Le riforme della professione medica in Italia negli

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Le riforme della professione medica in Italia negli
Le politiche sociali in Italia nello scenario europeo
Ancona, 6-8 Novembre 2008
LE RIFORME DELLA PROFESSIONE MEDICA IN ITALIA NEGLI ANNI
NOVANTA E DUEMILA
Alberto Ardissone*
Paper presentato alla prima conferenza annuale ESPAnet Italia 2008
Sessione: nr. 9 Le riforme della sanità tra mutamenti di policy
e dinamiche di politics
(*) Dipartimento di Studi del Lavoro e del Welfare
Via Conservatorio, 7
20122 Milano
[email protected]
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1 - Introduzione
Da molti decenni il settore sanitario e' sottoposto ad un costante processo di revisione e
ristrutturazione. In particolare, poi, gli ultimi anni hanno registrato una tensione,
comune a tutti i governi occidentali [cfr. Dubois 2006; Blank e Burau 2007], a
conseguire il duplice obiettivo di migliorare l'efficienza del servizio sanitario e la
qualità delle prestazioni offerte, e di contenere i costi crescenti del sistema, causati sia
dalla notevole espansione della domanda di prestazioni sanitarie, sia dal costante
aumento delle spese relative alla tecnologia impiegata1 [cfr. Ferrera 2006]. Problemi che
furono acuiti dal terremoto economico, fino a quel momento sconosciuto, che fu
scatenato da due serie crisi petrolifere avvenute nel corso degli anni Settanta, e che
avrebbe costretto i governi occidentali a rivedere le spese destinate al welfare.
Nell’ambito delle riforme che hanno caratterizzato i sistemi sanitari, questo studio
intende analizzare quelle iniziative legislative che hanno riguardato direttamente la
professione medica. Si tratta di un aspetto di particolare interesse perché nelle principali
economie avanzate, la professione sta manifestando una situazione di disagio, che si fa
sempre più crescente: infatti, le associazioni di categoria lamentano una sostanziale
perdita di prestigio, di capacità di guadagno, di autonomia clinica, nonché una sempre
maggiore burocratizzazione; fattori che infine conducono ad una crescente deprofessionalizzazione del lavoro del medico [cfr. Giarelli 2003].
Il presente lavoro si concentrerà sul caso italiano ed ha lo scopo di far emergere
non solo la successione delle riforme implementate, ma anche i relativi contesti in cui
esse sono nate e le dinamiche che le hanno connotate. Il paper è suddiviso in due parti
fondamentali. Nella prima, intendo esaminare rapidamente le principali riforme del
Servizio Sanitario Nazionale, dalla sua istituzione ad oggi, soffermandomi però
prevalentemente sul ciclo iniziato negli anni Novanta, perché ritengo fondamentale
accennare al contesto generale per meglio comprendere la dinamica delle riforme
relative alla professione, le quali si sono effettivamente inserite all’interno di un
mutamento più ampio che ha coinvolto l’intero settore sanitario.
1
Ferrera [2006, 193] nota come il settore sanitario sia caratterizzato dalla sindrome di Baumol, che
definisce l’asimmetria tra la crescita dei costi unitari dei prodotti, da un lato, e il livello invece costante
degli output produttivi, dall’altro. In questo senso, il progresso tecnologico in campo sanitario non è
“labor saving”, ma tende a generare costi crescenti.
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Nella seconda parte dello studio, invece, intendo concentrare l’attenzione sulle
novità riguardanti la professione medica, in particolar modo quella ospedaliera, nel
panorama italiano. In questo ambito la produzione normativa dei diversi governi, che si
sono succeduti negli anni Novanta e Duemila, ha contribuito alla ridefinizione del ruolo
della professione medica. Si pensi, per esempio, a come essa e' cambiata: dapprima la
creazione della dirigenza medica in ottica di rinnovamento delle strutture sanitarie verso
una nuova fisionomia marcatamente improntata da uno spirito aziendalista, avvenuta ad
inizio anni Novanta, che ha contribuito a modificarne l'inquadramento e le mansioni; e
solo pochi anni dopo, l'introduzione del regime di intramoenia e dell’esclusività, in base
alle quali i medici ospedalieri avrebbero dovuto optare se lavorare come dipendenti
all'interno del settore pubblico, ovvero praticare la professione privatamente e fuori dal
settore pubblico del sistema sanitario nazionale.
2 - Approccio descrittivo ed esplicativo del paper
Nel presente lavoro ho voluto soprattutto fornire una ricostruzione il più precisa
possibile degli accadimenti relativi alla professione medica durante gli ultimi quindicivent’anni, con la conseguenza che il taglio dell’articolo risulta essere per lo più
descrittivo. Infatti, lo scopo è stato quello di gettare una luce intorno alle problematiche
relative al dibattito sulle riforme del settore sanitario e, più in particolare, della
professione medica, lasciando che un prossimo studio usufruisca di alcuni degli spunti
qui offerti per un’analisi maggiormente esplicativa.
Nella parte finale dello studio, tuttavia, ho inteso almeno accennare a una
spiegazione sull’evoluzione della politica sanitaria relativa alla professione medica,
cercando di esaminare le condizioni che in determinati periodi hanno reso possibile
l’avvento di certe riforme, che sono invece state ostacolate in altri momenti. Risulta,
così, fondamentale il recente contributo di Streeck e Thelen, così come la teoria sui
“veto point” elaborata negli anni Novanta da Immergut.
Inserendosi nel dibattito neo-istituzionalista sul cambiamento istituzionale,
Streeck e Thelen [2005], discostandosi da quei modelli teorici che ergono una rigida
separazione tra momenti di continuità istituzionale e momenti di cambiamento
drammatico, improvviso ed esogenamente guidato, hanno voluto dirigere l’attenzione
degli studiosi su quelle graduali trasformazioni che producono una dinamica di
3
discontinuità istituzionale, causata da un cambiamento lento ed incrementale, che nel
tempo produce una trasformazione significativa.
Importante è la definizione di istituzione offerta dai due autori: e cioè, un
insieme di regole formalizzate che creano nella società delle aspettative, che possono
essere rafforzate dalla facoltà di invocare l’intervento di una terza parte affinché ne
sancisca la legittimità, e che nasce e si sviluppa in una continua interazione tra i “rule
makers” e i “rule takers” 2 . Essa consente, così, di considerare che il cambiamento
istituzionale possa essere generato dalla quotidiana implementazione dell’istituzione
medesima [cfr. Streeck e Thelen 2005]. Si tratta di un aspetto molto interessante perché
a questo livello di analisi, si inserisce la professione medica, in quanto principale
soggetto destinatario dei contenuti e dell’implementazione delle riforme sanitarie
direttamente sul campo. Il desiderio di capire le vicissitudini a cui una norma è
sottoposta e la capacità che la professione medica ha di influire sul suo percorso,
necessita di analizzare quali sono le condizioni istituzionali che permettono alla
professione
di
intervenire
nel
processo
di
decision-making,
eventualmente
influenzandolo a proprio vantaggio.
È pertanto fondamentale considerare il prezioso contributo della Immergut
[1990], che deriva da una serie di lavori di inizio anni Novanta, nei quali mostrò come
in fase di policy-making, le strutture istituzionali presenti negli assetti politici di ogni
paese possono offrire un insieme di vincoli ed incentivi in maniera diversa a differenti
gruppi sociali, interessi legittimi o attori politici. Infatti, partendo dal comune assunto
che la professione medica rientrasse nella categoria di quei gruppi capaci di controllare
ed influenzare il processo di decision-making, e confrontando il differente percorso
delle riforme intraprese in tre paesi europei, Svezia, Francia e Svizzera, la studiosa
evidenziò come la effettiva possibilità di influire sul processo di policy-making fosse
per lo più ascrivibile alle opportunità e ai vincoli concessi dalle strutture politiche di
quei paesi. Dunque, la Immergut spostò l’attenzione da un approccio di “veto power”,
proprietà di alcuni gruppi particolarmente dotati di risorse, ad uno di “veto point”,
spiegando come il potere di incidere non fosse una caratteristica di determinati gruppi,
ma piuttosto, l’esito di un determinato disegno istituzionale, che appunto, provvede una
2
I “rule makers” sono coloro che disegnano l’stituzione, mentre i “rule takers” sono coloro impegnati ad
implementare quanto previsto dai primi.
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serie di “veto opportunities” lungo il percorso che porta una legge di riforma dalla sua
stesura fino alla sua implementazione.
Questi contributi teorici qui sopra esaminati possono offrire, a mio avviso, uno
strumento esplicativo molto valido per esaminare e comprendere le vicende italiane
relative alla politica sanitaria.
3 - La sanità italiana: la creazione del SSN e le riforme degli ultimi due decenni
Nel corso degli ultimi trent’anni il sistema sanitario italiano ha conosciuto importanti
riforme. Anzitutto, al termine di un lungo processo ventennale, iniziato con la creazione
del Ministero della Sanità nel 1958, nacque il Servizio Sanitario Nazionale italiano,
istituito con la legge 833/1978. Esso si ispirò fin da subito ai principi costitutivi del
National Health Service inglese, e come quest’ultimo ha conservato i pilastri ideali
fondanti, sui quali poggia ancora oggi: responsabilità pubblica della tutela della salute;
universalità ed equità di accesso ai servizi sanitari; globalità di copertura in base alle
necessità assistenziali di ciascuno, secondo i livelli essenziali di assistenza, introdotti in
seguito con la legge 502/1992; finanziamento pubblico attraverso fiscalità generale;
portabilità dei diritti di cura su tutto il territorio nazionale.
Il legislatore intese così sostituire il precedente sistema basato prevalentemente
su tutta una serie di ospedali costituiti come enti morali e governati localmente, che
fornivano un servizio pubblico non statale, e su un sistema assicurativo sostenuto da
enti parastatali e mutue private di stampo corporativo. A seguito dell’istituzione del
SSN, lo Stato divenne l’attore centrale del sistema sanitario, definendo l’onere
finanziario per coprire le spese, le linee essenziali, la modalità e l’entità dell’offerta di
servizio sanitario, nonché le leggi quadro a cui le Regioni avrebbero dovuto aderire; a
queste ultime, pur con un’autonomia ben limitata, venne affidata le gestione delle Usl,
istituite allo scopo di integrare le attività ospedaliere con quelle di controllo e
prevenzione sul territorio [Cesana 2005].
Nel decennio successivo, appena pochi anni dopo la sua creazione, però, lo Stato
riconobbe di non disporre di risorse sufficienti per sostenere un tale sistema connotato
da una marcata vocazione universalistica e solidaristica, mostrando anche tutta una serie
di problemi di natura istituzionale ed organizzativa. Le difficoltà finanziarie erano
dovute sia alla crescita costante della domanda di prestazioni, sia al fatto che i gestori
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del Servizio Sanitario avevano pochi incentivi a controllare la spesa, oltre alla scarsità di
strumenti di controllo di cui lo Stato disponeva. A ciò si aggiunga che i dirigenti del
SSN erano di nomina politica3 e pertanto preoccupati a rispondere alle dinamiche di
partito più che alle esigenze di bilancio e di efficienza del sistema stesso [Cesana 2005].
In definitiva, come documentato da diversi studiosi, tra cui Maino [2001, 79-80]:
“Le anomalie divenute più visibili con il passare degli anni hanno
riguardato vari aspetti: l’assunzione di responsabilità gestionali da parte
del livello politico, il basso livello di efficienza degli organismi
rappresentativi delle Usl, il basso livello di capacità tecnico-gestionali
da parte degli operatori. A questo si deve aggiungere un intenso
sfruttamento della politica sanitaria a fini di consenso da parte dei
partiti politici”.
Tutto questo contribuì a generare in breve uno spaventoso volume di debito, che
tanto sarebbe stato ripianato dallo Stato centrale. Nonostante questo evidente
malfunzionamento, durante tutti gli anni Ottanta i governi non riuscirono a produrre
nessuna modifica, fatte salve alcune misure tese a razionalizzare la spesa, che però
venivano subito ammorbidite o addirittura abrogate [cfr. Maino 2001, pg 184], con i
partiti che cercavano di scaricare, o quanto meno condividere, le responsabilità delle
politiche restrittive sul governo e sulla rigidità dei vincoli europei, in un oculato
tentativo di “blame avoidance” [cf. Weaver 1986].
Nel corso dei due decenni successivi, invece, hanno avuto luogo importanti
interventi legislativi in campo sanitario, e possiamo riconoscere due fasi fondamentali,
caratterizzate da un notevole spirito riformatore. La prima fase, corrispondente grosso
modo a tutti gli anni Novanta, si caratterizzava per le grandi riforme strutturali, in cui
hanno trovato spazio le riforme De Lorenzo e Garavaglia del biennio 1992-93 nonché la
riforma ter del 1999, e che possiamo ritenere concluso con l’approvazione della riforma
della Costituzione del 2001, con cui si sanciva costituzionalmente il ruolo delle regioni
in campo sanitario. La seconda fase, poi, si estende nel corso del decennio corrente ed è
3
Come ricorda Maino “...è da segnalare il processo di politicizzazione delle Usl. Queste strutture hanno
rappresentato per anni dei veri e propri centri di potere...Le Usl sono stati avamposti per l’acquisizione
del consenso prima ancora che...strutture per l’erogazione di servizi [Maino 2001, 82].
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connotata, almeno fino ad ora, per lo più da adattamenti, precisazioni, correttivi anche
importanti ma prevalentemente orientati verso aspetti più settoriali e specifici delle
riforme precedenti.
L’inizio degli anni Novanta si segnalava per una svolta in senso aziendalista
della sanità e per una riconcettualizzazione della governance dell’intero sistema, ancora
una volta su ispirazione dell’esperienza inglese del governo Thatcher; la riforma operata
dal Ministro della Sanità De Lorenzo con il decreto legislativo 502/1992, era resa
possibile grazie alle tumultuose vicende in corso nello stesso anno, caratterizzate da
importanti fattori di contesto sia di natura economica che politica: da un lato,
l’emergenza economica che vedeva concentrarsi nello stesso periodo il crollo dei
mercati finanziari, la pesante svalutazione della lira, che il 17 settembre 1992 usciva
dallo SME, e il rigore finanziario richiesto per adeguarsi ai vincoli economici imposti
dall’Unione Europea; dall’altro, il terremoto suscitato da “Tangentopoli”, che avrebbe
di li a poco spazzato via i più importanti partiti tradizionali, e l’emergere di un nuovo
movimento politico, la “Lega Nord”, espressione di istanze federaliste e di
redistribuzione dei poteri tra i vari livelli di governo, che avrebbero assunto una
centralità via via crescente nel dibattito politico. Tale circostanza politica contribuiva in
maniera determinante ad indebolire gli ambiti di “veto-point” sfruttati precedentemente
dai partiti politici [cf. Immergut 1990], e permise all’allora governo Amato di ottenere
dal Parlamento un ampio potere di delega su sanità, pubblico impiego e previdenza,
potendo così intervenire nei settori più critici per la politica di bilancio nazionale.
All’interno di questa ri-organizzazione lo Stato manteneva la funzione di
individuare e garantire i cosiddetti Livelli essenziali di assistenza, nonché quella di
principale finanziatore del sistema sanitario attraverso la fiscalità generale, mentre le
Regioni rafforzavano il loro ruolo in termini di programmazione, finanziamento,
organizzazione, funzionamento e controllo delle attività. Per ovviare ai problemi
finanziari, con le leggi 421/1992, 502/1992 e 516/1993, si introdussero i cosiddetti
“ticket” e cioè una forma di partecipazione alla spesa sanitaria richiesta direttamente ai
cittadini in base ai servizi richiesti; il decreto 502/1992 aveva introdotto anche una tassa
sulla medicina di base che veniva successivamente abolita dalla finanziaria per il 1994,
sia per le forti opposizioni suscitate sia per l’elevato tasso di evasione raggiunto; i
politici venivano sostituiti da tecnici, pur sempre di nomina politica, a cui vennero
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affidati le responsabilità amministrative di Asl ed ospedali, sempre sotto la supervisione
dello Stato centrale; ad ospedali ed Asl, che presero da allora il posto delle Usl, furono
attribuiti dei tetti di spesa e le prestazioni sarebbero state rimborsate secondo il
meccanismo dei DRG, che sostituì il precedente pagamento a pie di lista.
Tuttavia, in fase di implementazione, la riforma non riusciva a trovare quella
condivisione necessaria e procedeva con lentezza ed incertezza, anche per i numerosi e
rilevanti nodi irrisolti, inerenti la definizione della concorrenza tra i fornitori di
prestazioni sanitarie, la definizione dei rapporti tra centro e periferia, a cui avevano
contribuito le diverse e contrastanti formulazioni circa le relazioni tra i principali attori
del sistema, e cioè stato, regioni e aziende sanitarie, previste dalle leggi finanziarie tra il
1994 e il 1998, con le regioni che vedevano aumentare la loro responsabilità ma non
l’autonomia finanziaria, e infine la responsabilità economica del ripianamento dei debiti
contratti dalle ex-Usl. In questo contesto, nel 1998 il governo di centro-sinistra, che due
anni prima aveva vinto le elezioni, dava la delega al Ministro Bindi per presentare un
progetto d riforma del sistema sanitario e che culminava con la promulgazione della
riforma ter, decreto legislativo 229/1999, che per certi versi aveva un’impostazione di
fondo più simile alla 833/1978 che ai decreti di inizio anni Novanta [Maino 2001]. Essa
si orientava verso un modello sanitario integrato, in base a cui il finanziatore è anche
fornitore di prestazioni sanitarie e la loro attività è regolata da una catena di comando e
di controllo interna4. Riconduceva la gestione degli ospedali alle Asl, eccetto che per
alcuni di livello nazionale; consentiva lo sviluppo del sistema di assicurazioni private
ma con il vincolo di utilizzarle solo presso gli ospedali pubblici e quelli accreditati;
definiva il criterio dell’accreditamento sulla base di un volume prefissato
dall’amministrazione pubblica nei limiti del fabbisogno regionale di assistenza, come
previsto dalla programmazione, anziché sulla base di requisiti di qualità; rafforzava
l’autonomia delle Regioni, a cui venivano riconosciute le funzioni di concorrere alla
definizione del Piano sanitario nazionale e del fabbisogno complessivo del SSN; infine
regolava l’attività privata dei medici dipendenti degli ospedali pubblici.
Volgendo ora l’attenzione alla professione medica è da notare che in questi anni
si sono susseguite una serie di normative, legate al processo di ristrutturazione del SSN
ma direttamente rivolte alla professione medica, aventi per oggetto fondamentalmente
4
Questo modello si contrappone a quello “contrattuale”, nel quale i due soggetti, fornitori e finanziatori,
sono separati tra di loro e i loro rapporti sono regolati per mezzo di contratti.
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l’inquadramento professionale, l’esercizio della libera professione e il regime di
esclusività, e che esaminerò nelle prossime pagine.
4 - Inquadramento nella dirigenza pubblica e ruolo unico
Il processo di creazione della dirigenza nel settore sanitario ha ricevuto un’importante
sollecitazione sia dalla necessità di introdurre il principio di separazione delle attività
indirizzo da quelle gestionali, sia per rendere effettivo il modello di ispirazione
imprenditoriale ed aziendale che andava caratterizzando la riforma del Servizio
Sanitario Nazionale, come disegnato dall’allora Ministro della Sanità De Lorenzo nei
primi anni Novanta.
Il decreto legislativo 502/1992, dando attuazione alla legge delega 421/1992,
definiva l’organizzazione delle Aziende sanitarie locali e dettava le norme in materia di
nomina, revoca, requisiti ed attribuzioni del personale dirigenziale, che di fatto creava
per la prima volta, dal momento che simili figure professionali non erano rintracciabili
nelle precedenti Unità sanitarie locali [cf. Carinci 2004]. Oltre ad istituire un dirigente
generale, un dirigente amministrativo ed un dirigente sanitario, il decreto legislativo
inquadrava anche i medici ospedalieri nel comparto della dirigenza pubblica, e quindi
aboliva le vecchie dizioni di “primario”, “aiuto” e “assistente” e sostituiva i precedenti
ruoli con due livelli, entrambi di natura dirigenziale: il primo livello corrispondeva agli
“ex-aiuti” e il secondo corrispondeva agli “ex-primari”. Con questa novità si intendeva
superare il modello rigidamente gerarchico che, previsto precedentemente, tendeva a
concentrare il potere decisionale nella sola figura del primario di reparto. La sostanza di
questa riforma veniva confermata, poi, dal decreto legislativo 229/1999, nota come
legge Bindi (o, anche, riforma ter), il quale istituiva il ruolo unico5 distinto per profili
professionali e caratterizzato da un unico livello articolato in relazione alle diverse
responsabilità professionali e gestionali.
5
L’art. 15 del decreto legislativo 229/1999 precisa che la “dirigenza sanitaria è collocata in un unico
ruolo, distinto per profili professionali, ed in un unico livello, articolato in relazione alle diverse
responsabilità professionali e gestionali”; inoltre, stabilisce che i criteri generali relativi all’individuazione
delle funzioni dirigenziali, nonché della loro assegnazione, verifica e valutazione, e del relativo
trattamento economico sono lasciati alla contrattazione collettiva. Al dirigente possono essere attribuiti
incarichi di struttura semplice o di struttura complessa, dove per struttura si intende l’articolazione
organizzativa per la quale il dirigente ha una responsabilità di gestione di risorse umane, tecniche o
finanziarie; per struttura complessa si intendono i dipartimenti e le strutture affidate ai dirigenti di
secondo livello.
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A seguito di queste novità il primario diventava una sorta di primus inter pares,
il cui compito, sottoposto a valutazione, aveva il carattere della durata limitata. In
quest’ottica, l’equipe medica diventava un insieme di professionisti in cui ciascuno
godeva di una certa autonomia e che veniva diretta dal primario, ribattezzato direttore di
struttura complessa, e nominato direttamente dal direttore generale dell’azienda
ospedaliera. Nello specifico la legge Bindi prevedeva che ogni dirigente fosse dotato di
un’autonomia tecnico-professionale progressivamente crescente, con spazi di autonomia
professionale sin dalla prima assunzione, mentre il direttore di struttura complessa
sarebbe stato quella figura che dirige ed organizza l’equipe a lui affidata, assumendone
la responsabilità dell’efficace ed efficiente gestione delle risorse.
Dopo qualche anno dalla sua introduzione, restano tuttavia aperte alcune criticità.
Anzitutto, quella relativa alla nomina diretta del primario da parte del direttore generale,
originariamente ideata per correggere il rischio di concorsi truccati per la sua scelta, ma
che da un lato non risolve i pericoli di arbitrarietà del dirigente, anche perché
difficilmente sarà chiamato a rispondere di tale scelta, e dall’altro, rischia di generare un
meccanismo perverso di dipendenza dal potere centrale, o comunque di poca
trasparenza. Ma la critica forse più accorata riguarda il fatto che il nuovo inquadramento
non avrebbe rivalutato la situazione dei medici e che l’unico vero dirigente resterebbe il
primario, dal momento che egli può facilmente avocare a sé ogni decisione delegando
agli altri colleghi soltanto compiti prevalentemente burocratici, così come avrebbe
conservato un elevato margine di discrezionalità nell’attribuzione degli incarichi
dirigenziali, che in teoria dovrebbe limitarsi a proporre, ma che di fatto determinerebbe.
In definitiva, come viene notato acutamente da Picchione [2004]:
“...la relativa autonomia professionale nata con la dirigenza medica non
trova...effettiva realizzazione e lascia spesso i medici non apicali nelle
precedenti condizioni pur ponendo su di loro nuovi oneri...La dirigenza
medica è nata in un contesto idoneo a creare una cascata gerarchica
meno palese ma non meno rigida della precedente finendo con affidare
ai medici non primari compiti, rischi, responsabilità senza una correlata
autonomia professionale”.
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Alla difficile realizzazione di una moderna dirigenza medica contribuiscono un
insieme di fattori: affidare al solo primario la responsabilità del budget lo legittima di
fatto ad avere il diritto esclusivo delle decisioni; inoltre, gli incarichi dirigenziali sono
inferiori al numero dei dirigenti disponibili ed alcuni sono puramente formali; infine,
sopravvive una mentalità marcatamente gerarchica, non ovviata, bensì accentuata dalla
riforma in senso aziendale, che esige un ordinamento gerarchico che tenga sotto
controllo la produttività e la sostenibilità economica dell’intero sistema.
5 - La libera professione e l’esclusività
Nelle prossime pagine analizzerò uno degli istituti più controversi introdotti dalla
riforma Bindi nel 1999, inerenti la modalità di esercizio della libera professione: l’intramoenia e, soprattutto, l’esclusività. La complessità dell’argomento richiede di
suddividere la trattazione in tre parti, per una migliore comprensione: nella prima,
presenterò l’istituto con lo scopo di spiegare in che cosa esso consiste e che cosa esso
preveda; nella seconda parte, approfondirò lo stato di attuazione della riforma Bindi
nella parte relativa all’intra-moenia; infine, nell’ultima parte, esaminerò le critiche
rivolte alla riforma Bindi e le successive modifiche apportate all’istituto dell’esclusività.
5.1 - Intra-moenia ed extra-moenia: come cambia la libera professione
La distinzione nell’esercizio della libera professione tra regime intramurario e regime
extramurario, e la norma dell’incompatibilità ed esclusività ad esso associata,
piombarono bruscamente sul panorama sanitario italiano, segnando un marcato
spartiacque con la situazione fino a quel momento esistente. La gravità percepita sulla
novità introdotta è ben testimoniata da un articolo ad opera di De Bac [1996], apparso
su una delle maggiori testate giornalistiche nazionali:
“Incompatibilità, una parola che sta irritando la maggior parte dei
medici italiani. I centomila dipendenti col camice bianco (compresi
biologi, veterinari e farmacisti) che ricevono lo stipendio dal sistema
sanitario nazionale, sono infatti davanti a una svolta determinante per la
carriera e i guadagni. In tempi rapidi dovranno scegliere dove svolgere
la libera professione. Se all' interno della struttura dove lavorano o negli
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studi privati... E adesso sul futuro della sanità si materializzano scenari
apocalittici”.
I due regimi si intendevano differenziare proprio sulla base del luogo fisico in
cui la libera professione si sarebbe svolta, nonché sulle modalità e le entità di
pagamento. Nell’intramoenia, il medico avrebbe esercitato la sua libera professione
nell’azienda ospedaliera nella quale egli prestava servizio, utilizzandone le strutture,
oppure presso gli ambulatori pubblici o privati-accreditati, e avrebbe concordato il suo
onorario con il direttore sanitario dell’Asl, a cui avrebbe devoluto parte del suo introito,
a parziale copertura dell’utilizzo delle strutture pubbliche. In caso di attività
extramuraria, invece, il medico avrebbe utilizzato strutture o studi privati, e l’intervallo
massimo e minimo del suo onorario sarebbe stato stabilito dall’ordine professionale di
appartenenza.
La finanziaria per il 1997, legge 662/1996, fu la prima a esplicitare tale
differenza e porre un vincolo di incompatibilità per quei dipendenti che avessero deciso
di dedicarsi a tempo pieno al servizio “pubblico”, comprendendovi anche l’attività di
libera professione in regime intra-murario, con qualsiasi altra attività libero
professionale 6 : in sostanza, si voleva che la figura del medico “pubblico” fosse
incompatibile con quella di libero professionista, a meno che tale attività fosse svolta
all’interno dell’ospedale, eliminando così la possibilità di collaborazioni esterne,
consulenze cliniche, visite a domicilio. Tale incompatibilità imposta ai medici che
operavano nel Sistema Sanitario Nazionale prevedeva effetti diretti sia sulla possibilità
di guadagno, dal momento che i medici che avessero optato per l’extramoenia
avrebbero avuto una decurtazione del 15% del loro stipendio, sia sulla possibilità di
carriera dei medici stessi all’interno del settore pubblico.
Nell’imporre al dipendente pubblico l’obbligo di prestare il proprio lavoro in
regime di incompatibilità con altre attività eventualmente in concorrenza con l’azienda
da cui dipendeva, la legge perseguiva anzitutto lo scopo di rafforzare l’azienda pubblica
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Come precisato dalla legge 662/1996, art. 1, comma 5: “l'opzione per l'esercizio della libera professione
intramuraria da parte del personale dipendente del Servizio sanitario nazionale da espletare dopo aver
assolto al debito orario, è incompatibile con l'esercizio di attività libero professionale. L'attività libero
professionale da parte dei soggetti che hanno optato per la libera professione extramuraria non può
comunque essere svolta presso le strutture sanitarie pubbliche, diverse da quella di appartenenza, o presso
le strutture sanitarie private accreditate, anche parzialmente”.
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all’interno di un sistema che le riforme di pochi anni prima, in particolare il decreto
legislativo 502/1992, avevano disegnato con un assetto maggiormente competitivo e
integrato7, composto da una pluralità di attori pubblici, privati e non-profit.
Inoltre, il legislatore riteneva urgente porre un minimo di ordine e di trasparenza
all’interno del Servizio Sanitario Nazionale, cercando di ovviare a che le liste di attesa a
cui i pazienti erano soggetti, si gonfiassero in maniera perversa e “dolosa”, nel tentativo
di costringere i cittadini a seguire i propri medici nella sanità privata, che veniva
presentata come più veloce ed efficace, ma che era anche più costosa.
Successivamente, il decreto legislativo 229/1999, all’interno di un più ampio
progetto di riforma precedentemente descritto, e integrando il precedente decreto
legislativo 502/1992, modificava la disciplina relativa alla dirigenza sanitaria e non solo
riaffermava a sua volta il principio di incompatibilità, ma addirittura lo superava
introducendo per la prima volta il principio di esclusività del rapporto di lavoro
dirigenziale,
il
quale
comportava
il
divieto
dell’attività
libero-professionale
extramuraria, consentendo solo l’esercizio in regime d’intra-moenia, e impediva al
dirigente sanitario con rapporto di lavoro esclusivo di chiedere il passaggio al rapporto
di lavoro non esclusivo. La legge vincolava, inoltre, l’assegnazione degli incarichi di
direzione di struttura semplice o complessa solo al dirigente che fosse in rapporto di
lavoro esclusivo.
Con questa riforma, le intenzioni dichiarate erano quelle di generare benefici
all’intero sistema nel suo complesso: da un lato, il legislatore intendeva migliorare il
servizio offerto ai cittadini, in particolare attraverso la riduzione delle liste di attesa e la
possibilità di scegliere uno specialista di fiducia; dall’altro, mettendo a disposizione le
strutture delle aziende ospedaliere, intendeva valorizzare le professionalità dei medici;
infine, tentava di creare un nuovo canale di entrate per le aziende sanitarie, attraverso
un’ottimizzazione delle risorse a disposizione.
Dal punto di vista organizzativo la legge prevedeva che l’attività libero
professionale non potesse comportare un volume di prestazioni maggiore a quello
garantito per lo svolgimento delle mansioni istituzionali, con l’intento di bilanciare le
due attività e mantenere sotto controllo le liste di attesa. In attesa che venissero
7
Come esplicitato dalla circolare del Ministero della Sanità risalente all’Aprile 1997, intitolata “Attività
libero-professionale e incompatibilità del personale della dirigenza sanitaria del Servizio sanitario
nazionale”.
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realizzate le strutture idonee, che prevedessero anche spazi distinti per l’esercizio
dell’attività intramuraria ambulatoriale e in regime di ricovero, i dirigenti generali
avevano il compito di reperire degli spazi all’esterno delle aziende ospedaliere, o anche
di autorizzare l’utilizzo di studi professionali privati, realizzando in questo modo la
cosiddetta intramoenia “allargata”.
5.2 - Lo stato di attuazione della riforma Bindi
L’Indagine conoscitiva sullo stato di attuazione di riforma8 presentato nel Febbraio del
2003, evidenziava che il 90% dei medici e la pressoché totalità degli altri dirigenti del
ruolo sanitario (farmacisti biologi, fisici, etc...) avevano optato per il rapporto esclusivo
con Il SSN, il quale, tra l’altro, era particolarmente vantaggioso per coloro che già
svolgevano poca attività libero professionale, o addirittura nessuna, dal momento che si
vedevano aumentare lo stipendio senza offrire in cambio un aumento di prestazione
lavorativa. Il rapporto sottolineava, altresì, che l’intramoenia ambulatoriale aveva avuto
una maggiore diffusione rispetto a quella in regime di ricovero, e che l’intramoenia
allargata aveva avuto particolare sviluppo nel meridione, mentre nelle regioni
settentrionali si era diffusa la forma dell’intramoenia propriamente detta. Il regime di
intramoenia allargata poneva evidentemente molti interrogativi: diventava difficile per
le Asl controllare l’attività di quei medici, con il sospetto che taluni esercitassero senza
poi fatturare le prestazioni, sospetto tra l’altro alimentato anche dalle deludenti entrate
derivanti dall’attività intramuraria; alcuni facevano altresì notare che il professionista in
regime di intramoenia allargata non godeva di particolari benefici fiscali riconosciuti
invece ai privati, come l’assenza della partita Iva che non consente loro di detrarre parte
dei costi sostenuti.
Due ultime osservazioni sono interessanti. La prima riguarda il fatto che la
possibilità da parte dell’azienda pubblica di acquistare dai suoi dipendenti prestazioni in
regime intramurario si era rivelato pressoché impraticabile per la mancanza di fondi.
L’altra è relativa al notevole ritardo dello stato di avanzamento dei lavori di
adeguamento delle strutture; dai dati relativi all’utilizzo dei fondi, messi a disposizione
all’uopo, emergeva che alla data del 19 Febbraio 2003, su una somma complessiva di
930 milioni di euro stanziati, erano stati ammessi dei piani di adeguamento pari a poco
8
L’“Indagine conoscitiva sullo stato di attuazione della normativa sull’esercizio della libera professione
medica intramuraria. Proposta di documento conclusivo” si trova al sito www.libertamedica.it/att59.html
14
più di 100 milioni di euro, con un utilizzo di appena l’11% del totale delle risorse
stanziate.
L’Indagine conoscitiva sullo stato di attuazione della riforma relativa
all’intramoenia presentata al Ministro Sirchia nel Febbraio 2003, concludeva che
“i risultati attesi sono ancora molto lontani dall'essere raggiunti, anche
in considerazione del fatto che in molte aree del Paese l'attuazione
dell'istituto è ancora all'«anno zero», a causa della complessità degli
investimenti e delle procedure necessarie per garantire le condizioni di
base all'esercizio dell'attività intramuraria e, in alcuni casi, come
sostenuto da alcuni dei soggetti auditi, per resistenze culturali da parte
dei vertici delle ASL”.
In particolare, allora, ma anche oggi a distanza di cinque anni, tre aspetti
parevano molto critici. Anzitutto l’obiettivo di ridurre le liste di attesa non era stato
centrato, perché le Asl non erano riuscite ad organizzarsi per assicurare l’erogazione in
tempi ragionevoli delle prestazioni, costringendo il paziente a rivolgersi al libero
professionista, che veniva considerato più che un’opportunità un obbligo, gravato da un
costo maggiorato, per ottenere in tempi più rapidi quanto avrebbe dovuto ricevere
gratuitamente. Venendosi a creare una doppia lista di attesa, una istituzionale e l’altra a
pagamento, aumentava la percezione di una disparità di trattamento tra pazienti
privilegiati e non.
In secondo luogo, una serie di mancanze contribuiva a rendere l’istituto poco
trasparente: la mancata creazione di luoghi separati, compresi gli sportelli di
prenotazione, adibiti alle attività di intramoenia, così come l’assenza di un elenco dei
medici e delle tariffe applicate alle prestazioni.
Ma i dati più sconcertanti riguardavano quelli relativi ai costi e alle entrate della
riforma; l’Indagine conoscitiva sullo stato di attuazione della riforma mostrava che a
fronte di un esborso ammontante a circa 3 mila miliardi di lire lorde, corrispondenti alle
indennità di rapporto esclusivo, le aziende erano state capaci di recuperare appena 180
miliardi di lire attraverso le attività libero professionali intramurarie, e cioè appena il
6% delle spese, sollevando da più parti interrogativi sull’utilizzo delle risorse pubbliche.
15
5.3 - Critiche e successive modifiche alla riforma Bindi
La normativa relativa all’esclusività del rapporto di lavoro non aveva vita semplice e
subiva una serie di critiche e di successive modifiche. Un primo scossone a questo
pilastro della riforma Bindi, arrivava dal Tar del Lazio che dichiarava l’obbligo di scelta
per i medici universitari tra attività intramoenia o extramoenia in contraddizione con la
Costituzione, sollevando una discussione animata sulla tenuta della legge. Per di più, il
Ministro Veronesi, che aveva sostituito la Bindi nel 2000, aveva ben presto sollevato
alcune obiezioni sulla possibilità di attuare la riforma, in particolare per la mancanza di
strutture adeguate negli ospedali, che sole avrebbero potuto garantire una reale
possibilità di libera opzione. Infatti, al suo primo discorso pubblico, il neo-ministro
dichiarava che
“è stato un errore imporre quella scelta prima che le fossero pronte le
strutture...ci sono difficoltà obiettive per dare attuazione pratica
all’extra-moenia”9.
Veronesi, pertanto, incaricava subito una commissione di trovare soluzioni in
tempi rapidi, tuttavia la tornata elettorale del 2001 portava al governo la coalizione di
centro-destra presieduta da Berlusconi, e con essa era nell’aria una nuova riforma
sanitaria, come enunciato nel programma elettorale. In realtà, il nuovo Ministro della
Salute Girolamo Sirchia, anziché rivoluzionare l’assetto del decreto legislativo
229/1999, rimetteva mano alla riforma Bindi con la legge 138/2004, e pur mantenendo
fissa la distinzione tra prestazione in regime intramurario ed extramurario, ne
modificava profondamente la sostanza. Da un lato, concedeva ai medici un diritto di
reversibilità, in base a cui ogni anno i professionisti potevano rinnovare l’opzione di
esclusività oppure scegliere il regime di extra-moenia. Un impatto particolarmente
significativo di questa novità si poteva riscontrare sul processo di programmazione
sanitaria, dal momento che ogni anno l’Azienda avrebbe dovuto tenere in
considerazione le eventuali variazioni dell’organico disponibile conseguenti a tale
diritto di opzione. Dall’altro, il nuovo testo di legge eliminava quella parte relativa alla
carriera, che secondo la riforma Bindi, precludeva la direzione di strutture semplici e
9
Come ripreso da De Bac in un articolo apparso sul Corriere della Sera dell’11 maggio 2000, a pagina 3.
16
complesse a quei medici che non avessero scelto il rapporto di lavoro esclusivo con
l’azienda sanitaria.
Le elezioni del 2006, poi, premiavano la coalizione di centro-sinistra e l’On.
Turco, diventata Ministro della Salute, prometteva di rimettere mano al testo di legge
emanato dalla precedente legislatura, anche perché si trovava a dover gestire l’ennesima
proroga riconosciuta alle Regioni per ottemperare a quegli adeguamenti delle strutture
necessari per il pieno avvio della riforma Bindi, e così per il superamento della
cosiddetta intramoenia allargata. A inizio Agosto 2007, proprio in concomitanza con la
scadenza di quest’ultimo istituto, il Parlamento approvava la legge 120/2007, con cui si
estendeva la proroga per altri diciotto mesi alle Regioni, fino al 1 Gennaio 2009, al fine
di attrezzarsi e fare in modo che, scaduto tale tempo, l’intramoenia venisse svolta
esclusivamente nelle strutture pubbliche. Per quanto riguarda il capitolo dell’esclusiva,
la legge Turco imponeva l’obbligo del rapporto esclusivo ai dirigenti di struttura
complessa, ancora comunemente chiamati primari, da intendersi per tutta la durata
dell’incarico; ai dirigenti di struttura semplice veniva imposto l’obbligo di esclusiva
solo in caso di strutture con particolari caratteristiche di complessità; mentre, a tutti gli
altri medici era fatta salva la facoltà di opzione annuale.
La caduta del governo Prodi e la successiva recente vittoria del PdL guidato da
Berlusconi hanno segnato un avvicendamento al Ministero della salute che, accorpato in
un unico Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali10, è stato assunto da
Sacconi, che, rivolgendosi ai medici riuniti a Fiuggi per la prima conferenza nazionale
sulla professione organizzata dalla Fnomceo il 13 Giugno scorso, ha precisato che le
regole relative all’intra-moenia sono troppo rigide e necessitano una revisione, e che
inoltre sarà molto difficile rispettare la scadenza del 1 Gennaio 2009, fissata dalla legge
Turco. Il Ministro ha, quindi, fatto intendere di avere in mente di imboccare una terza
via, differente da quella delle deroghe intrapresa fino ad oggi, ma anche ben lungi da un
ritorno al passato.
In mezzo a questi flussi e riflussi normativi, la posizione dei medici non è stata
precisamente unitaria. In particolare, le organizzazioni sindacali sono state
sostanzialmente favorevoli tanto alla riforma Bindi quanto alla legge Turco,
considerando invece negativamente le correzioni apportate da Sirchia nel 2004; esse
10
In attuazione da quanto previsto dalla Legge Finanziaria per il 2008, legge 244/2007, art. 1, comma 376.
17
hanno sempre chiesto un’applicazione delle norme relative all’intramoenia e al regime
di esclusività, intendendo tutelare la sanità pubblica statale e quei professionisti che
decidono di operare solamente nelle strutture pubbliche.
Altre associazioni, invece, hanno contestato l’istituto intramurario e soprattutto
la riduzione e la svalorizzazione della categoria alla stregua di una dirigenza
impiegatizia, caratterizzata da un lato da pochi incentivi professionali, umani ed
economici, ma dall’altro da un aumento di carichi burocratici, con conseguente
riduzione di libertà e capacità di iniziativa, sempre più soggetta alle esigenze
economiche più che a quelle cliniche. Alcuni hanno altresì deplorato un indebito
tentativo di attribuire alla professione le responsabilità dei mali che affliggono il sistema
sanitario nazionale, come emergerebbe dall’insieme di sanzioni economiche e di
carriera previste da diverse norme nei confronti dei medici.
6 - Conclusioni e ipotesi per un’analisi futura
Il paper ha inteso offrire una ricostruzione degli interventi legislativi che hanno
impattato sulla professione medica italiana. Prima di procedere a un tentativo
esplicativo di quanto accaduto, vorrei proporre tre osservazioni relative all’analisi
presentata.
Anzitutto le riforme relative alla professione medica vengono meglio comprese
se contestualizzate all’interno delle più ampie riforme che hanno interessato il settore
sanitario: in questo senso la nascita e lo sviluppo della dirigenza medica sono facilmente
collegabili al parallelo orientamento aziendalista che connotava lo spirito delle riforme
del biennio 1992-93, ad opera dei Ministri della Sanità De Lorenzo prima e Garavaglia
poi. L’introduzione dell’esclusività, invece, si colloca nel processo di rilancio del ruolo
statale nella sanità pubblica, così come concepito dalla riforma Bindi, mentre la
correzione in direzione opzionale effettuata dal Ministro Sirchia nel 2004
corrisponderebbe a una diversa visione del rapporto tra statale e privato, o non-profit.
La seconda osservazione riguarda il fatto che i contenuti delle riforme hanno
riflettuto tanto le ideologie degli schieramenti che le hanno promulgate ed implementate,
quanto uno spirito di emulazione rispetto a quanto avveniva negli altri paesi occidentali.
Nel primo caso è evidente che mentre i governi di centro-sinistra hanno voluto
concentrarsi sul ruolo dello stato nel SSN, e ne hanno così disegnato l’intra-moenia e
18
l’esclusività, pilastri della riforma del 1999 quando erano al governo, i governi di
centro-destra hanno sostenuto una idea di SSN caratterizzato dalla maggior presenza di
meccanismi di mercato e libera scelta. Nonostante l’ampia maggioranza, tuttavia, il
governo Berlusconi in carica dal 2001 al 2006, ha rinunciato ad implementare una sua
riforma, limitandosi alla promulgazione della legge Sirchia, con cui si è confermato
l’istituto
dell’intra-moenia,
ma
si
è
modificato
sostanzialmente
l’esercizio
dell’esclusività. Pertanto, l’alternanza degli schieramenti al governo, ha prodotto una
fase altalenante, durante la quale alla riforma Bindi (1999) è seguita la legge Sirchia
(2004), che ne modificava un aspetto fondamentale, a cui a sua volta è seguita la legge
Turco (2007), che modificava le modifiche apportate tre anni prima, con un
orientamento maggiormente vicino allo spirito della riforma Bindi. Lo spirito di
emulazione è, invece, particolarmente evidente nella prima fase delle riforme,
coincidente con il decreto legislativo 502/1992, che infatti riprendeva molti concetti e
ideali implementati nel Regno Unito negli stessi anni. L’introduzione dei meccanismi di
mercato e della dirigenza nella sanità, e tra questa anche quella medica, ne sono un
esempio.
Infine, vorrei spendere l’attenzione sulla pratica dell’intra-moenia, in quanto
oggetto di ampi dibattiti sia sull’impatto economico che ha avuto sul SSN, sia sul diritto
all’esercizio della libera professione e la diffusione plebiscitaria dell’istituto, sia sul suo
impatto sulle liste di attesa. Per quanto riguarda il primo punto, l’indagine del 2003, che
ho presentato nel capitolo 4.2, ha mostrato il notevole costo sostenuto in termini di
indennità di esclusività a fronte di un modestissimo ricavo economico derivato dai
proventi delle attività intramurarie. Sui livelli di adesione, un’indagine più recente,
effettuata nel 2006 dalla XII Commissione Igiene e Sanità, presieduta da Ignazio
Marino, ha mostrato come a fronte dell’elevato numero di medici ospedalieri che ha
aderito al rapporto esclusivo, pari a circa il 95% sul totale, solamente il 59% di questi
ultimi pratica effettivamente l’attività di libera professione; ciò implica che la restante
parte percepisce l’indennità di esclusiva come una sorta di aumento di stipendio, per
altro a fronte di nessun incremento di prestazione, contribuendo in questo modo a
sbilanciare il rapporto tra costi e ricavi a discapito di questi ultimi. L’elevata adesione
può essere spiegata oltre che dai dati sopra riportati, anche dalla effettiva convenienza
da parte di quei medici che avrebbero, e avevano prima dell’introduzione del regime di
19
esclusività, un ricavo sostanzialmente marginale dalla loro attività di libera professione,
tale da rendere più vantaggioso scaricare sulla struttura ospedaliera di appartenenza le
responsabilità amministrative e fiscali. Fedeli alla libera professione extramuraria si
collocano quei medici i cui ricavi da tale attività sono decisamente rilevanti, così da
rendere la perdita dell’indennità di esclusività abbondantemente compensata dai ricavi
dell’extra-moenia. Infine, per quanto riguarda l’impatto dell’intra-moenia sulle liste di
attesa, la stessa indagine della Commissione Igiene e Sanità del 2006 ha rilevato che
esso è stato mediamente privo di qualsiasi effetto, sia negativo o positivo.
A questo punto, pur essendo vero che questa analisi ha avuto per lo più un
intento descrittivo, con lo scopo di ricostruire una serie di fatti e di problematiche in
maniera il più possibile accurata, vale, tuttavia, la pena almeno accennare alle
condizioni che hanno permesso la promulgazione delle riforme descritte. A questo
proposito, risulta utile lo studio delle dinamiche di veto point permesse dall’assetto
istituzionale, tenendo conto anche del fatto che le riforme si sono inserite all’interno di
un processo di region building che ha impattato sull’assetto istituzionale, eventualmente
modificando quei punti di veto.
Per spiegare le condizioni che hanno influenzato le riforme degli ultimi
vent’anni, rendendole talora possibili e talora difficili, se non impraticabili, è opportuno
notare che la professione medica è anzitutto una categoria molto forte, non solo in
quanto gode di una posizione dominante all’interno del sistema sanitario e rispetto agli
altri operatori del sistema stesso, ma anche perché da sempre riesce ad avere una nutrita
rappresentanza tra i parlamentari. Conseguentemente, i camici bianchi italiani hanno
sempre potuto sfruttare una posizione privilegiata nell’ambito del policy-making
relativo alle politiche sanitarie. A questo proposito, Immergut affermava l’importanza di
analizzare le caratteristiche specifiche delle istituzioni politiche per comprendere che
più che di professione dominante, o veto group, si dovrebbe cercare di individuare quei
veto point che l’assetto istituzionale rende possibile ai diversi livelli del processo di
policy-making e che di fatto ne permettono od ostacolano l’iniziativa [cfr. Immergut
1990]. L’analisi qui presentata, ha mostrato il complessivo immobilismo degli anni
Ottanta, causato dal gioco della “patata bollente” dei partiti politici, i quali hanno
cercato di scaricare la responsabilità delle misure correttive sul governo e sulla rigidità
dei parametri europei, nonostante fosse ben evidente la necessità di intervenire per
20
arginare il deficit accumulato dal SSN. Ad inizio anni novanta c’è da registrare la crisi
finanziaria ed economica unita a quella politica nel 1992, e il referendum popolare sul
maggioritario e la seguente legge Mattarella del 1993 che hanno cambiato il sistema
elettorale, favorendo almeno idealmente la governabilità del paese. La crisi del 1992 ha
probabilmente influito sull’approvazione delle leggi De Lorenzo e Garavaglia, che però
hanno incontrato una serie di difficoltà in sede di implementazione; questo fa riflettere
sul fatto che forse le crisi di natura esogena non sono sufficienti per creare un fronte
compatto favorevole al cambiamento. Inoltre, tali condizioni non sono riuscite a vincere
gli ostacoli a livello dell’istituzione sanitaria nel suo complesso, fortemente influenzato
dai medici, nonché quel nuovo livello di veto point creato dalla fumosità sulle
competenze spettanti allo stato e quelle spettanti alle regioni, chiamate in causa ad
implementare nei fatti le riforme con una accresciuta responsabilità amministrativa,
politica ed economica. Quindi, si potrebbe dedurre che tra i motivi che rendevano
necessario intervenire pochi anni dopo i decreti di riordino con un’altra riforma, ci sia il
loro fallimento causato, oltre che dall’ostilità dei camici bianchi all’interno del settore
sanitario, aspetto tutt’altro che secondario, anche da uno spostamento del veto point
dall’arena parlamentare a quella del rapporto tra stato e regioni. L’esperienza della
legge Sirchia sembrerebbe, comunque, non consentire di escludere che il meccanismo di
veto esercitato nell’arena parlamentare sia tutt’altro che definitivamente eliminato, dal
momento che nonostante il programma elettorale della Casa delle Libertà nel 2001
prevedesse la cancellazione della riforma Bindi con un’ulteriore riforma della sanità,
questa non ha mai visto la luce e al suo posto c’è stata una semplice, per quanto
sostanziale, modifica di una parte della riforma Bindi, quella dell’esclusività. Semmai,
si potrebbe concludere che il panorama istituzionale si è arricchito di un’ulteriore livello
di veto point: oltre a quello presente nell’arena parlamentare, causato da una costante
frammentarietà partitica e da governi formati da coalizioni eterogenee, si sarebbe
aggiunto anche quello presente a livello di rapporto tra stato e regioni. Si tenga presente
che la riforma Bindi segue temporalmente la riforma Bassanini, con cui a partire dal
1997 si riformava l’assetto istituzionale in favore di un maggior decentramento che
assegnava più potere alle regioni e agli enti locali, e che poi sarebbe stato sancito dalla
riforma costituzionale nel 2001. La continua eterogeneità delle coalizioni di governo,
particolarmente evidente nell’ultimo governo Prodi, e l’avanzamento del ruolo delle
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regioni in campo sanitario, in quest’ottica di region building, possono offrire un duplice
livello di veto point e, così, una parziale spiegazione sul perché il Duemila sia stato
avaro di riforme strutturali in campo sanitario e ci si sia limitati ad un paio di modifiche
relative all’esclusività e ad una serie di proroghe relative al termine ultimo
dell’adeguamento delle strutture sanitarie al fine della piena realizzazione della riforma
Bindi.
Un lavoro futuro potrebbe approfondire due aspetti particolarmente interessanti,
che potrebbero aiutare a comprendere meglio le dinamiche della politica sanitaria
italiana. Da un lato, si potrebbero studiare ulteriormente le dinamiche di veto point
presenti nel policy-making sanitario, verificando come il ruolo delle regioni è cambiato
dall’istituzione del SSN, e soprattutto dalla riforma Bassanini sul decentramento
istituzionale ad oggi. Ciò potrebbe aiutare a capire come l’arena della politica sanitaria
stia evolvendo e quali opportunità e vincoli possa aprire questo cambiamento
istituzionale.
Dall’altro lato, tenendo conto dei contributi più recenti di Streeck e Thelen,
sarebbe molto interessante sviluppare un’analisi sul tipo di cambiamento istituzionale a
cui la professione medica è sottoposta. Infatti, se si considera un arco temporale medio
lungo, che va dagli anni Novanta ad oggi, si può constatare l’esistenza di un processo di
cambiamento della professione medica lento ed incrementale, come teorizzato da
Streeck e Thelen, che ha ridisegnato molti aspetti della professione stessa. Tuttavia, se
si prendono in esame solamente le riforme della professione medica avvenute nel
Duemila, queste sembrerebbero inserirsi prevalentemente in un’ottica path-dependent,
nella quale si succedono una serie di modifiche che però partono tutte dal contenuto
fondamentale della riforma Bindi.
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