respira, che dialoga
con l’ambiente, che vive al ritmo della terra”, conclude
l’architetto rilevando anche che per costruire nella
nuova ottica della sostenibilità ambientale “non basta
risparmiare e costruire edifici che consumano poco.
Occorre anche trovare un’estetica, un espressione, un
linguaggio e realizzare opere che interpretino e celebrino
questa nuova situazione”.
Punta Nave, a Genova
Ultima tappa del viaggio. “Questo è il nostro ufficio
laboratorio. E’ un luogo magico che ha a che fare con
l’acqua e dove il mare è una presenza costante”. Per arrivarci
occorre prendere una teleferica, una sorta di cubo di vetro,
che sale sino all’ingresso dello studio.
“Noi facciamo molti prototipi” spiega Piano parlando
del lavoro di preparazione nel quale, appunto, la fase di
prototipizzazione è essenziale “perché è un modo per
rendere fisica un’idea” ed aiuta ad evitare errori.
L’architetto, infatti, ha una specie di condanna: “se sbaglia,
a differenza di quanto succede in altre arti, quando se ne
18
accorge è troppo tardi. L’architettura quando è fatta è
finita”. E se è sbagliata “impone a tutta una comunità di
vivere immersa nel brutto per tempi molto lunghi”.
E’ una responsabilità molto grossa dice Piano e uno dei
modi per correre meno rischi è, appunto, quello di fare
prototipi. Che sono da considerarsi, a tutti gli effetti, “parte
essenziale del progetto architettonico”.
All’interno della Fondazione Renzo Piano, oltre al
laboratorio dove vengono conservati i prototipi c’è anche
uno spazio, chiamato “classroom”, dove si svolgono i
seminari e si riuniscono gli studenti che vengono a Punta
Mare da molte università del mondo a completare i loro
studi. Vengono “a bottega” come dice Piano perché “la
Fondazione si occupa di insegnamento ma non tanto dando
a questi giovani altre informazioni” bensì “invitandoli,
come dire, a tavola, a stare con noi e vivere assieme”
per capire “che l’architettura è un mestiere serio, molto
complesso. Nel quale ti trovi a dovere affrontare situazioni
sempre diverse che generano soluzioni originali, non per
eclettismo ma perché le persone con cui ti confronti sono
diverse, i luoghi e il clima sono diversi”.
E in un periodo di “priapismo mediatico”, come quello
che stiamo vivendo, nel quale “fra tanti architetti è diffusa
un’ansia da prestazione”, Piano sceglie di concludere la sua
“lezione” ribadendo che l’architettura è un mestiere antico
dove, invece, “l’avventura è reale”. Tanto è vero “che molti
edifici li abbiamo scritti scavando nella roccia, o affrontando
tempeste, terremoti, persino trovando bombe inesplose,
come successo sul cantiere di Berlino”.
E l’architetto “sempre indeciso tra l’essere un tecnico, uno
scienziato, uno storico, un antropologo, un umanista, un
topografo, un geografo” è (e deve essere) in verità tutto
questo assieme.
Ma ancora non basta, a un architetto serve anche il coraggio.
“Come diceva Marguerite Yourcenar – conclude Piano –
creare è un po’ come guardare nel buio. Perché quando
si entra in una stanza buia all’inizio non si vede niente,
ma dopo un po’ si comincia a vedere. E questa è un po’
l’avventura del costruire. Occorre sapere guardare nel buio,
con coraggio, senza scappare”.