Nuova geografia dei diritti umani
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Nuova geografia dei diritti umani
12 12 Nuova Geografia dei Diritti Umani - Atti del convegno QUADERNI Conferenza: “Nuova geografia dei diritti umani” Atti del Convegno Palazzo Chiaramonte Steri Palermo, 29 Aprile 2005 Cesvop 12 Enti sostenitori e patrocinatori del convegno QUADERNI del CE.S.VO.P. Regione Siciliana Provincia di Palermo Comune di Palermo ENDAS SICILIA Parlamento Europeo Ufficio per l’Italia Università degli studi di Palermo Stampato in Italia Copyright 2007 PittiGrafica s.a.s. Tecniche Editoriali Il quaderno è stato realizzato con il contributo del Comitato di Gestione per il Fondo Speciale per il Volontariato della Regione Siciliana finanziato dalle Fondazioni - Compagnia di S. Paolo - Monte dei Paschi di Siena - Cariplo - Banco di Sicilia Quaderni Monografici a cura di Vincenzo Borruso 12 QUADERNI del CE.S.VO.P. Conferenza: “Nuova geografia dei diritti umani” BIANCA Atti del Convegno Palazzo Chiaramonte Steri Palermo, 29 Aprile 2005 Cesvop Sommario Pag. 109 Premessa di Salvatrice Sabrina Gatto » 113 1. Diritti umani. Universalismo, globalizzazione e multiculturalismo di Francesco Viola » 127 2. Meccanismi di protezione e “soggettività” dei diritti, tra nazionalismo e cosmopolitismo di Isabel Trujillo » 151 » » » 151 153 154 » 156 » » » 160 164 165 » » » » » » » » » » 165 167 170 171 171 173 176 178 180 182 3. I diritti dell’uomo e la sfida dell’Islam. Diagnosi e rimedi di Sami A. Aldeeb Abu-Sahlieh Introduzione I. Le fonti della legge: parte generale 1. Le fonti della legge secondo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 2. Le fonti della legge secondo la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 3. Le fonti della legge in diritto musulmano 4. Le fonti della legge nel diritto arabo attuale II. La sfida del diritto musulmano ai diritti dell’uomo nei Paesi arabi 1. Diritti politici 2. Diritti della donna 3. Libertà di espressione 4. Libertà religiosa A. Libertà a senso unico B. Minoranze religiose 5. Norme penali islamiche 6. L’integrità fisica 7. Schiavitù III. Risposte dei musulmani alla sfida del diritto musulmano 5 6 » » 182 183 » » » 184 184 185 » 186 » 187 » 190 » » » » » 191 192 193 194 194 » 196 » » 197 197 » » » » 199 199 199 101 » » » 102 102 104 » 107 » » 107 113 1. La corrente islamista 2. La corrente positivista soddisfatta dello status quo 3. La corrente secolare A. Eliminazione delle norme discriminatorie B. Distinzione tra i versetti della Mecca e i versetti di Medina C. Rifiuto della parola di Maometto (la sunnah) D. Contestazione dei libri sacri e della rivelazione IV. Sfida del diritto musulmano ai diritti dell’uomo in Occidente: il caso della Svizzera 1. Libertà religiosa 2. Preghiera 3. Digiuno del Ramadan 4. Norme alimentari 5. Relazioni tra uomini e donne e norme di abbigliamento 6. Impedimento del matrimonio per differenza di religione 7. Poligamia 8. Predominio dell’uomo sulla donna e rapporti con i figli 9. Ripudio 10. Successione 11. Sepoltura dei morti V. Risposte degli occidentali alla sfida del diritto musulmano 1. Il dialogo 2. Misure legislative e preventive 3. Dibattito ideologico 4. Profili evolutivi del sistema arabo di tutela dei diritti dell’uomo di Felicita Tramontana Introduzione La Commissione araba permanente dei diritti del- l’uomo La Carta araba dei diritti dell’uomo del 1994 tra principi internazionali e principi della legge islamica: un tentativo di mediazione non riuscito La Carta araba dei diritti dell’uomo del 2004 » 116 » 120 » 131 » » 131 133 » » » 140 147 151 » 157 » » 162 169 » 173 » » 173 174 » 174 » 178 » 183 7. La cultura della cittadinanza nella Nuova Europa di Alessandro De Lisi » 203 8. Ci sono anche diritti dei minori? di Lino D’Andrea 5. Diritti umani e diritto privato. Prospettive di dialogo di Giuseppe Giaimo 1. Considerazioni introduttive 2. La “scatola vuota” dei diritti umani. Uniformazione centripeta forzosa o pluralismo culturale eccentrico 3. Segue: Universalità e cittadinanza 4. Segue: Insufficienze dei criteri di definizione 5. La soluzione delle antinomie. L’uomo quale principio comune ai diritti fondamentali 6. Diritti dell’uomo e diritto privato. Diversità e corrispondenze 7. Diritti dell’uomo e categorie privatistiche 8. Una verifica in chiave comparativa. Lo Human Rights Act, 1998 in Inghilterra 6. Violazioni rilevate dalla Corte Internazionale di Giustizia in relazione alla costruzione del muro in Palestina di Fabio Leone I. Considerazioni preliminari II. Violazioni evidenziate nel Parere della Corte Internazionale di Giustizia a. Considerazioni sull’art. 2 della IV Convenzione di Ginevra b. Specifiche violazioni delle norme e diritto di legittima difesa 7 Premessa Questo volume raccoglie gli atti del convegno “Nuova geografia dei diritti umani” che si è tenuto a Palermo nell’aprile 2005, grazie al sostegno organizzativo dell’ELSA, in collaborazione col CE.S.VO.P, e con il patrocinio dell’Università degli studi di Palermo e del Parlamento EuropeoUfficio per l’Italia. Il Convegno si è svolto anche grazie al contributo finanziario di ENDAS Sicilia, della Provincia Regionale di Palermo e dell’Assessorato dei Beni Culturali della Regione Siciliana. La presente pubblicazione, finanziata dal CE.S.VO.P, è ordinata seguendo, ove possibile, lo svolgimento delle sessioni del convegno, che vedevano alternarsi sulle diverse tematiche della tutela dei diritti umani i prestigiosi autori. Oggetto della giornata di studio è stata la tutela dei diritti umani fondamentali nell’ordinamento internazionale e nell’ordinamento comunitario. Le esigenze avanzate in tutti i tempi per il miglioramento della condizione dell’uomo sono sfociate nella rivendicazione di libertà e di diritti, individuati come diritti dell’uomo. Un primo problema da porsi riguarda la natura giuridica da riconoscere a tali diritti: c’è chi li ritiene diritti naturali, spettanti all’uomo in quanto individuo, e in questo senso lo Stato può e deve solo riconoscerli, ammettendo in tal modo un limite alla sua sovranità. D’altra parte, c’è chi sostanzia tali diritti in diritti soggettivi concessi agli individui dallo 9 Stato nella sua autonoma sovranità, che così si autolimita. Vi è poi una dottrina intermedia, rappresentata da chi segue il contrattualismo e individua la base giuridica di tali diritti in un contratto, espresso dalla Costituzione, fra le diverse forze politiche e sociali. La positivizzazione in un testo normativo dei diritti fondamentali di un individuo ha avuto una storia lunga e travagliata sia nello scenario internazionale che in quello europeo. Solo dopo il 1945 e le aberrazioni del nazismo, ampio spazio si è dato ai principi di dignità umana e di autonomia dell’individuo, producendo un forte interesse nell’impegno degli Stati a proteggere e assicurare tali diritti. Il 1945, infatti, segna l’inizio della creazione di un sistema di norme internazionali teso a vincolare gli Stati a rispettare un catalogo di diritti umani. In un clima di cooperazione per la realizzazione di ideali comuni, i governi firmatari della Dichiarazione delle Nazioni Unite si sono proclamati convinti che una vittoria completa sui loro nemici era essenziale per difendere la vita, la libertà, l’indipendenza e la libertà religiosa, così come per conservare i diritti umani e la giustizia nei propri paesi e nelle altre nazioni. Il manifesto d’azione delle Nazioni Unite ha trovato il suo strenuo baluardo nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, nel cui preambolo si recita che “gli Stati membri sono impegnati a perseguire, in cooperazione con le Nazioni Unite, il rispetto e l’osservanza universale dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e che una concezione di questi diritti e di queste libertà è della massima importanza per la piena realizzazione di tali impegni”. Solo di recente, invece, si è giunti ad un riconoscimento formale dei diritti umani sul palcoscenico europeo. Nessuno dei Trattati istitutivi delle Comunità, infatti, conteneva norme relative alla tutela dei diritti dell’uomo. Solo il progetto della CED - Comunità Europea di difesa 10 prevedeva espressamente l’obbligo del rispetto delle libertà e dei diritti fondamentali degli individui, ma il progetto non entrando mai in vigore, restò di vaga portata. I primi riferimenti ad alcuni diritti fondamentali quali la libertà di circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali e il divieto di non discriminazione in base alla nazionalità sono contenuti nel Trattato istitutivo della Comunità europea. Tali libertà, però, erano strumentali alla realizzazione del mercato unico, con la conseguenza che l’individuo non veniva tutelato come persona ma solo come protagonista di quel complesso mondo in cui cooperano gli Stati, come operatore economico puro e semplice. Il riconoscimento e la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, in un primo tempo, vennero affidati alla Corte di Giustizia che elaborò il concetto secondo il quale i diritti fondamentali dell’uomo devono essere tutelati come parte integrante dei principi generali dell’ordinamento comunitario. Solo, con il Trattato di Maastricht si è avuto un riconoscimento formale, sino a giungere al Trattato di Nizza, che ha espressamente elaborato una Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, oggi prevista quale seconda parte della Costituzione Europea (in potenza). Quanto sin qui scritto rappresenta la sintesi di un progetto di studio dell’evoluzione della tutela dei diritti umani, sia in ambito internazionale che europeo, che l’ELSA, di cui mi pregio di farne parte, ha inteso perseguire con l’organizzazione di tale convegno. Un vivo ringraziamento va tributato a tutti i relatori, al direttivo dell’ELSA e al moderatore Dott. Francesco Trombetta. Salvatrice Sabrina Gatto Director Human Rights ELSA Palermo 11 1. Diritti umani. Universalismo, globalizzazione e multiculturalismo di Francesco Viola * Il secolo che si è appena concluso consegna ai tempi futuri un gran numero di questioni aperte, di prospettive appena abbozzate, di sfide che non possiamo fare a meno di raccogliere. La più esaltante tra esse è senza dubbio – con un’espressione riassuntiva – quella della “mondialità”. Questa non designa un problema concreto, ma l’ampio orizzonte entro cui si muovono e agiscono fenomeni ben visibili, la cui portata è appunto “mondiale”. Non dico “internazionale”, perché ciò sarebbe riduttivo e circoscritto alle nazioni, ma “mondiale” o “cosmico”. Dentro questo scenario, che nessuno di noi può abbracciare con un solo sguardo e che supera di molto le nostre individuali e collettive capacità d’influenza, si sono presentati almeno tre attori mondiali quali i diritti umani, la globalizzazione e il multiculturalismo. Forse non sarebbe esatto considerarli attori di una scena che non dipende da loro. Forse più esattamente dovremmo considerarli lo stesso scenario della vita degli uomini del terzo millennio. I diritti umani sono divenuti il linguaggio di comunicazione degli individui e delle culture nel regime del pluralismo. Ben pochi altri valori o ideali del passato possono vantare quel consenso universale che oggi riscuotono i * Docente di filosofia del diritto, Università di Palermo. 13 diritti. Non mi riferisco tanto al fatto che essi sono oggetto di trattati internazionali e di dichiarazioni «universali», perché questi sono a volte i luoghi dell’ipocrisia e della riserva mentale. Ho presente, invece, la rivendicazione sempre più frequente del diritto alla propria identità individuale e collettiva avanzata nei confronti di chi ha un’identità ben differente. Questo significa che nel regime del pluralismo l’unica possibilità di comunicazione tra le differenti famiglie culturali, ideologiche e spirituali sembra essere data proprio dai diritti. Esse non si capiscono, sono spesso mondi chiusi in se stessi, e tuttavia riescono a comprendere cosa può voler dire rispettare i diritti dell’altro e del diverso, perché sanno cosa significa chiedere ed avere il rispetto dei propri diritti. Sembra proprio che l’unica forma di etica possibile nel futuro non possa che essere “l’etica dei diritti”. Nessuno li nega, anche se poi l’interpreta a suo modo. Ed allora per il futuro il nostro problema cruciale sarà non già se gli uomini abbiano diritti, ma quali essi siano e come debbano essere interpretati e applicati. Ed è proprio su questo punto che intervengono da versanti opposti i due macro-fenomeni della globalizzazione e del multiculturalismo. Le loro matrici originarie sono ben diverse (economica per la globalizzazione e etnico-culturale per il multiculturalismo), ma ciò poco importa perché entrambi operano sui diritti dell’uomo, per imprimere all’interpretazione di questi la loro forma e per trascinarli nella loro logica interna. La forza di pressione di questi fenomeni è elevata ed è senza dubbio in grado di modellare i diritti a loro immagine e somiglianza. Non dico che ciò sia necessariamente un male, ma solo che in ogni caso dobbiamo essere noi a volerlo o a permetterlo. Infatti, a confronto dei diritti dell’uomo la globalizzazione e il multiculturalismo sono quasi delle forze della natura, cioè fenomeni che s’impongono con una potenza irresistibile. Il 14 mercato mondiale, la diffusione della tecnologia e l’assenza di confini dell’informazione (ma anche la coca cola, il fast food, la lingua inglese, il turismo esotico...) non sono fenomeni che potremmo arrestare e neppure in fondo desideriamo farlo. Questa perdita di confini dell’agire quotidiano ci conduce a vivere al di sopra delle distanze, contribuendo a modificare «alcuni degli aspetti più intimi e personali della nostra esi1 stenza quotidiana» . Ciò che soprattutto cambia è il rapporto della natura umana con lo spazio e con il tempo. L’individuo viene de-localizzato e proiettato in un universo sempre più grande, sempre più globale, nel quale vanno progressivamente perdendo di significato le tradizioni, le consuetudini, le pratiche locali, i rapporti faccia a faccia, la prossimità. Il concetto stesso di “prossimo” è privo di senso per rapporti sempre più “virtuali”. Questo processo di dis-appartenenza tendente verso una società globale si offre quasi naturalmente come un sostegno per i diritti umani. Non sono forse essi originariamente diritti dell’uomo astratto, a prescindere dalle differenze culturali, religiose, razziali, sessuali e linguistiche? L’individuo razionalizzato dell’Illuminismo si sentirà a suo agio nella società globale, la cui meta utopica è il superamento degli Stati nazionali, delle differenze di religione, di regione e di continente. Ed allora l’universalità dei diritti dell’uomo potrà agevolmente essere interpretata nella logica della globalizzazione. Si potrà coltivare l’idea che i diritti dell’uomo non saranno mai veramente effettivi finché permangono differenze, appartenenze, diverse forme di vita e, persino, gusti differenti. Ma c’è da chiedersi se questo sia il modo più adeguato di coniugare l’universalità dei diritti. Universalità significa globalità? Questo interrogativo diventerà sempre più pressante per gli uomini del terzo millennio ed è prevedibile che in nome di diritti dell’uomo male intesi si possano escogitare nuove forme di violazione della dignità umana. Già fin d’ora possiamo notare, senza per questo demonizzare la globalizzazione, che essa non rare volte è una glocalizzazione, cioè l’espansione mondiale di aspetti di una cultura locale. Si tratta dell’imporsi di un modello culturale determinato sugli altri con l’effetto di ridurre quest’ultimi ad espressioni parrocchiali e localistiche. Nella sostanza si tratta della vittoria di un’entità locale nel mercato della cultura. Ci sono dei vincitori e dei vinti, dei colonizzatori e dei colonizzati. Infatti questo processo di localismo globalizzato si coniuga con quello di globalismo localizzato, cioè con la destrutturazione delle pratiche locali ad opera dell’impatto globalizzante. Gli individui perdono il senso dei loro modelli culturali tradizionali e s’identificano con quelli do2 minanti . È facile notare che anche i diritti dell’uomo, nati in America e in Francia e, alla fin dei conti, prodotti dalla cultura occidentale, sono a volte considerati come uno degli aspetti di questa colonizzazione della società globale. Sono i diritti degli americani, dei francesi, degli occidentali, ma non degli asiatici e degli africani. Questo rigetto del falso universalismo dei diritti è ben giustificato se è visto nell’ottica della globalizzazione. Se i diritti dell’uomo fossero nella sostanza i diritti che i vincitori, le nazioni ricche e sviluppate, largiscono e impongono ai vinti e ai poveri, sarebbero un potente veicolo di dominio e di controllo mondiale. Tuttavia la logica 1 A. GIDDENS, Le conseguenze della modernità. Fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, trad. it., Il Mulino, Bologna 1994, p. 18ss. 2 Cfr. B. DE SOUSA SANTOS, Toward a Multicultural Conception of Human Rights, in “Sociologia del diritto”, 24, 1997, 1, pp. 27-46. 15 16 dell’universalità dei diritti non è e non deve essere quella della globalizzazione. Se è vero che i diritti nascono in occidente, non è vero che per ciò stesso il loro valore sia localistico. Non bisogna confondere le origini con il valore. I diritti non sono la coca cola. I valori sfidano le culture e ambiscono ad una dimensione transculturale. L’universalismo dei diritti non deve diventare l’ideologia della globalizzazione, ma ciò richiede che questi diritti abbiano un fondamento proprio, cioè che vi sia una comune filosofia dei diritti umani o, forse più realisticamente, un approccio comune ai diritti, un idem sentire nei loro confronti. Come vi può essere nella nostra società contemporanea qualcosa di valido per tutti, qualcosa in cui tutti riconoscano se stessi senza sentirsi sradicati dalle loro appartenenze? Certamente può essere opportuno distinguere i diritti dell’uomo dalle loro particolari interpretazioni ed allora sarebbe più agevole separare il modo occidentale d’intendere i diritti da quello proprio di altre culture. È questa l’operazione tipica del multiculturalismo, che è – come s’è detto – un fenomeno sociologico esattamente opposto a quello della globalizzazione. È prevedibile che la storia del prossimo millennio sia segnata da questo braccio di ferro tra globalizzazione e multiculturalismo, tra l’omologazione delle differenze e la loro radicale incomunicabilità. “Multiculturalismo” non significa soltanto che stiamo prendendo dolorosamente coscienza della incommensurabilità della molteplicità delle culture, delle etnie, delle tradizioni religiose e delle visioni del mondo, e della loro potenzialità conflittuale, non significa soltanto che questa tensione è interna alla stessa società multiculturale, che si trova di fronte all’arduo compito di dover fondarsi su un ethos comune in quanto è “società” e di non poterlo fare rispettando l’eguaglianza delle culture che la compongono. Prima ancora “multiculturalismo” significa che ogni cultu17 ra ha un valore non negoziabile e che ognuna di esse ha un proprio modo d’intendere la dignità umana. D’altronde il rispetto per l’uomo e per le sue forme di vita è l’anima propria di ogni cultura e la sua profonda ragion d’essere. Una cultura disumana sarebbe una contraddizione in termini, sarebbe nella realtà l’imposizione di alcuni nei confronti dei molti. La convinzione che non possiamo ridurre l’idea della dignità umana a quella che è stata elaborata dalla nostra, pur illuminata, cultura occidentale, ha prodotto – com’era prevedibile – i suoi effetti sulla concezione e la pratica dei diritti dell’uomo. È ovvio che essi presuppongono una concezione della dignità umana, ma quale? Quella propriamente occidentale che ci fa inorridire di fronte a pratiche culturali che consideriamo nel migliore dei casi rozze e arretrate se non addirittura barbariche e sanguinarie? È forse possibile elaborare una concezione multiculturale della dignità umana in cui ogni popolo riconosca se stesso? Gli aspetti drammatici di questa problematica si colgono meglio se non guardiamo alla proclamazione generale e astratta dei diritti, ma alla loro applicazione concreta nella scena internazionale. È ormai ampiamente notato che lo sviluppo della protezione internazionale dei diritti è oggi entrato in una fase di loro progressiva regionalizzazione e 3 specializzazione . Ma si tratta di due aspetti diversi, perché la “regionalizzazione” è l’ammissione di regimi differenti di protezione dei diritti affidati ad autorità regionali di controllo, mentre la “specializzazione” è l’attenzione rivolta a una determinata tematica dei diritti dell’uomo (qui ricordiamo, ad esempio, l’accordo per la lotta al reato di apartheid del 3 Cfr. E. DENNINGER, Diritti dell’uomo e Legge fondamentale, a cura di C. AMIRANTE, Giappichelli, Torino 1998, p. 51. 18 1975, l’accordo per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna del 1980 e la convenzione sulla tortura e ogni altro trattamento o pena crudele, disumana o degradante del 1984). Ai fini del rapporto tra diritti dell’uomo e multiculturalismo il fenomeno della regionalizzazione è di prioritaria importanza. Il regime globale dei diritti umani poggia su tre documenti giuridici fondamentali: la dichiarazione del 1948, il patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, entrato in vigore nel 1976 e il patto internazionale sui diritti civili e politici, entrato in vigore nel 1976. A questa griglia normativa bisogna aggiungere il sistema di regole e di procedure d’implementazione poggiante su organi e commissioni delle Nazioni Unite. Ma di fatto il rispetto dei diritti è stato per lungo tempo affidato alla buona volontà dei singoli Stati nazionali. Oggi si vanno formando sistemi di controllo interstatali e regionali. Siamo in una fase di transizione tra lo Stato-nazione e l’area culturale regionale, che raccoglie e comprende Stati-nazione in qualche modo omogenei. Queste macro-regioni aspirano ad un controllo senza rendiconto sull’applicazione dei diritti dell’uomo nella sfera di loro competenza, un controllo del tutto simile a quello detenuto dallo Stato-nazione. È questo ciò che intendo per “concezione multiculturale dei diritti umani”. Queste aree culturali si possono identificare in ordine d’incidenza nella regione europea, in quella inter-americana, in quella africana e in quella asiatica e del mediooriente4. Bisogna notare che già v’è una differenza di applicazione tra le due regioni culturalmente più simili perché apparte- 4 Cfr. B. DE SOUSA SANTOS, Toward a New Common Sense. Law, Science and Politics in the Paradigmatic Transition, Routledge, London 1995, pp. 329-337. 19 nenti all’area occidentale (quella europea e quella interamericana). L’area inter-americana è culturalmente meno compatta ed è complicata dal ruolo egemonico esercitato dagli Stati Uniti, che non sempre accettano di applicare a se stessi quegli standard e procedure di verifica che richiedono agli altri paesi. La Carta Africana sui diritti umani e dei popoli è stata adottata a Nairobi nel 1981 ed è entrata in vigore nel 1986. Contiene due importanti innovazioni: accanto ai diritti individuali sono presenti diritti collettivi e anche il diritto allo sviluppo. Essa introduce il concetto dei doveri degli individui nei confronti della famiglia, della comunità, dello stato. Ma i poteri di controllo sono molto deboli e vaghi. Non v’è alcuna corte di giustizia. Nel 1994 la Lega araba (organismo non religioso, ma politico) ha adottato il testo di una “Carta araba dei diritti dell’uomo”, nel cui preambolo ci si rifà alla Dichiarazione universale e si afferma che il razzismo e il sionismo sono due attentati gravi ai diritti dell’uomo e alla pace mondiale. Nell’art. 32 si riconosce soltanto ai cittadini l’eguaglianza delle opportunità, un salario equo e una remunerazione eguale a parità di lavoro, ammettendo così implicitamente una discriminazione fondata sulla nazionalità. L’aspetto interessante di questo testo è l’accurata omissione di qualunque riferimento alla legge coranica. Ci si appella solo ai principi eterni definiti dal diritto musulmano, accomunandoli con quelli delle altre religioni. Ma ancora questa Carta non è entrata in vigore. In Asia non esiste ancora nessun regime organico di controllo del rispetto dei diritti umani. Come si può notare, i diritti sono universali quanto alla definizione e invece particolari quanto all’applicazione. La soluzione universale è la regola per quanto riguarda la definizione dei diritti, mentre quella regionale è la regola per quanto riguarda la loro applicazione. Non è questa una 20 sconfitta dell’idea della “comunità dei popoli” e dell’unità della “famiglia umana” di cui parla la Dichiarazione universale? Ed allora – come per la globalizzazione – il problema che dobbiamo affrontare è come applicare in modo corretto il multiculturalismo ai diritti dell’uomo senza distruggerne l’universalità e senza trasformarli in un guscio vuoto. Ancor più in profondità occorre rendersi conto che v’è un modo adeguato e un modo distorto di praticare il multiculturalismo. L’apprezzamento della validità di tutte le culture non deve condurre ad una sorta di relativismo culturale che paralizzi a priori la critica morale. Sarebbe gravemente erroneo concepire le culture come monumenti pietrificati ed immodificabili. Le vere e grandi culture sono mondi vivi, anche se lentamente, in evoluzione e sviluppo. Esse sanno che al loro interno albergano pratiche, atteggiamenti e orientamenti che, per quanto in qualche modo giustificati nel passato, non lo sono più alla luce di una coscienza morale più aperta e consapevole. Tutte le culture, nessuna esclusa (e mi riferisco qui in particolar modo alla cultura occidentale), accanto ad una propria idea della dignità della persona umana, hanno qualcosa da rimproverarsi e da modificare. Se non avessero questa consapevolezza, si autocondannerebbero all’estinzione tra lacrime e sangue. Il modo giusto di praticare il multiculturalismo, cioè quello che consente di non violare l’universalismo dei diritti, richiede necessariamente il coinvolgimento delle grandi religioni, sia di quelle profetiche (ebraismo, cristianesimo e islamismo) che di quelle naturali dell’Asia e dell’Africa. È noto, infatti, che il fattore religioso costituisce tradizionalmente il nucleo duro dell’identificazione culturale. Spesso la resistenza al mutamento delle pratiche culturali è giustificata dal valore simbolico sacrale che un determinato popolo attribuisce ad esse. Abbandonarle significherebbe ai 21 suoi occhi rinnegare la propria identità religiosa e, conseguentemente, mettere in pericolo la propria sopravvivenza. Per queste ragioni le grandi religioni universali hanno originariamente guardato con diffidenza all’espansione dei diritti dell’uomo. Le maggiori difficoltà hanno riguardato e riguardano in particolare i diritti della donna e la tolleranza religiosa, cioè il rispetto della libertà di quanti la pensano diversamente. Tuttavia è dato constatare negli ultimi decenni la crescita di consapevolezza del movimento interreligioso nella responsabilità nei confronti della pace del mondo e, conseguentemente, del rispetto dei diritti. «Senza la pace fra le religioni non vi sarà mai pace fra le nazioni»5. In che modo le grandi religioni possono supportare con efficacia l’universalismo dei diritti senza rinunciare alla loro identità e alla loro specifica missione? Spesso si dà a quest’interrogativo una risposta etica (come, ad esempio, fa Hans Küng). Si pensa che la crescita nella conoscenza vicendevole e nel rispetto reciproco dovrebbe condurre ad evidenziare gli elementi etici comuni presenti nelle differenti religioni e che ciò favorirebbe l’enucleazione di un ethos comune dell’umanità come terreno fertile per un’applicazione uniforme dei diritti dell’uomo. Non v’è dubbio, infatti, che tutte le religioni concordano su alcuni imperativi etici fondamentali, quali, ad esempio, il non uccidere gli innocenti, il non mentire, il rispetto del matrimonio e della famiglia... Molte religioni conoscono la regola aurea almeno nella sua forma negativa, cioè del non fare agli altri quello che non vorremmo fosse fatto a noi stessi. Questi elementi di comunanza sono indubitabili ed è questa una ricerca di accordo che non bisogne- 5 H. KÜNG, Verso un’etica delle religioni universali. Problemi fondamentali dell’etica contemporanea in un orizzonte globale, in “Concilium”, 26, 1990, 2, p. 140. 22 rebbe interrompere. Tuttavia mi chiedo se proprio nel fattore propriamente etico risieda il maggiore contributo che i diritti dell’uomo debbano aspettarsi dalla religione. Ciò non significherebbe forse ridurre lo specifico della religione alla morale? Non sono forse proprio i non credenti benevoli a vedere nelle religioni null’altro che visioni generali della vita morale? La religione non è la morale. C’è una specificità del fatto religioso ed è solo facendo leva su di essa che le religioni possono supportare a loro modo i diritti umani. La religione non è la stampella della morale, che può benissimo reggersi con le sue proprie gambe. Alla radice del fatto religioso, sia nelle religioni profetiche che in quelle naturali, sta – a mio parere – l’istanza primitiva ed originaria di salvare la vita umana e l’ordine del mondo in cui essa abita. Si tratta del problema elementare della sopravvivenza dell’umanità e del suo ambiente di vita. C’è in questa esigenza primordiale un fattore pre-culturale che non bisogna lasciare cadere. Non si tratta soltanto di offrire vie di salvezza ben diverse da quelle battute dalla scienza, dalla tecnica o dalla filosofia e dall’etica. Ma ancor più radicalmente di prendere l’umanità e il suo mondo così com’è, nella sua originaria creaturalità. Si tratta di considerare ogni uomo nella sua indigenza e sofferenza e non già nell’ottica dell’eguaglianza e della 6 reciprocità . La religione non ha di fronte a sé né l’individuo illuministico dominatore della natura e costruttore di città 6 Ferry pensa ad una categoria di “diritti morali”, che riguardano la persona nella sua singolarità e irripetibilità, cioè diritti che la persona può opporre all’invasione del pubblico nella sua sfera intima (diritti-personalità). In tal modo s’apre la possibilità d’un rapporto non simmetrico di riconoscimento «tournée plutôt vers la souffrance du prochain que vers la liberté de l’Alter Ego». Cfr. J.-M. FERRY, Les puissances de l’experience, II, Cerf, Paris 1991, pp. 116-222. 23 di eguali, né gruppi sociali che s’identificano con essa. Questo è l’aspetto culturale delle religioni, ma non la loro motivazione originaria. Ma è proprio quando le religioni s’identificano con le culture o con le morali che la loro comunicazione diviene difficile se non addirittura impossibile. Il cristianesimo non s’identifica con l’uomo occidentale, così come il buddismo non parla solo all’uomo orientale. Se, invece, il dialogo interreligioso aiuterà a riscoprire il senso originario del fatto religioso, allora la mutua comprensione sarà più facile e i diritti dell’uomo se ne gioveranno. In che modo? Penso che si potrà allora intendere meglio che i diritti dell’uomo debbano anche essere interpretati come i diritti del genere umano e non solo come diritti di individui o di gruppi. Alle soglie del terzo millennio l’umanità non appare più un’idea astratta e priva di una capacità identificante i suoi membri. Si torna a parlare di un patrimonio comune 7 dell’umanità e di uno jus humanitatis . E ciò a ragione perché s’è spezzato quel legame naturale, impropriamente chiamato “patto generazionale”, che consentiva la solidarietà tra il susseguirsi delle generazioni8. L’umanità, infatti, non è altro che l’estendersi nel tempo della successione delle generazioni. Nei paesi industrializzati stiamo dando fondo alle energie prime non rigenerabili e lasciamo in eredità alle generazioni future montagne di scorie radioattive insieme a debiti che non riusciranno mai a pagare. Proprio a causa di questa violazione della giustizia tra le generazioni l’umanità è diventata (o è tornata ad essere) un soggetto storico, che, pur non avendo una cultura comune 7 Cfr. B. DE SOUSA SANTOS, Toward a New Common Sense, cit., pp. 365-373. Cfr. J. MOLTMANN, Diritti umani, diritti dell’umanità e diritti della natura, in “Concilium”, 26, 1990, 2, pp. 153-154. 8 24 né comuni consuetudini di vita né concezioni condivise del bene9, esprime una comune speranza di salvezza unita alla convinzione che essa non è possibile senza il rispetto di tutta la creazione. I diritti del genere umano riposano sulla comunità morale fra tutti i viventi e sulla riconciliazione fra l’uomo e la natura. Altrimenti il linguaggio dei diritti diviene quello dell’ipocrisia morale, che parla di universalità ma per asservirla ai ristretti interessi di una nazione, di una razza, di una cultura o di un determinato modello d’individuo10. Questo recupero dell’autentica universalità dei diritti umani, che in questo prendono le distanze dalla globalizzazione, da una parte, e dal multiculturalismo dall’altra, non sarà possibile senza il contributo delle grandi religioni dell’umanità, se esse sapranno mettere tra parentesi le loro vicende storiche e ritornare alle loro motivazioni originarie. Questo è senz’altro una delle dimensioni centrali del Grande Giubileo, cioè l’azzeramento di tutti i pesi e di tutte le frustrazioni della memoria storica per mettere a nudo le radici e ripartire di nuovo. Ed allora l’universalità dei diritti non risiederà innanzi tutto nell’universalità dei precetti, che sono certamente essenziali ma vengono dopo; prima ancora si dovrà trattare dell’universalità dei soggetti e della loro comunanza nell’umano. Ed è in questo spirito che bisogna leggere la Dichiarazione emessa già nel 1970 a Kyoto dalla Conferenza mondiale delle religioni: «Ci siamo resi conto che possediamo in comune: una convinzione sulla fondamentale unità della famiglia 9 M. WALZER, Geografia della morale. Democrazia, tradizioni e universalismo, trad. it. di N. URBINATI, Dedalo, Bari 1999, pp.20-21. 10 M. NUSSBAUM, Patriotism and Cosmopolitanism, in J. COHEN (ed.), For Love of Country. Debating the Limits of Patriotism, Beacon Press, Boston, Mass., 1996. 25 umana, sull’uguaglianza e sulla dignità di tutti gli uomini; un sentimento dell’inviolabilità della singola e della propria coscienza; la convinzione che potere non equivale a diritto, che il potere umano non è né autosufficiente né assoluto; la fede che, in fondo, l’amore, la compassione, l’abnegazione, la forza dello spirito e della veracità interiore hanno un potere più grande dell’odio, dell’inimicizia e degli intessi privati; un sentimento del dovere di stare dalla parte dei poveri e degli oppressi contro i ricchi e gli oppressori; la profonda speranza che, alla fine, vincerà la volontà buona»11. L’esperienza dell’interculturalismo, che non bisogna confondere con il multiculturalismo, perché non ha per obiettivo la costruzione di un ethos comune ai fini della convivenza sociale, è senza dubbio il terreno più propizio per questa comunicazione delle grandi religioni, che così non si sentono minacciate nella loro identità. In questo senso il Mediterraneo torna ad essere un laboratorio privilegiato per la sfida dell’universalità dei diritti dell’uomo. Noi siamo ancora in cammino verso la loro autentica universalità e non dobbiamo credere di averla già conquistata. Spesso la identifichiamo con una particolare concezione della dignità umana, per quanto nobile ed elevata essa possa essere. Ma i diritti dell’uomo non sono solo quelli liberali dell’uomo autonomo, capace di dar forma al proprio destino con le sue scelte morali e di elaborare un proprio progetto di vita, ma sono anche i diritti della creatura gettata nell’esistenza e bisognosa di aiuto per salvare la propria vita, cioè i diritti della fragilità e della finitudine umana. 11 26 Cit. in H. KÜNG, Verso un’etica delle religioni universali, cit., p. 144. 2. 1. Una delle critiche più diffuse alla “pratica dei diritti umani” è quella secondo cui essi non sono dotati di un apparato di misure di protezione adeguato, sicché si parla di diritti umani, si esaltano i diritti, ma questi in fondo restano sulla carta e rimangono esortazioni retoriche più o meno stucchevoli. L’accusa – che attiene all’effettività dei diritti – è rafforzata dalla convinzione che un diritto è tale solo se è “giustiziabile”, cioè, se fornisce un titolo legittimo per adire una corte abilitata a dichiararne la violazione, ad esigerne la riparazione e ad imporne l’adempimento. Secondo una versione più debole della stessa critica, perché vi sia un diritto ci vuole almeno la facoltà individuale procedurale di petizione ad un qualche foro con una qualche competenza in materia di diritti. L’una e l’altra variante sono molto rare con riguar1 do alla pratica dei diritti umani : solo nel caso della giurisdizione della corte europea dei diritti umani e della corte interamericana dei diritti umani – dunque in contesti tutto sommato limitati – sembrano avverarsi queste condizioni2. L’obiezione stessa, dal punto di vista filosofico-giuridico e teorico, è molto stimolante perché sottintende una idea precisa dei diritti e della loro natura. Una delle presupposizioni su cui poggia tale tesi è che esista un diritto solo quando una pretesa soggettiva è perfezionata da un obbligo corrispettivo e quando la sua violazione è sanzionata. Quest’ultima caratteristica è il contrassegno delle teorie sanzionatorie del diritto, cioè quelle concezioni che ritengono che carattere necessario del giuridico è la sanzione istituziona3 lizzata . 4 Tuttavia, le cosiddette teorie “dinamiche” dei diritti hanno avuto buon gioco nel sottolineare il dato intuitivo che il diritto in senso soggettivo esiste già e principalmente come ragione normativa per il perfezionamento del rapporto giuridico tramite obblighi che ricadano su altri soggetti e tramite sanzioni da applicarsi nel caso di violazione, anche se questi due elementi ancora non si danno. I diritti cioè hanno natura di claims. Si dà un diritto soggettivo laddove c’è una ragione derivante dall’esistenza di un interesse fondamentale per l’individuo, la quale giustifica un obbligo da parte di altri, anche se tale obbligo non è perfetto, oppure non lo è ancora, e anche laddove il meccanismo per la sua protezio5 ne è lacunoso . La prerogativa dei diritti sta nella capacità – una volta riconosciuti – di rendersi indipendenti e indisponibili per il soggetto che li riconosce, al punto di “imporsi”, quasi acquistassero una vita propria. La critica suddetta implica anche un’altra presupposi- * Docente di filosofia del diritto, Università di Palermo. Quando mi riferirò alla prassi dei diritti intenderò l’insieme di regole, di processi, di pratiche riguardanti i diritti, dalla creazione delle Nazioni Unite in poi. 2 S. ANDERSON-GOLD, Cosmopolitanism and Human Rights, University of Wales Press, Cardiff 2001, pp. 44-62. 3N. BOBBIO, Teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1993. B. CELANO, I diritti nella jurisprudence anglosassone contemporanea, in P. COMANDUCCI - R. GUASTINI (a cura di), Analisi e diritto 2001, Giappichelli, Torino 2001, pp. 1-58. 5 Cfr. N. MACCORMICK, Legal Rights and Social Democracy, Clarendon Press, Oxford 1982. Meccanismi di protezione e “soggettività” dei diritti, tra nazionalismo e cosmopolitismo di Isabel Trujillo * 1 27 4 28 zione riguardante il soggetto dei diritti: dal modo in cui sono pensati i meccanismi di protezione dei diritti sembra disattendersi l’idea intuitiva che il migliore soggetto dei diritti non può che essere lo stesso individuo. Chi altri è in grado – meglio di lui – di rilevare una violazione dei diritti?6 A questo punto è necessario introdurre una differenza tra il soggetto dei diritti e il protagonista della pratica dei diritti, oppure tra soggetto passivo dei diritti e soggetto attivo dei diritti. Diversamente da quanto istintivamente si può pensare, l’individuo è, sì, il soggetto nell’interesse di chi si riconoscono e si proteggono i diritti, ma non è il “protagonista” principale della pratica dei diritti. Egli si colloca all’interno della pratica dei diritti come centro di imputazione dei diritti e tuttavia può “fare” ben poco per difenderli. Per inciso, la dottrina internazionalista sembra essersi mossa più celermente verso il riconoscimento dell’individuo come centro di imputazione di “obblighi”, come emer7 ge dal dibattito sulla responsabilità penale internazionale . Dunque, l’individuo umano, sebbene destinatario dei benefici riconosciuti in base al titolo del “diritto in senso soggettivo”, come soggetto dei diritti è passivo almeno quanto alla difesa di questi diritti, mentre è passibile di responsabilità penale internazionale individuale nel caso in cui si renda colpevole della violazione dei diritti di altri. Ci si deve domandare allora: se l’individuo è “soggetto passivo” chi è il “soggetto attivo” dei diritti? La risposta è 6 Nella pratica dei diritti vi sono è vero diritti riconosciuti a popoli (il diritto di autodeterminazione) o a gruppi (diritti delle minoranze), ma essi formano parte di tale pratica proprio perché sono l’espressione dei diritti degli individui umani e subordinati ad essi. Cfr. W. KYMLICKA, Liberalism, Community and Culture, Oxford University Press, Oxford 1991. 7 H. ASCENSIO, La responsabilità penale internazionale degli individui come epicentro di un nuovo «jus gentium», in “Ragion pratica”, 22, 2004, pp. 11-22. 29 facilissima per la dottrina internazionalista: lo Stato. Tradizionalmente, gli Stati sono gli unici destinatari dei diritti e 8 degli obblighi regolati dal diritto internazionale . 2. Prima di esaminare se questo stato di cose continua ad essere così e quali sono le sue implicazioni, è opportuno dare uno sguardo alla protezione dei diritti nel terreno domestico. In questa prospettiva bisogna notare che la promozione dei diritti umani, prima ancora che per motivi di adesione all’organizzazione delle Nazioni Unite o ai Patti che ne sostengono la protezione, costituisce una finalità degli Stati in quanto tali diritti sono diritti fondamentali, cioè appartengono formalmente o materialmente alla costituzione o norma fondamentale dello Stato9 e ciò accade in quasi tutti gli Stati contemporanei. In quanto principi fondamentali degli Stati costituzionali, i diritti umani rappresentano i valori supremi dell’ordinamento, cioè quelli che generano, giustificano e conferiscono senso al resto dell’ordinamento giuridico. Di conseguenza, a livello interno, ancora una volta, il soggetto “promotore dei diritti” è lo Stato inteso sia come insieme degli organi del potere, sia come comunità politica che si esprime nella costituzione. In questa linea si comprende che la stessa costituzionalizzazione e la conseguente riserva di legge, la procedura aggravata di revisione costituzionale, la separazione dei poteri, l’irretroattività della legge, i principi interpretativi di eguaglianza e di ragionevolezza, il favor libertatis, la presunzione di non colpevolezza, il principio del contradditto- 8 C. ZANGHÌ, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli, Torino 2002, p. 31. 9 Si segue R. ALEXY, Theorie der Grundrechte, Suhrkamp, Frankfurt 1996, cap. 3. 30 rio, oltre ad alcuni “rimedi postumi”, quali la tutela giurisdizionale e il sistema delle impugnazioni, siano tutte, per l’appunto, modalità di protezione dei diritti. In questa luce è inevitabile notare che i diritti umani sono ben tutelati in alcuni paesi e di meno in altri. Il problema allora è quello della possibilità di “esportare” i modelli di diritto che meglio adempiono alla funzione di tutelare i diritti. Fino a che punto si possono non già imporre, ma anche suggerire modelli di funzionamento dell’organizzazione giuridica? Questo tema ha a che vedere con il rapporto tra multiculturalismo e diritti e con la capacità dei diritti di rendersi compatibili con diversi modelli culturali. 3. Con riferimento al ruolo dei diritti nell’ordinamento è conveniente osservare più da vicino la loro natura normativa, cioè quella di “principi”. È ormai diffusa e accettata dal punto di vista dogmatico e teorico-generale una differenza strutturale della categoria 10 generale delle norme, cioè quella tra le regole e i principi . Le regole sono norme che autorizzano, comandano, vietano o permettono qualcosa in modo definitivo. Se si adempiono i requisiti previsti dalla regola, sopravviene necessariamente la conseguenza giuridica ad essa collegata; viceversa, se non si danno tali presupposti, non si verificano gli effetti giuridici. Per non accettare una regola occorre dichiararla nulla oppure introdurre un’eccezione, che in ultima istanza significa creare una nuova regola. In senso filosofico generale il principio indica il punto di partenza, ciò che dà inizio o vita a qualcos’altro, il fondamento di qualcosa. Nell’esperienza pratica generale, più precisamente, il principio è il fine verso cui si muove, lo sco- 10 Cfr. F. MODUGNO, Principi generali dell’ordinamento, voce in “Enciclopedia giuridica”, I.E.I., Roma 1991, pp. 1-24. 31 po che mette in moto una deliberazione (cioè il processo che consiste nell’individuazione e scelta dei mezzi più adatti per raggiungere un fine). Un principio è un obiettivo da conseguire e, insieme, la ragione propulsiva per la ricerca di determinati effetti. In termini di teoria generale del diritto, un principio è un precetto di ottimizzazione, cioè una norma che comanda di perseguire una finalità nella maggior misura possibile entro le possibilità normative e fattuali dell’ordinamento. In generale, la caratteristica strutturale più evidente della tipologia normativa del principio è il carattere aperto dello spettro di azioni possibili che se ne possono considerare attuazioni11. Si tratta di una certa ma non totale apertura perché il campo di azioni possibili per attuare un principio non è, ovviamente, totalmente indeterminato. V’è, com’è noto, una controversia riguardo la natura del principio. È comunque diffusamente condivisa l’idea che i principi siano elementi costitutivi dell’ordinamento che esprimono esigenze di giustizia e di equità. Tali elementi fanno parte a pieno titolo dell’ordinamento sia che si consi12 derino elementi complementari alle regole , sia che si considerino il prodotto dell’opera dei giudici, cioè lo strumento attraverso cui la giurisprudenza immette nell’ordinamento giuridico vigente nuove idee e nuovi valori13. In ogni caso i 11 Nell’ambito della teoria del diritto Raz ha sostenuto che la differenza tra regole e principi riguarda il maggiore grado di generalità di questi ultimi (cfr. J. RAZ, Legal Principles and the Limits of Law, in “The Yale Law Journal”, 81, 1972, p. 838). 12 R. DWORKIN, I diritti presi sul serio (1977), a cura di G. REBUFFA, il Mulino, Bologna 1982, p. 211. 13 Sull’idea che la giurisprudenza svolga un ruolo di promozione di miglioramenti del sistema cfr. J. ESSER, Precomprensione e scelta del metodo nel 32 principi esplicano una funzione normogenetica, cioè sono alla base della formazione di norme (o regole). Per comprendere appieno il senso della funzione dei principi vale la pena di ricordare la differenza tra i cosiddetti “principi generali del diritto” e i “principi supremi” di cui noi ci stiamo occupando14. Con l’espressione “principi generali del diritto” la dogmatica giuridica intendeva indicare il risultato dell’astrazione delle norme appartenenti all’ordinamento. Essi venivano invocati principalmente quando si presentava un problema di interpretazione15. I principi supremi – presenti nei sistemi costituzionali, gerarchicamente sovraordinati alla legge ordinaria, contenenti le linee guida della convivenza politica – sono, invece, alla base dell’ordinamento nel senso che ne definiscono l’“identità”. Non sono, dunque, il risultato dell’astrazione dalle norme di un sistema, ma sono all’origine delle norme di un sistema. Il termine origine però va compreso in chiave pratica, cioè come il fine è principio dell’azione da porre in essere. Ciò non significa che, una volta sancito un principio, l’ordinamento giuridico debba essere ricostruito di sana pianta, ma è pur vero che l’atto di sancire un principio illumina di luce nuova l’ordinamento nel suo complesso, al punto da esigere eventuali modificazioni nelle norme precedenti. Questo fenomeno corrisponde all’effetto dell’irradiazione dei principi sui materiali normativi di un siste16 ma . La luce nuova che i principi supremi proiettano sui processo di individuazione del diritto (1972), trad. it. di S. PATTI e G. ZACCARIA, ESI, Napoli 1983, pp. 173-187. 14 F. VIOLA, G. ZACCARIA, Diritto e interpretazione. Lineamenti di una teoria ermeneutica del diritto, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 378-394. Nella mia trattazione ho tenuto presenti soprattutto le considerazioni ivi contenute. 15 Così, l’art. 12 delle Disposizioni preliminari al codice civile. 16 R. ALEXY parla dell’effetto dell’irradiazione della Costituzione su tutti gli altri rami del diritto in Theorie der Grundrechte, cit., cap. 10, ma tale effetto 33 materiali normativi serve anche, ovviamente, al momento dell’interpretazione di questi. Il contenuto normativo dei principi è, come si è detto, aperto o indeterminato, posto che essi indicano che qualcosa deve essere realizzato nella misura maggiore possibile. Il carattere non definitivo del principio implica un dovere normativo prima facie, cioè che richiede di essere tradotto in realtà nel modo più ampio possibile ma anche “tutto considerato”. Le condizioni di realizzazione da considerare sono date dalle possibilità normative e fattuali dell’ordinamento giuridico nel suo complesso. Le possibilità normative di attuazione di un principio sono date dal sistema delle norme in cui esso si colloca, cioè dagli altri principi e dalle altre regole dello stesso ordina17 mento . Così, si verifica che diversi principi, ciascuno di essi tendente all’ottimizzazione, si trovino a convivere (e a competere) con altri principi. I principi concorrono anche con le regole e sono da esse in qualche misura limitati, anche 18 quando la regola è espressione del principio stesso . Per essere applicato al caso concreto, il contenuto del principio ha bisogno di essere tradotto nella forma di regole che autorizzino, permettano o vietino qualcosa di determi19 nato in modo definitivo . Ovviamente la regola che contiene si potrebbe ampliare anche alle dichiarazioni e alle convenzioni sui diritti. 17 Sull’interazione tra principi e norme si rimanda a R. ALEXY, My Philosophy of Law: The Institutionalisation of Reason, in L. J. WINTGENS (ed.), The Law in Philosophical Perspectives. My Philosophy of Law, Kluwer, Dordrecht 1999, pp. 22-45. 18 Si tratta di una tipica conseguenza della positivizzazione. Una volta che si è positivizzata la libertà di espressione nella forma di libertà di parola, sarà problematico – anche se non impossibile – sostenere che essa implichi anche la libertà di espressione attraverso fatti o comportamenti. 19 Cfr. L. PRIETO SANCHÍS, Neocostituzionalismo e ponderazione giudiziale, in “ragion pratica”, 18, pp. 169-200. 34 la determinazione del contenuto del principio dovrà rispondere in termini di coerenza a tale principio. Ma la pluralità di traduzioni del principio comporta la permanente possibilità di valutare l’adeguatezza o meno della regola rispetto al principio, ovvero di “questa” o “quella” regola rispetto al principio che le ispira. Le possibilità fattuali sono definibili in termini di risorse spaziali, temporali, economiche e sociali in cui l’ordinamento agisce20. Certamente – si obietterà – ammettere che i principi supremi dell’ordinamento siano in balia di variabili diversissime e imprevedibili, quali le risorse economiche, li indebolisce dal punto di vista della certezza del diritto. L’obiezione sarebbe rilevante solo se si ammettesse che le regole non sono, invece, subordinate a circostanze di tipo fattuale come queste. Bisogna, invece, riconoscere che tale dipendenza costituisce una condizione strutturale dell’ordinamento nel suo complesso. Quanto alla loro funzione si deve ancora notare che i principi supremi sono volti all’applicazione, cioè non sono criteri da utilizzare (soltanto) quando c’è un conflitto di interpretazione – anche se in effetti, come si è detto, costituiscono pure i criteri del controllo di validità – ma hanno anche e soprattutto una funzione propulsiva e applicativa perché volti alla realizzazione di un fine. Il fine, nell’ambito 21 pratico, deve concretarsi in azioni concrete e possibili . In merito alle modalità di interpretazione dei principi, sono noti a tutti gli estremi del dibattito sul metodo della sussunzione (tipico delle regole) e sulla possibilità di composizione od opposizione con il metodo della ponderazione e del bilanciamento (tipico dei principi). Nel caso del conflitto tra principi (oppure tra principi e regole) la ponderazione di cui essi sono oggetto non è volta a risolvere l’antinomia – come avviene nel caso delle regole – individuando la norma da applicare e quella da escludere. I principi, piuttosto, richiedono che si trovi una risposta corretta e giusta tenendo in considerazione tutti quelli che sono pertinenti al caso, ma stabilendo una gerarchia di precedenza per una situazione concreta. Mentre nel caso delle regole è possibile e necessario escluderne alcune e scegliere una da applicare, il principio può cedere ad un altro nella formulazione di una regola di preferenza, ma questa non colloca il principio preferito in posizione definitivamente prioritaria, ma semplicemente lo addita come prioritario qui ed ora per quel 22 caso in discussione . Al di là della rilevanza di tutto ciò in ottica di interpretazione, la differenza metodologica rende palese la natura del vincolo di cui i principi sono portatori, cioè un vincolo senza eccezioni, ma suscettibile di una graduale intensità. L’inesistenza di un’esauriente determinazione delle possibili applicazioni di un principio fa sì che esso presenti una sporgenza di contenuto rispetto alle concrete determinazioni cui dà luogo. Inoltre essi mostrano 23 una tendenza all’espansione . In quanto principi ideali, essi 22 20 Sull’incidenza delle risorse economiche sulla protezione dei diritti cfr. C. R. SUNSTEIN, S. HOLMES, The Cost of Rights. Why Liberty Depends on Taxes, Paperback, London 1999. 21 Come segno della sua appartenenza alla sfera pratica (cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, a cura di M. ZANATTA, BUR, Milano 1999, 1112 a 27-29). 35 La ricerca di regole stabili di preferenza coinciderebbe, in ultima analisi, con la riduzione del metodo della ponderazione a quello della sussunzione, perché le regole stabili di preferenza sarebbero precetti definitivi in senso stretto. Sulla possibilità di revisioni stabili, cioè di regole di preferenza “resistenti” in molti casi, cfr. il dibattito tra J. J. MORESO e B. CELANO in “Ragion pratica”, 18, 2002, pp. 201-248. 23 E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, Giuffrè, Milano 1990, vol. II, p. 849. 36 esigono di più di quanto “qui ed ora” è possibile ottenere. Ma – e così ci avviciniamo al nervo del nostro discorso – questa sporgenza è anche la ragione dell’esigenza che l’ordinamento giuridico debba continuamente controllare l’adeguatezza delle regole rispetto al principio, così come la ricerca di nuove applicazioni e la predisposizione di nuovi strumenti per la realizzazione, pena la perdita di quella forza propulsiva tipica del principio. Una dimostrazione ostensiva della consapevolezza della pluralità di traduzioni in realtà di un principio è rintracciabile nelle costituzioni che parlano del contenuto essenziale24. Com’è noto, la dottrina del contenuto essenziale dei diritti fondamentali rappresenta uno dei modi di rendere operativo il controllo sull’adeguatezza tra applicazioni e 25 principi a livello costituzionale . La possibilità di individuare un contenuto essenziale dei diritti fondamentali, e la necessità di attenersi in ogni modo ad esso, è il segno di una tensione tra l’assolutezza del valore e la sua relativizzazione nelle situazioni concrete in cui esso si incarna. Il contenuto essenziale non è la soglia minima da rispettare, ma il nucleo normativo irrinunciabile del diritto. In conclusione possiamo dire che i principi sono caratterizzati da un pluralismo nelle modalità di attuazione e da una gradualità di realizzazione. Tali proprietà derivano da condizioni strutturali (il rapporto tra contenuto essenziale e manifestazioni secondarie del principio) oppure da condizioni di applicazione (la forza degli altri principi e delle esistenti regole in cui essi sono tradotti, oltre che le condizioni di carattere fattuale). La possibilità di cedere di fronte 24 Per esempio, l’art. 19.2 della Costituzione tedesca e l’art. 53.1 della Costituzione spagnola. 25 Cfr. A.L. MARTÍNEZ PUJALTE, La garantía del contenido esencial de los derechos fundamentales, Centro de Estudios Constitucionales, Madrid 1997. 37 ad altri principi o la loro ancora inadeguata realizzazione non conduce – dovrebbe ormai essere chiaro – alla invalidità del principio, come accadrebbe per le regole (quando le regole sono disattese a lungo si attiva il processo di abrogazione detto della desuetudine). In effetti, secondo quanto veniamo dicendo, un principio non è mai disatteso completamente, anche se talvolta cede dinanzi ad altri o risulta compresso. L’insufficiente realizzazione o l’attuazione incompleta e non esauriente – che sarà uno stato permanente del principio finché esso continuerà ad essere un fine da raggiungere nei casi concreti – è il segno di un “non ancora” che immette nell’ordinamento una dinamica di perfezionamento26. Il “non ancora” dei principi racchiude in sé un’esigenza di revisione del sistema e di ricerca di nuove possibilità di realizzazione, al punto che si può dire che, anche quando sembrano in uno stato di assopimento, i principi sono presenti nell’ordinamento e costituiscono un pieno obbligo giuridico. Se ora ritorniamo all’obiezione della carente effettività dei diritti, possiamo puntualizzare brevemente alcuni aspetti e trarre alcune conclusioni a livello interno. Dobbiamo distinguere due forme dell’effettività: quella del riconoscimento e quella dell’osservanza27. Riguardo alla 26 Nel senso che i principi supremi rendono possibile un perfezionamento giurisdizionale del diritto anche contra legem (R. ALEXY, Concetto e validità del diritto (1992), trad. it. di F. FIORE, Einaudi, Torino 1997, pp. 7-10). 27 L’effettività è un concetto tipicamente sociologico – pertanto è questione di grado – sia che si guardi al riconoscimento, sia che si guardi all’osservanza del contenuto normativo o dell’imposizione della sanzione in caso di inosservanza. La validità è invece un concetto giuridico o etico. In questo senso sarebbe riduttivo identificare la validità sociale con la validità giuridica, anche se non v’è dubbio che la validità giuridica e quella sociale s’intersecano (cfr. R. ALEXY, Concetto e validità del diritto, cit., 87-127). 38 prima è possibile affermare che i diritti umani sono effettivi perché riconosciuti, almeno nei sistemi costituzionali. Riguardo alla seconda, i diritti presentano evidenti carenze. I diritti umani sono carenti sotto il profilo dell’adeguatezza tra mezzi e fine, e se si considera la possibilità (reale) di venir meno dinanzi ad altre esigenze tutelate sempre sotto forma di principi. Tuttavia, la stessa natura dei principi, se osservata senza pregiudizi, implica altre conseguenze. Tra queste, la principale è che la mancanza di effettività non è indizio o presagio di invalidità – com’è nel caso delle regole – ma implica, come si è detto, l’affermazione di una dinamica di perfezionamento interna al diritto. Ciò che è possibile “qui ed ora” deve essere progressivamente ottimizzato, non certo definitivamente abbandonato. Con un’immagine geologica, potremmo dire, osservando i diritti riconosciuti nelle costituzioni, che i diritti umani hanno raggiunto le vette del diritto, ma devono ancora fecondare le vallate. 4. La pratica internazionale dei diritti prende le mosse dall’intenzione specifica e concreta di tutti gli Stati della terra (alcuni più o meno convinti) di promuovere condizioni umane di sopravvivenza a livello mondiale. Tale intenzione si è cristallizzata nella formazione delle Nazioni Unite, prima, e nella stipulazione di patti internazionali di diversa portata sui diritti umani, poi. Le norme di protezione dei diritti hanno origine principalmente convenzionale (e dunque sono limitate a quegli Stati che aderiscono ai diversi strumenti pattizi). Tuttavia, è necessario ricordare la tendenza della giurisprudenza della corte di giustizia internazionale ad estendere l’obbligo di applicazione delle convenzioni che codificano i diritti umani anche agli Stati che pure non hanno firmato alcuni di questi strumenti. Ciò è stato fatto ancorando i diritti al diritto consuetudinario – dunque alle norme generali del diritto internazionale – e facendoli 39 divenire obblighi erga omnes, cioè vincolanti per tutti gli 28 Stati della comunità internazionale . Quest’ultimo passaggio è particolarmente significativo poiché sembra configurare l’esistenza di un interesse dell’umanità, accolto dalla comunità internazionale a prescindere dall’esplicita adesione degli Stati presi singolarmente: se ciò dovesse irrevocabilmente consolidarsi saremmo di fronte a una revisione radicale del ruolo dello Stato e delle sue prerogative29. Per interpretare adeguatamente la finalità delle Nazioni Unite indicata nell’art. 1, comma 3 dello statuto della stessa («promuovere ed incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzioni di razza, di sesso, di lingua e di religione») si deve intendere che tale protezione implica non solo la reazione alla violazione dei diritti, ma anche la loro “promozione” e perfino la “prevenzione” delle eventuali violazioni (in ciò che segue si trascurerà quest’ultima dimensione, che pure solleva problemi interessantissimi). In questo senso, la critica che all’inizio di questo lavoro è stata riportata riguarda solo un aspetto – seppure molto significativo – della pratica dei diritti: essa rileva l’insufficienza dei cosiddetti rimedi “postumi”, cioè dei modi di reagire ad una violazione già avvenuta. Ma i rimedi postumi non esauriscono il compito della promozione dei diritti30. 5. La disamina dei meccanismi di protezione a livello convenzionale è difficile da liquidare velocemente, ma ci consente di progredire nella costruzione del problema dei meccanismi di protezione e della soggettività dei diritti. 28 C. ZANGHÌ, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, cit., p. 32. M. IOVANE, La tutela dei diritti fondamentali nel diritto internazionale, ESI, Napoli 2000. 30 Ciò mostra ancora una volta il rapporto dialettico tra certezza e giustizia, fini del diritto che devono essere perseguiti in modo ragionevole. 29 40 Prima di tutto va notato che chi si accosta all’apparato di protezione dei diritti ha la sensazione di inoltrarsi in una giungla fitta ed intricata di documenti con diversa validità giuridica, con diverse sfere di destinatari, con organi e procedure variegati. Tuttavia, l’impressione complessiva è che la varietà e la dispersione degli strumenti non è altro che la risposta pragmatica, storica (perciò talvolta incontrollabile e all’apparenza irrazionale) alla stessa istanza, cioè quella della protezione dei diritti. Dunque, seppure portatrice di incertezza, la molteplicità di meccanismi e di strumenti non è in contraddizione con l’esigenza di giustizia cui risponde la protezione dei diritti. Rivolgendo la nostra attenzione agli strumenti “convenzionali” di protezione dei diritti, molto schematicamente, bisogna distinguere tra strumenti volti a determinare i diritti, cioè a “codificarli” – quella che si può denominare la dimensione normativa della pratica –, e gli strumenti volti a disegnare i meccanismi di tutela. La dimensione normativa ha una importanza fondamentale poiché l’enunciazione dei diritti e la sottoscrizione di dichiarazioni di adesione è un primo passo nella loro protezione. Perciò bisogna notare con sgomento che talvolta la principale difficoltà nella protezione dei diritti è data dalla moltiplicazione delle carte dei diritti a causa di un processo di specificazione intricatissimo, sia dal punto di vista terri31 toriale, sia dal punto di vista tematico . Occorrerebbe a questo punto trovare degli espedienti che consentano di unificare questi strumenti. Il più significativo e utile di essi potrebbe derivare dall’inutile, in apparenza, lettura filosofica dei diritti: l’idea che vi sia una “verità” dei diritti umani, e che essa consista nella protezione della persona in tutte le 31 N. BOBBIO, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990, pp. 62-72. 41 sue dimensioni, può considerarsi una chiave di lettura importante – oltre che un criterio ermeneutico – in ordine 32 all’interpretazione dei diritti . Più volte, peraltro, e in questa linea la Assemblea Generale delle Nazioni Unite (AGNU) ha ribadito la indivisibilità dei diritti e la loro interdipendenza. «Nella ragion d’essere della tutela di ogni diritto particolare c’è anche l’istanza che tutti i diritti siano 33 tutelati, nessuno escluso» . Sul piano empirico della progettazione dei meccanismi di tutela, in genere ogni documento normativo stabilisce un organo autorizzato a proteggere i diritti contenuti nello stesso documento. Così sono sorti il Comitato dei diritti umani dal Patto internazionale dei diritti civili e politici (PIDCP), il Comitato dei diritti economici sociali e culturali dal Patto internazionale dei diritti economici, sociali e culturali (PIDESC), il Comitato contro la tortura dalla Convenzione contro la tortura, la Corte europea dei diritti umani dalla Convenzione di Roma, la Corte inter-americana di diritti umani dalla Convenzione inter-americana. Anche in questo terreno l’obiettivo auspicabile sarebbe quello di cercare espedienti di razionalizzazione. Si è pensato per esempio ad un super-comitato a carattere permanente (poiché in genere i comitati si riuniscono sporadicamente) che abbia come obiettivo controllare l’applicazione di tutte le convenzioni e garantire l’unifor34 mità dei risultati . Sotto il profilo degli strumenti si è soliti distinguere i 32 S. COTTA, Soggetto umano, soggetto giuridico, Giuffrè, Milano 1997, p. XI. F. VIOLA, Dalla natura ai diritti. I luoghi dell’etica contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 275. 34 N. OCHOA RUIZ, Los mecanismos convencionales de protección de los derechos humanos en las Naciones Unidas, Thompson-Civitas, Madrid 2004, p. 424. 33 42 meccanismi non giurisdizionali (i rapporti periodici, le ricerche confidenziali) e quelli quasi-giurisprudenziali (le comunicazioni individuali, le comunicazioni statali). Entrambi questi tipi di meccanismo svolgono un’attività di controllo, che si sviluppa in tre diverse fasi: la ricezione dell’informazione, l’interpretazione della disposizione applicabile, la valutazione dell’organo sul problema. Il processo può concludersi in osservazioni conclusive (in seguito ai rapporti) oppure in dettami su casi concreti (in casi di comunicazioni). Sia nel primo sia nel secondo caso, il problema è l’efficacia delle conseguenze: nella maggior parte dei casi non sono vincolanti. Per quanto riguarda il meccanismo delle comunicazioni individuali – cioè lo strumento attraverso il quale la vittima stessa, oppure qualche persona che può dimostrare un interesse alla cessazione della violazione, oppure anche una organizzazione non governativa che agisca in nome di un individuo, denuncia l’offesa – occorre notare che esse seguono una procedura particolarmente gravosa dal punto di vista dei requisiti di ammissibilità. Lungi dal rinunciare a questo sistema, esso si sta progressivamente diffondendo e semplificando. Le risoluzioni della Commissione dei diritti dell’uomo della AGNU 2003/18 e il Consiglio economico e sociale 2003/242 hanno approntato un protocollo facoltativo per il PIDESC – che a differenza del PIDCP non era dotato di un sistema di comunicazioni individuali – affinché esso prenda in esame comunicazioni provenienti da individui o da gruppi aventi ad oggetto la denuncia di violazione dei diritti tutelati dallo stesso. Seppure ancora insufficiente, questo meccanismo potrebbe produrre frutti abbondanti se: 1) si promuovesse la divulgazione delle procedure tra i cittadini; 2) si rendessero più agili le procedure stesse; 3) si proteggessero gli autori delle comunicazioni da eventuali rappresaglie. Non è un 43 caso che il maggior numero delle denunce di violazioni dei diritti umani riguardi Stati che già possiedono istanze interne di protezione, mentre non ve ne siano in Paesi dove è ragionevole presumere che le violazioni siano all’ordine del giorno. Detto questo, bisogna in ogni caso notare un avanzamento negli stessi strumenti di protezione: uno degli ultimi documenti esitati dalla AGNU, la Convenzione per l’eliminazione delle discriminazioni contro la donna, stabilisce sia l’obbligo dello Stato a far conoscere il suo contenuto, sia una disposizione che obbliga lo Stato a adottare tutte le misure necessarie al fine di garantire che le persone che si trovano sotto la sua giurisdizione non siano oggetto di maltrattamenti come conseguenza della avvenuta comunicazione. Sotto il profilo degli strumenti in cui l’interlocutore è lo Stato, non c’è bisogno di un grande acume per sospettare che nei rapporti periodici relativi all’implementazione dei diritti nel proprio territorio essi siano interessati ad occultare quelle informazioni che svelano un insoddisfacente livello di protezione dei diritti. Eppure anche in questo caso, sarebbe scorretto non prendere atto della benché talvolta minima efficacia dissuasiva di questo meccanismo. Il profilo maggiormente delicato è quello della riparazione delle violazioni e della punizione dei colpevoli. I risultati sotto questo profilo sono insufficienti, ma ciò è naturale se si pensa che si tratta – nella maggior parte dei casi – di meccanismi di controllo. Quello che essi possono fare è – tutt’al più – sperare di ottenere che lo Stato introduca dei cambiamenti nella legislazione e nella struttura amministrativa e giudiziaria. In assenza di una corte internazionale permanente, il funzionamento dei meccanismi si arresta nel richiamo allo Stato. Inoltre, il meccanismo di riparazione delle violazioni a livello internazionale, com’è ben noto, implica che la vittima 44 abbia esperito tutte le vie domestiche di soddisfazione senza trovarla. Solo nel caso in cui non si ottenga una riparazione adeguata all’interno dello Stato l’interessato si potrà rivolgere ai comitati, dinanzi ai quali – e ciò a differenziarli dalla corte europea e interamericana dei diritti – non si è legittimati ad invocare direttamente la responsabilità internazionale dello Stato per inadempimento. Da questa breve panoramica sui meccanismi convenzionali di protezione dei diritti si può desumere che – ad oggi – il ruolo protagonista nella tutela dei diritti è svolto dagli Stati stessi. La domanda conclusiva è: come interpretare questa presenza talvolta ingombrante dello Stato nella pratica dei diritti? A questa domanda si possono dare due risposte: una che consacra realisticamente lo statocentrismo innegabile nella prassi dei diritti e l’altra che valorizzando le timide aperture a soggetti diversi dallo Stato tuttavia ne apprezza il ruolo in ordine alla tutela dei diritti. 6. La necessità di valorizzare lo Stato nella tutela dei diritti e contemporaneamente di ridimensionare il suo ruolo si rendono necessari se si riflette sull’altro lato della medaglia dello statocentrismo. Infatti, la non vincolatività delle raccomandazioni disposte dagli organi di controllo e la necessità di previa adesione di uno Stato ad un trattato o convenzione affinché gli organi competenti possano in qualche modo intervenire mostrano chiaramente che il maggiore ostacolo alla protezione dei diritti umani è precisamente la sovranità statale35. In realtà, da quanto detto finora bisogna concludere che lo Stato appare essere sia il miglior nemico dei diritti, sia anche il suo maggior amico. 35 Non è qui il luogo per avviare una riflessione su questo punto, molto complesso, che peraltro non dipende esclusivamente dai diritti umani ma da una molteplicità di istanze. Cfr. L. FERRAJOLI, La sovranità nel mondo moderno, Anabasi, Milano 1995. 45 Esiste una tensione dialettica tra lo Stato e la protezione dei diritti umani. È possibile tuttavia suggerire qualche osservazione conclusiva di carattere teorico, che indichi almeno la prospettiva metodologica adeguata per accostarsi al tema della protezione dei diritti e che permetta di riorganizzare i vari aspetti messi in luce in precedenza. Non c’è dubbio che il diritto internazionale a partire dalla Pace di Westfalia è caratterizzato da un netto statocentrismo. L’unità di base del diritto internazionale – il suo soggetto e il suo attore – è lo Stato, e la grammatica del diritto internazionale (cioè le sue regole) sono volte a gestire i rapporti tra Stati. Il diritto (interno ed internazionale) è 36 visto attraverso le lenti del nazionalismo : ciò significa che si ritiene che il modo adeguato di intendere il diritto implichi sostanzialmente fare i conti con lo Stato ed in ultima analisi esclusivamente con esso. Questa prospettiva metodologica, il nazionalismo metodologico, si combina pacificamente con l’idea del diritto come pretesa azionabile che mette in moto l’apparato sanzionatorio dello Stato, a sua volta unico soggetto legittimato a usare la forza pubblica. L’osservazione senza pregiudizi delle relazioni internazionali, sia dal punto di vista giuridico, sia da quello politico, così come del fenomeno dei diritti, consente di registrare 37 l’apparizione nella scena mondiale di altre comparse . L’individuo, le istituzioni sopranazionali di varia natura (dagli organi delle Nazioni Unite alle organizzazioni regionali quali l’Unione Europea), le organizzazioni non governative come espressioni di una nuova società civile mondia- 36 U. BECK, La società cosmopolita. Prospettive dell’epoca postnazionale, trad. it. di C. SANDRELLI, il Mulino, Bologna 2003, p. 31. 37 F. VIOLA, G. ZACCARIA, Le ragioni del diritto, il Mulino, Bologna 2003, pp. 162-177. 46 le, in qualche modo sono presenti sulla scena mondiale. Una certa forma di pluralismo giuridico sotto il profilo dei sog38 getti della prassi dei diritti si va affermando gradatamente . L’avanzare – seppure faticoso – del pluralismo dei soggetti a livello mondiale ha escluso la deriva verso uno Stato mondiale, un’altra tipica conseguenza del nazionalismo metodologico, che, vedendo con le lenti dello Stato la realtà internazionale, applica le risorse e gli schemi statali al dominio mondiale. Il pluralismo dei soggetti si rende compatibile con il ruolo dello Stato, se non altro per la innegabile funzione che esso svolge nella protezione dei diritti. Lo Stato rappresenta una sfera sufficientemente vicina agli individui e dotata di poteri atti a procurare le condizioni 39 migliori per la tutela e la promozione dei diritti . Per prendere sul serio l’idea che la missione di promuovere i diritti oltrepassa i confini statali, tuttavia, l’ottica del nazionalismo metodologico deve essere modificata. Il suo principale difetto è quello della “invisibilità” delle violazioni dei diritti, non solo quando non vengono comunicate o conosciute, ma anche nel senso che non vengono nemmeno percepite e rilevate. Si pensi all’impossibilità di confrontare sistemi giuridici diversi più o meno rispettosi dei diritti, oppure al distacco tra l’eguaglianza giuridica formale degli Stati sul piano internazionale e alle conseguenze delle disuguaglianze economiche sulla protezione dei diritti. Posta la premessa della sovranità dello Stato e della esclusività dei fattori nazionali nella determinazione dei criteri politici, giuridici ed economici di funzionamento di una comunità politica, ci si potrà disinteressare delle condizioni in cui versano gli individui di quegli Stati che “scelgano” determinati standard di comportamento40. I diritti umani e i loro strumenti di tutela necessitano di un diverso approccio, che si può denominare con Beck lo «sguardo cosmopolita»41. Diversamente da quanto potrebbe superficialmente anticiparsi, esso non prevede una sostituzione dell’unità di base (lo Stato nazionale) con un’altra 42 (lo Stato mondiale o l’individuo) . Piuttosto il cosmopolitismo metodologico si caratterizza per il principio di mescolanza, di differenza. Chi guarda con le lenti cosmopolite è disposto a ammettere una pluralità di soggetti nel campo del diritto internazionale, senza perciò rinunciare al ruolo indispensabile dello Stato nazionale. E senza nemmeno trascurare quello delle istituzioni sopranazionali e degli individui. Quello che tiene insieme tutti questi attori è proprio la comunanza di un orizzonte mondiale e di un obiettivo finale. Se si osserva da questa posizione quanto si è detto sulla prassi dei diritti, essa risulta più comprensibile. Sia lo Stato, sia l’individuo, ma anche le organizzazioni regionali e le organizzazioni non governative (Amnesty International e molte altre delle associazioni che svolgono un ruolo importante nella protezione dei diritti) sono soggetti attivi nella pratica dei diritti. Così come l’accrescersi delle carte che riconoscono i diritti, se si mantiene ferma l’idea della verità dei diritti umani, non è che una risposta alla sporgenza della persona umana rispetto agli strumenti per tutelarla, 40 38 M. WALZER, Governare il mondo (2000), in ID., Sulla guerra, trad. it. di N. CANTATORE, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 171-190. 39 B. R. OPESKIN, The Moral Foundations of Foreign Aid, in “World Development”, 24, 1, 1996, pp. 21-44. 47 J. RAWLS, Il diritto dei popoli (1991), a cura di S. MAFFETTONE, Milano, Edizioni di Comunità 2001, pp. 154-159. 41 U. BECK, La società cosmopolita. Prospettive dell’epoca postnazionale, cit., p. 56. 42 T. W. POGGE, World Poverty and Human Rights, Polity Press, Cambridge 2002, pp. 196-215. 48 l’aumento dei soggetti nella pratica dei diritti non rappresenta la minimizzazione del protagonismo dell’individuo, ma il rafforzamento dell’idea che i suoi diritti costituiscono l’obiettivo in cui convergono gli sforzi di tutti i soggetti della sfera mondiale. 49 3. Benché in questa sede mi occupi dei musulmani, mi preme precisare che i musulmani non sono i soli a violare i diritti dell’uomo e non sono i soli ad avere nelle loro fila fondamentalisti. Troviamo fondamentalisti tra gli ebrei e i cristiani. Il termine fondamentalista è stato, peraltro, coniato all’inizio del secolo per designare i protestanti americani I diritti dell’uomo e la sfida dell’Islam. Diagnosi e rimedi di Sami A. Aldeeb Abu-Sahlieh * Introduzione. Al pari del cristianesimo e dell’ebraismo l’Islam non esiste. Il giorno in cui lo incontrerete invitatelo a bere un caffè a casa vostra. Per tale motivo, non parlerò dell’Islam ma dei musulmani, della loro attuale posizione di fronte ai diritti dell’uomo, dell’avvenire di tali diritti nell’ipotesi di ascesa al potere dei fondamentalisti, della sfida che attualmente essi rappresentano per un Paese occidentale come la Svizzera dove vivono circa duecentomila musulmani e delle soluzioni proposte dai musulmani e dagli occidentali ai problemi connessi con l’applicazione del diritto musulmano. In ordine ai fondamentalisti musulmani, mi baserò sui loro documenti in lingua araba, in particolare sulle loro dichiarazioni relati1 2 ve ai diritti dell’uomo e sui loro modelli costituzionali . * Docente di diritto comparato, Istituto svizzero di diritto comparato di Losanna. 1 Il mondo arabo-musulmano ha elaborato numerose dichiarazioni sui diritti dell’uomo. Il lettore troverà la traduzione integrale di undid dichiarazioni in SAMI A. ALDEEB ABU-SAHLIEH, Les Musulmans face aux droits de l’homme. religion, droit, politique, étude et documents, Verlag Dr. Dieter Wmlder, Bochum, annexes 1-11, p. 462-522. Alcune di queste dichiarazioni intendono conformarsi alla legge islamica. Sono le seguenti dichiarazioni: 1. Prima dichiarazione dell’Oci, 1979, elaborata dall’Organizzazione della Conferenza islamica che raggruppa tutti i Paesi musulmani. 2. Seconda dichiarazione dell’Oci, 1981, elaborata dall’Organizzazione della Conferenza 51 islamica. 3. Terza dichiarazione dell’Oci, 1990, elaborata dall’Organizzazione della Conferenza islamica. Nota sotto il nome di Déclaration du Caire des droits de l’homme in islam, fu adottata dalla diciannovesima Conferenza islamica dei Ministri degli Affari esteri svoltasi al Cairo dal 31 luglio al 4 agosto 1990. 4. Prima dichiarazione del Consiglio islamico, 1980. Nota sotto il nome di Déclaration islamique universelle, è stata elaborata dal Consiglio islamico d’Europa, la cui sede è a Londra. 5. Seconda dichiarazione del Consiglio islamico, 1981. Nota sotto il nome di Déclaration islamique universelle des droits de l’homme, è stata elaborata dal succitato Consiglio islamico d’Europa. 6. Convegno del Kuwait, 1980. Si tratta delle conclusioni e delle raccomandazioni del Convegno del Kuwait sui diritti dell’uomo in Islam organizzato dalia Commissione internazionale dei giuristi dell’Università del Kuwait e dall’Unione degli avvocati arabi, Kuwait, 9-14 dicembre 1980. 2 Secondo i loro autori, questi modelli costituzionali sostituiscono le costituzioni arabo-musulmane attuali di ispirazione occidentale. Il lettore troverà una traduzione integrale dei sei modelli costituzionali islamici in Sauri A. Aldeeb Abu-Sahlieh, Les Musulmans face aux droits de l’homme, cit., annexes 12-17, p. 522-569. Si tratta dei modelli seguenti: 1. Modello costituzionale dei Fratelli musulmani egiziani, 1952. 2. Modello costituzionale del Partito di liberazione, 1952. Questo partito è stato costituito dai dissidenti palestinesi dei Fratelli musulmani. Benché vietato in tutto il mondo arabo, continua ad agire in particolare nei territori occupati e in Giordania. 3. Modello costituzionale dell’Azhar, 1978. Questo modello è stato predisposto dall’accademia dei ricercatori islamici dell’Azhar. 4. Modello costituzionale di Wasfi, 1980. Questo testo è stato elaborato da Mustafa Kamal Wash, vicepresidente del consiglio di Stato egiziano. Il suo autore aveva preso parte alla redazione del succitato Modello costituzionale dell’Azhar. È per sottolineare il suo dissenso da quest’ultimo modello che ha pubblicato il suo. 5. Modello costituzionale del Consiglio islamico, 1983. Questo modello, redatto dal Consiglio islamico d’Europa, Londra, è stato presentato il 10 dicembre 1983 ad una conferenza islamica internazionale svoltasi a Islamabad. 6. Modello costituzionale di Garishah, 1984. Questo modello è stato elaborato da `Ali Garishah, autore di numerose opere islamiste. È stato rivisto da `Umar Al-Tilmissani, capo dei Fratelli musulmani egiziani. 52 fedeli alla lettera della Bibbia. Tale corrente è alla base della politica di parte adottata dagli Stati Uniti nei confronti del 3 vicino Oriente . Ed è anche una delle ragioni per cui 1160% dei bambini americani vengono circoncisi... in applicazione della Bibbia4. Lo studio inizia con una parte generale relativa alle fonti della legge secondo le due concezioni: occidentale e musulmana. I. Le fonti della legge: parte generale. La legge ha tre fonti principali: - il consenso democratico: il popolo, sia direttamente, sia attraverso i rappresentanti direttamente eletti, decide quale sarà la legge regolatrice. Una legge adottata oggi può essere mutata domani con il consenso del popolo. Il potere legislativo è un attributo della sovranità, che risiede nel popolo. - il dittatore: un dittatore impone unilateralmente la sua legge al popolo che governa. Tale legge muta solo se il dittatore lo desidera. È difficile far intendere ragioni a quest’ultimo perché ciò significa che si è sbagliato. Chi non obbedisce viene decapitato o esiliato in Siberia. La legge dura fintantoché il dittatore è in carica. - la religione: un uomo religioso, che gode di un certo cari- 3 Il 10 settembre 1993, tre giorni prima della firma dell’accordo tra Yasser Arafat e Itzhak Robin, Bill Clinton, cristiano battista convinto, fece una confidenza ai suoi consiglieri: «Non dimenticherò mai l’unica volta in cui sono andato in Israele (...). Ero con il mio pastore. Mi disse: quando diventerete presidente - allora avevo trentaquattro anni, ero il più giovane governatore dell’Arkansas e mi dicevo che non sapeva esattamente quello che diceva - ricordatevi di una cosa: Dio non vi perdonerà mai se volterete le spalle ad Israele» (Le Monde, 28 ottobre 1984, citando l’opera di Dan Raviv e Yossi Melman, Friends in deed, Hyperion, New York 1994). 4 Sul tema biblico della circoncisione negli Stati Uniti, v. JIM BIGELOW, The Joy of Uncircumcisting restore your birthright and maximize sexual pleasure, Hourglass Book publishing, 2’ ed., 1995, p. 84-87. 53 sma, fa credere ad un gruppo di uomini di essere in contatto con un personaggio trascendente chiamato spesso ‘Dio’, sostenendo di essere il depositario del messaggio divino che deve regolare la società. Certo, vi si può credere o non credere, ma tutto dipende dal potere che supporta il messaggero di ‘Dio’. È sufficiente che il religioso abbia il potere o che un dittatore abbia interesse a nascondersi dietro a tale religioso e il suo messaggio, perché la scelta venga limitata. La legge religiosa diviene, quindi, una dittatura, richiede una rinuncia della ragione (il termine ‘Islam’ non vuol dire forse sottomissione o resa?). D’altra parte, tale legge è immutabile; così non è possibile un aggiornamento della Bibbia, del Vangelo o del Corano. Quale di queste tre fonti è la più idonea a garantire la dignità dell’uomo? È opportuno lasciare che gli esseri umani si accordino fra loro, o al contrario è opportuno sottometterli al dictat di un dittatore o di un essere trascendente dietro al quale si nasconde il religioso? Questa è la questione che si è posta attraverso i secoli. Si vedrà la soluzione adottata dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 che avevano lo scopo di definire gli elementi della dignità umana in una società multiconfessionale. l. Le fonti della legge secondo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Il preambolo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo dei 1789 afferma: «I rappresentanti del popolo francese, (...) considerando che l’ignoranza, l’oblio o il disprezzo dei diritti dell’uomo sono le uniche cause del malessere sociale e della corruzione dei governi, hanno deciso di esporre in una dichiarazione solenne, i diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo». Tale dichiarazione afferma che «La sovranità appartiene essenzialmente alla Nazione» (art. 3), che la leg54 ge «è l’espressione della volontà generale» (art. 6) e che «nessuno deve essere perseguitato per le sue opinioni, anche religiose, purché la loro manifestazione non turbi l’ordine pubblico stabilito dalla legge» (art. 10). Non si fa nessun accenno a Dio. Ora, in Francia, esisteva una comunità ebraica, guidata dai rabbini, al contempo discriminata per la sua appartenenza religiosa e discriminante per le sue leggi religiose. Occorreva, dunque, porre fine alla discriminazione nei suoi confronti concedendo ai suoi membri lo status di cittadini, ma anche far cessare la sua discriminazione respingendo le sue leggi religiose e l’autorità dei rabbini. Una sfida venne lanciata durante un’assemblea di notabili ebrei e del sinedrio: «Sua maestà, disse loro un intermediario nominato da Napoleone, vuole che siate francesi, è a voi che spetta accettare simile titolo e riflettere su ciò a cui dovreste rinunciare per esserne degni». Vennero poste loro dodici domande: 1. È lecito per un ebreo sposare più donne? 2. Il divorzio è consentito dalla legge ebraica? È valido il divorzio non pronunciato dai tribunali e in base a leggi contrarie a quelle del codice francese? 3. Un’ebrea può sposarsi con un cristiano e una cristiana con un ebreo? O la legge vuole che gli ebrei si sposino solo fra loro? 4. Per gli ebrei i francesi sono fratelli o estranei? 5. In entrambi i casi quali i rapporti previsti dalla legge con i francesi che non appartengono alla loro religione? 6. Gli ebrei nati in Francia e trattati dalla legge come cittadini francesi riconoscono la Francia come loro patria? Hanno l’obbligo di difenderla? Sono obbligati ad obbedire alle leggi e a seguire tutte le disposizioni del codice civile? 7. Chi designa i rabbini? 8. Quale potere di polizia esercitano i rabbini tra gli ebrei? Che tipo di polizia giudiziaria? 55 9. Tali forme di elezione, tale potere di polizia, sono previsti dalla legge o sono consacrati dalla consuetudine? 10. Quali professioni la legge ebraica garantisce loro? 11. La legge ebraica giustifica l’usura ai loro fratelli? 12. La prevede o la consente solo per gli estranei? Consapevoli dell’importanza della posta in gioco, gli ebrei riuniti si premurarono a rispondere che l’ebraismo prescriveva di considerare legge suprema la legge del principe in materia civile e politica e che essi si erano sempre sentiti in dovere di sottomettersi alle leggi dello Stato. La poligamia era stata abbandonata da molto tempo e il divorzio civile riconosciuto. L’unica questione imbarazzante era quella dei matrimoni misti. Dopo una vivace discussione dettero una risposta conciliante ma astuta: tali matrimoni non erano affatto vietati ma i rabbini sarebbero disposti a benedire il matrimonio di una cristiana con un ebreo o di un’ebrea con un cristiano solo se i sacerdoti cattolici avesse5 ro acconsentito a benedire simili unioni . Si vedrà più oltre che il problema posto dalla comunità ebraica in Francia si pone oggi con la comunità musulmana che vive in Svizzera e in altri Paesi occidentali. 2. Le fonti della legge secondo la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. Essendosi prefissa lo scopo di elaborare la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo al fine di tutelare la dignità umana in seguito agli orrori della Seconda guerra mondiale, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite si è scontrata con le divergenti convinzioni dei suoi membri nel primo articolo, il quale nella sua formulazione attuale dichiara: 5 SAMI A. ALDEEB ABU-SAHLIEH, L’impact de la religion sur l’ordre juridique: cas de l’Égypte, Editions universitaires, Fribourg, 1979, p. 33. 56 «Tutti gli uomini nascono liberi e uguali per dignità e diritti. Sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire l’uno verso l’altro con spirito di fraternità». La delegazione del Brasile aveva suggerito che la seconda parte di questo articolo fosse redatta nel modo seguente: «Creati ad immagine e somiglianza di Dio, sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire l’uno verso l’altro con 6 spirito di fraternità» . Le reazioni furono molteplici; talune a favore, altre contro. Il rappresentante della Cina ricordava che la popolazione del suo Paese costituiva un’importante frazione della popolazione mondiale e che il suo Paese aveva ideali e tradizioni diversi da quelli dell’Occidente cristiano. Chiedeva di 7 evitare le questioni metafisiche . I rappresentanti dell’Uruguay e dell’Equador sostenevano che nessun cenno alla divinità dovesse essere fatto in un documento delle Nazioni Unite8. Il rappresentante dell’India dichiarava: «Tutti i paesi, nonostante abbiano convinzioni e sistemi politici differenti condividono la medesima idea di giustizia sociale e libertà. La dichiarazione ha lo scopo di affermare tali ideali e di porre le basi di un accordo che ottenga il consenso di tutti. In ordine all’art. 1 si è concordi nel ritenere che tutti gli uomini devono vivere nella libertà e nella fraternità. Al riguardo, si deducono insegnamenti tanto dalle democrazie orientali quanto da quelle occidentali». «Poiché l’emendamento proposto dal Brasile contiene una dichiarazione di fede che non è accettata da tutti i rappresentanti», chiedeva al rappre- sentante del Brasile di ritirarla per favorire un consenso unanime9. Il signor Grumbach, rappresentante della Francia dichiarava che «Pur rispettando il sentimento religioso che l’ha ispirata, non ritengo opportuno introdurre nell’art. 1 una dichiarazione relativa all’origine dell’uomo, dichiarazione che i rappresentanti non possono tutti condividere. La libertà religiosa è un diritto fondamentale dell’uomo». Riteneva che «sarebbe stato meglio non tentare di accordarsi sulla questione dell’origine dell’uomo, e che conveniva evitare ogni controversia del genere. La Commissione deve avere lo scopo essenziale di arrivare ad un accordo su principi fondamentali che possano essere messi in pratica. Tale linea di condotta può essere seguita sia dai credenti che dai non credenti». Il signor Grumbach evocava l’autorità del «grande cattolico Jacques Maritain» che «ha affermato esplicitamente, relativamente a tale questione, che le nazioni dovrebbero tentare di raggiungere un accordo su una dichiarazione dei diritti dell’uomo e che era inutile tentare di cercare un consenso sull’origine di questi diritti. E questo accordo pragmatico sui diritti fondamentali che ha costituito l’unione e la forza dei governanti della Francia durante i 10 terribili anni dell’occupazione» . Un altro tentativo di introdurre Dio nella Dichiarazione universale non ha avuto successo. Infatti, il rappresentante del Libano aveva proposto di inserire nell’articolo sulla famiglia la seguente frase: «Dotata dal Creatore di diritti inalienabili dal diritto positivo, la famiglia (...)». Si era ispirato al testo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo della «National Catholic Welfare Conference» degli Stati Uniti. Il rigetto 6 AIO/215. A. VERDOODT, Naissance et signification de la Déclaration universelle des droits de l’homme, Wamy, Louvain 1964, p. 277. 8 Ivi, p. 278. 7 57 9 AG, seduta plenaria 99, Y sessione, p. 116. Ivi, p. 116-117. 10 58 ditale proposta veniva motivato con il fatto che, in taluni Paesi, Chiesa e Stato sono separati e che di conseguenza non sarebbe stato opportuno inserire in un testo giuridico11 politico elementi religiosi . Dupuy scrive, a proposito ditale discussione, che «Dio si vedeva rifiutare il diritto di cittadinanza dalle Nazioni Uni12 te, alle quali appariva come il massimo comune divisore» . In proposito si può constatare che nessun documento delle Nazioni Unite sui diritti dell’uomo fa cenno a Dio. Tali diritti non scaturiscono da un comandamento divino, ma da considerazioni pratiche. Così la Dichiarazione universale considera il rispetto dei diritti dell’uomo necessario per evitare «che l’uomo sia costretto, come estrema risorsa, alla rivolta contro la tirannia e l’oppressione». Ciò è quanto dichiara il preambolo, che menziona fra gli scopi perseguiti dall’Assemblea generale: - evitare «atti di barbarie che ripugnano alla coscienza dell’umanità»; - realizzare «la più grande aspirazione dell’uomo» che consiste nell’«avvento di un mondo nel quale gli esseri umani saranno liberi di pensare e di credere, affrancati dal terrore e dalla miseria»; - incoraggiare «lo sviluppo di relazioni amichevoli fra le nazioni». Queste sono le ragioni che fondano i diritti dell’uomo. Tali ragioni parlano da sole. Se, invece, si ricorre a Dio per sapere ciò che è necessario rispettare e ciò che non si deve rispettare, si rischia di attendere a lungo poiché l’uomo non ha ancora inventato nessun sistema tecnico per comunicare 11 A. VERDOODT, Naissance, cit., p. 275-277. J. R. DUPUY, La laïcité dans les déclarations internationales des droits de l’homme, in La laïcité, Puf, Paris 1960, p. 152. 12 59 con lui al fine di conoscere la sua volontà. A meno che non si cerchi tale volontà nei testi ‘rivelati’ da questo o quello. Ora, questi ultimi vanno al di là dell’umano intendimento, riducono la ragione al silenzio e paralizzano gli stimoli intellettuali. E, ancora più grave, sono contraddittori, hanno provocato guerre di religione, hanno messo in pericolo la libertà di coscienza e di credo e hanno discriminato coloro che non vi si conformavano (gli infedeli) e le donne. D’altra parte, non è più rassicurante prestare orecchio ai numerosi ‘passa parola’ di Dio, che sono in competizione fra loro, si pongono al di sopra della ragione, monopolizzano il potere, negano ai comuni mortali qualsiasi decisione autonoma e contribuiscono spessissimo a violare la dignità umana. Ora, la Dichiarazione universale tende, appunto, ad instaurare la pace e ad abolire simili forme di discriminazione. Su quest’ultimo punto, l’art. 2, al. 1 di tale Dichiarazione sancisce: «Ognuno può avvalersi di tutti i diritti e di tutte le libertà proclamati nella presente Dichiarazione, senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l’origine nazionale o sociale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione». 3. Le fonti della legge in diritto musulmano. I musulmani condividono con gli ebrei il concetto di legge, che – come si è già detto – circoscrive i confini della dignità umana. Credono che la legge scaturisca da un messaggio ’rivelato’ da un Dio trascendente che si sottrae al controllo dei comuni mortali, messaggio del quale si servono i profeti, e successivamente i religiosi, per disciplinare la vita degli esseri umani e decidere dei loro diritti e doveri. Presso gli ebrei, la Bibbia ‘rivelata’ da Dio, la Mishnah e il Talmud, testi applicati a partire dalla Bibbia, hanno consentito ai rabbini di forgiare un sistema giuridico al quale deve 60 obbedire il popolo ebraico. Nessuno può scostarsi dagli insegnamenti della Bibbia. Quest’ultima afferma: «Vi preoccuperete di mettere in pratica tutto ciò che vi comando; non vi aggiungerete nulla e nulla ne toglierete» (Dt 13:1). «Le cose rivelate sono per noi e per i nostri figli, sempre, perché pratichiamo tutte le parole di questa legge» (Dt 29:28). «E una legge perenne di generazione in generazione, in tutti i luoghi dove abiterete» (Lv 23:14). Evocando questi versetti, il famoso rabbino e filosofo Mâimonide (1135-1204) scrive: «è una nozione chiaramente precisata nella legge che quest’ultima è un dovere eterno e nei secoli dei secoli, non è suscettibile di variazioni, detrazioni, ampliamenti». Chi sosterrà il contrario dovrà, secondo Mâimonide, essere strangolato13. Per i musulmani, la fonte primaria del diritto è il Corano, una scrittura ‘rivelata’ da Dio a Maometto (570-632). Per comprenderla e completarla, i musulmani si basano generalmente su una seconda fonte, la tradizione di Maometto (sunnah) riportata nei discorsi riuniti in numerose raccolte contraddittorie, fra le quali la più famosa è quella di AlBukhari, morto nell’870, dunque 238 anni dopo la morte di Maometto. Altre raccolte sono ancora più tardive. Sulla base di queste due fonti, i giuristi musulmani hanno creato un sistema giuridico chiamato «diritto musulmano» che i musulmani devono applicare. Muhammad Mitwalli Al-Sha’rawi, personalità religiosa e politica egiziana, sostiene che la rivelazione è venuta a chia- rire le questioni soggette a contestazioni, esonerando così l’uomo dalla fatica di risolverle con la discussione o con esperienze ripetitive estenuanti. II musulmano non deve ricercare fuori dell’Islam soluzioni ai suoi problemi, poiché l’Islam offre soluzioni eterne e giuste in assoluto14. AlSha’rawi aggiunge: «Se fossi il responsabile di questo paese o la persona incaricata di applicare la legge di Dio, impartirei il termine di un anno a chi rifiuta l’Islam, accordandogli il diritto di dichiarare che non è più musulmano. Lo dispenserei dall’applicazione della legge islamica condannandolo 15 a morte come apostata» . Otto secoli separano Maïmonide da Al-Sha’rawi, ma le parole sono le stesse, malgrado la loro appartenenza a due religioni differenti e antagoniste. Tale concezione islamica della legge si rinviene in diverse dichiarazioni islamiche sui diritti dell’uomo. Così, la Dichiarazione islamica universale dei diritti dell’uomo adottata nel 1981 dal Consiglio islamico (la cui sede è a Londra) afferma ripetutamente che i diritti dell’uomo si fondano sulla volontà divina. Nel primo passo del preambolo si legge: «Dopo quattordici secoli, l’Islam ha definito, con Legge divina, i diritti dell’uomo, nel loro insieme nonché nelle loro implicazioni». Uno dei considerando di tale preambolo aggiunge: - «forti della nostra fede nel fatto che [Dio] è il padrone sovrano di tutte le cose in questa vita presente come nella vita ultima (...); - forti della nostra convinzione che l’intelletto umano è incapace di elaborare la via migliore senza la guida di Dio e la sua rivelazione; 14 13 M. MAÏMONIDE, Le livre de la connaissance, Quadrige e Puf, Paris 1991, p. 97-98. 61 MUHAMMAD MITWALLI AL-SHA’RAWI, Qadaya islamiyyah, Dar alshuruq, Beyrouth & Le Caire 1977, p. 35-39. 15 Ivi, p. 28-29. 62 - noi, Musulmani, (...) proclamiamo questa Dichiarazione, fatta in nome dell’Islam, dei diritti dell’uomo quali si deducono dal nobilissimo Corano e dall’incorrotta Tradizione profetica (sunnah). - A tale titolo, questi diritti si presentano come diritti eterni non suscettibili di soppressione o rettifica, abrogazione o annullamento. Sono diritti che sono stati definiti dal Creatore – sia lode a Lui – e che nessun essere umano, chiunque sia, ha il diritto di annullare o sminuire». Un autore musulmano moderno scrive che «la Nazione nel sistema islamico non può contraddire una norma del testo sacro o della sunnah o concludere un atto le cui condizioni siano loro contrarie. Quale che sia il consenso dei 16 governanti di tale Nazione» . «La Nazione e i suoi governanti non hanno potere legislativo; possono solo far riferimento a Dio e al suo messaggero per dedurre le norme»17. Coloro che accettano di parlare di sovranità popolare si affrettano a fissarne i limiti: - Se la questione da disciplinare è oggetto di una norma del Corano o della sunnah, al contempo autentica e chiara, la Nazione può soltanto sottomettervisi; non può fissare una norma contraria. - Se il senso si presta a differenti interpretazioni, la Nazione può tentare una soluzione, partendo dalla comprensione del testo e preferendo un’interpretazione all’altra. - In assenza di norme, la Nazione è libera di fissare la norma più opportuna a condizione che tale norma rispetti lo spirito del diritto musulmano e le sue regole generali e che 16 `ABD-AL-HAKIM HASSAN AL- AYLI, Al-hurriyyat al-`ammah fil--fikr wal-mizam al-siyassi fil-islam, dirassah muquranah, Dar al-fikr al-arabi, Le Caire 1974, p. 215. 17 Ivi, p. 215. 63 non contrasti con nessuna norma islamica»18. Si può affermare che, in rapporto alle scritture sacre degli ebrei e dei musulmani, il Vangelo è un’opera povera di norme giuridiche. Per tale motivo, i cristiani hanno adottato il diritto romano. È sbagliato per un giurista parlare di una cultura ebraica-cristiana. È opportuno, piuttosto, parlare di cultura ebraica-musulmana. La povertà di norme giuridiche nel Vangelo è un punto di forza per i cristiani che, così, sono più liberi di innovare il loro diritto senza scontrarsi eccessivamente con i religiosi che si nascondono dietro la Sacra Scrittura. La ricchezza dei testi sacri ebraici e musulmani, al contrario, costituisce un vero handicap per l’evoluzione del diritto in Israele e nei Paesi arabi, dal momento che lo Stato è sempre in conflitto con i religiosi, che desiderano piegare lo Stato al diritto religioso. 4. Le fonti della legge nel diritto arabo attuale. La maggior parte delle costituzioni dei Paesi arabi affermano che l’Islam è la religione di Stato e che il diritto musulmano è una fonte principale, perfino la fonte primaria del 19 diritto . Malgrado tali affermazioni, il diritto musulmano attualmente copre solo il diritto di famiglia e il diritto successorio, nonché il diritto penale in taluni Paesi come l’Arabia Saudita. Gli altri ambiti del diritto sono disciplinati da norme importate principalmente dall’Occidente, a cominciare dalla stessa costituzione, il sistema giudiziario, il diritto civile, il diritto commerciale e il diritto penale. Ma il dirit- 18 FATHI `ABD-AL-KARIM, Al-dawlah wal-siyadah fil-fiqh al-islami, Maktabat Wahbah, Le Caire 1977, p. 227-228; `ABD-AL-GALIL MUHAMMAD ’ALI, Mabda’ al-mashru’iyyah fil-nizam al-islami wal-anzimah al-qanuniyyah almu’assirah, `Alam al-kutub, Le Caire 1984, p. 216-224. 19 V. SAMI A. ALDEEB ABU-SAHLIEH: Les Musulmans face aux droits de l’homme, op. cit., p. 26-35. 64 to musulmano continua ad influenzare la vita sia sociale che politica nei Paesi arabi. Inoltre, attualmente, esiste una corrente di attivisti islamici molto forte che rivendica l’estensione dell’applicazione del diritto musulmano arabo a tutti gli ambiti. Ma fin dove bisogna spingersi in una simile applicazione e quali le implicazioni per il rispetto dei diritti dell’uomo? Di ciò si tratterà nel punto seguente. II. La sfida del diritto musulmano ai diritti dell’uomo nei Paesi arabi. Parecchi diritti vengono attualmente violati nei Paesi arabi, violazioni motivate dall’applicazione del diritto musulmano. Estendere tale applicazione aggraverebbe le violazioni. 1. Diritti politici. Non ci si soffermerà sulle difficoltà con le quali, nel mondo arabo, si confrontano i partiti politici. Tali difficoltà hanno come retroscena la concezione politica musulmana. Infatti, il Corano offre una concezione manichea dei partiti politici opponendo il partito del Demonio (hizb al-shaytan) al partito di Dio (hizb Allah), come si può constatare dalla seguente citazione: «I sostenitori del Demonio non sono forse perduti? (...) Tu non troverai persone, che credono in Dio e nell’Ultimo Giorno, e che testimonino benevolenza a coloro che si oppongono a Dio e al suo Profeta; siano essi loro padri, loro figli, loro fratelli o facciano parte dei loro clan. Dio ha infuso la fede nei loro cuori e li ha fortificati con lo spirito che da lui promana (...). Dio è soddisfatto di loro ed essi sono soddisfatti di lui. Questi sono i sostenitori di Dio. I sostenitori di Dio non sono forse vincenti?» (58: 19-22; v. anche 5:56). «Partito di Dio»» questo è il nome che ancora oggi porta un partito politico del Libano: Hizb Allah, meglio noto in 65 Occidente con il nome di Hezbollah. Interpellato sulla possibilità di costituire partiti politici, Ibn-Taymiyyah (1263-1327) rispondeva di non intravedere ostacoli se gli adepti di tali partiti fossero riuniti «attorno a ciò che Dio e il suo Profeta hanno ordinato, senza aggiungervi o togliervi nulla»20. Analoga diffidenza per i partiti politici che non condividono il punto di vista islamico si ritrova nei diversi modelli costituzionali e dichiarazioni islamiche. L’art. 19 del Modello costituzionale del Partito di liberazione sancisce che «I musulmani hanno il diritto di costituire partiti politici per chiedere un rendiconto ai governanti o per salire al potere attraverso la Comunità islamica, a condizione che tali partiti si fondino sul dogma islamico e che le norme adottate siano islamiche. La costituzione di partiti politici non necessita di nessun’autorizzazione. Ogni associazione che si fonda su basi diverse dall’Islam è vietata». Il Modello costituzionale dell’Azhar non tratta della costituzione di partiti politici. Lo stesso dicasi per il Modello dei Fratelli musulmani. A giudicare dagli scritti del loro fondatore, Hassan Al-Banna21, questo silenzio non è casuale e implica con ogni probabilità i1 rifiuto dei partiti politici. Il Modello costituzionale di Garishah autorizza la costituzione di partiti politici nella misura in cui essi non violino la legge islamica (art. 4). Analogamente il Modello costituzionale del Consiglio islamico (art. 18.a). Neppure la seconda Dichiarazione dei diritti dell’uomo del Consiglio islamico tratta della formazione di partiti poli- 20 IBN-TAYMIYYAH, Magmu’uat al-rassa’il wal-massa’il, vol. 1, p. 152-153 (cit. da Muhammad Salim `Awwa, Fil-nizam al-siyassi lil-dawlah alislamiyyah, 7a ed., dar al-shuruq, Beyrouth & Le Caire 1989, p. 76-77). 21 Sulla posizione di HASSAN AL-BANNA sui partiti politici., v. SAURI A. ALDEEB ABU-SAHLIEH, Les Musulmans face aux droits de l’homme, cit., p. 319-320. 66 tici, ma tale diritto si può dedurre dall’art. 14.a che dichiara: «Ogni individuo ha il diritto di partecipare, da solo o con altri, alla vita della sua comunità naturale, sul piano religioso, culturale, politico ecc., così come ha il diritto di creare le istituzioni e di assicurarsi i mezzi necessari per l’esercizio di tale diritto: esclama: ecco il mio cammino! Mi affido a Dio, me stesso e coloro che mi seguono, in tutta chiaroveggenza» (12:108). Tuttavia, il Modello costituzionale del Consiglio islamico riconosce il diritto di riunione e di associazione solo nel caso in cui sia conforme alla legge divina (art. 18.a). 2. Diritti della donna. In nessuna parte del mondo la donna non ha ancora acquisito la parità dei diritti con l’uomo, così nella società occidentale come nella società musulmana. La posizione della donna nei Paesi arabo-musulmani è al di sotto dello standard stabilito dai documenti delle Nazioni Unite relativi ai diritti dell’uomo. Tali Paesi non hanno, peraltro, esitato a formulare riserve tutte le volte che un documento onusiano tendente a migliorare i diritti delle 22 donne contrastava con le norme islamiche . Non si può, tuttavia, negare che la posizione della donna musulmana si è in certo qual modo evoluta in taluni Paesi. Così che sono state promulgate leggi volte a ridurre la portata delle norme islamiche sul diritto di famiglia, in particolare quelle relative alla poligamia e al ripudio. Inoltre, la donna musulmana ha ottenuto in numerosi Paesi musulmani il 22 V., per esempio, la riserva dell’Egitto, dell’Irak, della Giordania, della Libia e della Tunisia sull’art. 16 della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne in Traités multilatéraux déposés auprès du secrétaire général, situazione al 31 dicembre 1991, Nations Unies, New York 1992, p. 174-181. 67 diritto di voto, il diritto di accedere a cariche politiche, giudiziarie e altre funzioni pubbliche, il diritto al lavoro, il diritto all’istruzione, il diritto di vestire senza tener conto delle norme coraniche restrittive. I movimenti dell’attivismo islamico non nascondono la loro ostilità nei confronti di tale progresso che ritengono contrario alla legge islamica. Il Modello costituzionale del Partito di liberazione afferma che «la donna ha gli stessi diritti e gli stessi doveri dell’uomo, eccetto quelli che l’islam, nelle fonti della legge islamica, riserva specificatamente alla donna o all’uomo» (art. 102). I Modelli costituzionali dell’Azhar e del Consiglio islamico non enunciano il principio generale dell’uguaglianza tra l’uomo e la donna. La terza Dichiarazione dei diritti dell’uomo dell’Organizzazione della Conferenza islamica si limita ad affermare: «La donna è pari all’uomo nella dignità umana; i suoi diritti sono equivalenti ai suoi doveri» (art. 6.a). Tale formula riprende una parte del versetto coranico 2:228, il cui seguito proclama la preminenza dell’uomo sulla donna: «Le donne hanno diritti equivalenti ai loro obblighi e conformemente alla consuetudine. Gli uomini tuttavia predominano su di esse». Tra i problemi posti dai movimenti dell’attivismo islamico, occorre segnalare la separazione dei sessi e l’abbigliamento femminile. Il Modello costituzionale del Partito di liberazione dichiara che: «In linea di principio, la donna è madre e padrona di casa; è un onore (`ard) che bisogna salvaguardare» (art. 100). Aggiunge che «gli uomini devono essere separati dalle donne; i rapporti tra i due sessi sono consentiti solo per necessità ammesse dalla legge islamica come la vendita o il pellegrinaggio» (art. 101). Precisazioni vengono fornite dagli artt. 105 e 106, in particolare laddove si afferma che «sono vietati gli incontri in privato con uomi68 ni non appartenenti alla famiglia, l’ostentazione volgare e mostrarsi impudicamente (’awrah) agli estranei». Peraltro, si legge nel Modello costituzionale dell’Azhar che «l’ostentazione della bellezza (tabarrug) è vietata. La salvaguardia dell’onore è un dovere. Lo Stato promulga leggi e decreti conformi alle norme della legge islamica al fine di proteggere la morale pubblica (al-shu’ur al-`am) dalla volgarità (ibtidhal)» (art. 14). I movimenti dell’attivismo islamico affermano il principio di superiorità dell’uomo sulla donna. La seconda Dichiarazione dei diritti dell’uomo dell’Organizzazione della Conferenza islamica enuncia che «l’uomo deve avere l’ultima parola ed essere il capo della famiglia» (art. 4). In termini più vaghi, la seconda Dichiarazione dei diritti dell’uomo del Consiglio islamico dichiara: «Le responsabilità della famiglia sono divise (sharikah) fra tutti i suoi membri, in funzione dell’energia e della tempra» (art. 19). Gli attivisti islamici si soffermano anche sul problema dell’accesso della donna ai diritti politici e a funzioni rilevanti. Secondo il Modello costituzionale del Partito di liberazione, «può esercitare il potere pubblico o ogni altra funzione che da esso promani solo un uomo, libero, equo (adl). Può essere solo musulmano» (art. 17). Il commentario evoca la nota esplicativa di Maometto: «Una nazione che affida i suoi interessi ad una donna non conoscerà mai il succes23 so» . La donna è esclusa dall’accesso a talune funzioni: non può essere capo di Stato, ma può eleggerlo e prestargli giuramento di fedeltà (art. 31). Non può essere giudice della corte suprema, né prefetto. Non può «porre in essere nessun atto che comporti un potere» (art. 104). 23 HIZB AL-TAHRIR, Muqaddimat al-dustur aw al-asbab al-muwgibah lah, s.e. (Gerusalemme?), 1963, p. 93-94. 69 Il Modello costituzionale dell’Azhar prevede che la donna «possa chiedere di partecipare alle elezioni, in presenza dei requisiti richiesti; in questo caso le sarà concessa tale facoltà» (art. 48), ma l’imam deve essere maschio (art. 47). La condizione della mascolinità è richiesta anche per ricoprire la carica di ministro (art. 134). Questo modello costituzionale rinvia alla legge quanto alle condizioni per essere eletto parlamentare (art. 85). La prima Dichiarazione dei diritti dell’uomo dell’Organizzazione della Conferenza islamica riconosce il diritto di ciascun popolo di scegliere e controllare le autorità di governo. Afferma che ogni uomo ha il diritto di partecipare alla gestione della cosa pubblica del suo Paese, direttamente o indirettamente, analogamente ha il diritto di ricoprirvi cariche pubbliche, «conformemente ai requisiti attitudinali richiesti, e ciò anche in applicazione delle condizioni previste in materia» (art. 15). Tali condizioni, secondo la terza Dichiarazione dei diritti dell’uomo dell’organizzazione della Conferenza islamica, sono quelle della legge islamica (art. 23). 3. Libertà di espressione. Se si prende in esame il caso dell’Egitto, si può constatare che gli ambienti degli attivisti islamici, sostenuti dall’Azhar, sovente intentano processi contro coloro che contestano la legge islamica. Tendono a vietare le loro pubblicazioni, i loro film e i loro spettacoli teatrali. Lanciano anatemi ai loro oppositori, in particolare i ’laicisti’ (al-`ilmaniyyoun), qualificandoli atei e apostati. È questo il caso, ad esempio, del professor Abu-Zayd contro il quale un gruppo di attivisti islamici egiziani ha intentato un processo per apostasia chiedendo al tribunale che lo separasse dalla sua donna, con il pretesto che un apostata non ha il diritto di vivere con la sua donna musulmana. Il caso è stato deciso dalla corte di cassazione, che ha accolto le istanze dei movimenti dell’attivismo 70 islamico con sentenza del 5 agosto 199624. La summenzionata coppia, per paura di essere uccisa, ha dovuto lasciare l’Egitto e riparare nei Paesi Bassi. Infatti, la legge islamica punisce l’apostasia con la morte se si tratta di un uomo e con il carcere a vita nel caso di una donna (v. il paragrafo successivo). In nome di questa norma islamica, che non è contenuta nel codice penale egiziano, il filosofo egiziano laico, Farag Fodah, è stato assassinato il 7 giugno 1992 da un appartenente all’attivismo islamico dopo essere stato denunciato dall’Azhar e sottoposto per qualche giorno agli arresti domiciliare. Il 22 giugno 1993, la difesa dell’omicida chiamava a testimoniare davanti alla Corte suprema egiziana di sicurezza dello Stato due autorità religiose, il famoso sceicco 25 Muhammad Al-Ghazali e il professor Ahmad Mazru’ah dell’Università dell’Azhar26. Entrambi hanno giustificato l’omicidio. Ma la Corte di sicurezza dello Stato non li ha seguiti e ha condannato il colpevole all’impiccagione i1 26 27 febbraio 1994 . Nel paragrafo seguente, relativo alla libertà religiosa, verrà preso in esame il tema della libertà d’espressione secondo la concezione dei movimenti dell’attivismo islamico, analizzando i loro modelli costituzionali e le Dichiarazioni islamiche. 4. Libertà religiosa. A. Libertà a senso unico. La libertà religiosa in diritto musulmano è concepita come una libertà a senso unico: libertà di accettare l’Islam, ma divieto di allontanarsene. L’apostasia è punita con la morte se si tratta di un uomo e con il carcere a vita nel caso di una donna. Anche se un individuo continua a dichiararsi musulmano, dal momento in cui adotta un punto di vista contrario a quello del movimento islamico viene considerato apostata. Soltanto due codici penali arabi prevedono espressamente la pena di morte per l’apostata: il codice della Mauritania (art. 306) e il codice del Sudan (art. 126). In Paesi quali l’Egitto o il Marocco, l’apostata viene incarcerato, senza che nessuna legge consideri l’apostasia un reato e preveda simile pena. Ma in tutti i Paesi arabo-musulmani l’apostasia implica conseguenze gravissime per l’apostata: viene separato dal coniuge, privato dei figli, resta aperta la sua successione, perde il lavoro e rischia anche di perdere la vita per mano di un membro della sua famiglia. Non soddisfatti di tali sanzioni, gli ambienti dell’attivismo islamico non fanno mistero della loro volontà di introdurre la pena di morte, là dove non è applicata. Così, nel mese di maggio 1997, la rivista Al-I’tissam del Cairo ha pubblicato il testo di un progetto di codice penale presentato al Parlamento dell’Azhar, che prevede la pena di morte per l’apostata (art. 33). La medesima pena è prevista dall’art. 178 del progetto di codice penale islamico, elaborato da una commissione parlamentare egiziana e approvato dalla 28 Azhar. Nessuno dei progetti è stato mai adottato . II Modello costituzionale dei Fratelli musulmani afferma: «Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione» (art. 88). Tuttavia, tale libertà non potrà «in nessun caso, essere esercitata difformemente dalla lettera e dallo spirito [dei precetti] dell’islam» (art. 94). Il Modello co- 24 Sentenza pubblicata da AL-MUGTAMA’ AL-MADANI (Cairo), settembre, 1996. 25 Testimonianza riportata da AL-HAYAT, 23 giugno 1993. 26 Testimonianza riportata da AL-SHARQ AL-AWSAT (Londra), 4 luglio 1993. 27 Le Monde, 1 marzo 1994. 71 28 Sui due progetti v. SAURI A. ALDEEB ABU-SAHLIEH, Les Musulmans face aux droits de l’homme, cit., p. 123-124. 72 stituzionale dell’Azhar garantisce la libertà religiosa, ma «nei limiti della legge islamica» (art. 29). Prevede l’applicazione della pena di morte per l’apostata (art. 71). Più ambiguo, il Modello costituzionale del Consiglio islamico richiama nel suo art. 16 il versetto del Corano «nessuna costrizione in materia di religione» (2:256) e aggiunge che «le minoranze non musulmane hanno il diritto di praticare i loro culti religiosi». La seconda Dichiarazione dei diritti dell’uomo elaborata da tale Consiglio sviluppa la questione nel suo art. 12.a, così formulato: «Ogni persona ha il diritto di pensare e di credere, e quindi di manifestare ciò che pensa e crede, senza interferenze e divieti, purché non travalichi i limiti generali che la legge islamica ha fissato in materia. Nessuno, infatti, ha il diritto di propagare l’errore o di diffondere l’infamia o screditare la Comunità islamica: ’Se gli ipocriti, quelli i cui cuori sono malati, quelli che fomentano disordini a Medina, non mantengono la calma, noi [Maometto] ti manderemo in guerra contro di loro ed essi non resteranno a lungo nelle tue vicinanze: maledetti ovunque siano, saranno catturati e uccisi’» (33:60-61). B. Minoranze religiose. La legge islamica classica riconosce il diritto a differenti gruppi religiosi, che si fondano sulla rivelazione (i cristiani, gli ebrei, i samaritani, i seguaci di Zoroastro), di vivere fra i musulmani, ma impone loro restrizioni, in particolare in ordine all’accesso al pubblico impiego (divieto di esercitare funzioni di rilievo); alla libertà di culto (limiti nella costruzione delle chiese); alla libertà di espressione (divieto di criticare la religione musulmana); al diritto di famiglia (divieto di sposare una donna musulmana, mentre un musulmano può sposare una donna non musulmana); al pagamento delle tasse (imposizione di un tributo chiamato gizyah) ecc. 73 Benché la maggior parte di tali restrizioni siano mantenute dai Paesi musulmani, la condizione dei non musulmani è migliorata con il tempo. Così, i cristiani in un buon numero di Paesi arabi sono considerati cittadini a tutti gli effetti, accedono alle cariche più elevate (ad eccezione di quella di Capo di Stato). L’evoluzione delle condizioni delle comunità non musulmane rischia fortemente di essere vanificato dall’avvento al potere dei movimenti dell’attivismo islamico. Il Modello costituzionale del Partito di liberazione non esita a chiamare i non musulmani dhimmis (protetti) e impone loro il pagamento della gizyah (tributo pagato dai vinti). L’art. 132 di tale modello costituzionale recita: «Il tributo (gizyah) è dovuto dai dhimmis. Viene richiesto agli uomini maggiorenni in grado di pagare; ne sono esclusi le donne e i bambini». Le Dichiarazioni islamiche sui diritti dell’uomo non menzionano il principio generale della non discriminazione per motivi religiosi, previsto nei documenti internazionali. Al riguardo è significativa la terza Dichiarazione dei diritti dell’uomo dell’Organizzazione della Conferenza islamica. Vi si legge: «Tutti gli uomini sono uguali nella loro dignità umana, nell’assolvimento dei loro doveri e responsabilità, senza nessuna discriminazione di razza, di colore, di lingua, di sesso, di religione» (art. 1). Si tratta, dunque, di un’uguaglianza nella dignità e non giuridica. In ordine all’accesso dei non musulmani alle funzioni politiche e pubbliche, il Modello costituzionale del Partito di liberazione prevede al suo art. 17: « Può esercitare il potere pubblico o qualsiasi altra funzione connessa con tale potere solo un uomo, libero, equo (`adl). Può essere solo musulmano». Il non musulmano non ha il diritto di eleggere il capo dello Stato, di prestargli giuramento di fedeltà (art. 31) o di essere eletto capo dello Stato (art. 36). Può far parte del consiglio consultivo (maglis al-shura, una sorta di Parlamento), 74 ma solo «per dolersi delle iniquità di coloro che governano o della cattiva applicazione delle norme islamiche» (artt. 22 e 24). II non musulmano non può essere mu’awin (collaboratore, ministro) (art. 47) o governatore di regione (art. 62). Relativamente alle forze armate, vi è affermato: «Ogni musulmano che ha raggiunto il quindicesimo anno di età ha il dovere di arruolarsi per prepararsi al gihad» (art. 90). I non musulmani- si legge nel commentario-possono essere soldati permanenti e non soldati di riserva perché non sono tenuti alla gidah». Lo Stato musulmano li ingaggia come impiegati con un contratto di servizio. I musulmani che prestano servizio nell’esercito, al contrario, benché siano remunerati, lo fanno a titolo religioso (compiere il dovere del 29 gidah) . II Modello costituzionale dell’Azhar rinvia alla legge per stabilire chi ha il diritto di partecipare all’elezione dell’imam, capo dello Stato (art. 46), il quale, tuttavia, deve essere musulmano (art. 47). Analogamente rinvia alla legge quanto alle condizioni per essere eletto parlamentare (art. 8); quest’ultimo deve prestare il giuramento di fedeltà seguente: «Giuro sul Dio supremo di obbedirgli e di obbedire al suo Messaggero [Maometto]...» (art. 87). II medesimo giuramento è richiesto al ministro (art. 131). Ciò che implica la fede musulmana. Il Modello costituzionale del Consiglio islamico prevede che «ogni cittadino ha il diritto e il dovere di partecipare alla vita politica e alla vita pubblica» (art. 17). Ma per essere imam, capo dello Stato, occorre essere musulmano (art. 24). Le condizioni per essere membro del Consiglio consultivo (maglis al-shura) devono essere precisate dalla legge (art. 20). Tuttavia, la funzione primaria di tale Consiglio è quella 29 HIZB AL-TAHRIR, Muqaddimat al-dustur, cit., p. 235-237. 75 di realizzare gli obiettivi della legge islamica (art. 21). Ciò presuppone probabilmente che i membri di tale organo debbano essere musulmani. La seconda Dichiarazione dei diritti dell’uomo elaborata da tale Consiglio afferma che «ciascun individuo, membro della comunità islamica, è (...) abilitato ad assumere cariche e funzioni pubbliche, qualora soddisfi i requisiti attitudinali richiesti dalla legge islamica. Tali requisiti non possono essere inficiati o sminuiti da considerazioni razziali o di ceto sociale» (art. 11). Non si fa cenno alla religione. 5. Norme penali islamiche. Le Nazioni Unite sono impegnate su diversi fronti per rendere più umano il sistema delle pene, in particolare per abolire la pena capitale e vietare la tortura. La legge islamica prevede punizioni che non sono conformi alle norme delle Nazioni Unite: la lapidazione, la crocifissione, l’amputazione delle mani e dei piedi, la flagellazione, la legge del taglione. La norma islamica che punisce l’apostata con la morte è particolarmente scioccante, in quanto pregiudica gravemente la libertà religiosa. La maggior parte dei Paesi arabi e musulmani ha abbandonato le norme penali islamiche e ha adottato codici penali che, nel complesso, sono analoghi a quelli occidentali, ai quali si ispirano. Tale è il caso, ad esempio, dell’Egitto dove la lapidazione e le altre pene islamiche sono state soppresse. Tuttavia, taluni Paesi arabo-musulmani – quali il Sudan, l’Iran, l’Afghanistan e l’Arabia Saudita – applicano le leggi penali islamiche. Nell’ultimo Paese richiamato, l’esecuzione della pena avviene sovente il venerdì, dopo la preghiera, alla presenza della collettività che, nell’ipotesi di lapidazione, prende parte al lancio dei sassi. Il Sudan ha applicato il diritto penale islamico dal settembre 1983 fino al colpo di Stato del 1985 che ha rovesciato il presidente Numeiri. Il 76 Sudan di Tourabi si è ravvicinato con il diritto penale musulmano adottando nel 1991 un nuovo codice penale musulmano ancora più severo di quello del 1983, poiché prevede, contrariamente al primo, la pena di morte per l’apostata. In Egitto, numerosi progetti di codice penale islamico sono stati presentati in Parlamento ma non sono mai stati adottati. Il più importante è quello del 1982, elaborato da una commissione parlamentare e approvato dall’Azhar. Fatto ancor più grave, la Lega araba ha elaborato nel 1986 un progetto di codice arabo unificato che si ispira al diritto penale musulmano. Tale progetto, che non è stato adottato da nessun Paese arabo, va nella stessa direzione di quello egiziano del 198230. I movimenti islamici che ispirano tali progetti non nascondono la loro intenzione di reintrodurre le norme penali islamiche là dove non sono più applicate. Tale intenzione è manifestata nei loro modelli costituzionali. Così il Modello costituzionale dell’Azhar, all’art. 71, afferma che «le pene fissate dalla legge islamica (hudud) sono applicate per i reati di adulterio, falsa accusa di adulterio, furto e brigantaggio (harabah) , consumazione di vino e apostasia». Tali reati non possono essere oggetto di amnistia (art. 59). Si pone anche il problema dell’applicazione della legge del taglione (artt. 76e 78). Redatto a Londra, il Modello costituzionale del Consiglio islamico è più vago. L’art. 4.a afferma che «tutto ciò che attiene all’essere umano, vale a dire la sua vita, i suoi beni e il suo onore, sono sacri e inviolabili: la loro immunità può venire meno solo su indicazione della legge divina e secondo la procedura da essa definita». Capirà chi potrà... 30 Sui due progetti v. SAMI A. ALDEEB ABU-SAHLIEH: Les Musulmans face aux droits de l’homme, cit., p. 70-71. 77 La stessa circospezione si rinviene nella seconda Dichiarazione dei diritti dell’uomo di tale Consiglio. L’art. 1.a sancisce: «la vita umana è sacra ed inviolabile ed ogni sforzo deve essere fatto per proteggerla. In particolare, nessuno deve essere percosso o ucciso, eccetto che sotto l’autorità della legge». Naturalmente si tratta della legge islamica. L’art. 5.c aggiunge che «la sanzione deve essere determinata conformemente alla legge islamica, proporzionalmente alla gravità del reato e tenuto conto delle circostanze nelle quali è commesso». 6. L’integrità fisica. Annualmente, circa quindici milioni di persone vengono mutilate, di cui tredici milioni di ragazzi e due milioni di ra31 gazze. Ad ogni battito di cuore, un bambino va sotto i ferri . La circoncisione maschile è praticata nei cinque continenti da circa un miliardo di musulmani, trecentomila cristiani, sedici milioni di ebrei e un numero non precisato di animisti e di atei. La circoncisione femminile è stata e continua ad essere praticata nei cinque continenti dai musulmani, dai cristiani, dagli ebrei, dagli animisti e dagli atei. Ma è diffusa soprattutto in ventotto Paesi, principalmente africani e musulmani32. In Egitto, ad oggi, il 97% delle donne sono circoncise: il 33 99,5% nelle campagne e il 94% nelle città . 31 Ad hoc working group of international experts on violations of genital mutilation, Pob 197, Southfields, New York 10975 (Usa). 32 Mutilations sexuelles féminines, dossier informativo, Oms, Ginevra (1994). 33 Egypt Demographic and Health Survey 1995, National Population Council, Le Caire, Sept. 1996; Le Monde, 26 giugno 1997, p. 3. Sulla circoncisione maschile e femminile, v. i due articoli dell’Autore, Mutiler au nom de Yavhé ou d’Allah, nuova ed., St-Sulpice, luglio 1994, e Circoncision masculine et féminine: notre sexe entre le marteau des dieux et l’enclume des coutu- 78 I musulmani sono, dunque, il principale gruppo religioso che pratica la circoncisione maschile e femminile, pratica sostenuta dalle maggiori autorità religiose musulmane, nonostante il Corano non ne faccia alcuna menzione. Tanto la circoncisione maschile che femminile costituisce una lesione dell’integrità fisica. Purtroppo, nessun documento internazionale garantisce il diritto all’integrità fisica. Nessuna organizzazione internazionale e nessun Paese occidentale ha voluto condannare la circoncisione maschile... per timore di essere tacciato di antisemitismo. L’attuale ascesa dell’integralismo religioso nei Paesi musulmani contribuisce a mantenere la prassi della circoncisione femminile. Il 17 ottobre 1995, sotto la pressione delle organizzazioni non governative egiziane e internazionali, il Ministro della sanità egiziano ha vietato agli ospedali pubblici di praticare la circoncisione. Tale divieto è stato confermato dal decreto ministeriale n. 261 del 1996, decreto dichiarato nullo il 24 giugno 1997 da un tribunale amministrativo del Cairo, su istanza dei movimenti dell’attivismo islamico. Dopo la sentenza, lo sceicco Youssef Al-Badri dichiarava «Dio sia lodato, abbiamo vinto e andremo ad applicare la legge dell’islam»34. Ma la corte amministrativa suprema ha annullato tale sentenza il 28 dicembre 1997. La prassi della circoncisione femminile attualmente è oggetto di estensione nei Paesi musulmani asiatici, probabilmente sotto l’effetto dell’Azhar che elargisce centinaia di borse di studio agli studenti provenienti da tali Paesi. Ad oggi, taluni algerini in mes, in Gewohnheitsrecht und Menschenrechte, Aspekte eines vielschichtigen Beziehungssystems, Nomos Verlagsgesellschaft, Baden-Baden 1998, p. 81-124. 34 Le Monde, 26 giugno 1997, p. 3. 79 Germania reclamerebbero la circoncisione delle bambine, benché tale pratica sia ignota in Algeria35. 7. Schiavitù. La schiavitù è stata abolita negli Stati arabo-musulmani, ma in realtà sopravvive in taluni Paesi come la Mauritania e 36 il Sudan . Ancor più grave, taluni musulmani auspicano apertamente un ritorno alla schiavitù, come disciplinata dalla legge islamica. Lo sceicco Salah Abu-Isma’il, parlamentare egiziano, difende apertamente il ripristino della schiavitù per le donne nemiche che cadono prigioniere nelle mani dei musulmani. Sostiene che i musulmani possono decidere sia di liberarle, con o senza contropartita, sia di ucciderle, sia di ridurle in schiavitù. Se decidono in quest’ultimo senso, la donna diventa proprietà di un uomo in base alle norme della legge religiosa e il suo proprietario ha il diritto di assicurarsi che non aspetti un figlio da un altro uomo [sic]. Se constata che non è incinta ha il diritto di vivere con lei more uxorio. Se tale schiava dà alla luce un figlio e il padre muore, il figlio eredita la madre come se fosse un bene. Ma poiché una madre non può 37 essere proprietà del figlio, la madre schiava diviene libera . 35 II partito dei Verdi tedeschi ne ha parlato nel suo colloquio sulla circoncisione femminile: Bonn, 28-30 aprile 1997 (Nashrat magmu’at al-ma’niyyah bi-mukafahat Khitan al-inath, n. sperim. 2, 15 aprile 1997, p. 2). 36 V. i riferimenti in SAMI A. ALDEEB ABU-SAHLIEH, Les Musulmans face aux droits de l’homme, cit., p. 268-270. V. anche l’articolo apparso in The Economist del 21 settembre 1996 intitolato The flourishing business of slavery, nonché l’articolo di NHIAL BOL, Sudan-Human Rights: Khartoum accused of selling slaves on arms, Inter Press Service, 12 luglio 1996, secondo il quale il governo sudanese avrebbe raccolto da 15.000 a 20.000 persone del sud del Sudan per venderle alla Libia in cambio di armi. 37 SALAH ABU-ISMA’IL, Al-shahadah, Dar al-i’tissam, 2’ ed., Le Caire 1984, p. 78-79. 80 Anche Mawdudi, il grande ideologo religioso pakistano, ritiene legittima la schiavitù. Replicando ad un autore che nega la schiavitù nell’Islam, sostiene che non vi sia una sola 38 norma coranica che sopprima la schiavitù in modo assoluto . Hamad Ahmad Ahmad, professore egiziano, dottore alla Sorbona, nella sua opera, Proposta di legge unificata 39 sull’esercizio islamico , sostiene che, quando un Paese è conquistato senza guerra, i suoi abitanti, se si fondano sulla rivelazione (Ahl al-kitab) possono scegliere tra il pagamento della gizyah (tributo) o il doppio della zakat (imposta religiosa), se rifiutano di pagare la gizyah. Negli altri casi, il capo dello Stato è libero di trattarli come gli Ahi al-kitab o di offrire loro la scelta tra l’Islam o la morte (art. 169 e p. 134-135). Gli abitanti dei Paesi conquistati sono liberi di restare nel Paese o di abbandonarlo (art. 174). Per i prigionieri di guerra il professore propone che il capo dello Stato abbia il diritto di concedere loro la libertà, di chiedere un riscatto per la loro liberazione (fida’) o di ridurli in schiavitù (yadrib `alayhim al-riq) (art. 191). Il prezzo del riscatto dei prigionieri o il loro asservimento fa parte del bottino e viene distribuito ai suoi beneficiari (art. 192). È vietato uccidere le donne, i bambini, i vecchi e i monaci. Se si accerta che abbiano aiutato il nemico, li si fa prigionieri (sabyihim). Se è impossibile prenderli prigionieri, verranno trattati come combattenti (art. 52). Ciò significa che occorre trattarli come schiavi, parte del bottino e sono distribuiti secondo le norme islamiche (art. 179 ss.). Relativamente alle donne prigioniere (sabbiy- 38 ABU-AL-ALA’ AL-MAWDUDI, Al-islam fi muwagahat al-tahaddiyat almu’assirah, Dar al-qalam, 2’ ed., Koweit 1978, p. 64. Mawdudi dedica da p. 63 a p. 109 all’analisi del problema della schiavitù e delle relazioni sessuali con le prigioniere. 39 HAMAD AHMAD AHMAD, Nahwa qanum muwahhad lil-giyush alislamiyyah, Maktabat al-Malik Faysal al-islamiyyah (Doha?), 1988. 81 yah), la sua proposta di legge prevede per colui che riceve una donna come bottino il divieto di rapporti sessuali prima del periodo di purificazione (nafas) nell’ipotesi di gravidanza (art. 194). Gli è consentito, invece, di usufruirne immediatamente, ad eccezione dei rapporti sessuali. In merito all’apostasia, la medesima proposta prevede che, qualora gli abitanti di un Paese [conquistato] si convertano all’Islam e in seguito lo rinneghino o rifiutino di osservare uno dei suoi obblighi (faridah), saranno combattuti fino allo sterminio o al loro ritorno ad Allah (art. 177). Due anni prima, lo stesso professore aveva pubblicato un’altra proposta di legge sui rapporti tra i Paesi musulmani e i Paesi stranieri, nella quale sostiene che ogni Paese musulmano ha il diritto di imporre il pagamento di un tributo (gizyah) e/o di un’imposta fondiaria (Kharag) ad ogni Paese straniero che ritenga costituire un pericolo per la sua sicurezza. Ne può anche ridurre in schiavitù i cittadini che 40 imprigiona, consentire il loro riscatto o ucciderli (art. 87) . III. Risposte dei musulmani alla sfida del diritto musulmano. L’applicazione del diritto musulmano divide i musulmani. Si individuano tre diverse correnti: la corrente islamista, la corrente positivista soddisfatta dello status quo e quella secolare. 1. La corrente islamista. Per tale corrente, l’uomo non è in grado di decidere ciò che è bene e ciò che è male. Può farlo solo Dio attraverso i suoi profeti e i libri sacri. Si fonda sostanzialmente sui due seguenti passi del Corano: «coloro che non giudicano gli 40 Id., Fiqh al-ginsiyyat, Dar al-kutub al-gami’iyyah, Tantah 1406-1407 h. (1986-87), p. 350. 82 uomini secondo quanto Dio ha rivelato sono miscredenti, (...), ingiusti, (...) perversi (5:44,45,47). Quando Dio e il suo profeta hanno preso una decisione, non conviene né ad un credente né ad una credente mantenere le loro scelte. Chi disobbedisce a Dio e al suo profeta si perde totalmente e manifestamente (33:36)». Tale corrente auspica l’applicazione integrale del diritto musulmano. Utilizza diversi sistemi per opporsi al diritto statale e alla corrente secolare: processi e omicidi per gli oppositori, pressioni economiche, presentazione di progetti di legge conformi al diritto musulmano, rifiuto da parte dei giudici islamisti di applicare il diritto statale, campagne stampa e dottrinali a favore del diritto musulmano ecc. 2. La corrente positivista soddisfatta dello status quo. Tale corrente preferisce mantenere la legge statale vigente piuttosto che un ritorno al diritto musulmano auspicato dai movimenti dell’attivismo islamico. Sostiene che i versetti del Corano e le tradizioni di Maometto citati dalla corrente islamista sono sovente incompleti, manipolati, estrapolati dal contesto o male interpretati, e che il Corano e la sunnah non contengono norme giuridiche sufficienti a governare la società. Aggiunge che il sistema giuridico islamico costruito su tali due fonti è di origine umana. Occorre prenderlo come tale e si ha il diritto di modificarlo strumentalmente alle necessità della società; qualificare categoricamente il diritto islamico legge divina è eccessivo. Le poche norme giuridiche contenute nel Corano e nella sunnah tendono a proteggere gli interessi della società; devono, dunque, essere interpretate alla luce di tali interessi. La corrente positivista sottolinea, infine, che un esiguo numero di leggi statali contrasta con la legge islamica, si tratta delle norme sulle prescrizioni islamiche in materia penale e di quelle che prevedono gli interessi. Tali leggi, tuttavia, non possono 83 essere modificate senza un’adeguata preparazione della società, per non ottenere effetti contrari a quelli desiderati. 3. La corrente secolare. La corrente secolare desidera liberarsi delle norme islamiche adottando diversi metodi, tutti condannati dagli ambienti dell’attivismo islamico. A. Eliminazione delle norme discriminatorie. La corrente secolare si schiera con i positivisti nella lotta contro la reintroduzione delle norme islamiche, in particolare del diritto penale musulmano che ritiene efferato. Inoltre, preconizza anche l’eliminazione da parte dello Stato delle norme islamiche vigenti, soprattutto delle norme sul diritto di famiglia a causa del loro carattere discriminatorio nei confronti delle donne e dei non musulmani. Si ricorderà il progetto di legge dal titolo Cento provvedimenti e disposizioni per una codificazione magrebina egalitaria dei diritti della personalità e del diritto di famiglia. Elaborato dal «Collectif 95 Maghreb Egalité» composto da tre organizzazioni femminili magrebine (Algeria, Marocco, Tunisia), tale progetto è stato presentato alla Conferenza mondiale delle donne svoltasi a Pechino nel 1995. Elimina tutte le discriminazioni previste dalla legge islamica nei confronti delle donne 41 e dei non musulmani . Le organizzazioni che hanno redatto tale progetto si dichiarano favorevoli alla secolarizzazione e alla separazione dello Stato dalla religione. Ma, per evitare di essere criticate, tentano di giustificare le modifiche proposte con 41 Collectif 95 Maghreb Egalité, Cent mesures et dispositions pour une codification maghrébine égalitaire du statut personnel et du droit de la famille, versione francese edita da Women living under Muslim Laws, Grabels 1995, p. 14. 84 un’interpretazione liberale delle norme islamiche42. Non disconoscono, dunque, l’autorità del testo ’rivelato’, ma liberano il testo ’rivelato’ dall’autorità dei religiosi. Così queste donne entrano in conflitto direttamente con coloro che si nascondono dietro il testo ’rivelato’. Taluni musulmani non hanno esitato a qualificare tali organizzazioni miscredenti. B. Distinzione tra i versetti della Mecca e i versetti di Medina. Muhammad Mahmud Taha (1916-1985)43, fondatore dei Fratelli repubblicani del Sudan, ha illustrato una teoria riduttiva della portata normativa del Corano. Prendendo le mosse dalla divisione classica tra versetti del Corano rivelati a Medina e versetti del Corano rivelati alla Mecca, proponeva di non tener conto di questi ultimi ed eliminava dai versetti della Medina ogni forma di discriminazione per motivi religiosi o di sesso. Tale concezione suscitava le ire degli alti 44 responsabili religiosi musulmani . 45 Nel 1976, 1’Azhar chiedeva la testa di Taha . Alla fine, veniva condannato da un tribunale sudanese e impiccato il 18 gennaio 198546. La Lega islamica mondiale si è felicitata con il presidente Numeiri per non avergli concesso la gra- 42 Ivi, p. 31-38. Su tale filosofo, v. SAMI A. ALDEEB ABU-SAHLIEH, Droit familial des pays arabes, statut personel et fondamentalisme musulman, in Praxis juridique et religion (Strasbourg), 1995, p. 39-41. 44 Per una critica alla teoria di Taha, v. HUSSAYN MUHAMMAD ZAKI, Alqawl al fasl fil-rad ’ala mahazil Mahmud Muhammad Taha, Dar al-rihab, Alexandrie 1406 h. 11986]. A favore di Taha, v. ABDULLAHI AHMED AN-NA’IM, Toward an Islamic Reformation, Civil Liberties, Human Rights, and International Law, Syracuse University Press, Syracuse (N.Y.) 1990. 45 Al-Ahram, 16 aprile 1976. 46 Testo e commento della sentenza in Al-Mukashifi Taha Kabbashi, Tatbiq al-shari’ah al-islamiyyah fil-Sudan bayn al-haqiqah wal-itharah, AlZahra’ lil-i’lam, Le Caire 1986, p. 80-96 (l’autore presiedeva la corte che ha condannato Taha). 43 85 zia47. Il 18 novembre 1986, la corte suprema sudanese ha annullato la sentenza in questione, segnatamente perché il 48 codice penale sudanese del 1983 non prevedeva il reato di apostasia. Per porre rimedio a questa lacuna, il codice penale sudanese del 1991 ha previsto nell’art. 126 la pena di morte per apostasia. Attualmente la teoria di Taha è sviluppata da un suo discepolo, il professor Abdullahi Ahamed AnNa’im. Questi riconosce, peraltro, che non è possibile conciliare i diritti dell’uomo con la legge islamica a causa della discriminazione per motivi religiosi e per il sesso. Propone 49 una separazione tra legge e religione . C. Rifiuto della parola di Maometto (la sunnah). Alcuni hanno diviso in due parti le fonti islamiche, prendendo in considerazione solo il Corano e respingendo ogni sacralizzazione della sunnah. Questa è la teoria accolta da 50 Gheddafi . È adottata anche da Kamal Mustafa AlMahdawi, un giudice libico, che ha scritto un’opera intitolata Chiarimenti per il Corano. Una delle conseguenze di tale teoria è, ad esempio, il rifiuto della circoncisione maschile 51 che non è prevista dal Corano . Non potendo attaccare Ghed- 47 Sudan New Agency, 18 gennaio 1985. Questa Lega, costituita nel 1962, ha la sede alla Mecca. Raggruppa ricercatori musulmani di numerosi Paesi musulmani. Si prefigge di difendere la causa musulmana e di promuovere i diritti dell’uomo (!). 48 V. la decisione in HENRI RIYAD, Mawsu’at al-ahkam al-dusturiyyah filSudan, 1966-1988, Dar al-Hilal, Beyrouth 1995, p. 231-276. 49 ABDULLAHI AHMED AN-NA’IM, Toward an Islamic Hermeneutics for Human Rights, in Human rights and religious values, an uneasy relationship?, Editions Rodopi, Amsterdam 1995, p. 238. 50 Per una critica di tale posizione v. ABD-ALLAH AL-SADIQ, Tagribat AlKadhafi fi itar al-mawazin al-islamiyyah, Al-gabhah al-wataniyyah li-inqadh Libya, s.l. 1981. 51 MUSTAFA KAMAL AL-MAHDAWÍ, Al-bayan bil-Qur’an, Al-dar al-gamahiriyyah, Misratah et Dar al-afaq al-gadidah, Casablanca 1990, vol. I, p. 348-350. 86 dafi, i movimenti dell’attivismo islamico hanno aperto un procedimento per apostasia contro Al-Mahdawi. La medesima teoria si rinviene nelle opere dell’egiziano Rashad Khalifa, per il quale «l’hadith e la sunnah» sono «innovazioni sataniche»52. Tale posizione ha scatenato la collera e ha condotto al suo assassinio nel gennaio 199053. Ultimamente, un rappresentante del gruppo da lui fondato negli Stati Uniti ha 54 rifiutato la circoncisione maschile e femminile . Il rifiuto della sunnah riduce la discrasia tra norme islamiche e diritti dell’uomo, ma non la elimina del tutto. In un incontro avvenuto nel mese di novembre 1997, Al-Mahdawi mi ha ribadito che non ammette il matrimonio tra una musulmana e un cristiano perché, a suo giudizio, contrasta con le norme coraniche e implica una sottomissione ai non musulmani. D. Contestazione dei libri sacri e della rivelazione. La posizione più radicale e più risoluta è quella che tende a contestare i libri sacri. Tale concezione si rinviene in taluni filosofi quali Zaki Nagib Mahmud e Hussayn Fawzi e, prima di loro, nel filosofo-medico Mohammad Ibn Zakariyya AlRazi. Zaki Nagib Mahmud, adepto del positivismo scientifico, ritiene che sia opportuno attingere dal passato arabo, come dal presente occidentale, ciò che è utile alla società araba55. 52 RASHAD KHALIFA, Quran, Hadith and Islam, Islamic productions, Tucson (Usa) 1982, prefazione e p. 82. 53 Per una critica di tale Autore, v. BINT-AL-SHATI, Qira’ah fi watha’iq albaha’iyyah, Markaz al-Ahram, Le Caire 1986, p. 341-351. Sul pensiero e l’omicidio di Rashad Khalifa, v. http://www.submission.org/Khalifa.html. 54 V. http://www.moslem.org/Khatne.htm. 55 ZAKI NAGIB MAHMUD, Tagdid al fikr al-’arabi, Dar al-shuruq, Beyrouth et Le Caire 1974, p. 18-20; Id., Al-ma’qul wal-la ma’qul, Dar al-shuruq, Beyrouth et Le Caire 1976, p. 34. 87 Per valutare l’utile e l’inutile, è necessario ricorrere alla ragione, quale che ne sia la fonte: rivelazione o non56. Questa circostanza presuppone il rifiuto dell’alone di santità di cui 57 è ammantato il passato . Le situazioni devono essere valutate pragmaticamente, senza falsare i dati storici né ricadere nelle generalizzazioni58. «La chiave della verità attualmente - scrive - è accettare l’idea che siamo in trasformazione, quindi in mutazione; così il passato non può disciplinare l’avvenire»59. Aggiunge che i Paesi arabi, per poter costruire una società moderna, devono estirpare dal loro pensiero due cose: 1. L’idea che l’arabo ha del rapporto tra cielo e terra, secondo la quale «il cielo ha ordinato e la terra deve obbedire; il creatore ha predisposto e pianificato, e la creatura deve accontentarsi del suo destino». 2. L’idea che l’arabo ha della volontà divina, che sfugge ad ogni legame tra causa ed effetto, e che accorda a tale volontà un potere superiore che dileggia le leggi di natura60. Zaki Nagib Mahmud, deceduto da qualche anno, ha subito continui attacchi dagli ambienti dell’attivismo islamico. In un’intervista concessa alla rivista cairota Rose al-Youssof, nell’aprile 1977, affermava che «credeva di vivere in un incubo ideologico o in una farsa». Poneva la domanda: «Chi taglia la mano al ladro? Il chirurgo, che ha giurato di proteggere e salvare le persone e di ricucire le mani tagliate, o il macellaio?». La replica al suo sarcasmo non tardò. La rivista Al-I’tissam pubblicava nel maggio 1977 un articolo di 56 ZAKI NAGIB MAHMUD, Tagdid, cit., p. 21; Id., Thaqafatuna fi muwagahat al-`asr, Dar al-shuruq, Beyrouth et Le Caire 1976, p. 96. 57 Ivi, p.51-53. 58 Ivi, p. 65,79 e 80. 59 ivi, p. 228. 60 Ivi, p. 294-295. Per maggiori dettagli su questo filosofo v. SAMI A. ALDEEB ABU-SAHLIEH, L’impact de la religion, cit., p, 132-134. 88 quattro pagine dove si accusava il filosofo di essersi burlato della legge di Dio. Rispondendo alla sua domanda, l’articolo affermava: «Rassicuriamo il signor dottore sulla circostanza che chi taglierà la mano del ladro sarà il chirurgo. Ma toccherà al macellaio tagliare le lingue dei filosofi, degli artisti e dei letterati disobbedienti e ribelli». Hussayn Fawzi, libero pensatore egiziano, faceva un discorso analogo. In un incontro di intellettuali egiziani con Gheddafi il 6 aprile 1972, affermava che le società moderne non possono essere rette dalla religione. «La circostanza che la convinzione personale incida sui rapporti umani non pone nessun problema. Ma è escluso che la religione sia l’elemento che disciplina la società moderna. Ciascuno serba per sé il suo rapporto con il suo dio e i suoi apostoli. Ma ciò non può voler dire che un popolo che va verso la civilizzazione sia obbligato da principi e da norme di condotta fissati in epoche diverse da quella attuale. (...) Non posso accettare ciò che la mia ragione non accetta quale che sia la pressione che il governo esercita su di me. La mia ragione è la mia guida e la mia maestra, in fondo al cuore»61. Questo filosofo rifiuta la rivelazione. In un colloquio mi disse che Dio ha creato il mondo in sei giorni e il settimo giorno si è riposato e continua a riposare. Pertanto tutti i profeti venuti dopo il sesto giorno non possono essere inviati da Dio. Tale diffidenza verso la rivelazione era già stata manifestata dal filosofo-medico Mohammad Ibn Zakariyya Al-Razi (in latino: Rhazes) (circa 854-925 o 935). Sosteneva che «Dio ci provvede di ciò che necessitiamo di conoscere, non sotto l’apparenza di concessione arbitraria né di seminatore di discordia, di una rivelazione particolare foriera di sangue e di dispute, ma sotto la forma della ragione, che appartiene a 61 Al-Ahram, 7 aprile 1972, p. 6. 89 tutti. I profeti sono, nella migliore delle ipotesi, impostori, ossessionati dall’ombra demoniaca di spiriti inquieti ed invidiosi. L’uomo comune è perfettamente in grado di pensare da solo, non ha bisogno di nessuna guida». Essendogli stato chiesto se un filosofo potesse seguire una religione rivelata, Al-Rhazi replicava: «Come si può pensare in modo filosofico se ci si affida a storie di donne anziane basate su contraddi62 zioni, su un’ignoranza inveterata e sul dogmatismo» ? IV. Sfida del diritto musulmano ai diritti dell’uomo in Occidente: il caso della Svizzera. L’applicazione del diritto musulmano comporta implicazioni non solo nei Paesi musulmani, ma anche nei Paesi occidentali a causa del crescente numero di musulmani che vi vivono. Una guida indirizzata al musulmano che vive all’estero gli ricorda che, in linea di principio, non dovrebbe vivere in un Paese di miscredenti, salvo che in caso di necessità. Venuta meno tale necessità, dovrebbe immediatamente ritornare nei Paesi dell’Islam63. Durante il suo soggiorno presso i miscredenti, il musulmano deve adoperarsi per convertirli all’Islam come penitenza per aver violato le norme che gli vietano di soggiornare fra miscredenti64. In ogni caso, deve osservare gli obblighi imposti dalla sua fede65. Alcuni musulmani reclamano per coloro che condividono la loro religione e risiedono in Occidente l’applicazione del diritto musulmano in materia di diritti della personali- 62 Encyclopédie de l’Islam, nuova ed., vol. 8, Brill, Leiden, 1995, p. 492. Dalil al-muslin fi bilad al-ghurbah, Dar al-ta’aruf lil-matbu’at, Beyrouth 1990, p. 63-66. 64 Ivi, p- 44. 65 V. su tale opera SAMI A. ALDEEB ABU-SAHLIEH, Les Musulmans face aux droits de l’homme, cit., p. 392-394. 63 90 tà66. La medesima rivendicazione viene fatta dagli stessi 67 immigrati . Tale concezione è il retaggio degli autori musulmani classici che avevano fatto del rispetto delle norme musulmane una condizione per il soggiorno dei musulmani in Paesi non musulmani68. Ma quale che sia l’opinione che il musulmano ha della sua presenza in Paesi non musulmani, si confronterà sempre con norme occidentali che confliggono sia con le norme del suo Paese di origine sia con la legge islamica. Si esamineranno qui di seguito, rapportandosi alla situazione in Svizzera, i più rilevanti punti di conflitto. 1. Libertà religiosa. Nei Paesi musulmani, si spronano i non musulmani a divenire musulmani, ma un musulmano che si scosta dalla sua religione è considerato apostata e quindi passibile, secondo il diritto musulmano classico, della pena di morte. Tali norme musulmane sono contrarie alla costituzione svizzera che garantisce la libertà religiosa in entrambi i sensi. Pur adoperandosi attivamente per convertire i non musulmani in Svizzera, i musulmani non concepiscono che uno di loro possa mutare religione. Conosco musulmani di origine araba che sono diventati cristiani e che nascondono accura- 66 FOUAD RIAD, Pour un code européen de droit musulman, in Le statut personel des musulmans, droit comparé et droit international privé, a cura di Jean-Yves Carler et Michel Verwilghen, Bruxelles 1992, p. 308-382; Ahmad `Abd-al-Karim Salamah, Mabadi’ al-qanun al-duwali al-íslami al-muqaran, Dar al-nahdah al- arabiyyah, Le Caire 1989, p. 172. 67 JOCELYNE CESARI, Etre musulman en France, associations, militants et mosquées, Karthala, Paris et Iremam, Aix-en- Provence 1994, p. 40 e 43; v. anche Sami A. Aldeeb Abu-Sahlieh, La migration dans la conception musulmane, in Oriente moderno, luglio-dicembre 1994, p. 249-255 e 261-265. 68 V. SAMI A. ALDEEB ABU-SAHLIEH, Les Musulmans face à la migration, cit., p. 226-235. 91 tamente la loro origine musulmana per timore che i musulmani in Svizzera li uccidano. 2. Preghiera. Il musulmano deve pregare cinque volte al giorno. La mancata accettazione del principio della libertà religiosa ha lasciato il segno. Taluni ritengono che colui che trascura la preghiera sia un miscredente e meriti la pena di morte! In Arabia Saudita i poliziotti girano con un bastone in mano nei luoghi pubblici, inclusi gli edifici della pubblica amministrazione e i mercati, per costringere la gente a pregare. La preghiera pone un problema in Svizzera: occorre interrompere il lavoro e la scuola per recitare la preghiera? Si è permessa la costruzione delle moschee, ma non la trasmissione della preghiera dal minareto. Al riguardo, corre l’obbligo di segnalare che i cristiani nei Paesi musulmani non ottengono facilmente l’autorizzazione a costruire o riparare le loro chiese. E in particolare il caso dell’Arabia Saudita che ha finanziato la moschea di Ginevra. Questo Paese considera la preghiera dei non musulmani in pubblico o anche in luoghi privati un reato; vieta severamente la costruzione di chiese sul suo territorio nonostante centinaia di migliaia di cristiani vi risiedano e vi lavorino. Non sarebbe opportuno in questo caso esigere il rispetto del principio di reciprocità da parte dei musulmani? I giuristi svizzeri sostengono che non si può negare ad un musulmano un diritto fondamentale quale la libertà religiosa sul suolo svizzero perché il suo Paese di origine ostacola tale libertà. Ma non si dovrebbe ricordare ai musulmani che chiedono le moschee e agli Stati che le finanziano che devono rispettare la libertà religiosa dei non musulmani nei loro Paesi? Non si rischia di favorire la xenofobia verso i musulmani se le autorità svizzere accordano a questi ultimi diritti 92 che essi negano ai non musulmani? Sembra che la risposta a tale domande sia dettata da considerazioni di ordine economico: pecunia non olet. 3. Digiuno del Ramadan. I musulmani devono digiunare nel mese del Ramadan dall’aurora al tramonto, eccetto che in caso di malattia o altro impedimento. I genitori possono costringervi i loro figli a partire da una certa età. Nei Paesi musulmani è vietato a tutti, tanto musulmani che cristiani, mangiare in pubblico durante il giorno perché potrebbe essere una tentazione per coloro che digiunano. Chi viola tale divieto viene punito. D’altra parte, a causa della spossatezza provocata dal digiuno, i Paesi musulmani riducono il tempo di lavoro e di scolarizzazione nel mese del Ramadan. Tali norme pongono dei problemi in Svizzera. Il musulmano non può pretendere che gli svizzeri si astengano dal cibarsi in sua presenza. Ma gli sbandamenti non sono da escludere: in un convegno svoltosi a Turku (Finlandia) nel 1996, uno dei partecipanti ha segnalato che taluni membri dell’attivismo islamico rifugiati in questo Paese organizzano spedizioni punitive contro i musulmani che frequentano i bar della città nel mese del Ramadan. Non si possono dispensare i bambini musulmani dal normale programma scolastico. Relativamente al lavoro, la soluzione potrebbe essere quella di suggerire al musulmano di prendere le ferie annuali nel mese del Ramadan. Si ricorda che l’ex presidente tunisino, Habib Bourguiba, esortava i suoi connazionali a non digiunare, e a mangiare e bere in pubblico, in televisione e in treno. Vedeva nel digiuno un ostacolo al progresso del suo Paese. Si deve anche sottolineare il pericolo di tale digiuno per la salute e per la 93 sicurezza stradale69. L’Occidente dovrebbe partecipare al dibattito sulla pericolosità del digiuno del Ramadan e tentare di dissuadere i musulmani che vivono sul suo territorio da tale pratica, nell’interesse della collettività. 4. Norme alimentari. Al pari degli ebrei, anche i musulmani devono osservare talune norme alimentari, un po’ meno restrittive. Tre le norme che vale la pena di evocare è fatto loro divieto di bere alcol e di mangiare il maiale o carne di un animale che non sia stato sgozzato ritualmente. In taluni Paesi, come l’Arabia Saudita, il consumo di alcol, almeno da parte del popolo, è severamente punito secondo le norme del diritto musulmano. In Svizzera è vietato sgozzare gli animali. Gli ebrei importano la carne dalla Francia sotto il controllo di un rabbino. Dal momento che non consumano la parte inferiore, questa viene venduta ai musulmani ad un prezzo contenuto. A Losanna i musulmani comprano la carne dagli ebrei. Ho ospitato musulmani che hanno rifiutato di mangiare il pollo che avevo preparato per loro perché non era stato sgozzato. Esiste anche, almeno per alcuni, il problema dell’assunzione di alcol. Il problema si pone particolarmente nell’ambito dei matrimoni misti. Il marito musulmano può essere tentato di obbligare la moglie cristiana a non introdurre in casa né alcol né carne di maiale e a non servirne ai figli. 5. Relazioni tra uomini e donne e norme di abbigliamento. A partire dal Corano e dalla tradizione di Maometto, i giuristi hanno sempre sostenuto che non si ha il diritto di 69 V. Conséquences médicales du jeûne de Ramadan, in Revue prescrire, juillet-août 1995, p. 512-523. 94 mostrare o di guardare talune parti del corpo umano. Lo scopo è quello di evitare la tentazione. Le donne sono considerate l’oggetto della tentazione suprema. Perciò, le norme musulmane sono più severe nei loro confronti. Nel mondo arabo vi sono diversi modi di vestirsi. In situazioni estreme, le donne si coprono dalla testa ai piedi e non si vedono né le mani né gli occhi né i capelli. Non vengono mai presentate agli invitati di sesso maschile e il pranzo viene consumato dagli uomini senza le donne. Quando viaggiano sui mezzi pubblici vengono sistemate alla fine dell’autobus o in un vagone separato. Non stringono la mano ad un uomo. In Arabia Saudita alla donna è vietata la guida. Tale concezione ha le sue ripercussioni in Francia, in particolare per lo chador a scuola. Un caso relativo al nuoto sorto nel cantone di Zurigo è giunto fino al tribunale federale. Le autorità cantonali avevano rifiutato l’esonero chiesto dal padre per una bambina turca di undici anni. Ha invocato la libertà religiosa e si è impegnato ad insegnare nuoto alla figlia. Con decisione del 18 giugno 1993, il tribunale federale dava ragione al padre, pur chiedendosi come avrebbe fatto a mantenere il suo impegno in Svizzera se non avesse affittato una piscina tutta per sé dal momento che tutte le piscine pubbliche sono miste. Ha optato per la tolleranza posto che non creava eccessivo scompiglio nell’organizzazione della 70 scuola frequentata dalla bambina . A Bienne l’ufficio stranieri della polizia aveva rifiutato il rinnovo del permesso di soggiorno a donne turche che non volevano fornire fotografie senza foulard. In seguito a tale caso, l’ufficio stranieri federale adottava il 15 novembre 1993 una direttiva con la quale invitava le autorità comunali e cantonali ad una maggiore elasticità. A Ginevra, una svizzera insegnante in una scuola pubblica, sposata con un algerino, è diventata musulmana e desiderava esercitare la sua professione indossando lo chador. Il consiglio di Stato ginevrino le ha dato torto invo71 cando il principio di laicità . Beneficiando del sostegno finanziario e morale dei musulmani residenti in Svizzera, ha introdotto un ricorso davanti al tribunale federale, che 72 ha confermato la sentenza del consiglio di Stato . Tale problema si pone anche negli stessi Paesi musulmani. La corrente islamista reclama il rispetto delle sue norme di abbigliamento e giunge perfino ad imporre tali norme con minacce e pressioni. In Algeria i movimenti dell’attivismo islamico uccidono le donne che rifiutano di indossare lo chador. La corrente liberale, anch’essa musulmana, si oppone a tali norme che considera il simbolo del predominio dell’uomo sulla donna. Desidererebbe soprattutto che le donne non siano costrette dagli islamisti ad indossare questo o quel vestito. Al convegno «Cristiani/musulmani vivere insieme?», che si è svolto a Yverdon il 30 ottobre 1993, l’imam del centro islamico di Losanna faceva notare che attivisti islamici schizzavano il vetriolo sulle gambe di musulmane che passeggiavano a Ginevra, indossando abiti non conformi alle norme islamiche. Di conseguenza, quale che sia la soluzione data a questo problema dai Paesi musulmani, tale soluzione andrebbe a vantaggio sia degli islamisti che dei liberali. 6. Impedimento del matrimonio per differenza di religione. Il diritto musulmano, come applicato nei Paesi musulmani, consente ad un musulmano di sposare una non musulmana, ma un cristiano non potrà mai sposare una musulma- 71 70 72 ATF 1191178. 95 96 Sentenza del consiglio di Stato ginevrino del 16 ottobre 1996 (inedita). Sentenza del 12 novembre 1997, in questa Rivista, 1997, p. 687 ss. na. Un simile matrimonio non solo non è valido ma il cristiano può perfino rischiare la vita. Tale norma musulmana contrasta con l’art. 54, al. 2 della costituzione che afferma: «nessun impedimento al matrimonio può essere fondato su motivi confessionali (...)». Nel novembre 1996, un cristiano sposava in Svizzera una musulmana di origine tunisina. Due dei suoi fratelli la rapivano, minacciando il marito con un’arma. Venivano arrestati dalla polizia che liberava la donna; rischiano 16 anni di carcere. Ma i coniugi hanno paura. Infatti la donna ha tre 73 altri fratelli in libertà . 7. Poligamia. La maggior parte dei Paesi musulmani consentono all’uomo musulmano di sposare quattro donne contemporaneamente, siano esse musulmane, cristiane o ebree. Tuttavia, vengono adottate delle misure per limitare tale prassi. In Svizzera, dove la poligamia è un reato punibile ai sensi dell’art. 215 del codice penale, non è possibile celebrare un matrimonio poligamo, sia per gli svizzeri che per gli stranieri. Ma accade che musulmani già sposati nel loro Paese, sposino una donna svizzera nascondendo il loro primo matrimonio, per ottenere il permesso di soggiorno. Ottenutolo, divorziano dalla svizzera e fanno arrivare la loro prima moglie. 8. Predominio dell’uomo sulla donna e rapporti con i figli. Il Corano sancisce il predominio dell’uomo sulla donna: «Le donne hanno diritti pari ai loro doveri, e conformemente agli usi. Gli uomini hanno tuttavia il predominio su di esse» (2:228). Conferisce all’uomo il diritto di picchiare la 73 24 Heures, 13 novembre 1996. 97 moglie se disobbedisce (4:34-35). In virtù del potere dell’uomo sulla donna, l’uomo può impedirle di lavorare, costringerla a portare gli abiti che lui desidera e obbligarla ad adempiere ai suoi doveri religiosi. Tale potere si estende anche sui figli. Il problema si pone in modo particolare per i matrimoni misti. Secondo il diritto musulmano applicato nei Paesi arabi, i figli nati da tali matrimoni devono necessariamente essere musulmani; non si può imporre loro un nome di derivazione cristiana. Queste norme musulmane contrastano con il diritto svizzero. In Svizzera sono i genitori che decidono congiuntamente della religione e del nome dei figli. Sorge anche il problema degli adempimenti religiosi: il battesimo se i bambini sono cristiani, la circoncisione se musulmani. La circoncisione è una lesione dell’integrità fisica. D’altra parte, in quanto segno fisico indelebile, la circoncisione costituisce una violazione della libertà religiosa del bambino, che deve conservare il diritto di mutare religione fino a sedici anni. Purtroppo, le norme internazionali e quelle svizzere condannano veementemente, a ragione, la mutilazione sessuale delle bambine ma evitano di prendere posizione sulla mutilazione sessuale dei ragazzi... per timore di essere tacciati di antisemitismo. Tale atteggiamento è contrario ai principi di non discriminazione e di rispetto dell’integrità fisica. E benché il progetto di costituzione garantisca quest’ultima (art. 9, al. 2), non sembra, tuttavia, vietare la pratica della circoncisione maschile74. 74 Interpellato sul punto durante il Convegno dell’Accademia svizzera di scienze umane e sociali (Gerzensee, 29 settembre-3 ottobre 1997), il signor Heinrich Koller, principale redattore del progetto di costituzione, rispondeva: «Credete dunque che noi vieteremmo la circoncisione religiosa agli ebrei e ai musulmani!?». 98 9. Ripudio. In numerosi Paesi musulmani l’uomo ha il diritto di porre fine al matrimonio con una dichiarazione di volontà unilaterale. Questo è il ripudio, che può essere definitivo o revocabile entro un determinato periodo con decisione unilaterale del marito. Tale diritto può essere esercitato direttamente dal marito o indirettamente da una terza persona delegata dal marito, inclusa la donna che subisce il ripudio. In Svizzera ciò non è consentito. Un egiziano musulmano, desiderando ripudiare la moglie che viveva con lui in Svizzera, ha inviato una procura a suo fratello in Egitto. La donna è stata informata del ripudio da un’amica. In seguito il marito si è risposato in Marocco con una marocchina e ha sollecitato un permesso di soggiorno in Svizzera per quest’ultima. Il tribunale di Ginevra non ha accettato il ripudio intervenuto in Egitto e ha preteso che si instaurasse un effettivo procedi75 mento di divorzio in Svizzera . 10. Successione. Il diritto musulmano vieta la successione tra musulmani e non musulmani. Del resto, il diritto musulmano accorda alla donna la metà di quanto accorda all’uomo. Anche questo è contrario al diritto svizzero. 11. Sepoltura dei morti. Nei Paesi musulmani, come in Israele, ciascuna comunità religiosa seppellisce i suoi morti in cimiteri propri. È vietato seppellirvi membri di altre comunità, per motivi assurdi76. La sepoltura avviene secondo norme particolari, poiché 75 La semaine judiciaire, 31 marzo 1992, n. 13, p. 209-224. Secondo i giuristi musulmani, la sepoltura di un musulmano accanto ad un miscredente rischia di arrecare pregiudizio al primo. Dio punisce il 76 99 il morto musulmano viene posizionato rivolto alla Mecca. I morti vi restano per sempre e non è consentito, eccetto che in situazioni di emergenza, destinare ad altro uso le tombe. Una Fondazione dei cimiteri islamici in Svizzera, costituita nel 1978, è alla ricerca da quella data di una superficie per costruire un cimitero musulmano. Gli è stata rifiutata, tranne che a Ginevra, e nei limiti degli spazi disponibili. In mancanza di cimiteri, i musulmani sono costretti a inviare i loro morti nel loro Paese di origine, cosa molto costosa. Ma che fare con la seconda e la terza generazione? E dei rifugiati i cui Paesi sono in guerra? Per risolvere il dilemma, occorre rispettare tre regole di buon senso: - La società raccomanda la tolleranza fra i suoi membri e rifiuta l’emarginazione per motivi religiosi. Tale principio deve essere applicato sia tra i vivi che tra i morti: un uomo che rifiuta di sedersi allo stesso tavolo con un altro perché è ebreo o musulmano sarebbe tacciato di razzismo. Lo stesso dovrebbe valere per i morti. Lo Stato dovrebbe, dunque, rifiutare l’attribuzione di cimiteri alle diverse comunità religiose, senza nessuna eccezione, lasciando ai parenti del defunto il diritto di mettere sulla tomba i simboli religiosi che desiderano. - Poiché la terra è rotonda, bisognerebbe spiegare ai musulmani che quale che sia la direzione verso la quale si orienta un morto, avrà sempre il viso e la schiena rivolti alla Mecca. - I morti non devono impacciare i vivi. Di conseguenza, è necessario poter destinare ad altro uso le tombe dopo un certo tempo, senza distinzione fra ricchi e poveri, affinché la miscredente nella sua tomba; la punizione di Dio rischia di colpire il musulmano che è sepolto accanto a lui (v. in tal senso una fatawa saudita, in Magallat al-buhuth al-islamiyyah, n. 10, 1954, p. 68-69). 100 terra non sia un giorno invasa dai morti. Tale principio deve essere applicato a tutti, senza distinzione di religione. Come corollario a tale principio sarebbe opportuno che lo Stato incentivi finanziariamente la cremazione. Generalmente si evoca la circostanza che gli ebrei hanno propri cimiteri. Tale prassi, retaggio del passato e motivata dal mutuo rifiuto degli ebrei e dei cristiani, contrasta con il buon senso e la tolleranza. È necessario porvi fine e cercare di non estenderlo ad altre comunità. Errare humanum est, perseverare diabolicum. Si ricorda in proposito che la vigente costituzione svizzera prevede che «il diritto di disporre dei luoghi di sepoltura spetta alle autorità civili. Deve provvedere a che ogni defunto possa essere sepolto decorosamente» (art. 53, al. 2). È riprovevole che l’attuale progetto di costituzione abbia soprasseduto alla questione. Nel Messaggio sulla nuova costituzione si legge: «La dignità umana copre (...) il diritto ad una sepoltura decorosa, attualmente garantito dall’art. 53, al. 2 della costituzione. Pertanto non è necessario evocare tale diritto»77. Il Messaggio, tuttavia, non dice nulla sull’appartenenza dei luoghi di sepoltura all’autorità civile. Per rispettare la dignità umana, i cimiteri dovrebbero sfuggire al controllo di tutte le autorità religiose, senza eccezioni, affinché non siano più un luogo dove manifestare la loro secolare reciproca intolleranza. V. Risposte degli occidentali alla sfida del diritto musulmano. Attualmente esiste un confronto, talvolta violento, tra i movimenti dell’attivismo islamico che vogliono imporre le norme religiosi e coloro che professano la stessa fede che le 77 Messaggio sulla nuova costituzione, cit. p. 143. 101 rifiutano. Tale confronto prima o poi si estenderà ai Paesi non musulmani nei quali vivono le minoranze musulmane. Come si prepara l’Occidente per far fronte a tali problemi? 1. Il dialogo. L’Occidente tenta di limitare lo scontro tra le diverse comunità religiose attraverso il dialogo. Ma tale dialogo evita accuratamente tutti i punti di attrito summenzionati e a ragione. Il dialogo si svolge tra gruppi religiosi che non sempre hanno adeguate conoscenze giuridiche e senso della realtà, i giuristi non vi partecipano. Ancora più grave, sovente manca il coraggio, dal momento che ognuno di tali religiosi ha uno scheletro nell’armadio: «Nascondi i miei difetti affinché io nasconda i tuoi». Non deve sorprendere, dunque, che trent’anni di dialoghi fra i diversi gruppi religiosi non abbiano trovato una soluzione al problema del matrimonio tra una musulmana e un cristiano o a quello della costruzione di luoghi di culto per i cristiani che lavorano in Arabia Saudita. Per far fronte ai problemi posti dai musulmani in Svizzera, propongo misure legislative e preventive e l’apertura di un dibattito ideologico franco, senza compiacenze. 2. Misure legislative e preventive. Sul piano legislativo, gli occidentali non possono considerare ciò che accade nei Paesi musulmani una questione che non li riguarda. Devono, nel loro interesse, sostenere i movimenti che si battono per il rispetto dei diritti dell’uomo sia nei Paesi musulmani che in Israele, in particolare spingendoli ad adottare il progetto di legge intitolato «Cento provvedimenti e disposizioni per una codificazione magrebina egalitaria dei diritti della personalità e del diritto di famiglia» elaborato dal «Collectif 95 Maghreb Egalité» di cui si è parlato sopra. Una simile legge porrebbe fine alla 102 discriminazione fondata sul sesso e sulla religione che regna in tali Paesi in materia di diritto di famiglia e di diritto successorio. Relativamente ai rapporti con i musulmani che vivono in Svizzera, quest’ultima deve esigere da questi musulmani il rispetto del principio di reciprocità in tema di libertà religiosa e di culto, segnatamente in occasione della costruzione di moschee. Peraltro, in via preventiva, dovrebbe sottoporre i candidati musulmani alla naturalizzazione non solo ad un esame sulla storia, la geografia e le istituzioni politiche, ma anche ad un esame sui diritti fondamentali previsti dalla costituzione. Coloro che non accettano di riconoscere tali diritti e coloro che considerano le loro leggi religiose superiori alle leggi svizzere non dovranno essere naturalizzati78. La Svizzera dovrà porre le medesime condizioni ai richiedenti asilo politico, agli imam e ai religiosi musulmani, nonché a coloro che desiderano sposarsi con una persona di nazionalità svizzera79. Si segnala che l’Istituto svizzero di diritto comparato ha pubblicato una brochure sui matrimoni misti tra svizzeri e 78 Si ricorda che numerosi Paesi musulmani esigono da chi chiede la naturalizzazione che sia musulmano (v. SAMI A. ALDEEB ABU-SAHLIEH, Les Musulmans face aux droits de l’homme, cit., p. 93-94). 79 L’art. 2 della Convenzione sullo statuto dei rifugiati recita: «Ogni rifugiato ha, nei confronti del paese nel quale si trova, dei doveri che comportano in particolare l’obbligo di conformarsi alle leggi e ai regolamenti nonché alle misure adottate per la tutela dell’ordine pubblico». D’altra parte, l’art. 1 in fine afferma che tale Convenzione non si applica alle persone «colpevoli di comportamenti contrari agli scopi e ai principi delle Nazioni Unite». Un richiedente asilo politico che ha intenzione di praticare la discriminazione religiosa o sessuale nel Paese di accoglienza non potrà avvalersi della succitata Convenzione. 103 stranieri musulmani, elaborata da chi scrive80. Si propone a coloro che intendono contrarre tali matrimoni di firmare un contratto di matrimonio che contiene clausole volte a regolamentare la vita di coppia, l’indissolubilità del matrimonio, allo scopo di garantire il rispetto della dignità umana. Le autorità svizzere dovranno imporre tale contratto prima della celebrazione del matrimonio: «Un soldo di prevenzione vale molto di più di una tonnellata di medicine» (proverbio arabo). Non si tratta di impedire i matrimoni misti che, a lungo andare, possono essere salutari dando vita ad una generazione composita che non si riconoscerà più nell’attuale modello musulmano. Ma sulla coppia che fallisce in tale impresa grava il peso della responsabilità dell’aumento della xenofobia nei confronti dei musulmani in Svizzera. Per questo motivo occorre adottare tutte le precauzioni per evitare il fallimento dei matrimoni misti e perché non siano focolai di fanatismo religioso. 3. Dibattito ideologico. Sul piano ideologico, bisogna arrendersi all’evidenza che il confronto tra norme islamiche e norme statali consegue dalla circostanza che le norme islamiche, oggetto di rivelazione, rifiutano il compromesso e il ricorso alla ragione, due condizioni indispensabili in ciascun progetto di società consensuale e democratica. Ognuno, individualmente, è libero di credere in ciò che vuole. Ma l’intrusione della rivelazione come fonte di norme sociali imperative apporterà alla società solo molte sofferenze e delusioni sia nei Paesi musulmani 80 SAMI A. ALDEEB ABU-SAHLIEH, Mariages entre partenaires suisses et musulmans, connaître et prévenir les conflits, Institut suisse de droit comparé, Dorigny, Lausanne 3a ed. rivista e corretta. La brochure può essere ordinata (al prezzo di 10 franchi svizzeri) in francese o in tedesco presso il summenzionato Istituto. 104 che nei Paesi non musulmani. In questi ultimi rischia di avere gli stessi esiti della Spagna; il rinvio degli immigrati musulmani è attualmente raccomandato esplicitamente da numerosi uomini politici francesi ed europei. I musulmani, ovunque vivano, devono sforzarsi di separare assolutamente religione e diritto e di far prevalere la ragione sulla fede. Sarebbe opportuno che anche l’Occidente, da parte sua, facesse uno sforzo. Spetta all’Occidente dove vige la libertà di pensiero - cominciare ad insegnare nelle facoltà di Teologia e nelle scuole che la rivelazione è un concetto falso e pericoloso per l’umanità. Tale idea potrà poi progressivamente essere accolta dai musulmani e dagli ebrei. Viceversa, il XXII secolo sarà devastato da guerre di religione fomentate da esaltati ebrei, cristiani e musulmani, tutti convinti di obbedire agli ordini di Dio. Prendendo le mosse da tale idea, si può affermare che è un errore far iniziare la costituzione svizzera e il progetto di nuova costitu81 zione con la frase «In nome di Dio Onnipotente» . Desidero, tuttavia, fugare ogni malinteso. Non invito il lettore all’ateismo, ma a valorizzare la ragione che noi tutti abbiamo in comune. Ora, se uso la mia ragione, non vedo perché la Bibbia, il Vangelo o il Corano siano più importanti di Mille e una notte, e sfuggano alla critica del buon senso e della ragione. E ciò tanto più che i «libri sacri» sono spesso serviti a dissacrare l’essere umano e a schernire la sua dignità. 81 Il messaggio federale sulla nuova costituzione federale del 20 novembre 1996 giustifica tale menzione con la circostanza che «stabilisce un importante legame con la tradizione. Nel merito, deve ricordare che esiste, al di là dello Stato e degli uomini, un potere trascendente che relativizza così il valore delle cose terrene» (p. 124-125). Il messaggio non spiega quale tecnica occorra utilizzare per entrare in contatto con questa Potenza per conoscerne la volontà; non spiega nemmeno che cosa fare se i gruppi religiosi fanno riferimento a potenze trascendenti, a precetti contraddittori, perfino contrari alla dignità umana. 105 ABSTRACT Muslim law plays an important role within the ArabMuslim society. It is a source of constant conflicts with the State and hinders the development of human rights in these countries because of its immutable and non democratic nature. The present trend for a larger islamisation of the society will worsen the situation of human rights, as the project of Islamic constitutions - as well as the different ArabMuslim declarations on human rights and the proposals of ’Islamic’ laws - show. The bad effects of Muslim law on human rights can be found in numerous fields, for example in the lack of democracy, in inequality of women, in the enforcement of severe and degrading criminal rules... These bad effects extend also to economy which is paralysed by certain religious practices such as the fast of Ramadan. These problems are arising in non-Muslim countries hosting Muslim communities: the conflict between the Islamic legal system and western legal systems becomes unavoidable. Inter-religious dialogue is therefore essential: western communities must explicitly engage in an ideological debate in order to reach a complete separation between law and religion as well as a new definition of concept of revelation. Without these measures coming from western countries, the fundamentalist fire burning thousand of innocent lives in Algeria will embrace other Muslim countries and will involve also western countries. 106 4. Profili evolutivi del sistema arabo di tutela dei diritti dell’uomo di Felicita Tramontana * Introduzione. L’argomento su cui verte il mio intervento è il sistema arabo di tutela dei diritti dell’uomo, un argomento che al momento suscita un notevole interesse in parte perchè dopo l’11 settembre è cresciuto in tutto il mondo occidentale l’interesse per il mondo arabo ma soprattutto per gli sviluppi che ha avuto negli ultimi decenni il problema dei diritti umani nei Paesi arabi: il rispetto almeno formale dei diritti umani, infatti, è diventato un’esigenza politica a cui i governi di questi Paesi non possono più sottrarsi a causa delle pressioni interne ed esterne. Notevole interesse suscita, inoltre, l’adozione nel 2004 di un documento regionale per la tutela dei diritti dell’uomo, documento che qualora entrasse in vigore potrebbe portare numerosi cambiamenti. A tale evento desidero dedicare buona parte del mio intervento cercando di valutarne la reale portata innovativa sia all’interno del sistema arabo di tutela dei diritti dell’uomo che per quanto attiene la tutela dei diritti nei singoli Stati. Voglio subito precisare che il sistema arabo di tutela dei diritti dell’uomo presenta una serie di carenze strutturali che ne condizionano notevolmente il funzionamento. Va in * Dottoranda in tutela dei diritti fondamentali. 107 proposito ricordato, innanzitutto, che lo sviluppo di tale sistema è stato influenzato in primo luogo dall’evoluzione del modo in cui i singoli Paesi arabi hanno affrontato il problema dei diritti umani, evoluzione condizionata da alcuni fattori e tra questi dal fatto che molti principi internazionali sui diritti umani contraddicono la Legge islamica. Come ha, infatti, sottolineato il pensatore arabo Abdul1 lah Ahmed An-na’im la legittimazione culturale dei diritti umani nei Paesi arabi non può prescindere dal fattore religioso poiché la religione islamica è sempre stata una componente fondamentale della cultura araba. Lo stesso studioso precisa però che in realtà i contrasti in questione sono con la Legge islamica2 ma non con le fonti di questa, il Corano e la Sunna, né con i principi dell’Islam. La Legge islamica, infatti, rappresenta, secondo molti studiosi arabi soltanto una delle possibili interpretazioni dei testi sacri all’Islam e 1 ABDULLAH AHMED AN-NA'IM, Human Rights in the Muslim World: SocioPolitical Conditions and Scriptural Imperatives, Harvard Human Rights Journal, vol. 3, 1990, 13-52; vedi anche id, Toward an Islamic Reformation. Civil liberties, Human Rights and International Law, New York, 1996. 2 La shar†’a (o legge islamica) “storica concretamente applicabile è un diritto di formazione dottorale. Esso è condotto con un procedimento casistico senza preoccupazione di sistematicità” (R. SACCO, Diritti stranieri e sistemi di diritto contemporaneo, in Enc. giur. Treccani, XI, Roma, 2001, 6). La shar†’a regola tutti gli aspetti della vita del singolo e della comunità, dai riti religiosi al commercio ed è stata elaborata dalle scuole giuridiche nel II-III secolo dell’Islam; le sue fonti (u¡™l al-fiqh) sono, in ordine di importanza: il Corano (Qur'…n), la Sunna (Sunnat al-n…b† , raccolta di detti e fatti del Profeta tramandati dai primi musulmani), l’iÞma o consenso e il q†yas o analogia; sull’argomento, v. F. CASTRO, Diritto musulmano e dei paesi musulmani, in Enc. giur. Treccani, XI, Roma, 2001, 290 ss.; id., Sistema sharaitico, siy…sa al-shar’iyya e modelli normativi nel processo di formazione degli ordinamenti giuridici dei Paesi del Vicino Oriente, in Il mondo islamico tra interazione e acculturazione, Roma, 1981; J. SCHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Torino, 1995. Il Prof. S. ALDEEB ABU-SALIEH ha già affrontato il tema della Legge islamica nel suo intervento a cui si rinvia per maggiori dettagli. 108 soprattutto riflette una particolare situazione storica3. I contrasti tra Legge islamica e principi internazionali in 4 materia di diritti umani , su cui è già stato scritto tantissimo, sono carichi di conseguenze non solo sul piano della legittimazione culturale ma anche da un punto di vista strettamente giuridico: per quei Paesi, infatti, in cui sono vigenti norme di origine sciaraitica la ratifica di testi sui diritti dell’uomo che contraddicono la shar†’a pone il problema del contrasto tra le disposizioni contenute in tali testi e la legislazione in vigore. Un secondo fattore che ha avuto un’indubbia influenza sullo sviluppo del sistema arabo di tutela dei diritti umani è rappresentato dal diverso modo in cui i singoli Paesi hanno affrontato il problema, diversità la cui importanza viene spesso tralasciata e che al contrario ha sicuramente rallentato l’evoluzione del sistema: l’esigenza di trovare forme di mediazione tra le posizioni degli Stati in materia, come vedremo, ha, infatti, accompagnato il processo di formazione di un documento regionale sui diritti dell’uomo sin dalla redazione del primo progetto negli anni settanta. L’organizzazione che sta alla base del sistema regionale 5 di tutela dei diritti dell’uomo è la Lega araba di cui fanno parte al momento i Paesi arabi del Medio Oriente e del Nord Africa e alcuni Stati africani che non vengono generalmente 3 Il problema della compatibilità con la Legge islamica non è ovviamente l’unica motivazione con cui si spiega la ritrosia dei Paesi arabi nei confronti del tema dei diritti umani, un ruolo fondamentale a questo proposito assumono infatti motivazioni di carattere economico e politico. Il problema del rapporto con la Legge islamica suscita interesse perché rappresenta una particolarità dell'area in esame. 4 Non mi soffermerò sui principi islamici in materia di diritti umani né sul contrasto tra questi e i principi internazionali, l’argomento, infatti, è stato già trattato ampiamente dal Prof. S. ALDEEB ABU-SALIEH. 5 La Lega Araba è stata fondata nel 1945. 109 definiti arabi come ad esempio la Somalia. In realtà fino alla seconda metà degli anni sessanta il tema dei diritti umani non aveva trovato alcuno spazio nelle politiche della Lega e ciò coerentemente con lo scarso interesse verso il tema manifestato dal mondo arabo: i diritti umani e in particolare quelli enunciati nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 erano sentiti, infatti, come frutto della cultura occidentale e, pertanto, estranei a quella araba come dimostrano le numerose riserve espresse da alcuni Paesi arabi tra cui l’Egitto nei confronti del documento delle 6 Nazioni Unite . Nel Patto istitutivo della Lega7, dunque, non si fa alcun accenno ai diritti umani né di conseguenza era stato previsto inizialmente al suo interno alcun organo che avesse funzione di promozione e di tutela dei diritti umani. Tale situazione muta a partire dalla seconda metà degli anni sessanta con la creazione8, in seno al Consiglio della 9 Lega , di un comitato ad hoc con lo scopo di stabilire le moda- 6 Vedi in proposito A. BIAD, Les droits de l’homme: un nouvel enjeu pour le monde arabe, in The mediterranean journal of human rights, n. 1, 1997, 12; C. ZANGHÌ, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Torino, 2002, 341. 7 Il testo del Patto istitutivo della Lega è reperibile in inglese sul sito della Lega Araba www.arableagueonline.org. 8 Con la risoluzione 2259/46 (settembre 1966). 9 Secondo quanto stabilito dal Patto l’organo principale della Lega è il Consiglio, formato dai rappresentanti degli Stati membri. Sono previsti, inoltre, un Segretariato, con a capo un Segretario generale, e alcune Commissioni che hanno il compito di coadiuvare i lavori del Consiglio. Bisogna precisare, però, che negli anni il funzionamento della Lega e la ripartizione dei poteri tra i suoi organi si sono in parte discostati dalle previsioni del Patto istitutivo (S. CHAABANE, La réforme du Pacte de la Ligue des États Arabe, in Revue Générale de Droit International Public, n. 86, 1982, 518). Sulla Lega vedi, tra gli altri, M. SHIHAB, Arab States, League of, in Encyclopedia of Public International Law, vol. 1, 1992, 204; D. AHMED, La Ligue des États arabes véhicule de coopération régionale et internationale?, in Revue des études internationales, vol. 2, 2004. 110 lità di partecipazione dell’organizzazione alle celebrazioni dell’anno internazionale dei diritti dell’uomo e ciò in quanto la Commissione per i diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, in vista di questo importante appuntamento, aveva invitato la Lega Araba e altre organizzazioni regionali a partecipare con i propri programmi. A tale Comitato nel marzo del 1967 10 ne viene affiancato un secondo “di orientamento” . A partire da questo momento cresce costantemente l’attenzione del mondo arabo verso la tematica dei diritti umani che diventa ben presto uno dei principali temi del 11 dibattito politico . Vari fattori concorrono a determinare questo mutamento. Si pensi alle pressioni delle associazioni locali che lavoravano in difesa dei diritti umani e delle associazioni professionali tra cui quella degli avvocati. Non si può, inoltre, dimenticare il ruolo fondamentale svolto delle organizzazioni internazionali tra cui l’ONU e la Banca Mondiale che a partire dagli anni settanta iniziano a subordinare la distribuzione degli aiuti al rispetto da parte degli Stati di standard minimi di tutela dei diritti. Queste pressioni aumentano notevolmente a partire dagli anni novanta; con la fine della guerra fredda, infatti, i Paesi occidentali, che fino a quel momento avevano dato maggiore importanza alla stabilità dei regimi arabi piuttosto che al loro carattere democratico, cercano di favorire negli Stati del Medio Oriente e del Nord Africa la nascita di istituzioni democratiche e il rispetto dei diritti umani, rite- 10 Risoluzione numero 2304/47. Sull’argomento v. B. BOUTROS-GHALI, La Ligue des États arabes, in Les dimensions internationales des droits de l'homme, Parigi, 1978, 636; A. H. ROBERTSON, Human Rights in the World, Manchester, 1972, 144. 11 Vedi A. BIAD, Les droits de l’homme: un nouvel enjeu pour le monde arabe, cit., 14 ss. 111 nuti fattori indispensabili per la stabilità dell’area12. A partire dagli anni ottanta, inoltre, si assiste a una crescita costante del ruolo svolto dalle ONG arabe. Tali organizzazioni, infatti, nonostante gli ostacoli che spesso sono costrette a fronteggiare, hanno svolto e svolgono tuttora un ruolo fondamentale nel denunciare le violazioni dei diritti civili e nel sensibilizzare l’opinione pubblica nazionale e mondiale. Tutte queste pressioni, infine, hanno trovato negli ultimi anni un terreno particolarmente fertile nel desiderio di legittimazione internazionale di alcuni Stati membri della Lega, legittimazione che appare sempre più legata al rispetto di standard minimi di tutela dei diritti umani. I fattori di cui ho parlato sono alla base dell’introduzione nella maggior parte delle Costituzioni dei Paesi arabi di disposizioni che sanciscono la necessità di rispettare e proteggere i diritti umani. Persino l’Arabia Saudita, che non ha firmato né la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo 13 né i Patti del ’66 ritenuti frutto della cultura occidentale, ha inserito il principio della tutela dei diritti umani nel suo Regolamento fondamentale del 199214. 12 Sull’argomento si veda F. BICCHI, Attori e contenuti della politica estera europea per il Mediterraneo, in R. RAGIONIERI, O. SCHMIDT DI FRIEDBERG (cur.), Culture e conflitti nel Mediterraneo, Trieste, 2003. Sul problema della sicurezza nel Mediterraneo e sulle sue ripercussioni sulla politica estera europea nell’area vedi T. GRUNERT, La politica mediterranea dell’Unione Europea come elemento della P.E.S.C., e A. BIN, L’Europa e la sicurezza nel Mediterraneo, in F. ATTINÀ e F. LONGO, Unione Europea e Mediterraneo tra globalizzazione e frammentazione, Bari, 1996; M. LISTER, The European Union and the South, Londra, 1997. 13 Mi riferisco al Patto sui diritti civili e politici e al Patto sui diritti economici, sociali e culturali delle Nazioni Unite 14 Questo regolamento, come è noto, supplisce all'assenza di una vera e propria Carta costituzionale; in Arabia Saudita, infatti, il Corano è considerato la sola Costituzione del Paese. Sull'argomento vedi R. BETTINI, Sociologia del diritto islamico, Milano, 2004, 49. 112 Per quanto riguarda il Maghreb, la Costituzione algerina del 3 febbraio 1989 dedica 28 articoli ai diritti ed alle libertà15 e nella Costituzione tunisina del ’59, nel cui preambolo vi era già un esplicito riferimento ai diritti umani, è stata introdotta con la riforma del 200216 la seguente disposizione: “La Repubblica tunisina garantisce le libertà fondamentali e i diritti dell’uomo nella loro accezione universale, globale, complementare ed interdipendente (…)” (art. 5). Allo stesso modo la riforma della Costituzione marocchina del 1992 ha introdotto nel preambolo un riferimento esplicito ai diritti dell’uomo. Le trasformazioni che hanno modificato l’atteggiamento dei Paesi arabi nei confronti della tematica dei diritti umani hanno influenzato l’operato della Lega araba, la quale è stata ed è sottoposta a sua volta a numerose pressioni da parte delle ONG e delle istituzioni internazionali. Bisogna precisare, tuttavia, che l’impegno della Lega in questo campo è sempre stato limitato e che il sistema di tutela dei diritti dell’uomo mostra delle carenze strutturali notevoli a partire dagli organi che dovrebbero assolvere funzioni di controllo17. La Commissione araba permanente dei diritti dell’uomo. La Commissione araba permanente dei diritti dell’uo- 15 In realtà già nella Costituzione algerina del 1976 vi erano alcune disposizioni che riguardavano i diritti fondamentali. 16 Tale riforma è stata approvata dal primo referendum costituzionale della storia del Paese, il 26 maggio 2002. Vedi in proposito G. P. PAROLIN, Tunisia. Referendum costituzionale, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2002, 981 e 982. 17 Sull'argomento vedi anche Commission internationale de juristes Le processus de “modernisation” de la Charte arabe des droits de l'homme: des régressions inquiétantes. Rapport de position, versione inedita, dicembre 2003, (reperibile sul sito www.icj.org), 6 ss. 113 mo18 è attualmente l’organo all’interno della Lega araba preposto alla promozione e alla tutela dei diritti umani. Essa, 19 secondo quanto emerge dal suo Programma d’azione , dovrebbe esercitare il controllo sulle modalità di esplicazione e di tutela dei diritti umani all’interno dei Paesi membri. Dovrebbe, il condizionale in questo caso è d’obbligo, perché, 20 come è stato più volte evidenziato dalla dottrina , la Commissione si è nella realtà dimostrata incapace di esercitare un effettivo controllo, limitando la sua attività alla partecipazione a riunioni e conferenze organizzate sul tema da organizzazioni regionali e universali e all’esercizio di una funzione di promozione attraverso l’invio di raccomandazioni e di sollecitazioni agli Stati membri per la creazione nel loro interno di strutture finalizzate alla tutela dei diritti umani. Ciò è dovuto in primo luogo al tipo di rapporto esistente tra la Commissione e gli altri organi della Lega: un rapporto di vera e propria subordinazione sia sotto il profilo strutturale che funzionale. Quanto al primo basti pensare che la Commissione è composta non da esperti indipendenti ma da delegati degli Stati membri; spetta, inoltre, al Consiglio della Lega il compito di eleggere il Presidente della Commissione, il cui mandato dura due anni, tra i candidati proposti dagli Stati21. Quanto al secondo profilo, la subordinazione dell’organo 18 La Commissione è stata istituita il 3 settembre 1968, con la risoluzione 2443/48 del Consiglio della Lega. 19 Tale Programma è stato adottato dalla Commissione durante la sessione dell’aprile 1969. 20 S.P. MARKS, La Commission permanente arabe des droits de l'homme, in Revue des droits de l’homme, vol. III, n. 1, 1970, 107; R. DAOUDI, Human Rights Commission of the Arab States, in R. BERNHARDT (cur.), Encyclopedia of public international law, vol. 2, Amsterdam, 1995, 915 ss. 21 Vedi Regolamento della Commissione che fu adottato dal Consiglio della Lega insieme alla risoluzione con cui è stata istituita la Commissione. 114 in esame al Consiglio della Lega emerge con chiarezza dalle previsioni del regolamento secondo cui tutte le decisioni prese in seno alla Commissione devono essere approvate 22 dal Consiglio . Anche i mezzi a disposizione della Commissione per garantire la tutela dei diritti umani all’interno dei Paesi membri, sono, a ben vedere, poco efficaci23: consistono, infatti, nell’invio di raccomandazioni agli Stati in seguito all’esame dei rapporti da loro presentati. È prevista una stretta collaborazione tra la Commissione e le strutture governative che si occupano di diritti umani all’interno dei singoli Paesi, le quali dovrebbero informare la Commissione sulla situazione dei diritti umani nel Paese. È evidente però che sull’ adempimento di tale compito incide non poco la mancanza di indipendenza di tali strutture. La mancanza di indipendenza rispetto agli organi politici della Lega spiega anche le ragioni sottese ad un’altra critica che è stata spesso avanzata nei confronti della Commissione araba permanente per i diritti dell’uomo; come è stato più volte sottolineato, infatti, essa, a partire dalla sua creazione, si è occupata principalmente delle violazioni dei diritti umani commesse da Israele nei territori occupati, lasciando in secondo piano quelle perpetrate all’interno dei Paesi della 24 Lega . Tutti questi limiti sono stati denunciati più volte da 22 Art. 12 del Regolamento. M. AL-MIDANI, La Ligue des États arabes et les droits de l’homme in Scienza e politica, 2002, reperibile in francese sul sito www.aidh.org, cit., 3 ss.; R. DAOUDI, Human Rights Commission of the Arab States, cit., 915. 24 Le Risoluzioni adottate dalla Commissione vertono, infatti, nella maggior parte dei casi, sul problema palestinese, C. ZANGHÌ, La Protezione internazionale dei diritti dell’uomo, cit., 333. Sull’argomento vedi, tra gli altri, B. BOUTROS-GHALI, La Ligue des États arabes, in Les dimensions internationales des droits de l’homme, cit., 638; A. MAHIOU, La Charte arabe des droits de l’homme, in L’évolution du droit international. Mélanges offerts à Hubert Thierry, Parigi, 1998, 307. giuristi arabi e non, i quali hanno sollecitato una riforma del regolamento della Commissione come condizione essenziale per l’effettiva tutela dei diritti umani nell’area, tutela che, come è evidente, non può prescindere dall’esistenza di organi indipendenti dotati di reali poteri di controllo. La Carta araba dei diritti dell’uomo del 1994 tra principi internazionali e principi della legge islamica: un tentativo di mediazione non riuscito. Un’altra importante carenza nel sistema arabo di tutela dei diritti dell’uomo è la mancanza di uno strumento giuridico regionale in materia, strumento la cui necessità era già stata evidenziata nel Programma d’azione della Commissione araba permanente per i diritti dell’uomo. In realtà sono stati redatti a partire dagli anni settanta numerosi progetti di documenti; già dal dibattito che ha accompagnato la nascita di tali testi, tuttavia, emergono in pieno le divergenze tra le posizioni in materia di diritti umani degli Stati che compongono la Lega e le difficoltà di mediare tra tali posizioni. La Lega Araba riunisce, infatti, Stati che, nonostante la comunanza di lingua e religione, presentano delle notevoli differenze di organizzazione politica, sociale e giuridica. Uno dei tratti che li distingue maggiormente è il ruolo che il diritto musulmano svolge all’interno dei rispettivi ordinamenti25: è chiaro, infatti, che per quei Paesi che applicano la 23 115 25 Dalla commistione tra religione e politica che ha caratterizzato sin dalle origini le società musulmane deriva il difficile rapporto tra la Legge islamica ed il diritto positivo negli Stati moderni. Nella maggior parte di questi ultimi la Legge islamica influenza la legislazione statale o la prassi giurisprudenziale soprattutto in alcuni ambiti come il diritto successorio e il diritto di famiglia; l’entità di questa influenza varia da paese a paese. In alcune delle Costituzioni, inoltre, la shar†'a viene indicata come una delle fonti principali 116 Legge islamica o che basano su di essa tutta la loro attività legislativa i principi internazionali in materia di diritti umani che contraddicono la shar†’a sono inapplicabili se non al prezzo di profondi contrasti con la normativa interna. Da ciò derivano quindi diverse attitudini nei confronti di tali principi. Il primo progetto di un documento della Lega sui diritti dell’uomo fu redatto nel 1971 da un gruppo di esperti, istituito, conformemente a una raccomandazione della Commis26 sione , presso il Segretariato Generale al Cairo. Il testo, intitolato “Dichiarazione dei diritti del cittadino negli Stati e Paesi arabi”, venne inviato ai Paesi membri perché facessero pervenire alla Commissione i loro commenti. Questo progetto come il successivo, elaborato dalla Commissione nel 1982, verrà abbandonato a causa dell’ostilità di alcuni Stati della Lega. Soltanto più di dieci anni dopo, nel 1993, le pressioni delle ONG e delle istituzioni internazionali spinsero la Commissione a presentare un nuovo progetto che riprendeva grosso modo i contenuti di quello del 1982; questo progetto fu approvato dal Consiglio della Lega nel 1994 con il nome di Carta araba dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti CADU). Il documento era composto da un preambolo e quattro capitoli di cui, il primo, dedicato ai diritti collettivi, era costituito da un solo articolo che sanciva il diritto dei popoli all’autodeterminazione. Nel successivo erano enunciati i o “la” fonte principale del diritto (così affermano ad esempio la Costituzione egiziana e quella del Qatar) a cui tutte le leggi devono uniformarsi (A. AMOR, Constitutions et religion dans les États musulmans, in Conscience et liberté, 54, 1997, 55-69). Sul punto vedi anche A. PIZZORUSSO, Sistemi giuridici comparati, Milano, 1995, 346; E. FERIOLI, L’evoluzione dell’ordinamento costituzionale dei Paesi del Maghreb. “Cosmesi politica” o riforma sostanziale?, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2003, 26 e 27. 26 Tale raccomandazione fu approvata con la risoluzione 2668/30 del Consiglio della Lega. 117 diritti individuali e in primo luogo il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza. Venivano, inoltre, sanciti il principio della legalità delle pene (art. 6), quello del ne bis in idem (art. 16) e alcune garanzie giurisdizionali (artt. 7, 8 e 9); gli artt. 10, 11 e 12 ponevano alcune limitazioni alla pena di morte e a questi seguiva l’enunciazione dei diritti civili e politici. Alcune disposizioni, infine, concernevano i diritti economici e sociali (artt. 25, 30-32) e i diritti culturali (artt. 35 e 36). Il capitolo terzo della CADU prevedeva l’istituzione di un Comitato di esperti in diritti dell’uomo con il compito di esaminare i rapporti presentati dagli Stati membri e di inviare a sua volta alla Commissione araba per i diritti dell’uomo un rapporto comprensivo delle opinioni e delle osservazioni degli Stati. Nell’ultimo capitolo, infine, erano descritte le condizioni per l’entrata in vigore della Carta che sarebbe avvenuta due mesi dopo la settima ratifica27. Da un’analisi del testo della CADU del 1994 emerge chiaramente il tentativo, operato dai redattori del testo, di mediare tra le posizioni degli Stati della Lega. È evidente, infatti, il carattere compromissorio del documento che cerca di riprendere i principi internazionali sui diritti dell’uomo e di evitare al contempo di contraddire apertamente alcuni principi della Legge islamica. Questo è il motivo per cui su argomenti di grande rilievo la CADU non prende alcuna posizione. In essa, ad esempio, non viene vietata la schiavitù, viene affermata la libertà religiosa ma non quella di cambiare religione. Ricordiamo a questo proposito che la libertà di cambiare religione è uno dei maggiori punti di 27 Questo in estrema sintesi il contenuto dei quattro capitoli della CADU. Una traduzione del testo del 1994 in francese, fatta da M. AL-MIDANI, si trova in Revue universelle des droits de l’homme, vol. 7, 1995, 212-214; una traduzione non ufficiale in inglese è stata fatta dal Centro per i diritti umani dell’ONU ed è reperibile sul sito www.umn.edu/humanrts/.html. 118 contrasto tra i principi internazionali in materia di diritti umani e la Legge islamica; quest’ultima, infatti, come ha già ricordato il Prof. S. Aldeeb Abu-Salieh considera l’apostasia (Ridda) un reato punibile con l’incarcerazione per la donna e la pena capitale per l’uomo28. La versione del 1994 della CADU, inoltre, tace a proposito di una materia importante come il matrimonio, eludendo in questo modo alcuni temi spinosi su cui c’è un innegabile contrasto tra il diritto islamico e i principi internazionali in materia. Le disposizioni che regolano tale istituto nel diritto musulmano presentano, infatti, alcuni tratti discriminatori nei confronti delle donne: è ammesso il matrimonio poliginico e monoandrico ma non il contrario, l’uomo è considerato il capo della famiglia cui la moglie deve obbedienza. Sono previsti, inoltre, l’ob-bligo di coabitare e il ripudio unilaterale. Affinché il matrimonio sia valido, infine, è richiesta per la donna la presenza di un curatore matrimoniale (wal† al29 nik…|) . Nonostante gli sforzi dei redattori, la difficile operazione di mediazione tra le differenti posizioni degli Stati, tra principi internazionali e principi islamici in materia di diritti umani, non ha avuto un buon esito: come è noto, infatti, la Carta del 1994 è stata firmata solo dall’Iraq e non è quindi mai entrata in vigore. In realtà già al momento dell’adozione del testo da parte dal Consiglio della Lega erano state espresse numerose riserve da alcuni Paesi per i quali la CADU rimaneva comunque un testo troppo vicino ai documenti internazionali e quindi in contrasto con i principi della legge islamica30; a queste si aggiunsero in seguito critiche di segno opposto provenienti da altri Stati membri che accusavano la CADU di essere un testo troppo lontano dagli standard internazionali in materia di diritti umani31. La Carta araba dei diritti dell’uomo del 2004. Il fatto che la CADU del 1994 non sia mai entrata in vigore ha determinato l’assenza nel mondo arabo di strumenti regionali sui diritti umani, strumenti che sono una componente necessaria per il funzionamento di un sistema regionale di tutela dei diritti umani e la cui importanza è stata più volte sottolineata dalla Commissione per i diritti dell’uomo del32 le Nazioni Unite . Si capisce quindi come l’adozione della nuova Carta ara33 ba da parte del Consiglio della Lega sia un evento importante e faccia sorgere una serie d’interrogativi in primo luo- 30 28 La maggior parte delle Costituzioni dei Paesi della Lega non affronta l’argomento. Come atteggiamento generale, tuttavia, si può affermare che l’apostasia non è permessa. Sull’argomento vedi, tra gli altri, A. AMOR, Constitutions et religion dans les États musulmans, cit., 55-69. Sulle Costituzioni dei Paesi arabi vedi M. OLIVIERO, Costituzioni e costituzionalismo nei Paesi arabi, in Diritto pubblico comparato ed europeo, cit., 111 ss.; id., Costituzioni e costituzionalismo nei Paesi arabi, Milano, 2003. 29 Vedi in proposito F. CASTRO, Diritto musulmano e dei paesi musulmani, cit., 305; S. ALDEEB ABU-SALIEH, Les Musulmans face aux droits de l’homme, Bochum, 1994, 51 ss. Una delle riserve espresse dall’Arabia Saudita e dall’Egitto in merito alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo riguarda proprio l’articolo 16 sul matrimonio. 119 Vedi C. ZANGHÌ, La Protezione internazionale dei diritti dell’uomo, cit., 336; M. AL-MIDANI, Ligue des États arabes et les droits de l’homme, cit., 7. 31 A. MAHIOU, La Charte arabe des droits de l’homme, corso tenuto presso l’Università di Salonicco, (estate 2004), testo dattiloscritto, nota 51. 32 La Dichiarazione della Conferenza internazionale dei diritti dell’uomo tenutasi a Vienna nel giugno 1993, ad esempio, afferma che “i meccanismi regionali giocano un ruolo fondamentale per la promozione e la protezione dei diritti dell’uomo” (§ 37). Sull’argomento vedi tra gli altri H. CHEKIR, La modernisation de la Charte Arabe des droit de l’homme, 2004, sul sito www.dex1.tds.unifi.it, 2. 33 Sulla Carta araba dei diritti dell’uomo del 2004 sia consentito rinviare a F. TRAMONTANA, La nuova Carta araba dei diritti dell’uomo tra tradizione e innovazione, in Giurisprudenza Costituzionale, n. 2, 2005, in corso di pubblicazione. 120 go, dati i fallimenti dei testi precedentemente redatti, circa le possibilità del testo di essere ratificato da un numero sufficiente di Stati e quindi di entrare in vigore. Qualora ciò dovesse avvenire, inoltre, ci si chiede quale sarebbe l’impatto reale del documento sulle legislazioni nazionali e sul sistema arabo di tutela dei diritti dell’uomo. Entrambe le questioni in realtà sono più complesse di quanto potrebbe sembrare; prima di affrontarle, però, desidero soffermarmi brevemente sugli eventi che hanno portato all’adozione del nuovo testo e sulle caratteristiche di quest’ultimo. Il processo di revisione della CADU del 1994, culminato con la adozione della nuova versione del documento, è cominciato nel 2001 per iniziativa del Consiglio della Lega. Numerose sono le motivazioni che hanno contribuito ad avviare questo processo: lo scarso successo che, come abbiamo visto, aveva riscosso il testo del 1994 presso gli Stati membri si scontra con un’esigenza politica resa sempre più pressante – l’esistenza di un testo regionale in materia – dalle pressioni internazionali e ciò soprattutto per quegli Stati della Lega che si propongono alle potenze occidentali come partner politici ed economici. In secondo luogo, non bisogna dimenticare il ruolo svolto dalle pressioni esercitate da una parte dell’opinione pubblica nazionale e internazionale nonché dalle ONG le quali già da tempo evidenziavano i limiti del testo precedente e chiedevano un suo adeguamento agli standard internazionali. Un primo progetto della nuova versione del testo è stato redatto nel 2003 dalla Commissione araba per i diritti dell’uomo sulla base delle proposte presentate dagli Stati membri in merito alla modernizzazione del testo. Il progetto elaborato, tuttavia, presentava gli stessi limiti che erano stati ravvisati nella CADU del ’94 e in alcuni casi le modifiche introdotte sembravano allontanare ulteriormente il testo 121 dagli standard internazionali34. Alcuni mesi dopo, nel dicembre dello stesso anno, il testo è stato esaminato da un gruppo di esperti arabi provenienti da organi delle Nazioni Unite che si occupano della tutela dei diritti umani35. Tenendo conto della maggior parte delle raccomandazioni formulate dal gruppo di esperti, la Commissione ha adottato nel 36 gennaio 2004 un nuovo testo della CADU che è stato approvato dal Vertice dei Capi di Stato della Lega tenutosi a Tunisi nel maggio dello stesso anno37. Per quanto riguarda le caratteristiche del nuovo testo, i cambiamenti apportati sono talmente consistenti che il documento è stato visto come testo completamente nuovo38 piuttosto che come una revisione o meglio modernizzazio39 ne della versione del 1994. 34 Comission internationale de juristes, Le processus de “ modernisation” de la Charte arabe des droits de l'homme: des régressions inquiétantes. Rapport de position, cit., 4. Il progetto del 2003 era composto da 37 articoli divisi in quattro capitoli. 35 Il gruppo in questione è stato costituito nel quadro di un accordo di assistenza tecnica stipulato nell'aprile 2002 tra la Lega Araba e l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani. 36 Dal 5 al 14 gennaio si è tenuta una riunione complementare alla seconda sessione straordinaria della Commmissione, consacrata all'attualizzazione della CADU. Il rapporto di questa, in francese, è reperibile sul sito www.aidh.org. In esso si trova anche il progetto successivamente approvato dal Vertice dei Capi di Stato. Il testo del progetto in inglese è disponibile sul sito www.pogar/themes/reforms/documents/da charter.pdf; estratti del testo del 2004 sono reperibili anche sul sito www.ochr.org 37 Sul Vertice v. R. BEN ACHOUR, Le 16e sommet de la Ligue des États arabes (Tunis, 22 et 23 mai 2004), in Revue générale de droit international public, 4, 2004, 449 e 450. Diversamente da quanto è avvenuto per la CADU del 1994 nessuno Stato, almeno formalmente, ha presentato riserve, vedi A. MAHIOU, La Charte arabe des droits de l'homme, corso tenuto presso l'Università di Salonicco, cit., 19. 38 A. MAHIOU, La Charte arabe des droits de l'homme, corso tenuto presso l'Università di Salonicco, cit., 9. 39 Secondo quanto affermato dal Segretario Generale della Lega Amr 122 La nuova versione della CADU, infatti, pur mantenendo certe caratteristiche del testo precedente, segna tuttavia una rottura rispetto ad esso. Lo spirito del documento è rimasto invariato: permane l’ispirazione nazionalista, che caratterizzava la prima versione del documento, cui si aggiungono nondimeno alcuni riferimenti a temi che al momento rivestono un particolare interesse per gli Stati della Lega. Tra questi si possono citare, per fare qualche esempio, il problema della sicurezza internazionale e alcuni temi legati a situazioni specifiche come il principio dell’integrità territoriale e l’esaltazione della lotta per la resistenza, temi, questi ultimi, che non possono non fare pensare alle vicende attualissime dell’Iraq e della Palestina. Per quanto riguarda le modifiche apportate al testo del 1994, bisogna precisare, innanzitutto, che nella nuova versione vengono tutelati diritti a cui non si faceva alcun cenno in quella precedente; sono state colmate alcune gravi lacune come la mancanza, nel testo del 1994, del divieto di schiavitù e di un articolo che sancisse l’uguaglianza di genere; sono state rimosse molte delle discriminazioni nei confronti dei non cittadini che caratterizzavano il vecchio testo. Le disposizioni del documento, inoltre, sono molto precise e adeguate agli standard internazionali in materia: sono state ampliate, ad esempio, le garanzie relative alla giustizia e ai diritti politici. Già nella versione precedente molti articoli riprendevano i documenti internazionali in materia di diritti umani40 ma nella versione più recente tali riferimenti sono indub- Mussa in occasione dell'adozione di una delle risoluzioni con cui si è deciso di modificare il testo originario della CADU, il termine modernizzazione è da intendersi come adeguamento delle disposizioni agli standard internazionali. 40 I preamboli di entrambe le versioni del documento fanno un esplicito riferimento ai documenti internazionali in materia. 123 biamente più numerosi: nel caso di alcuni diritti civili, ad esempio, le disposizioni del Patto sui diritti civili e politici del 1966 vengono riprese in maniera più completa. Ciò avviene, tra gli altri, nel caso dei diritti sindacali e della libertà religiosa: in quest’ultimo caso, infatti, la formulazione del nuovo articolo garantisce l’esercizio del diritto non solo indi41 vidualmente ma anche collettivamente . Per la formulazione di alcuni articoli, inoltre, i redattori mostrano di avere tenuto conto anche dei documenti più recenti sui diritti umani nonché delle evoluzioni della giurisprudenza internazionale in materia. Nell’articolo 40 sulle persone disabili, ad esempio, vengono riprese non solo alcune disposizioni della Dichiarazione dei diritti dei disabili, ma anche quelle contenute in alcune risoluzioni più recenti. Lo stesso avviene per quanto riguarda i diritti inderogabili: gli autori del testo del 2004, includendo nell’elenco dei diritti inderogabili alcuni diritti che non erano ritenuti tali dal Patto sui diritti civili e politici del ’66, mostrano di avere tenuto 42 conto delle evoluzioni del diritto internazionale . In determinate materie, infine, le disposizioni del documento appaiono particolarmente innovative nel panorama internazionale e potrebbero servire da esempio per futuri 41 Cfr. art. 30 della CADU del 2004 e art. 18 del Patto per i diritti civili e politici. Va, però, rilevato che non viene ripresa neanche nel testo più recente la disposizione del Patto che garantisce l’esercizio del diritto a professare la propria religione sia in pubblico che in privato; sul punto A. MAHIOU, La Charte arabe des droits de l’homme, corso tenuto presso l’Università di Salonicco, cit., 14. 42 Vedi Commission internationale de juristes, Commentaires, (Réunion complémentaire à la deuxième session extraordinaire de la Commission arabe permanente des droits de l’homme consacrée à l’actualisation de la Charte arabe des droits de l’homme, 4 au 15 janvier 2004. Adoption du texte de la Charte arabe des droits de l’homme), febbraio 2004, reperibile sul sito www.icj.org, 6. 124 documenti sui diritti umani43. Si veda, ad esempio, la disposizione dell’art. 33 b) che impegna gli Stati a lottare contro tutte le forme di violenza all’interno della famiglia e in particolare nei confronti delle donne e dei bambini. Sebbene quindi il testo presenti una serie di limiti, come è stato messo in evidenza da numerosi studiosi e soprattutto dalle ONG arabe, è indubbio che l’adozione del documento comporterebbe un significativo passo avanti per la tutela dei diritti dell’uomo nell’area e soprattutto obbligherebbe alcuni Stati ad apportare significative modifiche alla legislazione interna. Ciò ha suscitato notevole interesse nei confronti del documento ma ha anche fatto sorgere alcuni dubbi circa le possibilità che venga ratificato da un numero sufficiente di Stati. Questi dubbi riguardano, in particolar modo, quei Paesi in cui l’influenza del diritto islamico è più forte e in cui, quindi, la ratifica della nuova Carta comporterebbe numerose contraddizioni con la legislazione interna. È bene precisare, però, a questo proposito, che l’entità di tali modifiche dipenderà da una serie di fattori. Dall’analisi del documento, ad esempio, emerge chiaramente che è stata talvolta lasciata un’eccessiva autonomia al legislatore statale, elemento, questo, che oltre a costituire uno dei principali limiti del testo non mancherà di incidere sui cambiamenti che verranno apportati alle legislazioni nazionali in vigore. L’autonomia lasciata al legislatore statale nel limitare i diritti tutelati e talvolta nel definirne il contenuto si configura insomma come un escamotage che permetterà ai governi in molti casi di “aggirare” le disposizioni del documento e di limitarne gli effetti negli ordinamenti nazionali. Facciamo qualche esempio: nel caso del diritto delle 43 Vedi Commission internationale de juristes, Commentaires, cit., 7. 125 minoranze di esercitare la loro religione, l’esistenza nel testo della CADU di una clausola secondo cui il diritto in questione deve essere esercitato nel rispetto della legislazione in vigore non può che suscitare dei dubbi, in molti Paesi della Lega, infatti, la libertà di praticare culti diversi da quello musulmano è soggetta a numerose limitazioni derivanti 44 dalla shar†’a . Anche la libertà di circolazione e di scegliere la propria residenza deve essere esercitata nel rispetto della legislazione in vigore, legislazione che in Arabia Saudita, riprendendo il divieto di alcune delle quattro principali scuole giuridiche dell’Islam sunnita, vieta ai non musulmani di accedere nelle città di La Mecca e Medina e nelle regioni circostanti45. Riguardo al diritto in questione, un problema a parte è rappresentato dall’esercizio di tale diritto da parte delle donne in condizioni di eguaglianza con gli uomini, diritto a cui le norme in vigore in molti dei Paesi della Lega pongono delle restrizioni46. Gli esempi riportati, inoltre, sono significativi perché rivelano come in alcuni casi l’autonomia lasciata al legislatore 44 Tra questi, ad esempio, ricordiamo l’obbligo di non professare pubblicamente la propria fede per non scandalizzare la maggioranza musulmana; A. MAHIOU, La Charte arabe des droits de l’homme, corso tenuto presso l’Università di Salonicco, cit., 11; sugli obblighi che incombono sui non musulmani e in generale sulla loro posizione giuridica secondo il diritto islamico v. J. SCHACHT, Introduzione al diritto musulmano, cit., 139 ss. 45 Sull’argomento vedi, tra gli altri, M. AL-MIDANI, La déclaration universelle des droits de l’homme et le droit musulman, in Lectures contemporaines du droit islamique. Europe et monde arabe, Strasburgo, 2004, 154-186, reperibile sul sito www.aidh.org. 46 Vedi le riserve espresse dai Paesi della Lega all’articolo 15.4 della Convenzione per l’eliminazione delle discriminazioni nei confronti delle donne (CEDAW) che sancisce tale diritto. Sull’argomento vedi tra gli altri N. HIJAB, Laws, regulation and practices impeding women’s economic participation in MENA [Middle East and Northern Africa] region, Shadow report, World bank, 2001. 126 statale permetta di evitare contraddizioni con la Legge islamica. Questa circostanza è particolarmente importante alla luce delle difficoltà e nello stesso tempo della necessità di mediare tra principi della Legge islamica e principi internazionali sui diritti umani che come ho già detto è una costante nella storia della redazione della CADU sin dagli anni settanta. È evidente, infatti, che anche questa volta, sebbene in apparenza il testo sia perfettamente allineato con i documenti internazionali e sembri contraddire i principi della Legge islamica, si è cercata una qualche forma di mediazione; di tale mediazione il riferimento alla shar†’a e alle altre leggi rivelate nell’articolo sull’eguaglianza di genere, che non ha mancato di suscitare numerosi dubbi, è solo una 47 manifestazione . È da notare a questo proposito che anche nella versione del 2004 della CADU non vengono sancite né la libertà di cambiare religione né l’eguaglianza dei coniugi. Ritornando al problema delle modifiche che dovranno essere apportate alle legislazioni in vigore, inoltre, molto dipenderà dall’interpretazione che sarà data di alcuni articoli. La disposizione che vieta in generale qualunque discriminazione in base al sesso, ad esempio, dovrebbe a rigore essere estesa anche al diritto successorio, sebbene l’argomento non sia stato esplicitamente affrontato nel testo. Ciò comporterebbe l’attuazione di numerose modifiche nelle legislazioni nazionali in materia, legislazioni che, persino nei Paesi più avanzati per ciò che concerne l’eguaglianza di genere, mantengono alcuni tratti discriminatori 47 L’articolo 3 afferma, infatti, che “l’uomo e la donna sono uguali sul piano della dignità, dei diritti e dei doveri, nel quadro delle discriminazioni positive in favore della donna istituite dalla legge (shar†'a) islamica, dalle altre leggi rivelate, dalle legislazioni e dagli strumenti internazionali”. Sull’argomento vedi Commission internationale de juristes, Commentaires, cit., 8; H. CHEKIR, La modernisation de la Charte Arabe des droit de l'homme, cit. 127 nei confronti delle donne48. L’altro problema cui desideravo accennare, in merito alla C ADU del 2004, riguarda le conseguenze che un’eventuale entrata in vigore del nuovo testo potrebbe avere sul sistema arabo di tutela dei diritti dell’uomo. È indubbio che, come si è detto, nonostante i limiti del documento e nonostante le precisazioni sugli effetti che avrebbe sulle legislazioni nazionali di cui si è già detto, l’entrata in vigore della CADU sarebbe comunque un evento molto importante ed avrebbe indubbiamente numerosi effetti positivi per la tutela dei diritti umani nell’area. Ciò premesso, però, bisogna considerare il limite principale del documento, limite che non potrà non influenzarne in maniera significativa gli effetti; mi riferisco alla debolezza delle misure di controllo previste dalla Carta, misure che sono rimaste praticamente invariate rispetto al testo del 1994. Le disposizioni dedicate al Comitato arabo dei diritti dell’uomo sono più numerose (quattro articoli, 45-48, contro i due, 40-41, della CADU del 1994) e più lunghe. All’organo in esame spetta il compito di esaminare i rapporti inviati dagli Stati alla presenza dei rappresentanti di questi e di formulare le sue osservazioni e le sue raccomandazioni. Queste, infine, vengono raccolte in un rapporto che lo stesso Comitato deve presentare al Consiglio della Lega. Poche sono al riguardo le novità introdotte dal testo del 2004; tra queste la più importante è l’immunità che gli Stati si impegnano a garantire ai membri del Comitato. Un’altra 48 Secondo quanto stabilito dal Corano (4:11) alle figlie femmine spetta la metà che ai maschi; in proposito, S. ALDEEB ABU-SALIEH, Les Musulmans face aux droits de l'homme, cit., 184. La maggior parte dei Paesi della Lega ha espresso riserve nei confronti del paragrafo 274 (d) del Programma d'azione stabilito dalla Conferenza mondiale sulle donne di Pechino (1995) che sancisce il diritto delle bambine a ereditare senza alcuna discriminazione. 128 innovazione è la pubblicità delle sedute e delle raccomandazioni, raccomandazioni che il Comitato stesso ha il compito 49 di diffondere . Il nuovo testo contiene, inoltre, alcune delucidazioni in merito al contenuto dei rapporti che devono essere presentati dagli Stati: l’art. 48 precisa, infatti, che essi devono includere le misure adottate per tutelare i diritti contenuti nella CADU. Nonostante queste innovazioni è evidente che l’organo così come è stato previsto non garantisce un controllo reale della situazione dei diritti umani nei Paesi della Lega: in primo luogo non è contemplata la possibilità di presentare ricorsi né statali né individuali; è evidente, inoltre, il ruolo di subordinazione del Comitato all’organo politico della Lega cui deve presentare la sua relazione. Un altro grosso limite è rappresentato dal fatto che le informazioni circa le violazioni perpetrate all’interno dei singoli Paesi siano fornite al Comitato esclusivamente dai governi dei Paesi stessi: niente viene detto, infatti, circa un eventuale diritto degli esperti di svolgere delle ricerche o di ricevere informazioni da fonti non governative. È evidente come queste carenze nell’organo che dovrebbe vigilare sull’applicazione del documento ne influenzino negativamente la reale efficacia. L’importanza dell’indipendenza e del buon funzionamento dell’organo di controllo deve essere valutata anche alla luce del ruolo che esso può svolgere ai fini dell’interpretazione delle norme contenute nel documento, interpretazione che, qualora il sistema fun49 A. MAHIOU nota esattamente che “Cette publicité des débats et de leurs résultats est un élément important garantissant leur transparence et donnant plus de crédibilité à l'action en faveur des droits de l'homme; c'est finalement la seule forme de sanction à l'encontre des États qui ne les respectent pas, du moins pour ceux d'entre eux qui tiennent compte de l'opinion publique, interne et internationale, et témoignent d'une certaine sensibilité pour leur image”, (La Charte arabe des droits de l'homme, corso tenuto presso l'Università di Salonicco, cit., 18). 129 zionasse correttamente, potrebbe influenzare l’operato del legislatore statale in merito alle modifiche da apportare alle disposizioni in vigore nei singoli Stati. Per concludere voglio evidenziare un ultimo ambito all’interno del sistema arabo dei diritti umani in cui la CADU non avrà alcun effetto positivo: mi riferisco al ruolo delle ONG, la cui importanza è stata più volte sottolineata dagli organi delle Nazioni Unite e che svolgono in altri sistemi regionali di tutela dei diritti umani nonché in quello delle Nazioni Unite un ruolo essenziale. Attualmente il ruolo svolto dalle ONG all’interno della Lega è del tutto secondario; possono avere, infatti, lo statuto consultivo presso la Lega e possono partecipare ai lavori della Commissione araba permanente per i diritti dell’uomo solo quelle che si sono costituite in uno Stato membro e a patto che questo dia il suo consenso50. È evidente quindi che sono escluse le ONG internazionali ma anche quelle arabe che non sono vicine ai Governi. Questa circostanza spiega il fatto che le ONG, nonostante abbiano partecipato con numerose iniziative alla riflessione sulla modernizzazione della Carta, non hanno però preso parte ai lavori della Commissione se non in maniera marginale e senza poter esercitare una reale influenza. Il processo di modernizzazione della Carta aveva fatto sperare in un cambiamento di questa situazione e, in effetti, tra le raccomandazioni del gruppo di esperti delle Nazioni Unite che ha esaminato il testo del 2003 ve ne era una sul ruolo delle ONG nella procedura davanti al Comitato arabo per i diritti dell’uomo. Questa raccomandazione però non è stata accolta dalla Commissione che ha redatto il testo finale del documento. 50 Comission internationale de juristes, Le processus de “modernisation” de la Charte arabe des droits de l’homme: des régressions inquiétantes. Rapport de position, cit., 8 e 9. 130 5. Diritti umani e diritto privato. Prospettive di dialogo (*) di Giuseppe Giaimo ** 1. Considerazioni introduttive. I diritti umani rappresentano, oggi, uno di quegli argomenti che maggiormente si adattano al dibattito proprio di una molteplicità di contesti disciplinari. Di essi, infatti, trattano i sociologi, i filosofi, gli antropologi e, naturalmente, i giuristi. Tra questi ultimi, in particolare, spiccano per impegno e produzione scientifica i filosofi del diritto, gli studiosi di diritto internazionale ed i cultori del diritto pubblico. Una certa timidezza, invece, sembra riscontrabile nell’atteggiamento tenuto da chi si occupa di diritto privato – tanto interno, quanto in chiave comparatistica – i quali tendono a circoscrivere la propria analisi ed i relativi contributi ad alcuni peculiari temi abdicando, in limine, all’aspetto definitorio 1 dei diritti in questione . * Testo, rielaborato ed integrato, della relazione presentata alla giornata di studi “Nuova geografia dei diritti umani”, Università di Palermo, 29 aprile 2005. ** Docente di diritto comparato, Università di Palermo. 1 P. RESCIGNO, discorrendo sulla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, afferma “il civilista deve confessare che ha ben poco da dire, e deve anzi manifestare la ragionevole impressione che un documento così importante nel panorama della cultura giuridica – anzi, nel panorama della cultura senza aggettivi – abbia avuto un’influenza scarsa sul diritto privato”. (P. RESCIGNO, Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e diritto privato (famiglia, proprietà, lavoro), in Riv. Dir. Civ., 2002, I, p. 325). 131 La superiore considerazione, dunque, fornisce uno stimolo sufficiente per cercare di svolgere un duplice compito. Preliminarmente, pare necessario tentare una breve analisi che valga a precisare il contenuto concreto dei diritti umani, al di là del loro indubbio carattere polisemantico e multiculturale, in modo da non indulgere a quell’astrattezza concettuale che, probabilmente, costituisce il più ampio limite alla reale affermazione di una tutela sociale universalmente diffusa. In un secondo tempo, una volta rintracciato un concreto denominatore comune sul quale confrontarsi, sarà opportuno produrre una miscela tra questo e le categorie proprie del diritto privato, in modo da far scaturire una reazione che mostri le eventuali influenze reciproche, insieme alla definizione di quelle tutele – di stampo civilistico – più utili al fine di una realizzazione quotidiana dei diritti dell’uomo. In altri termini, attraverso il procedimento di carattere pragmatico appena descritto, cercheremo di rifuggire dal considerare i diritti umani come una sorta di grande contenitore di definizioni astratte, evitando – se possibile – di contribuire ad alimentare il dibattito puramente teorico su di essi e cercando di rintracciare, al contempo, una chiave di lettura univoca e, finalmente, destinata ad una salvaguardia concreta della personalità umana. L’analisi, quindi, volgerà decisamente – attraverso l’utilizzo dei concetti così individuati – verso un’opportuna rilettura delle categorie privatistiche attinenti al tema trattato, onde valutarne le reciproche influenze e le rispettive possibilità di adattamento, anche alla luce delle presunte ed assiomatiche differenze strutturali che, a prima vista, parrebbero esistere tra alcuni pilastri portanti dell’ordinamento civilistico (ad esempio, la natura patrimoniale di gran parte dei diritti e l’autonomia dispositiva dei titolari di essi) e determinate peculiarità dei diritti fondamentali quale è, tra le altre, la loro intrasmissi132 bilità. Una volta precisato, in tal modo, lo scopo della ricerca, si procederà operando una accurata e puntigliosa riduzione della ridondante definizione di «diritti umani» ad un nucleo essenziale, che permetta una reductio ad unitatem dei plurimi e variegati modi di intendere i diritti stessi, caratteristici di una molteplicità di contesti sociali e culturali di riferimento. 2. La “scatola vuota” dei diritti umani. Uniformazione centripeta forzosa o pluralismo culturale eccentrico. Uno dei temi di maggior rilievo da sottoporre ad indagine è, senza dubbio, rappresentato dalla determinazione del contenuto di quei diritti che sogliono definirsi fondamentali, anche in riferimento al loro carattere universale o, all’opposto, territorialmente limitato. La questione è di non poco momento, poiché essa implica una serie di interconnessioni tra molteplici concetti, il cui differente atteggiarsi produce esiti e conseguenze, oltre che sul piano meramente definitorio, anche nell’ambito delle concrete tutele poste a garanzia. In particolare, ci sembra che siano fondamentalmente due i caratteri discriminanti quando si tenta di stabilire il contenuto effettivo dei diritti umani: la cittadinanza – intesa come appartenenza politica ad una determinata collettività sociale, organizzata e stanziata in un territorio sovrano – e quell’ulteriore peculiarità distintiva che potremmo chiamare identità culturale, stabilita con essa una comunanza tra individui di sentimento filosofico, credenza religiosa e relativa concezione dell’uomo in una determinata epoca storica, differente rispetto a quanto ritenuto da ulteriori insiemi di persone. Dal vario combinarsi di cittadinanza ed identità culturale dipende, quindi, una visione caleidoscopica e multiforme di ciò che può costituire, nella molteplicità di contesti di riferimento, il significato concreto di quel grande contenitore – come lo 133 abbiamo denominato – rappresentato dall’amplis-sima ed 2 indeterminata definizione di diritti umani . In altre – e più semplicisticamente espresse – parole, ciò che pare essere, in un dato ambito spaziale e culturale, una insopprimibile libertà individuale, potrebbe apparire come una intollerabile licenziosità al semplice mutare dei principi religiosi o legati alla tradizione. La stessa esistenza di una serie di Carte dei Diritti, elaborate in differenti aree geografiche, pone “l’interrogativo se i diritti umani possano effettivamente considerarsi diritti universali, o se essi non vadano interpretati in misura e qualità diverse a seconda del contesto geo-politico-culturale nel quale vengono recepiti o attuati”3. Una siffatta relatività concettuale – facilmente riscontrabile attraverso una gran 4 copia di esemplificazioni – potrebbe indurre, allora, alla 2 Secondo M. BOVERO (Diritti e democrazia costituzionale, in L. FERRAJOLI, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, a cura di E. VITALE, Roma-Bari, 2001, p. 241) “da quando è entrata nel parlare quotidiano, e non è molto tempo, [l’espressione diritti fondamentali] è divenuta veicolo di una nozione vaga e imprecisa, tanto ambigua quanto predisposta ad usi retorici polivalenti e divergenti (come quelli dei cattolici e dei laici)”. 3 C. CARDIA, Genesi dei diritti umani, Torino, 2003, p. 193. 4 Gli esempi possono, naturalmente, essere variegati e molteplici. Si ponga mente, ad esempio, alla ripugnanza sociale che potrebbe suscitare, nell’epoca attuale, quella famiglia europea occidentale che imponesse, fin dalla nascita, un determinato coniuge alla prole quando, invece, tale costume continua ad essere vissuto come un insopprimibile diritto in una molteplicità di contesti culturali extraeuropei. A tal proposito, ci piace ricordare un passo di Erodoto che illustra una sorta di relativismo culturale ante litteram “Durante il suo regno, Dario convocò i Greci presenti al suo seguito e chiese loro in cambio di quali ricchezze avrebbero accettato di mangiare i padri morti: i Greci risposero che non l’avrebbero fatto a nessun prezzo. Dario, quindi, convocati gli indiani chiamati Callati - quelli che mangiano i genitori -, alla presenza dei Greci che comprendevano quanto veniva detto attraverso un interprete, chiese loro in cambio di quali ricchezze avrebbero accettato di bruciare con il fuoco i padri morti. I Callati, gridando forte, esortarono Dario a non pronunciare parole empie” (Erodoto, Storie, III, 38, 3-4). 134 seguente, secca alternativa il cui esito sarebbe, sosteniamo sin d’ora, del tutto insoddisfacente. 1) La prima delle possibili opzioni consiste in un atteggiamento mentale che potrebbe essere definito a baricentro occidentale, il cui fondamento consiste in un ragionamento siffatto: poiché l’Europa occidentale e l’America del nord possono vantare una sorta di primazia nella teorizzazione, 5 nello sviluppo e nella cura dei diritti dell’uomo – a fronte di una cronaca che riporta esempi sempre più frequenti di violazioni sistematiche di questi, perpetrate in aree del globo diverse da quelle – il modello giuridico elaborato in codesto ambito geografico rappresenta una sorta di topos di riferimento in una classificazione, a livello mondiale, dei diritti stessi. Le eventuali istanze difformi dallo schema esemplare, provenienti da contesti sociali, religiosi e culturali differenti, sono inevitabilmente destinate ad essere pretermesse, in quanto ritenute o non sufficientemente meritevoli di attenzione o, addirittura, in contrasto con i valori sui quali è orientato il tipo paradigmatico prescelto. Il rischio – nemmeno troppo latente – sotteso ad una siffatta impostazione teorica a baricentro occidentale è, senz’altro, attinente a quella che potrebbe definirsi quale integrazione coatta dei diritti fondamentali. Tale fenomeno, infatti, comporterebbe un inevitabile appiattimento, in capo ad un unico archetipo (quello occidentale, per l’appunto), delle diversità sociali relative a culture differenti, insieme ad una pericolosa deriva verso una crescente stigmatizzazione di chi, per nascita e per religione, appartiene a contesti alieni e portatori di valori tradizionali non calzanti al 5 Si ponga mente, ad esempio, alla Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 ed alle elaborazioni filosofiche giusnaturalistiche. 135 modello stesso. A volere esemplificare, se l’art. 10 della Carta di Nizza6 dovesse assurgere ad una posizione di riferimento mondiale, sul quale costruire ed uniformare un concetto globalmente inteso di libertà di religione, esso si troverebbe in insanabile contrasto con uno dei principi fondamentali della religione musulmana, secondo cui semplicemente non esiste religione al di fuori dell’Islam. In tal caso, allora, se il predetto art. 10, con il suo carattere archetipo ed eticamente preferibile (secondo la dominante weltanschauung occidentale) avesse un valore impegnativo e cogente a livello mondiale, l’Islam ed i suoi seguaci sarebbero irrimediabilmente “fuori legge”, semplicemente per quella denunciata impossibilità di concepire un credo non musulmano che, pure, rappresenta una delle sue caratteristiche fondanti. Il cercare, dunque, un universalismo dei diritti umani, attraverso l’integrazione coatta del portato delle diverse culture ad un modello unitario di riferimento – quale esso sia – equivarrebbe ad una “forma di imperialismo, se pur dai modi gra7 devoli ed allettanti” . 2) La seconda delle opzioni possibili, poste dal considerato relativismo geografico dei diritti umani, è decifrabile attraverso un ragionamento che potremmo definire policentrico od a centralità diffusa. Il fondamento di tale impostazione – specularmente opposta alla prima – risiede, anch’esso, sulla semplice constatazione della incomunicabili- 6 Art. 10: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti”. 7 A. ALGOSTINO, La tradizione europea dei diritti umani universali e i suoi rapporti con le altre culture giuridiche, in I diritti fondamentali in Europa, Atti del XV Colloquio biennale della A.I.D.C., Milano, 2002, p. 418. 136 tà tra culture e società differenti. In questa ipotesi, tuttavia, i relativi contesti di riferimento possono essere rappresentati quali universi paralleli, ciascuno con pari dignità e diritto di autonoma ed incoercibile esistenza, con l’aprioristico rifiuto di ogni eventuale forzosa sovrapposizione di un modello (magari più antico o più prestigioso) su altri, meritevoli del medesimo rispetto, in virtù del loro mero essere. I Paesi connotati da tradizioni, religioni, concetti ed idee omogenei tra loro tendono, indubbiamente, ad una elaborazione teorica volta a riempire il contenitore definitorio dei diritti umani, in maniera più o meno differente rispetto ai contenuti in esso versati da chi è portatore di valori, di interessi politici ed economici non compatibili con quelli, ed ognuno di tali concetti è dotato di una rilevante vis espansiva fondata sulla 8 propria presunta superiorità . La particolarità dell’approccio policentrico risiede, allora, sull’evidente riscontro della ermetica indisponibilità di ciascun schema giuridico-concettuale a piegarsi alle altrui influenze, in nome di una rivendicata autonomia dipendente dalle proprie peculiarità. In altri termini, assecondando tale impostazione, non vi è ragione di riconoscere una supremazia internazionale di una certa enunciazione solenne di poteri e facoltà dell’individuo, magari a tutto discapito di ulteriori e dissimili dichiarazioni formali più aderenti, di qualunque altra, al singolo e specifico contesto sociale di riferimento. L’esportazione forzosa di un determinato modello potrebbe, dunque, paradossalmente risolversi in una sostanziale indifferenza nei confronti di bisogni e di esigenze grandemente avvertite nell’ambito geografico recipiente, ma di 8 Ancora secondo Erodoto, “Se si facesse una proposta invitando tutti gli uomini a scegliere, tra tutte le usanze, le usanze più belle, dopo aver meditato ciascuno sceglierebbe le proprie: a tal punto tutti sono convinti che le proprie usanze siano di gran lunga le più belle” (Erodoto, Storie, III, 38, 1). 137 cui non si trova traccia nel paradigma imposto; così come, al contrario, si potrebbe sopravvalutare una necessità che, in realtà, nemmeno esiste nella società «colonizzata». L’adesione all’opzione a centralità diffusa comporta invece, quale beneficio, che ogni Stato mantenga “una notevole ampiezza di manovra (…) nel modo stesso di concepire alcuni specifici 9 diritti umani” , nell’auspicabile assenza di interferenze 10 internazionali che potrebbero, anche, porsi fuori contesto . L’orientamento policentrico, tuttavia, sconta anch’esso dei limiti inevitabili di triplice ordine, il primo dei quali può essere definito etnocentrismo. L’autarchica chiusura sulle proprie tradizioni e sui valori caratteristici del portato culturale ed ideologico interno infatti, se eccessivamente insistita, potrebbe condurre ad un pericoloso rifiuto preconcetto delle qualità morali, religiose, filosofiche ed economiche aliene, ritenute non condivisibili o, nel peggiore dei casi, addirittura inferiori11. Il secondo guasto, connesso alla centralità diffusa nell’elaborazione teorica di un contenuto della definizione dei diritti umani, risiede in una possibile asfissia concettuale, cagionata dalla mancanza di circolazione – e di conseguente comparazione – tra categorie riferite a contesti socio-culturali differenti, i quali potrebbero, inve- 9 A. CASSESE, I diritti umani nel mondo contemporaneo, Roma-Bari, 2003, p. 67. 10 Secondo L. BACCELLI (Il particolarismo dei diritti. Poteri degli individui e paradossi dell’universalismo, Roma, 1999, p. 191) “l’universalismo non è poi così desiderabile. Coniugato in forma più o meno radicale con l’individualismo, l’universalismo è stato utilizzato per affermare il potere assoluto del pontefice romano, per legittimare la schiavitù, la colonizzazione, l’imposizione violenta della religione”. 11 Non è facile dimenticare come l’arroccata chiusura sulle proprie posizioni ideologiche, con la conseguente negazione della validità degli altrui valori, abbia storicamente condotto a giustificare i genocidi e le operazioni di “pulizia etnica”. 138 ce, vivificarsi nel confronto. Un dogmatico arroccamento sui valori dominanti all’interno di una data comunità di individui, inoltre, provoca una impossibilità di dialogo, a livello internazionale, circa l’individuazione di quei diritti fondamentali e di quelle garanzie che ogni Stato dovrebbe tutelare ed apprestare, anche oltre il vincolo territoriale – di cui si discorrerà nel prosieguo dell’indagine – dato dal concetto di cittadinanza. Infine – e siamo al terzo limite, che potremmo definire ideologico – nel caso in cui dovesse prevalere un codificatore policentrico, le Carte Internazionali dei diritti umani perderebbero gran parte della loro forza suggestiva esogena, semplicemente attraverso il disconoscimento di esse da parte di quello Stato che, nel rivendicare la propria indiscutibile sovranità, dovesse revocarne in dubbio anche i 12 più intimi fondamenti . L’avvertita esistenza di una sorta di nucleo comune alle differenti teorizzazioni delle libertà fondamentali, insieme alla ammissione di un intrinseco valore dei documenti internazionali, ha fatto in modo, al contrario, che “persino gli Stati oppressivi si sentono obbligati a mostrare un rispetto formale verso gli atti che sanciscono i diritti umani”13. In altri termini, la forza programmatica delle idee contenute nelle Carte Internazionali – lungi dal costituire un tentativo di inaccettabile omologazione culturale – suggerisce uno spunto attivo per l’affermazione dei diritti fondamentali, anche in quei contesti sociali partico- 12 A tal proposito, sarà bene ricordare come “varie personalità islamiche hanno messo in questione la portata universale delle norme occidentali relative ai diritti umani (...). Le libertà formulate nella Dichiarazione universale non hanno senso all’interno di un pensiero politico dai presupposti teocratici (...). Nella concezione islamica, il linguaggio che universalizza i diritti implica un individuo sovrano e indipendente: una bestemmia dal punto di vista del santo Corano” (M. IGNATIEFF, Una ragionevole apologia dei diritti umani, Milano, 2003, p. 62). 13 M. IGNATIEFF, op. cit., p. 11. 139 larmente chiusi in sé e che mostrano una più spiccata repulsione nei confronti delle garanzie e delle tutele nei confronti dell’individuo. 3. Segue: Universalità e cittadinanza. Le diverse, e tra loro opposte, opzioni di metodo – consistenti, rispettivamente, in un criterio unificatore ed in uno dissociatore – disponibili per tentare una ricostruzione contenutistica dei diritti umani si sono, dunque, rivelate in qualche modo inefficienti, alla luce delle accertate e permanenti differenze connesse ai contesti geografici e culturali di riferimento. Se, infatti, la tensione verso una determinazione universalmente omogenea dei diritti stessi si spegne contro la evidente difficoltà di rintracciare un modello globalmente soddisfacente (che, dunque, abbracci esigenze e tradizioni a volte antitetiche), anche la semplice parcellizzazione dei diritti fondamentali, in una serie indefinita di enunciazioni a carattere regionale, rischia di lasciare scoperte di tutela alcune più che rilevanti istanze transnazionali. Una risposta, inoltre, all’esigenza di tentare una composizione in qualche modo unitaria della nozione di diritti umani – al fine di sondare la possibilità di enucleare una sorta di principio essenziale universalmente accettabile, in base al quale orientare anche una rilettura delle categorie dogmatiche privatistiche – è resa ancora più complessa da due ulteriori premesse ermeneutiche, ancora entrambe dipendenti dal diverso modo di risolvere l’antinomia tra universalismo e particolarismo territoriale dei diritti stessi. Il primo di tali presupposti conoscitivi – il quale possiede una colorazione che potremmo agevolmente definire teorica – risiede sul valore quantitativo (e qualitativo, ad un tempo) da attribuire al concetto di universalità. La seconda premessa – puramente connessa ad un presupposto fattuale – è legata, invece, all’idea di cittadinanza (intesa come rapporto 140 tra Stato ed individuo), anche alla luce del sempre più cospicuo fenomeno di immigrazione che rappresenta, oggi, una 14 vera e propria “cartina di tornasole per l’universalità” dei diritti umani. Il tentativo di rintracciare una caratterizzazione univoca del contenuto semantico dell’espressione «universalità dei diritti» si scontra, inevitabilmente, con una pluralità di 15 significati dipendenti dal metalinguaggio definitorio di volta in volta adoperato, oltre che con l’attributo «formale» o «sostanziale» unito al termine «universale». In particolare, limitando l’analisi epistemologica all’ambito giuridico, ci si avvede di come sia assolutamente necessario attribuire una misura qualitativa (cioè quali diritti sono universali) ed una misura quantitativa (cioè quanti sono i titolari dei diritti universali) all’espressione «diritti universali». Soltanto così, infatti, può operarsi un progressivo – e decisivo – avvicinamento all’obiettivo dichiarato di rintracciare quella sorta di fondamento comune ai diritti umani, ben al di là delle barriere rappresentate dai confini degli Stati e dai differenti precetti religiosi e, pertanto, utile al confronto ed all’interazione con le categorie privatistiche. Il tema posto dalle due domande appena formulate (quali diritti sono universali e quanti sono i titolari dei diritti universali) si interseca, inevitabilmente, con quegli aggettivi (formale e sostanziale) che, come detto, possono caratterizzare la parola universalità. In particolare, la definizione formale di universalità “non ci dice – né deve dirci – quali sono in ciascun ordinamento i diritti fondamentali e neppure quali dovrebbero essere, in qualsiasi ordinamento, i diritti 16 da sancire come fondamentali” limitandosi, al contrario, ad offrire all’interprete una sorta di unità di misura dell’universalità stessa fondata, più che sul contenuto qualitativo dei diritti, sulla individuazione quantitativa dei titolari di essi. In altri termini, l’identificazione delle categorie dei soggetti cui spetta l’esercizio dei diritti fondamentali – oltre che la tutela associata a questi ultimi – rappresenterebbe un indice sufficiente al fine di determinare il carattere universale dei diritti in questione, anche al di là del contenuto di essi. Una riflessione di segno opposto, invece, mette in relazione la definizione di universalità sostanziale con il significato specifico dei singoli diritti fondamentali. In forza di tale criterio, allora, possono dirsi universali quei diritti il cui contenuto – apprezzato mediante una conoscenza ed una indagine empirica e qualitativa – assume una rilevanza tale da consentire una estensione globale dei diritti stessi, a prescindere dalle categorie quantitative riferite ai titolari di essi. L’accento, dunque, deve esser posto sul valore intrinseco dei diritti in esame, alla luce del quale sarà senz’altro maggiormente agevole rintracciarne il carattere universale, piuttosto che tramite la ricerca e la determinazione quantitativa delle classi dei soggetti di riferimento, la cui ampiezza astrattamente variabile potrebbe indebitamente e significativamente influire sulla portata della caratteristica in questione. Il confronto – ancora irrisolto e che potremmo definire esclusivamente teorico – tra le due differenti opzioni definitorie, appena tratteggiate, relativo alla nozione di universalità è gravato da ulteriori difficoltà con l’accostamento ad esso del concetto (questa volta fattuale) di cittadinanza, da intendersi 14 L’espressione citata è di A. ALGOSTINO, op. cit., p. 418. Sarà appena il caso di menzionare il metalinguaggio filosofico, il metalinguaggio religioso, il metalinguaggio della fisica astronomica ecc. 15 141 16 L. FERRAJOLI, I diritti fondamentali nella teoria del diritto, in L. FERRAJOLI, cit., p. 123. 142 quale ulteriore elemento di discrimine nell’elaborazione di una definizione unitaria dei diritti fondamentali. Il carattere antipode della cittadinanza, rispetto all’idea di universalità, ci pare necessiti di una illustrazione preventiva di carattere storico, che trova uno spunto interessante in una brevissima riflessione sulla natura e sulla genesi del nucleo originario dei diritti umani – il riconoscimento delle libertà individuali – il cui primo sorgere si colloca al tramonto degli Stati assoluti. Fino a quell’immenso spartiacque tra epoche rappresentato dalla rivoluzione francese, infatti, “i popoli e gli individui non hanno alcun peso. Sembra quasi che non esistano, assorbiti e soverchiati come sono dai «prìncipi»: gli Stati sovrani, unici veri interlocutori sulla scena del mondo. I popoli (...) spesso passano da un sovrano all’altro, a seconda delle fortune, delle conquiste e dei successi dei vari regnanti”17. In un siffatto contesto, dunque, non avrebbe avuto, in alcun modo, spazio e significato anche il semplice tentativo volto a rintracciare un qualunque barlume di potere decisionale del singolo sui propri interessi ove questi, per ipotesi, fossero entrati in conflitto con le convenienze dello Stato; inteso, questo, non come moderna collettività di individui, ma come concreta espressione del potere del Sovrano. L’uomo non si affermava, quindi, come tale, ma in stretta dipendenza o dall’eventuale titolo nobiliare posseduto – che gli avrebbe fornito una certa legittimazione all’esercizio di determinati diritti, tra i quali la proprietà fondiaria18 o la stessa libertà personale – o dall’essere suddito tra i sudditi, esposto alla mercé del potere e dell’arbitrio. In una simile condizione politica e sociale, dunque, non 17 A. CASSESE, op.cit., p. 7. Ad esempio, fino al 1848 rimase in vigore nel Regno d’Ungheria il Codex Tripartitum, che riconosceva il diritto di proprietà, tanto sui beni mobili che immobili, esclusivamente ai nobili. 18 143 poteva essere in alcun modo concepibile ed accettabile una elaborazione, anche meramente teorica, di una sorta di universalità dei diritti, atteso che il godimento di questi era strettamente connesso allo status personale posseduto (di nobile, di ecclesiastico, di suddito, di schiavo) e dipendente tanto dal territorio di riferimento19, quanto dalla maggiore o minore propensione personale del Sovrano al riconoscimento di libertà, di benefici e di privilegi. Un’esemplificativa applicazione concreta, al descritto contesto storico, dei criteri definitori dell’universalità sopra indicati, allora, ci condurrebbe a sostenere una sicura prevalenza dell’opzione quantitativa-formale su quella qualitativa-sostanziale: la definizione di universalità dei diritti, infatti, si fondava esclusivamente sulla loro ascrivibilità in capo ad una classe indeterminata di soggetti che ne erano titolari (i nobili), a loro volta identificabili sulla base del particolare status che li poneva in rapporto con lo Stato. In altri termini, ciò che individuava il valore primario di determinati diritti non era il loro contenuto effettivo quanto, piuttosto, che di questi potesse godere un insieme indistinto ed universalmente qualificabile di persone, esclusivamente in virtù della relazione intrattenuta con il Sovrano, inteso quasi come personificazione dello Stato. Quei pochi diritti 19 Lo status di cittadino, nell’epoca conclusasi con la rivoluzione francese, paradossalmente rilevava maggiormente nella tutela dell’individuo che si trovasse all’esterno dei propri confini nazionali rispetto, invece, a quando agiva all’interno di questi. Poiché, infatti, il suddito costituiva “propaggine e ramificazione del sovrano” (A. CASSESE, op. cit., p. 8), un’eventuale offesa o torto arrecata all’estero ad un suddito costituiva, quasi, un oltraggio portato al sovrano stesso che, per questo, sarebbe stato in diritto di ottenere soddisfazione. Al contrario, se fosse stato il Re ad agire avverso un proprio suddito, quest’ultimo non avrebbe potuto ottenere ristoro alcuno, atteso che l’azione compiuta dal sovrano avrebbe dovuto interpretarsi come l’esercizio di una prerogativa. 144 posseduti, al contrario, da chi era privo di titolo nobiliare sicuramente non potevano essere qualificati come «fondamentali». I mutamenti storici – sempre all’interno del perimetro geografico europeo – con il progressivo sfaldamento degli Stati assoluti, innescarono un processo volto ad una direzione inversa al passato, il cui esito consistette nella graduale emersione del concetto di cittadino, in contrapposizione netta con la precedente figura del suddito. Lo Stato, dunque, fu parte di un rinnovato rapporto con tutte le sue componenti, in maniera talmente profonda che si passò dalla precedente concezione – che, come visto, voleva una precisa ed esclusiva identificazione tra questo e la persona del Sovrano – ad una rappresentazione del potere pubblico esercitato in forma diffusa e, per questo, detenuto da un insieme organizzato di persone stanziate su un territorio. Una conseguenza diretta dei delineati cambiamenti sociali e politici può essere, quindi, rintracciata nel fatto che “gli Stati sovrani si sono gradualmente autolimitati: hanno ridotto il proprio imperio sui rispettivi sudditi, impegnandosi internazionalmente a garantire loro libertà e diritti”20. Come si nota, allora, si è assistito all’affiorare sempre più evidente dell’idea di cittadinanza, intesa quale legame naturale dell’individuo alla collettività sociale di riferimento21 (con la contemporanea esclusione, imputata ai non cittadini, dal godimento di quei diritti connessi ad un determinato e qualificato contesto geografico e politico. Un siffatto senso 20 A. CASSESE, op. cit., p. 115. Cfr. A. FALZEA, secondo il quale “quanto più i rapporti umani travalicano le circoscrizioni degli Stati tanto meno sono tutelati dagli ordinamenti giuridici statuali, strettamente legati al territorio sul quale si esercita la sovranità” (Osservazioni introduttive, in G. VETTORI (a cura di), Carta Europea e diritti dei privati, Padova, 2002, p. 201). di appartenenza è inteso, dunque, “come il presupposto di tutti i diritti fondamentali”22, in quanto conseguenza di un preciso “status che viene conferito a coloro che sono mem23 bri a pieno diritto di una comunità” . Di nuovo, dunque, si affaccia una definizione di universalità connotata dal canone quantitativo-formale, secondo cui l’assiologia dei diritti risiede sul concetto di appartenenza dei titolari di essi ad un determinato cenobio a sovranità nazionale, piuttosto che sul contenuto delle norme. Lo Stato-collettività, dunque, impone dei limiti ai propri poteri in favore di ciascuno dei membri di esso: limiti dalla cui proposizione discendono, specularmente e successivamente, diritti (intesi come garanzie a che i limiti stessi vengano osservati e rispettati) a tutela di tutti i cittadini appartenenti alla comunità nazionale e, per questo, definibili come fondamentali ed universali. La caratteristica più evidente di una siffatta impostazione ricostruttiva risiede, come è evidente, nella esclusione di chi non è parte della collettività di riferimento dalla possibilità di godere delle predette norme di garanzia. La carenza del requisito rappresentato dallo status di cives, infatti, non permette di essere compresi in quella universalità di cittadini cui, in via esclusiva, sono riferiti i diritti in questione. Al contrario, se si optasse per la valorizzazione del criterio distintivo che abbiamo definito qualitativo-sostanziale, la diffusione delle richiamate garanzie travalicherebbe i confini statuali, trovando fondamento sul nucleo oggettivo ontologico dei diritti in questione, piuttosto che sulla ascrivibilità dei titolari di essi ad uno Stato invece che ad un altro. 21 145 22 23 146 L. FERRAJOLI, Diritti fondamentali, in L. FERRAJOLI, cit., p. 23. T. H. MARSHALL, Cittadinanza e classe sociale, Torino, 1976, p. 24. 4. Segue: Insufficienze dei criteri di definizione. Il risultato ultimo delle precedenti considerazioni, dunque, pare possa essere riassunto attraverso la determinazione di quattro distinti concetti, dipendenti dalla constatata differenziazione culturale influente sulla qualificazione definitoria dei diritti umani. Le quattro proposizioni (tra loro correlate in due coppie), quindi, sono: a) Dissociazione territoriale dei diritti fondamentali, con la conseguente elaborazione di una serie di Carte declaratorie a base regionale. b) Uniformazione transnazionale del contenuto dei diritti stessi, mediante l’imposizione di un modello unico di riferimento. A) Universalità dei diritti dipendente dal criterio formale della quantificazione ed identificazione dei relativi titolari (un diritto è universale se è riconosciuto alla totalità degli appartenenti ad una determinata categoria di soggetti, quale che essa sia). B) Universalità dei diritti legata al significato sostanziale di essi, piuttosto che al numero dei fruitori (un diritto è universale solo in funzione del suo contenuto e non dei suoi destinatari). Le suddette coppie di opzioni conoscitive, a loro volta, possono essere suscettibili di scomposizione e di successiva riunione in due ulteriori proposizioni, basate su differenti criteri definitori e, tra loro, di valore antitetico: aA) La cittadinanza è il presupposto sostanziale dei diritti fondamentali. Questa, infatti, per un verso rappresenta quel discrimine necessario ad evitare la realizzazione di “una struttura di potere globale [che] sarebbe oggi inevitabilmente destinata a comprimere le differenze culturali del pianeta, a penalizzare i soggetti più deboli, a ridurre drasticamente la complessità delle strutture politiche interme147 24 die” . Per altro verso, la cittadinanza permette una identificazione precisa dei soggetti titolari dei diritti fondamentali – l’esistenza dei quali necessariamente dipende dalle limitazioni che la collettività statuale dà a sé, in esclusivo favore dei suoi stessi componenti – che, a loro volta, sono universali in quanto indistintamente riconosciuti alla comunità dei cives, nel rispetto delle altrui diversità. bB) I diritti umani, in quanto valori in sé, non possono soffrire limitazioni territoriali o culturali, anche perché “la disuguaglianza nei diritti genera l’immagine dell’altro come disuguale, ossia inferiore antropologicamente proprio perché inferiore giuridicamente”25. L’uniformità mondiale dei diritti, dunque, rappresenta una garanzia al rispetto globale e transnazionale di essi – anche al di là delle eventuali decisioni difformi dei singoli Stati – e l’universalità assume una connotazione ontologica, decisamente fondata sul contenuto delle norme, che si impone a prescindere dalla quantificazione dei destinatari e degli effettivi fruitori di esse. I principi prospettati, comunque, scontano tutti un palese difetto comune, consistente nella inadeguatezza di questi rispetto alla necessità di riempire quella «scatola vuota dei diritti umani», alla quale si alludeva prima. Nel caso in cui, infatti, fosse prediletta una definizione formale dell’idea di universalità – come sopra delineata, con il conseguente ascrivere una serie di privilegi e garanzie, ritenuti fondamentali, a tutti indistintamente gli appartenenti ad una classe determinata di persone, con l’esclusione di chi fa parte di differenti categorie e senza un concreto interesse per il contenuto effettivo dei poteri attribuiti – ci si scontrerebbe con 24 D. ZOLO, Libertà, proprietà ed uguaglianza nella teoria dei diritti fondamentali, in L. FERRAJOLI, cit., p. 70. 25 L. FERRAJOLI, Diritti fondamentali, in L. Ferrajoli, cit., p. 26. 148 l’aporia argomentativa connessa alla necessità preliminare di individuare i criteri di scelta dei gruppi di titolari delle tutele. In altri termini, una catalogazione dei diritti fondamentali operata soltanto sulla specificazione dei soggetti garantiti non permette una altrettanto chiara giustificazione del canone identificativo prescelto, con il conseguente possibile svilimento dell’aggettivo «fondamentale». A tal proposito, si potrebbe sensatamente affermare che “non c’è limite alla proliferazione delle categorie di soggetti, o delle condizioni, e delle situazioni sociali che possono essere riguardate sotto il profilo dei diritti umani. Dai consumatori di beni agli utenti di servizi, dai malati agli handicappati, dai cittadini in quanto fruitori dei beni ambientali agli animali in quanto esseri senzienti e parte essenziale dell’ecosistema, non c’è categoria di persone, o di esseri viventi, che non possa legittimamente ambire ad avere una propria carta di diritti più o meno fondamentali”26. Il tutto, ovviamente, senza avere ancora ben chiaro il contenuto effettivo delle garanzie riconosciute ai componenti della classe prescelta. Qualora, infine, la definizione formale di universalità dei diritti umani fosse convenzionalmente legata alla cittadinanza, essa si porrebbe, fatalmente, in contrasto con il fenomeno – sempre più evidente nell’attuale periodo storico – della circolazione transnazionale degli individui. Se, infatti, i diritti fondamentali dovessero realmente dipendere soltanto da una auto-limitazione dei poteri che gli Stati (come collettività di persone accomunate dal territorio e dall’ordinamento giuridico) operano in favore dei propri cittadini – con l’esclusione dal godimento di essi gravante su chi cittadino non è – ci si troverebbe innanzi un duplice paradosso: in primo luogo, una garanzia ritenuta fondamentale in un 26 C. CARDIA, op. cit, p. 183. 149 definito contesto politico, tale potrebbe non essere al di fuori dell’ambito di origine, con i conseguenti rischi connessi al semplice trasferirsi in un’area geografica di differente 27 sentire politico e culturale . In secondo luogo, il fraintendere il concetto di universalità dei diritti con il riconoscimento di questi – da parte dello Stato – ad un gruppo qualificato di soggetti (i cittadini) si tradurrebbe, inevitabilmente, nel negare le medesime garanzie fondamentali a chi soggiorna nello stesso Stato, non appartenendo politicamente alla collettività in esso stanziata28. La medesima difficoltà definitoria si riscontra nel caso in cui, nell’individuazione dei diritti umani, si dovesse prediligere il criterio sostantivo fondato sul contenuto di essi, a dispetto “dell’ampiezza della classe di riferimento del quan29 tificatore universale «tutti»” . Una siffatta opzione, come è facile osservare, sconta a sua volta un duplice ordine di questioni: in primo luogo, infatti, qualificare come «fondamentale» un diritto senza, al contempo, operare un immediato riferimento ai titolari di esso potrebbe comportare uno “svilimento del concetto stesso di diritto umano, che si confonderebbe con qualunque pretesa individuale legittima. Anzi, continuando nella enucleazione di infiniti e insaziabili diritti umani (…) si finisce per identificare il concetto di diritto 27 Ad esempio, la garanzia di parità formale e sostanziale tra uomo e donna, propria degli Stati occidentali, potrebbe non ricevere adeguata e uguale difesa in un contesto sociale ove la donna è culturalmente e storicamente discriminata. 28 Come rileva A. ALGOSTINO (op. cit., p. 398) “finché diritti politici e cittadinanza sono concepiti l’uno in relazione all’altro (gode dei diritti politici chi è cittadino e ciò che contraddistingue lo status di cittadino è l’esercizio dei diritti politici), la categoria dei diritti di partecipazione non può che essere coinvolta nella contraddizione tra proclamazione di diritti della persona umana e suddivisione del mondo in Stati”. 29 L. BACCELLI, Diritti senza fondamento, in L. FERRAJOLI, cit., p. 202. 150 30 umano con quello di bisogno umano” . In secondo luogo, l’assenza di una individuazione precisa dei distinti soggetti, cui spettano le tutele e le garanzie, potrebbe condurre ad ingiustificata e pericolosa omologazione dei diritti in questione, con un coerente appiattimento delle differenze culturali sopra quell’unico canone contenutistico che, in virtù della sua forza o del suo prestigio, riuscisse ad imporsi. 5. La soluzione delle antinomie. L’uomo quale principio comune ai diritti fondamentali. Le considerazioni che precedono hanno, dunque, condotto ad un risultato ambivalente. La necessità di individuare un fondamento unico ai diritti umani, utile quale efficace reagente nell’analisi delle interazioni di questi con il diritto privato, deve tenere, infatti, in debito conto due differenti, ma non contraddittori, parametri. In primo luogo, rivestono una fondamentale importanza sia il valore distintivo degli status (fra i quali spicca la cittadinanza), sia l’appartenenza ad un determinato e caratterizzante contesto culturale che, insieme, provocano vaste fratture in un tentativo di ricomposizione unitaria dei diritti umani. In secondo luogo, si avvertono tendenze espansive del catalogo dei diritti stessi – mediante l’inclusione, in questo, di sempre più numerose esigenze “che hanno portato il concetto di diritto quasi a coin31 cidere con quello di bisogno” – insieme ad una coincidente propensione a modellarne ed uniformarne il contenuto, su scala mondiale, sui caratteri propri dell’uomo occidentale. La rilevata antinomia concettuale, allora, rende necessario compiere ancora un altro sforzo epistemologico, questa volta teso all’individuazione di un criterio determinante che, attraverso l’uniformazione delle opposte tendenze messe in evidenza, permetta di ricavare un contenuto univoco e, quanto più è possibile, universalmente accettabile alla definizione di diritti fondamentali. L’esigenza avvertita è, dunque, quella di conciliare le forze che volgono verso una frammentazione regionale e culturale dei diritti con quelle, altrettanto efficienti, tese ad una omologazione dei contenuti sopra un modello determinato. Tutto ciò, ponendosi al riparo dall’ulteriore pericolo connesso ad una ipertrofica estensione del catalogo dei diritti stessi, che farebbe di essi non una categoria aperta quanto, invece, indefinita. Al fine, allora, di evitare un’analisi sterilmente descrittiva e teorica, ci pare opportuno operare un forte ancoraggio argomentativo con un solido approccio soggettivistico al tema, attraverso, cioè, l’identificazione concreta dei soggetti delle tutele. La determinazione del principio aggregante così delineato, cui ispirare una rinnovata lettura delle norme anche di natura privatistica, è opera, tuttavia, di non poco impegno. Il rischio consiste, infatti, nell’individuare una categoria di destinatari delle garanzie che non goda di una valenza universale32 e che, per questo, divenga essa stessa fonte di differenze e discriminazione. In altri termini, l’esistenza medesima di eterogenee categorie di riferimento pare limitare la titolarità dei diritti in questione esclusivamente ai soggetti che ad esse appartengono – con la conseguente eccezione di chi è estraneo – quando, invece, non può esserci incertezza alcuna nella ricercata identificazione, necessa32 30 31 Sarà bene sottolineare che il termine universale non è, qui, adoperato nel suo significato formale (riferito, cioè, alla totalità di soggetti appartenenti ad una categoria specificamente individuata) quanto, invece, nella sua accezione sostanziale attribuita all’insieme indistinto degli esseri umani. C. CARDIA, op. cit. p. 184 (i corsivi sono dell’Autore). C. CARDIA, op. cit. p. 199 (i corsivi sono dell’Autore). 151 152 riamente globale, di coloro ai quali è da ascrivere una tutela uniforme33. Un considerevole contributo all’opera di «unificazione» delle osservate diversità, in tema di contenuto e titolarità dei diritti fondamentali, è portato da un lavoro di progressiva scarnificazione di essi, fino al punto di individuarne il nucleo essenziale che ne accomuni il significato e la stessa esistenza, anche ben oltre le consistenti barriere ideologiche, culturali e politiche. Tale principio universale è, fuori da ogni dubbio, l’uomo che, figurativamente, potrebbe esser definito vitruviano per due ordini di ragioni: in primo luogo per la centralità che a questi deve riconoscersi nelle proporzioni dell’ordine giuridico che, come è evidente, dovrebbe trovare nell’uomo stesso il suo costante riferimento; in secondo luogo, per la «nudità» con la quale il parametro di riferimento deve offrirsi all’analisi, spogliato di tutte le categorie formali ed astratte di appartenenza. L’uomo, dunque, quale canone proposto su cui misurare la possibilità di elaborare un concetto unitario, transnazionale e culturalmente omogeneo di diritti fondamentali, deve essere sottoposto, adesso, al vaglio dei criteri definitori prima osservati. Ciò, ovviamente, al fine palese di valutarne le potenzialità di costituire quella ricercata chiave interpretativa, utile a creare un intreccio virtuoso tra le categorie privatistiche ed i diritti umani. Siffatta indagine deve essere condotta attraverso l’utilizzo delle due coppie di proposizioni conoscitive antite- tiche, sopra stabilite, allo scopo di stimare la loro resistenza ad una possibile soluzione dell’antinomia ad esse intrinseca. Per una maggiore chiarezza espositiva, allora, si riproporrà la medesima divisione schematica già adoperata. aA) Il presupposto di partenza risiede nel considerare, per un verso, la cittadinanza quale criterio utile ad evitare una piatta uniformazione dei diritti fondamentali sopra un modello predeterminato; per altro verso, la medesima cittadinanza costituisce il fondamento degli stessi diritti, in quanto sottintende una limitazione che la collettività statuale dà a sé, in esclusivo favore dei suoi stessi componenti. Se, allora, si propone come canone unificatore l’uomo, inteso come entità assoluta, rimane immediatamente risolto il problema dipendente dalle apprezzabili istanze avverse ad una globalizzazione dei diritti. Ciò in quanto non potrebbe darsi un «Decalogo» di diritti fondamentali impiantato sulla scorta di determinate convinzioni religiose, politiche ed ideologiche che viene prescritto ed imposto a sistemi più deboli sebbene di eguale dignità: esiste soltanto l’uomo con i suoi bisogni e le sue esigenze primarie, dappertutto valide, indosso al quale può crearsi “un nucleo ristretto di valori e criteri uni34 versalmente accettati da tutti gli Stati” . Con riferimento, infine, alla presunta derivazione dei diritti primigeni dipendente dal rapporto tra cittadino e collettività statuale di appartenenza, si può sostenere che “la più recente elaborazione dei diritti fondamentali come diritti umani opera un’autentica rivoluzione copernicana”35, in base alla quale non è più lo Stato a limitare sé stesso in favore del singolo (il diritto del singolo esiste solo perché 33 Ad esempio, definire soggetti di diritto tutti coloro i quali godono della personalità giuridica o, in maniera più ristretta, della personalità d’agire o della cittadinanza (la scelta di queste categorie è di L. FERRAJOLI, I diritti fondamentali nella teoria del diritto, in L. FERRAJOLI, cit., p. 136) non avrebbe significato effettivo alcuno in quegli ordinamenti ove la titolarità di qualsiasi norma è strettamente subordinata all’appartenenza alla categoria dei credenti. 153 34 A. CASSESE, op. cit., p. 71. S. MAZZARESE, Diritti fondamentali e diritti soggettivi (considerazioni a margine della teoria di Luigi Ferrajoli), in Riv. critica del dir. priv., 2002, p. 214. 35 154 gli è riconosciuto dallo Stato) bensì, al contrario, è l’uomo, in quanto tale, a possedere delle istanze degne di tutela universale e preesistenti alle formazioni sociali, cui i singoli Stati non possono che uniformarsi. Il concetto di universalità in senso formale36, dunque, non può essere ancora associato ad una categoria necessariamente limitata quali i cittadini, dovendo, invece, essere allargata al massimo fino ad includere l’umanità intera. In conclusione, allora, la cittadinanza non può ulteriormente costituire un valido ostacolo all’armonizzazione internazionale delle garanzie poste a difesa dei diritti fondamentali, in quanto l’essere uomo è già una condizione sufficiente all’individuazione di necessità e bisogni globalmente meritevoli di piena considerazione; ben al di là delle esistenti divisioni politiche e religiose e lungi anche solo dalla mera possibilità che un modello parziale di riferimento prevarichi altri di pari valore e qualità. bB) La seconda proposizione definitoria è fondata, invece, sulla necessità di riconoscere il rilievo intrinseco di canone culturale di riferimento ad una determinata elencazione di diritti fondamentali, in modo che essa, in forza della valenza del suo contenuto, realizzi una uniformità mondiale dei diritti stessi, anche tramite il rispetto transnazionale ad essi dovuto. Il concetto proposto di uomo, inteso quale centro esclusivo di imputazione di diritti e tutele, sembra passare anche attraverso le maglie del superiore postulato, soltanto ove si consideri l’uomo stesso come presupposto indefettibile sul quale modellare un eventuale catalogo mondiale dei diritti essenziali scevro, nel suo contenuto, da qualsia- si colorazione ideologica e sovrastruttura religiosa. In altri termini, nella predisposizione del predetto catalogo, occorre tenere ben presente che la diversità culturale è essa stessa un diritto dell’uomo e che, in quanto tale, non può in alcun modo essere sacrificata. I diritti umani, infatti, rappresentano norme necessariamente «sociali» – nel senso che trovano, normalmente, esplicazione nei rapporti tra individui e collettività statuale – e, per questa ragione, il loro contenuto può mutare in relazione alle differenti istanze, dipendenti dalle eterogenee relazioni che intercorrono tra l’uomo ed il gruppo sociale che, di volta in volta, rappresenta il suo riferimento. Un accenno merita, infine, il denunciato pericolo di eccessiva dilatazione della categoria dei diritti fondamentali, insito nell’opzione classificatoria ontologica. In realtà, a ben guardare, questo è un falso problema che si pone, esclusivamente, ove si voglia necessariamente accedere ad una elencazione rigida e dogmatica dei diritti stessi, senza alcuna attenzione per le evidenti differenze esistenti tra le esigenze che uomini diversi, in contesti diversi, possono manifestare. Una analisi coerente con le superiori premesse mostra, infatti, come sia possibile operare una gradazione tra i diritti umani distinguendo, in essi, “i diritti civili e politici da un lato, e quelli economici, sociali e culturali 37 dall’altro” . Siffatta considerazione, allora, conduce alla conseguente riflessione, sopra adombrata, della necessità di modulare il contenuto di un eventuale catalogo mondiale dei diritti stessi sulle concrete, effettive e primarie necessità dell’uomo, rapportato, tuttavia, ai differenti contesti sociali 38 di riferimento ; con l’ulteriore conclusione di sottoporre il 36 Nel senso, cioè, di riconoscere un diritto “ad una classe universale di soggetti la quale di fatto includa al limite un solo membro” (R. GUASTINI, Tre problemi di definizione, in L. FERRAJOLI, cit., p. 45). 155 37 38 156 A. CASSESE, op. cit., p. 65. In un ambito geografico, infatti, ove i bisogni maggiormente avvertiti diritto ai bisogni, atteso quello che dovrebbe essere il suo compito naturale di assecondare, agevolare e tutelare la completa realizzazione della personalità dell’individuo tra individui. 6. Diritti dell’uomo e diritto privato. Diversità e corrispondenze. Il tema da cui ha preso spunto l’indagine è la presunta incomunicabilità tra la dimensione speculativa – propria della teoria generale e dell’analisi giusfilosofica – dei diritti fondamentali e, d’altro lato, la natura dogmatica e positiva che connota gli istituti di diritto privato. La rivendicazione di autonomia dello studioso di teoria generale bene si evidenzia, infatti, nella volontà di indagare esclusivamente “la forma o la struttura logica di quei diritti che conveniamo di chiamare fondamentali”39, senza alcun riferimento ad uno specifico ordinamento positivo e allo stesso significato ontologico di essi che, invece, pare essere riservato all’analisi empirica del diritto vigente40. La diversità appena riferita – dipendente, esclusivamente, dal differente oggetto dei rispettivi ambiti di studio del teorico generale e del privatista – si iscrive, tuttavia, su di un piano prettamente concettuale e non denuncia, invece, quello che pare essere l’effettivo principio impediente una analisi, comune alle due branche disciplinari, dei diritti umani. La motivazione principale dell’ostentata distanza rilevata tra le categorie civilistiche positive e l’elaborazione teorica dei diritti fondamentali risiede, a nostro avviso, su di un unico, concreto, presupposto di base dal quale, successivamente, è possibile derivare una serie di corollari. Una delle caratteristiche principali, propria e connotante del diritto privato risiede, infatti, nella valenza sovrana attribuita alla 41 volontà dispositiva ed attuativa del soggetto – in ordine ai diritti positivamente riconosciutigli dall’ordinamento – dal che dipende: a) la possibilità di instaurare un rapporto giuridico intersoggettivo, in ordine all’esercizio, al godimento ed alla pretesa di tutela del diritto; b) una piena disponibilità dei diritti di cui l’individuo è titolare, all’interno dei limiti posti a garanzia del consorzio sociale nel quale l’individuo medesimo è inserito; c) la potenzialità di una valutazione patrimoniale del diritto coinvolto, insieme all’ulteriore opportunità di ricavare un profitto dal suo esercizio; d) l’evidente disuguaglianza tra diversi titolari formali del medesimo diritto, in forza della differente misura, qualitativa e quantitativa, nel godimento del diritto stesso42; e) l’attribuzione del bene oggetto del diritto ad uno o più soggetti individualmente determinati – con l’esclusione di tutti gli altri – attraverso una disposizione solitamente negoziale. Gli elementi distintivi del diritto dei privati appena evidenziati, tuttavia, sembrano irrimediabilmente collidere sono quelli dipendenti dallo scarso sviluppo economico, non si percepisce l’urgenza di veder riconosciuta una tutela ai diritti della personalità che, invece, saranno pienamente garantiti in un contesto, economicamente maturo, ove le esigenze primarie sono quelle dipendenti dalla personalità morale dell’individuo. 39 L. FERRAJOLI, I diritti fondamentali nella teoria del diritto, in L. FERRAJOLI, cit., p. 123. 40 Cfr. D. ZOLO, op. cit., p. 51. 41 Cfr. M. GRAZIADEI, Diritto soggettivo, potere, interesse, in Trattato di diritto civile diretto da R. SACCO, Torino, 2001, p. 41 ss. 42 La differenza quantitativa risiede, ad esempio, nel fatto che “ciascuno di noi è proprietario o creditore di cose diverse e in misura diversa” (L. FERRAJOLI, Diritti fondamentali, in L. FERRAJOLI, cit., p. 14). La differenza qualitativa (nel senso della qualità della volontà sottesa al diritto), invece, è riscontrabile sempre in via esemplificativa nelle differenze di poteri e facoltà che sono riconosciute ad un soggetto pienamente capace di intendere e di volere rispetto ad un minorenne o ad un interdetto. 157 158 con la stipulazione teorica dei diritti umani, in ordine ai quali la volontà dei soggetti titolari non pare svolgere alcun ruolo. In maniera schematica, allora, potrebbero sostenersi i seguenti postulati – contraddittori rispetto i punti sopra notati – così argomentando: A) l’esercizio dei diritti fondamentali, in quanto assoluti ed universali, non stabilisce alcun rapporto giuridico, così intendendo “ogni relazione tra titolari di posizioni giuridiche antitetiche regolata dal diritto oggettivo”43; B) i diritti umani, in virtù della particolare natura dei beni (la vita, la dignità, l’integrità fisica ecc.) che in essi trovano riconoscimento e tutela, non sono in alcun modo disponibili dal soggetto che ne è titolare, né sono limitabili ad opera di terzi o della stessa collettività statuale di riferimento; C) i diritti fondamentali dell’individuo non sono suscettibili di quotazione economica e da essi, appartenendo in maniera indistinta all’universalità delle persone, non è consentita al singolo la facoltà di ricavarne un eventuale utile; D) il riconoscimento dei diritti umani alla totalità indistinta degli individui pone costoro in una situazione di perfetta uguaglianza giuridica, atteso che non può essere concettualmente ammissibile una differenza qualitativa o quantitativa nel godimento dei diritti in questione; E) i diritti fondamentali appartengono all’individuo soltanto in virtù della sua stessa esistenza o in ragione della sua inerenza ad una determinata categoria di soggetti (ad esempio, i cittadini), senza che possa essere attribuito valore alcuno ad una eventuale volontà acquisitiva, modificativa o abdicativa. Le antinomie così rilevate – occorre ammetterlo – pare che si risolvano in una insormontabile aporia, visto che 43 G. CRISCUOLI, La discrezionalità regolamentare del giudice civile, Padova, 2000, p. 44. 159 riguardano la differente struttura ontologica dei diritti umani e del diritto privato. Il concetto di diritto soggettivo, infatti, se inteso quale espressione del potere volitivo e determinativo del singolo in ordine alla propria sfera giuridica, sottintende una inevitabile esaltazione della autorità individuale, in evidente contrapposizione con i concorrenti interessi portati dagli altri appartenenti al medesimo gruppo sociale. Dalla tensione così generatasi, quindi, discende la necessità di comporre il contrasto tra le reciproche convenienze, mediante l’elaborazione di regole generali ed astratte che consentano un equo contemperamento dei diritti e dei corrispettivi doveri, al fine ultimo di garantire una convivenza pacifica ed ordinata. In altri termini, ed in maniera sintetica, potrebbe dirsi che il diritto privato – attraverso il concetto di diritto soggettivo – salvaguarda l’uomo nella sua individualità ed originalità, apprestando a questi un sistema di norme che permette una compiuta realizzazione della propria personalità anche nel rapporto con altri individui, tutti portatori di bisogni, a volte, antitetici. I diritti umani, al contrario, sono precisamente connotati dal carattere di universalità – inteso quale “presupposto fondativo dell’uguaglianza dell’individuo rispetto ad ogni altro essere della propria specie”44 – che pare togliere al singolo ogni possibilità di autonoma determinazione in ordine 45 alla misura o alle modalità di godimento dei diritti stessi , senza che si dia origine ad alcun conflitto o contrapposizio- 44 S. MAZZARESE, op. cit., p. 191. Il concetto risulta maggiormente chiaro ove si consideri che “i diritti fondamentali, essendo universali, sono tutt’uno con le norme che li dispongono (…) e se non altro per questo ne è inconcepibile la disponibilità; tanto che se, paradossalmente, essi fossero disponibili cesserebbero di essere universali e perciò fondamentali” (L. FERRAJOLI, I diritti fondamentali nella teoria del diritto, in L. FERRAJOLI, cit., p. 140). 45 160 ne, tra individui, nella realizzazione degli interessi ad essi intrinseci. Con diverse parole, allora, si potrebbe affermare che il sistema di diritti fondamentali garantisce l’uomo non nella sua specificità quanto, piuttosto, solo come componente indistinto di una categoria di esseri tra loro uguali, con la possibilità, riconosciuta ad ognuno di essi, esclusivamente di attivare le opportune tutele in caso di violazione dei diritti in questione, senza alcun potere abdicativo o dispositivo che, se esistente, comporterebbe una lesione non al singolo individuo, ma all’intero genere di appartenenza. Sulla scorta di un siffatto concetto, dunque, sarebbe più corretto discorrere di droit de l’humanitè, piuttosto che di droit de l’homme46. La ricerca delle motivazioni di fondo di una siffatta lontananza concettuale, che pare contrapporre il sistema di diritto privato al sistema dei diritti umani, ha condotto ad un esito suggestivo e, forse, inatteso. Le descritte differenze, in quanto ontologicamente connesse al contenuto stesso delle contrapposte strutture normative, non sono in alcun modo conciliabili, tranne che su di un unico dato condiviso: la tutela della personalità umana, rispettivamente come entità singolare o come parte di una collettività indistinta. L’idea, prima tratteggiata, di uomo universale rappresenta infatti, per un verso, il principio comune ed aggregante dei possibili differenti criteri teorici di definizione dei diritti fondamentali e, di questi, costituisce oggetto e scopo di esistenza. Lo stesso principio, per altro verso, incarna uno dei più intimi presupposti delle regole privatistiche. Se, infatti, si considera che il diritto privato è formato da norme propriamente utili alla regolamentazione degli interessi specifici dell’indi- viduo – nella sua singolarità o inserito in una formazione sociale – anche attraverso l’esaltazione dei suoi poteri e delle sue facoltà, ci si accorge di come anch’esso sia naturalmente votato, per la sua stessa funzione, al rispetto ed alla garanzia dell’uomo, quale centro universale di imputazione di interessi47. L’uomo, dunque, ancora una volta rappresenta l’elemento unificatore, il fulcro intorno al quale è possibile un riavvicinamento tra quegli ambiti paralleli rappresentati dai diritti fondamentali e dal diritto privato, anche oltre la tradizionale area delle tutele apprestate dalle regole civilistiche in favore della personalità umana. I differenti piani di lettura, quindi, non paiono essere irrimediabilmente distanti ed impermeabili a mutue commistioni, soprattutto in vista dell’utilità di “confrontare le stesse categorie in funzione di una loro reciproca dilatazione estensiva (…) che renda meno distante la «teoria» dalla «pratica» del diritto o recuperi quell’unità dell’esperienza giuridica che può servire, all’una e all’altra disciplina, ad elaborare una comune progettazione di principi, di concetti e di strutture”48. 7. Diritti dell’uomo e categorie privatistiche. Il rinvenimento e lo studio degli effetti dell’auspicato riavvicinamento tra diritto privato e diritti umani riveste una singolare importanza, al dichiarato scopo di misurare la possibilità di una rilettura delle regole civilistiche orientata, più che sull’ormai vetusto riferimento alla sfera patrimoniale del soggetto, verso una più moderna attenzione alla sua 47 46 Cfr. B. JORION, La dignité de la personne humaine ou la difficile insertion d’une règle morale dans le droit positif, in Rev. Dr. Pub., 1999, 214. 161 In maniera suggestiva, P. PERLINGIERI afferma che “l’uomo è al centro dell’ordinamento giuridico e l’ordinamento giuridico è in funzione dell’uomo, non dello Stato” (La persona e i sui diritti, Napoli, 2005, p. 25). 48 S. MAZZARESE, op. cit., p. 190. 162 sfera personale. Nel far ciò, occorre necessariamente considerare e valutare il peso e l’importanza residua dei fattori in precedenza ostativi, alla luce delle rinnovate esigenze dell’uomo stesso. La denunciata incomunicabilità tra il sistema di diritto privato e le tematiche proprie dei diritti fondamentali – si diceva – trova il suo principale alimento e spunto nei concetti di proprietà e disponibilità che caratterizzano le categorie civilistiche e, nello stesso tempo, sono antipodi rispetto a tutti quegli intangibili attributi della personalità i quali, in senso globale, potrebbero definirsi come dignità umana. Le azioni dispositive, infatti, e di fruizione del diritto di proprietà sembrano cagionare una potenziale disparità tra individui, dovuta alla possibilità riconosciuta a ciascuno di essi di godere dei propri beni fino all’eventualità, del tutto legittima, di spogliarsi di questi in favore di altri che, a loro volta, incrementerebbero il proprio patrimonio a discapito del soggetto alienante. Tale circostanza, chiaramente, è intrinsecamente contraria alla caratteristica irrinunciabilità che connota i diritti fondamentali e dalla quale, pure, deriva l’idea di eguaglianza tra umani ad essi sottesa. Una concezione di tal genere, tuttavia, non sembra tener conto di almeno due fattori: degli evoluti bisogni umani, dipendenti dalle attuali tendenze sociali e, d’altro canto, della differenza, terminologica e concettuale, tra irrinunciabilità ed indisponibilità di un diritto. A tal proposito, sarà bene esaminare questi concetti in maniera approfondita e distinta, poiché soltanto in tal modo sarà possibile valutare se – e fino a che punto – sono conciliabili le categorie privatistiche (connotate dalla loro forte carica di patrimonialità), con le caratteristiche proprie dei diritti fondamentali. La predetta analisi, ovviamente, dovrà essere condotta tenendo ben presente, come criterio ermeneutico, l’idea di 163 uomo quale strumento unificatore e univoco punto di contatto tra i differenti insiemi. I rapidi mutamenti sociali, che connotano l’attuale epoca storica, sembrano tutti irrevocabilmente orientati verso una sempre più spiccata esigenza di sviluppo e tutela della personalità – complessivamente intesa – dell’individuo, con un particolare accento “su un oggettivo benessere della persona che assecondi le sue esigenze biologiche, psicologiche ed affettive”49. In tale prospettiva si iscrivono una serie di provvedimenti normativi – di diritto interno e di derivazione comunitaria – che, seppur inserendosi a pieno titolo nel sistema giusprivatistico, sono indiscutibilmente volti ad evidenziare alcuni diritti che, senza forzature, potrebbero definirsi fondamentali per qualunque soggetto. Soltanto per citare qualche esempio (e senza alcuna pretesa di esaustività) potremmo riferirci a tutte quelle disposizioni di legge che, nel loro complesso, fondano lo «statuto 50 del consumatore» o regolamentano la possibilità, per ciascun individuo, di costruirsi una sorta di nicchia di riservatezza e di difendere questa contro indebite intromissioni 51 esterne . Con riferimento alla famiglia, inoltre, possono essere citate le norme che, poco alla volta, equiparano la società coniugale ad un rapporto di fatto fondato sulla mera scelta 49 P. PERLINGIERI, op. cit., p. XI. Cfr. D. Lgs. 15 gennaio 1992 n° 50, sui contratti negoziati al di fuori dei locali commerciali. D. Lgs. 17 marzo 1995 n° 111, in tema di tutela dell’acquirente di pacchetti turistici. L. 6 febbraio 1996 n° 52, che ha introdotto la disciplina dei contratti del consumatore. L. 30 luglio 1998 n° 281, sui diritti dei consumatori e degli utenti; D. Lgs. 2 febbraio 2002 n° 24, sulla vendita dei beni di consumo. 51 Cfr. L. 31 dicembre 1996 n° 675, in tema di tutela avverso l’indebito trattamento di dati personali. 50 164 52 di convivenza more uxorio ; o, ancora, le prescrizioni poste in favore del minore – sottolineando il suo diritto a trovare una proficua collocazione all’interno di una comunità di affetti53 – e, in genere, del soggetto maggiormente bisognoso di protezione contro gli eventuali abusi realizzati da qual54 che componente della famiglia . Con riguardo, infine, alla tutela della salute, si devono menzionare tanto la possibilità di privarsi di una parte del proprio corpo, al fine solidaristico di permettere un trapianto55, quanto la regolamentazione 56 delle conseguenze giuridiche del cambiamento di sesso . L’insieme di queste disposizioni – insieme ad altre che si è omesso, per brevità, di citare – conduce verso una constatazione di segno univoco: il concetto di uomo universale, come sopra delineato, costituisce in sé un vero e proprio valore centrale di riferimento, inteso non solo e non più quale monade governata da meri impulsi egoistici, patrimoniali e volti al perseguimento del profitto individuale, ma come componente attivo di una società attenta ai fini solidaristici, seppure nel pieno rispetto dei bisogni del singolo. Tale osservazione, allora, provoca una ulteriore e conseguente riflessione, relativa al rapporto tra diritti fondamentali e diritto privato, attraverso l’elemento unificatore costituito dall’importanza da attribuirsi (e già, in parecchi casi, 52 Da ultimo, cfr. la L. 19 febbraio 2004 n° 40, che consente la possibilità di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita anche alle coppie conviventi more uxorio. 53 Cfr. L. 4 maggio 1983 n° 184, sul diritto del minore ad una famiglia, insieme alle modifiche ad essa apportate dalla L. 28 marzo 2001 n° 149. 54 Cfr. L. 4 aprile 2001 n° 154, che ha apprestato una serie di efficaci misure contro la violenza nelle relazioni familiari. 55 Cfr. L. 1 aprile 1999 n° 91, in materia di prelievi e trapianti di organi e tessuti. 56 Cfr. L. 14 aprile 1982 n° 164, che regolamenta la rettificazione di attribuzione di sesso. 165 attribuita) alla persona. Se, infatti, l’uomo, con i suoi interessi e le sue aspettative, rappresenta il vero scopo delle regole privatistiche; se, inoltre, l’uomo stesso trova, come entità universale, piena esplicazione e tutela in quei diritti che sogliono essere definiti fondamentali; se, infine, non pare essere più dotato di alcuna validità costituire un complesso normativo, che regoli i rapporti interprivati, su base esclusivamente territoriale ed esaltando il concetto di cittadinanza, allora la conseguenza non può che essere un capovolgimento funzionale delle strutture giuridiche poste in rapporto. Il sistema di diritto privato, infatti, ormai lungi dall’essere considerato come mero contenitore delle tutele civilistiche dei diritti fondamentali, pare essere modernamente suscettibile di una approfondita rilettura, da realizzarsi attraverso le qualità e le caratteristiche proprie degli stessi diritti fondamentali. In altri termini, i diritti umani non devono necessariamente rappresentare un fine assoluto, innanzi il quale anche il diritto privato si piega, offrendo i propri strumenti e rimanendo, al contempo, estraneo ad essi. Le categorie civilistiche, invece, possono essere profondamente ripensate ed orientate, appropriandosi di quel concetto di centralità dell’uomo che, come osservato, costituisce il più intimo presupposto dell’intera teoria dei diritti umani. La più diretta conseguenza – oltre che il maggiore vantaggio – di una siffatta impostazione, inoltre, consiste in una cura concreta e quotidiana delle reali esigenze dell’uomo, attraverso la costante applicazione di semplici norme civilistiche, sebbene interpretate secondo il nuovo canone ermeneutico, piuttosto che mediante enunciazioni solenni destinate, il più delle volte, a rimanere prive di effettiva applicazione. La rivisitazione delle categorie privatistiche così orientata, infine, consente di superare, anche, quell’ulteriore fattore di incomunicabilità – sopra denunciato – cui dà vita il 166 carattere patrimoniale, normalmente sotteso agli istituti civilistici e poco coerente con le caratteristiche intrinseche dei diritti fondamentali dell’individuo. La patrimonialità, infatti, se esaminata in trasparenza rispetto al valore primario della persona ed alla rilevanza sociale di determinati comportamenti, trascolora “favorendo la demarcazione fra le «vecchie gratuità-liberalità» (di natura esclusivamente patrimoniale, come i contratti a titolo gratuito e le donazioni) e le «nuove gratuità-liberalità» (di natura, invece, non patrimoniale, come le donazioni di sangue, di organi e di 57 tessuti umani o le attività di volontariato) . La centralità dell’idea di uomo, quale canone ermeneutico delle categorie privatistiche, consente, inoltre, una rivisitazione del carattere di presunta – e dogmatica – indisponibilità dei diritti fondamentali. La principale specificazione che occorre compiere, a tal proposito, è data dalla differenza terminologica, cui prima si accennava, esistente tra irrinunciabilità e indisponibilità di un diritto. In particolare, con irrinunciabilità si intende l’impossibilità di estinzione del diritto, per volontà o per fatto del suo titolare; con indisponibilità, invece, si allude alla mancanza, in capo al titolare, della facoltà di porre in essere atti di esercizio del diritto, dai quali dipenda una compressione, anche temporanea, del diritto in questione senza che, al contempo, si realizzi una dismissione definitiva di esso. Date, dunque, queste premesse definitorie, potrebbe fondatamente sostenersi che i diritti fondamentali sono disponibili da parte di ogni singolo individuo – il quale potrebbe, ad esempio, impegnarsi negozialmente ad una certa modalità di esercizio senza, al contempo, privarsi della titolarità – ma non rinunziabili se non, in teoria, dall’intera ed unanime comunità dei soggetti tute- 57 S. MAZZARESE, op. cit., p. 201, nt. 66. 167 lati. Una eventuale negazione della potestà dispositiva (e non rinunciativa) del singolo si tradurrebbe, fatalmente, in una indebita compressione della libertà di questi, in nome 58 di un malinteso interesse della collettività . Le riflessioni compiute conducono, dunque, ad intravedere concrete prospettive di dialogo tra i diritti umani ed il diritto privato. Le inevitabili diversità esistenti tra i differenti sistemi, infatti, perdono di effettiva consistenza soltanto attraverso il ruolo unificante svolto dal concetto di uomo. Esso, infatti, da un canto si pone quale collante tra le eterogenee concezioni teoriche – sopra esaminate – dei diritti fondamentali. Per altro verso, invece, la figura di uomo rap- 58 A tal proposito, ritorna utile rammentare un singolare caso verificatosi in Francia, intorno alla metà degli anni novanta del secolo scorso. Un tale, di nome Manuel Wackenheim, era affetto da nanismo e, insieme con una società che si occupava di intrattenimento nelle discoteche, aveva ideato quello che fu definito “il gioco dei nani”. Tale particolare (e discutibile) divertimento consisteva nel far sì che gli avventori del locale ove il sig. Wackenheim si esibiva potessero afferrare costui e, quindi, lanciarlo quanto più lontano possibile, sopra dei materassi ben imbottiti. Tale bizzarra occupazione garantì allo stesso Wackenheim una certa notorietà (dato che questi era regolarmente ospite in numerosi programmi televisivi di approfondimento e costume) e consistenti compensi. Il gioco, tuttavia, dovette cessare quando il Consiglio di Stato francese – investito del caso in seguito ad alcune delibere, cassate dai Tribunali amministrativi, adottate da sindaci che vietavano lo svolgimento del gioco nelle città da loro amministrate – proibì la manifestazione, asserendo la contrarietà di questa ad inderogabili principi di ordine pubblico. In particolare, i giudici amministrativi sostennero che “la salvaguardia della dignità umana – nella specie rilevante quale componente dell’ordine pubblico – è principio assoluto che non tollera limitazioni neanche ad opera del suo stesso titolare” (G. RESTA, Disponibilità dei diritti fondamentali e commercializzazione: prime note sul «sistema» della carta dei diritti, in I diritti fondamentali in Europa, cit., p. 243). Tale decisione, evidentemente, ha tratto spunto da una concezione paternalistica dello Stato, in base alla quale soltanto a quest’ultimo spetta stabilire fino a che punto possa spingersi la possibilità di autodeterminazione dell’individuo, anche in ordine alla disponibilità (non alla rinunciabilità) di un proprio diritto fondamentale, senza che con ciò si verifichi una lesione degli altri titolari. 168 presenta il modello attorno al quale è possibile operare una moderna lettura delle categorie civilistiche, attraverso uno “spostamento del primariato delle situazioni soggettive patrimoniali a quello delle situazioni soggettive strettamente connesse allo sviluppo della persona umana”59. 8. Una verifica in chiave comparativa. Lo Human Rights Act, 1998 in Inghilterra. Le considerazioni appena spiegate – circa la potenzialità di reciproche interazioni tra i diritti umani ed il diritto privato – possono essere sottoposte ad una concreta verifica, attraverso una breve indagine, di natura comparativa, sugli effetti prodotti dallo Human Rights Act, 1998 nel sistema giuridico inglese. Una analisi di tal fatta, a nostro avviso, trova la propria ragion d’essere in quanto il predetto provvedimento legislativo rappresenta una importante esperienza di riduzione a diritto positivo, con tutta la propria forza cogente, di una Carta declaratoria dei diritti fondamentali dell’individuo, sviluppata a livello transnazionale. Come è noto, infatti, lo Human Rights Act, 1998 – entrato in vigore in Inghilterra il 2 ottobre del 2000 – riproduce, con minimi adattamenti, il testo della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo elaborata, nel 1950, dalla Comunità Europea. Tale operazione normativa ha assunto una importanza nodale, all’interno del sistema giuridico inglese, “dando luogo ad una silenziosa rivoluzione”60, in particolar modo per quel suo esplicito valore di canone ermeneutico, che maggiormente interessa ai fini della cercata verifica. La legge in questione, invero, non si limita ad una elenca- zione declaratoria dei diritti fondamentali, in quanto contiene in sé anche alcune disposizioni, di natura interpretativa, utili ad una rilettura – da parte dei giudici – dell’intero sistema normativo inglese, in chiave di salvaguardia dei principi contenuti nella Convenzione europea. In particolare, la section 2 dello Human Rights Act prevede la prescrizione – per le corti ed i tribunali inglesi, che siano tenuti a decidere una controversia attinente, in qualche modo, ai contenuti della Convenzione – di applicare la legge, tenendo conto di ogni decisione, dichiarazione o parere emessi dalla Corte di Strasburgo. La successiva section 3 stabilisce, inoltre, il dovere per le corti di “applicare un nuovo principio interpretativo che consiste nel leggere ed applicare, per quanto possibile, sia la legislazione di rango primario sia quella di rango secondario, in modo conforme alla Convenzione, nonché in maniera che a quest’ultima venga data piena effettività”61. La section 19, infine, dispone l’obbligo, per il Ministro che propone una nuova legge, di presentare, nel corso dell’iter parlamentare, uno statement, il quale attesti l’aderenza del provvedimento normativo al contenuto della Convenzione o, nel caso in cui non dovesse sussistere siffatta conformità, spieghi le ragioni di una simile distanza e le motivazioni che, ciò nonostante, sollecitano l’approvazione della proposta in questione. Gli effetti delle citate disposizioni sono, indubbiamente, di portata ben più vasta rispetto al loro semplice tenore letterale, con una valenza tanto sulle stratificazioni normative del passato, quanto sulle future leggi. Da un lato, infatti, i giudici sono indotti ad adottare un metodo logicoargomentativo del tutto simile a quello normalmente utiliz- 59 P. PERLINGIERI, op. cit., p. IX. S. BANAKAS, Lo Human Rights Act del 1998 ed i suoi effetti sul diritto privato, in Riv. dir. civ., 2002, II, p. 31. 60 169 61 M. E. MARINO, «The Human Rights Act 1998»: appunti e interrogativi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, p. 572. 170 62 zato nei giudizi innanzi la Corte di Strasburgo , nonché a rivisitare le norme esistenti – di natura legislativa, giurisprudenziale o consuetudinaria – interpretandole alla luce dei principi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Tale circostanza, dunque, a cagione del carattere vincolante del precedente giudiziario inglese, comporta una rinnovata inclinazione delle regole preesistenti – anche, ovviamente, di natura privatistica – verso una piena attenzione alle esigenze ed ai diritti dell’uomo. Per altro verso, lo stesso Parlamento, nella sua funzione legislativa, è indotto ad emanare nuove norme che – salvo motivate ragioni – siano perfettamente compatibili con il rispetto dovuto ai diritti fondamentali. Un ultimo spunto di particolare interesse si coglie con riferimento all’efficacia orizzontale della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, ossia alla possibilità di invocare i principi in essa contenuti anche nei rapporti tra i cittadini, oltre che nelle controversie instaurate da un soggetto privato avverso la pubblica amministrazione. Il tema acquista un rilievo particolare, in quanto soltanto ammettendo la predetta efficacia orizzontale può realizzarsi una completa compenetrazione dei concetti propri dei diritti fondamentali con le regole civilistiche che governano i rapporti tra gli individui. Il problema enunciato è stato risolto, in via indiretta, mediante il combinato del capoverso della section 6 dello Human Rights Act con il paragrafo 3 dello stesso articolo. La prima disposizione, infatti, stabilisce l’obbligo per ogni public authority di adeguare i propri atti al contenuto della Convenzione europea; il paragrafo 3, a sua volta, considera public authorities le corti ed i tribunali. In tal modo, allora, nessun giudice “potrà venire meno al dovere dell’osservanza di questo preciso obbligo in ogni controversia sottoposta alla sua cognizione (quindi nelle vertenze fra Stato e sogget63 ti privati come in quelle tra privati)” . Tutte le considerazioni appena svolte, in forma riepilogativa, conducono verso un risultato univoco. Lo Human Rights Act inglese dimostra pienamente come sia possibile operare una lettura delle categorie e delle regole privatistiche – oltre che, naturalmente, di diritto pubblico – decisamente orientata verso la tutela della dignità dell’essere umano ed il rispetto pedissequo dei suoi diritti fondamentali64. L’assunzione, infatti, del valore uomo come elemento cardine dell’intero ordinamento civilistico consente una effettiva e, finalmente, concreta attenzione rivolta alla protezione ed alla promozione della persona, realizzata non più mediante vacue enunciazioni declaratorie quanto, al contrario, attraverso una teleologicamente orientata applicazione di istituti giuridici, già esistenti, quotidianamente adoperati nella regolamentazione dei rapporti interprivati. 63 62 Cfr. WHADAM, Mountfield, Blackston’s Guide to the Human Rights Act, 1998, Londra, 1999, p. 30. 171 M. E. MARINO, op. cit., p. 583. D. FRIEDMANN, D. BARAK-EREZ, Human Rights in Private Law, Oxford, 2001, passim. 64 172 6. Violazioni rilevate dalla Corte Internazionale di Giustizia in relazione alla costruzione del muro in Palestina di Fabio Leone I. Considerazioni Preliminari. La questione israelo-palestinese può essere considerata un sorta di cartina al tornasole del diritto internazionale contemporaneo e della tutela dei diritti umani. In relazione al conflitto in questione, il rispetto dei diritti umani fondamentali, meccanismi per l’esercizio di tali diritti e la questione di chi debba assicurare tali diritti agli individui che vivono nei territori occupati, s’inserisce nel problema più ampio del rapporto tra il diritto dei conflitti armati (che si applica nei territori occupati, sino alla fine dell’occupazione) e le norme internazionali sui diritti umani. Farò riferimento nello specifico alla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 09 Luglio del 2004, sulla illegittimità della costruzione del muro in Palestina. Sono noti i fatti relativi all’intenzione di Israele (seguita dai fatti) di costruire una sorta di muro di contenimento allo scopo di prevenire o, quantomeno, scoraggiare gli atti terroristici provenienti dai territori occupati (il muro dovrebbe tutelare anche gli insediamenti dei coloni, oltre che il territorio nazionale). Meno noto è il fatto che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha chiesto un parere (di natura consultiva) alla Corte internazionale di Giustizia. Una tale mancanza di pubblicità è forse dovuta all’ostilità nutrita nei confronti del parere in questione. Numerose sono state le obiezioni solle173 vate, nel consesso internazionale, sulla opportunità o, addirittura, sulla competenza della corte a pronunciarsi . Molti stati, tra i quali anche l’Italia, hanno sostenuto l’inopportunità del parere perché sarebbe stato un ostacolo al formarsi di una soluzione politica negoziata. Israele ha presentato una memoria sulla inammissibilità del parere perché l’Assemblea generale sarebbe stata incompetente a richiederlo. La Corte ha tuttavia dichiarato che si era limitata ad esprimere semplicemente un parere giuridico, senza entrare nei meandri delle questioni strettamente politiche. La rilevanza del parere risiede sul fatto che e stato emanato da un organo internazionale investito di grande autorevolezza. La Corte è il massimo organo di giustizia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Anche se siamo in presenza di un parere di natura consultiva, il valore della sentenza non è inferiore ad altre sentenze della corte (emanate per esempio a seguito di controversia fra Stati), poiché descrive e fotografa lo stato del diritto in uno specifico momento. Si tratta di una consulenza giuridica sulle conseguenze giuridiche nascenti dalla costruzione del muro. La sentenza in oggetto può essere divisa in due tronconi: l’uno fa chiarezza sulla questione, lungamente protrattasi, della interpretazione dell’art. 2 della IV Convenzione di Ginevra e sulle contestazioni sollevate da Israele in merito all’applicazione de iure della stessa. L’altro sulle specifiche violazioni delle norme del diritto umanitario e dei diritti umani che Israele pone in essere con la costruzione del muro. II. Violazioni evidenziate nel Parere della Corte Internazionale di Giustizia. a) Considerazioni sull’art. 2 della IV Convenzione di Ginevra. La corte di giustizia, con il parere in questione, è stato l’ultimo organismo, in ordine di tempo, a ribadire l’applicabilità de iure della IV Convenzione di Ginevra del 1949 sui 174 territori occupati in Palestina. La tesi d’Israele è stata sempre quella di sostenerne l’applicazione de facto, legata cioè alle esigenze del governo in relazione a specifici casi o a conclamate necessità umanitarie. Per comprendere meglio la questione occorre considerarla come composta da due sfaccettature, da due piani interconnessi. Il primo piano si riferisce alle considerazioni che Israele (che il parere mette in discussione) pone a supporto dell’applicazione de facto delle norme della Convenzione sui territori. Israele ritiene che le norme non si applichino ai territori palestinesi (né tanto meno de iure), perché questi ultimi, a rigore, non sono territori occupati. Per quanto possa sembrare assurdo Israele continua a sostenere che non si tratta di territori occupati in quanto, prima del conflitto armato del 1967, non appartenevano a nessuno stato (né in conflitto, né parte della Convenzione). In effetti la posizione israeliana non è del tutto priva di logica. I territori in questione erano stati parte del mandato britannico, spirato nel 1947. Su parte di essi si era costituito, di fatto, un governo ed uno Stato legittimi. Nulla si era, invece, creato sulla parte rimanente dei territori, se non un occupazione militare da parte dell’Egitto e della Giordania (all’epoca ancora Transgiordania), senza acquisizione di sovranità. Dunque la posizione di Israele è: io non ho occupato territori altrui, né essi appartenevano agli Stati che ho combattuto nel 1967. Pur tuttavia la domanda rimane la stessa: le convenzioni di Ginevra possono essere applicate in territori non appartenenti a nessuno all’epoca dell’occupazione? e questi ultimi si possono considerare occupati alla luce della lettera della convenzione? In realtà la tesi israeliana non può essere accettata. Se è vero che i territori in questione non avevano un legittimo proprietario; se è vero che né l’Egitto e né la Giordania pos175 sono essere considerati tali, (poiché esiste il divieto di acquisire territori a seguito di conflitto armato e occupazione militare) è pur vero che unica condizione necessaria e sufficiente per l’applicazione della Convenzione è l’esistenza di un conflitto armato. Indipendentemente dal fatto che i territori occupati siano appartenuti a l’uno o all’altro delle parti contraenti in conflitto. L’art. 2 è chiaro a questo proposito: “Art. 2. In addition to the provisions which shall be implemented in peacetime, the present Convention shall apply to all cases of declared war or of any other armed conflict which may arise between two or more of the High Contracting Parties, even if the state of war is not recognized by one of them. The Convention shall also apply to all cases of partial or total occupation of the territory of a High Contracting Party, even if the said occupation meets with no armed resistance. Although one of the Powers in conflict may not be a party to the present Convention, the Powers who are parties thereto shall remain bound by it in their mutual relations. They shall furthermore be bound by the Convention in relation to the said Power, if the latter accepts and applies the provisions thereof.” Israele tuttavia gioca su un elemento di ambiguità contenuto nella lettera del II comma dell’art. 2. Basandosi su questo II comma Israele dice che nel caso di “[…] partial or total occupation […]” occorre che essa sia “ […] occupation of the territory of a HighContracting Party […]”. Israele ritiene che il primo comma si applichi in generale a tutti i casi di conflitti armati fra due parti contraenti mentre il II comma sia una norma speciale riguardante specificamente i casi di occupazione territoriale di territorio originariamente annesso ad una delle parti contraenti. Per Israele è la conferma che quando si parla di occupazione ci si riferisce solo al caso specifico in cui i territori erano di una parte contraente. È que176 sto, sempre secondo Israele , non è il caso dei territori palestinesi. L’interpretazione israeliana è stata sempre rigettata dal comitato internazionale della Croce rossa che ha predisposto la Convenzione. È stata rigettata anche dalla Conferenza delle Parti Contraenti, recentemente nel 1999 e ancora nel 2001. La conferenza sostiene che si tratta di un interpretazione isolata che non corrisponde agli intenti della Convenzione. L’interpretazione condivisa del II comma dell’Art. 2, ritiene che l’attenzione debba essere posta non tanto sulla parte che si riferisce all’occupazione, quanto alla parte in cui si sostiene che la norma si applica anche nel caso in cui l’occupazione non incontri : “ […] no armed resistance.” Nell’intento degli estensori questa ultima parte serve a specificare che le norme della Convenzione di Ginevra vanno applicate anche alla fine delle ostilità e in una situazione di calma. Dopo numerose prese di posizione di vari tribunali contro la posizione di israeliana, il 30 maggio del 2004 la Corte Suprema d’Israele ha tagliato la testa al toro. La Suprema corte ha preso posizione a favore dell’applicazione de iure della Convenzione. Il secondo piano della questione pone in evidenza il fatto che i territori palestinesi occupati appartengono al popolazione arabo-palestinese. La presa di posizione del Consiglio di sicurezza (e della comunità internazionale) in questo senso è netta: quei territori sono la base territoriale del costituendo Stato arabo di Palestina. Questo ultimo si trova in uno stato di quiescenza: possiede un territorio, una popolazione, delle istituzioni. La Road Map e la Ris. 1515/03 hanno ribadito per l’ennesima volta tale posizione. Questa posizione è ribadita con forza nella seconda parte del parere della Corte Internazionale di giustizia. La Corte ribadito con forza che si è di fronte alla violazione si fondo del principio di autodeterminazione che spetta a tutti popoli. Fatto 177 questo ultimo ben più grave della violazione delle norme di diritto umanitario o applicazione tecnica di questo o quell’articolo delle convenzioni di Ginevra o dell’Aia. È proprio questo il diritto di fondo che Israele viola sistematicamente dal 1967 ad oggi (è bene ricordare che nello scambio di lettere tra Arafat e Rabin nel 1993, nell’accordo nel 1995 tre Israele e Palestina sulla Cisgiordania e striscia di Gaza, si faceva menzione dei diritti legittimi del popolo palestinese e nelle varie risoluzioni del C. d. S. e Assemblea Generale). Il diritto di autodeterminazione è un principio erga omnes. Non si tratta di una semplice norma di diritto internazionale generale rivolta a tutti gli stati, e che da essi deve ricevere applicazione. Si tratta di un obbligo particolare fra i gli obblighi erga omnes. Tutti gli stati, nel caso di violazione, devono ritenersi lesi (interpretazione largamente condivisa già negli anni 70, che scardina la concezione bilaterale del diritto internazionale). Tutti gli stati hanno un interesse legittimo al rispetto della norma. Gli stati non solo hanno l’obbligo di non riconoscere la situazione illegittima nata dalla violazione della norma, ma hanno l’obbligo di non dare aiuto allo stato trasgressore. Devono inoltre utilizzare tutti i mezzi (chiaramente pacifici) per impedirne la violazione. Per questa ragione la corte si occupa, negli ultimi paragrafi del parere, delle conseguenze della illegittimità della costruzione del muro sia con riferimento agli obblighi di Israele (non costruire il muro, riparazione dei danni, restituzione delle proprietà confiscate) sia a quelli degli altri stati (non rendere assistenza , nessun riconoscimento della situazione illegittima). b) Specifiche violazioni delle norme e diritto di legittima difesa. Per quanto riguarda violazioni specifiche delle norme di diritto umanitario, la Corte ne ha evidenziate numerose. Non solo di diritto umanitario, ma anche norme delle con178 venzioni sui diritti umani. L’applicabilità di queste ultime è stato un altro aspetto di cui la corte si è occupata. La corte ha ribadito, in particolare, l’applicabilità extraterritoriale delle norme sui diritti umani. Uno Stato che ha aderito alle convenzioni internazionali sui diritti umani si impegna al rispetto delle stesse in qualsiasi luogo ove eserciti la propria giurisdizione. Non solo, quindi, sul suo territorio ma ovunque esso eserciti la propria giurisdizione. Il problema dell’applicazione extraterritoriale dei diritti umani è controverso. Numerose sono state le prese di posizione. In varie occasioni il Comitato sui diritti Civili e politici della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici del 1966 (comitato costituito nell’alveo del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966), l’applicabilità del Patto (insieme con l’altro sui diritti economici e sociali) in tutte le situazioni in cui lo Stato eserciti la propria giurisdizione, anche fuori dai propri confini. La lettera dell’art. 1 III comma si riferisce semplicemente dove lo stato ha giurisdizione, ma non specifica se all’interno o all’esterno dei suoi confini. Né la situazione bellica esclude l’applicazione delle stese norme. Tuttavia mancava ancora un parere così autorevole sulla questione. Le considerazioni della corte sono perfettamente applicabili alla situazione di Israele in quanto quest’ultima aderisce dal 1990 ai due Patti internazionali del 1966 sui diritti civili e politici, e sui diritti economici, sociali e culturali. Israele viola numerose norme della Convenzione sui diritti civili e politici: l’art. 17 sul divieto di interferenza arbitrarie o illegittime nella vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, ecc.; l’art. 12 sulla libertà di movimento, la scelta della residenza sul territorio. Israele avrebbe potuto fare un dichiarazione di pubblica emergenza che avrebbe consentito di limitare l’applicabilità dei suddetti articoli (limitazioni consentite ai sensi dell’art. 4, nei casi di comprovata emergen179 za). Israele ha fatto solo una dichiarazione per limitare l’applicazione dell’art. 9 (articolo sulla libertà personale, equo processo, arresto, ecc..). Ha dimostrato così di essere perfettamente conscia del fatto che la convenzione va applicata. Stesse considerazioni valgono per il Patto internazionale sui diritti economici e sociali sempre del 1966. Gli articoli che vengono violati sono: l’art. 6 sul diritto al lavoro e sulle misure di tutela per l’attuazione di questo diritto; l’art. 10 sulla protezione della famiglia , alle madri all’infanzia e ai minori; l’art. 12 sul diritto alla salute e sulle attività volte a rendere efficace tale diritto; l’art. 13 sul diritto all’educazione e sulle attività a tutela di essa. La costruzione del muro contribuisce a limitare e a rendere difficoltosa la tutela e l’esercizio di molti di questi diritti. La corte non ha avuto nessun problema ad identificare le violazioni riguardanti le norme della IV Convenzione di Ginevra. Violazioni che si inseriscono nello sfondo più ampio relativo alle norme sui diritti umani (le norme sui diritti umani si applicano a titolo generale, mentre quelle di diritto umanitario a titolo di lex specialis in quanto vi è occupazione militare). L’art. 47 è fatto divieto di privare la popolazioni dei benefici derivanti dalla convenzione, non sono ammessi mutamenti di regime a seguito di occupazione militare; l’art. 49 è fatto divieto di trasferimento forzato, di deportazione, evacuazione, ecc. La corte, facendo riferimento a quest’articolo, ha porre l’attenzione sulla questione sugli insediamenti dei coloni (vietati dalla Convenzione). Gli insediamenti coloniali hanno spesso stravolto il tessuto territoriale e sociale dei territori. Tale stravolgimento è stato in talune parti tanto profondo da risultare insopportabile per la popolazione araba che ha preferito emigrare. Uno stravolgimento del tessuto demografico de facto, censurato dalla corte. In alcuni tratti il muro dovrebbe servire a difesa degli insediamenti dei coloni. È questa situazione che 180 la Corte censura riferendosi al VI comma dello stesso articolo: la costruzione del muro nei territori occupati e il carattere permanente di esso potrebbe favorire il cristallizzarsi di certe situazioni e ad una annessione di fatto di porzioni di territorio. Le difficili condizioni di attraversamento del muro mettono in difficoltà l’applicazione dell’art. 52 sul diritto dei lavoratori. Sono considerati violati l’art. 53 contro le distruzioni, i saccheggi, le confische di beni e l’art. 59 sul sostentamento della popolazione, sul divieto di impedire l’invio di aiuti (cibo, vestiario, medicinali). La chiusura ermetica dovuta al muro implicherebbe la violazione di tale articolo. La corte contesta inoltre l’argomento di fondo adottato da Israele a sostegno del muro: la necessità di legittima difesa. La posizione della Corte è che non si applica il diritto di legittima difesa nei territori. La potenza occupante è limitata nel suo operato dal diritto della Convenzione di Ginevra e non può appellarsi ad altre norme o far riferimento, in astratto, a operazioni militari strettamente necessarie. Essa non ha diritti esterni rispetto a quanto stabilito dalla convenzione. Le operazioni militari sono solo quelle previste, si tratta di un sistema chiuso. La potenza occupante può reagire a specifiche e concrete minacce alla sua sicurezza, e può difendersi entro limiti ben stabiliti. Per la Corte quindi, Israele non può invocare, in generale, il diritto di legittima difesa dei suoi confini per giustificare la costruzione del muro. Occorre dire purtroppo che su questo punto la corte ha mostrato troppa superficialità. Essa ha liquidato la questione con troppa facilità sostenendo che il muro non costituisce una misura di legittima difesa perché ai sensi dell’art. 51 la legittima difesa si applica contro un attacco armato proveniente dall’esterno. Né rientrano in questa fattispecie gli attacchi terroristici, in quanto questi ultimi non provengono dall’esterno (Israele sostiene invece che gli atti terrori181 stici siano veri e propri attacchi provenienti dall’esterno e volti a minacciare l’integrità dello stato). La questione è controversa. Recenti risoluzioni delle Nazioni Unite, la 1268/01 e la 1237/01 (entrambe emanate dopo i fatti del 2001 a New York) in materia di attacchi terroristici, considerano questi ultimi come minacce alla pace internazionale. La conseguenza è che uno Stato vittima di tali attacchi può invocare la legittima difesa e avvalersi lecitamente dell’art. 51 della carta. È opportuno notare che la questione – atti terroristici/attacchi esterni o territori outside/inside – non è di scarsa importanza, perché nel secondo caso buona parte dell’impianto messo su dalla corte (divieto di annessione, occupazione) verrebbe a cadere. 182 7. La cultura della cittadinanza nella Nuova Europa di Alessandro De Lisi * In questi tempi, assai votati alla frammentazione dei linguaggi e dei significati, corre l’obbligo di trattare le parole come se fossero in uno stato permanente di pericolo di annientamento. Le parole, come se fossero sistemi meccanici, necessitano di manutenzione, per scansare e risolvere il pericolo che si guastino. In occidente, la società delle comunicazioni sta rivelando in pieno la propria fragilità, le parole si sgretolano come fossero d’argilla e con esse i significati, i concetti, la dignità storica e umanistica conquistata nei secoli. In questa crisi culturale, il cittadino si ritrova ad usare delle parole sfinite dalle guerre e dal terrorismo ideologico. La cittadinanza, altresì, concorre ad un gigantesco, macabro, social game, come un rebus, alla ricerca di nuovi significati o concetti adeguati, imponendo una visione ansiosa. Risulta necessario, prima di individuare la sufficienza delle parole, rivedere i comportamenti, le dinamiche collettive ed i riti sociali che legano le persone ai valori culturali. Insomma, il cittadino incontra un ennesimo problema di coscienza di sé, di ruolo attivo e creativo, già individuabile nella ricerca politica di Antonio Gramsci: “...un uomo che voglia vivere il proprio tempo in modo consapevole deve tendere a ricomporre una visione disgregata e occasionale, dan- * Giornalista. 183 do una forma universale...”. Il pensatore sardo, già nel 1929, dal carcere di Turi, poneva come snodo sostanziale della propria formazione culturale e del proprio, successivo, modo di agire politico, la ricomposizione del “discorso umano” del singolo, quindi, delle vicende private multiple, generatrici di interessi pubblici. La fragilità delle parole può provocare quindi la dissoluzione delle identità. Si disperdono i ruoli di ogni singolo componente sociale, uomini e donne privati della percezione di essere e di intervenire, proprio per l’inadeguatezza dei linguaggi condivisi. Inoltre, i fatti bellici e gli attentati dei terroristi gettano inevitabilmente nel buio i processi di definizione verbale e sociale della maggioranza della cittadinanza. La famiglia perde senso e solidità morale, le istituzioni democratiche si paralizzano appena si scoprono inadeguate e il respiro vitale della società, quel dare e avere cultura e idee dalle moltitudini etniche, cessa di colpo. Parole fragili, istituzioni deboli e scarsa affluenza culturale generano, una nuova, inaspettata, geografia dei frammenti, una geografia minima e molto spesso malata. Adesso, quindi, riorganizzare l’amministrazione delle nozioni, dei significati, delle definizioni giuridiche in base alla mutata configurazione culturale, dovrebbe essere il primario scopo della classe intellettuale. Molto prima di puntualizzare in un elenco i diritti umani, sarebbe opportuno concentrarsi sulla definizione dei valori umani. È possibile, amplificando la scala delle dimensioni, vedere l’Europa stessa come un valore? Possiamo trasportare le esperienze tremende come il fascismo, il nazismo o lo stalinismo e successive declinazioni, le carestie, i terremoti, le inondazioni e le pestilenze, in un territorio morale che possa contribuire alla formazione della nuova fisionomia etica europea? Quanto tempo resta a disposizione per diventare consapevolmente europei? Queste domande, vittime anche 184 esse della fragilità verbale, accompagnano il tentativo amministrativo di distribuire diritti agli esseri umani, di organizzare la pratica civile, di conformare un corpo giuridico internazionale. Tuttavia appare come pratica diffusa il trattare le conseguenze materiali della fragilità culturale e concettuale come un problema esclusivamente logistico. In questo panorama sembra assai più probabile il verificarsi di cortocircuiti sociali, economici e politici che rischiano di annientare la comunità amministrativa ed estetica europea. Si è richiamati quindi all’interpretazione di questa geografia minima, spesso attraversata da incomprensioni politiche così particolari da preferirne l’oblio immediato. Esiste una casistica che pone quesiti complessi, a causa delle particolari condizioni politiche e culturali nelle quali si sono sviluppati gli eventi. Possiamo usare due casi di vicende collettive traumatiche, veri e propri accidenti che hanno effettivamente mutato il modo di comprendere e di esercitare il diritto, che per una serie di similitudini, ambientali ed economiche, rivelano l’inadeguatezza del sistema italiano. Intanto si tratta di elencare, come in un indice dei nomi e delle cose notevoli, i protagonisti e i luoghi delle vicende, nonché il tempo dei fatti. Sopra ogni elemento si vuole prima però evidenziare la volontà, da parte delle persone coinvolte, di diventare cittadini europei tutelati da una democrazia. Il luogo delle vicende è il Mar Mediterraneo. Meglio specificare che si parla del tratto Adriatico, in un primo momento, e del Canale di Sicilia poi. Meglio ancora è dare un nome ai luoghi dove effettivamente si consumarono le vicende dei protagonisti: Fairsea, Flaminia, Toscana, Castelverde e poi Yohan e F-174. Erano navi. I protagonisti erano cittadini esuli. Esuli esattamente nella definizione da dizionario: “chi va o è in esilio”. Tutti, avendo subito un trauma culturale, in senso sociologico ed economico, furono 185 costretti a ricercare in un’altra comunità umana le condizioni di garanzie civili. Per il nostro tentativo di dare una definizione nuova, o meglio uno strumento che possa ridefinire il significato culturale di cittadinanza europea, è sostanziale rintracciare il ruolo inadeguato che ebbe la comunità politica italiana. Tra la fine del 1944 e il 1961, oltre 250.000 abitanti della penisola istriana, della regione della Dalmazia, soprattutto delle città culturalmente e sostanzialmente italiane di Zara e Fiume, dell’arcipelago del Quarnaro, tentarono di trovare ospitalità nel territorio giuliano, in altre parti settentrionali del Paese e infine, in maggioranza si dispersero per molte vie di emigrazione. Questi cittadini, una volta dissolto l’impero austro-ungarico, trovarono nel sistema culturale italiano l’insieme di valori di riferimento. Cucinavano da italiani, vestivano da italiani, corteggiavano da italiani e soprattutto parlavano italiano: conducevano una vita sostanzialmente regolata da un sistema borghese con al centro la famiglia e l’orgoglio di appartenere alla nazione che aveva prodotto il Rinascimento. Oramai è noto che questi italiani istriani non sopportarono l’ascesa e il collasso del fascismo, il patto mortifero con Berlino, né poterono tollerare, dopo il 1943, il regime di terrore organizzato nei territori alpe-adriatici annessi al Reich hitleriano. Allora resistettero e per tal fine si organizzarono, uniti da un medesimo sistema culturale di riferimento. Alla fine della guerra, dopo la spartizione della geografia dei vittoriosi, i centri dell’estremo lembo orientale d’Italia risultarono devastati, dimenticati, ceduti. Il centro delle trattative diplomatiche post-belliche si spostò nella città di Trieste, in un territorio elettrico, sperimentale, ibrido, libero soltanto nel nome, amministrato dalle forze anglo-americane. Intanto nei territori ancora carsici, sotto molti aspetti completamente Carnia, iniziò la caccia alle etnie ritenute non slave da parte del 186 nuovo potere yugoslavo titino. Per semplificare l’alibi, i persecutori preferirono definire fascisti tutti gli abitanti italiani finiti oltre cortina da espatriare o uccidere. Il Maresciallo Tito aveva vinto la guerra e i sovietici erano portatori di un nuovo sistema culturale molto forte, semplificato, didascalico, anti-intellettuale, che serviva da falsa identità alla persecuzione etnica. Per la ricca e complessa comunità italoistriana non vi fu più spazio né ragione economica per poter rimanere nelle terre italiane orientali. Gli esuli tentarono l’unica strada culturalmente coerente: trasferirsi in territorio italiano, a Trieste, in Friuli, comunque a ovest del Carso. Ecco accadere il primo esemplare accidente democratico: nel 1945 l’Italia era totalmente impreparata all’accoglienza. A causa della terribile crisi economica e sociale, la minoranza perseguitata non venne percepita a rischio di dissoluzione culturale. L’Italia non era ancora de-fascistizzata, nella pubblica amministrazione come nella rete delle amministrazioni locali; non sostenne quindi alcun processo radicale per sviluppare le interconnessioni con le minoranze linguistiche e culturali (si guardi alla dissoluzione ed alla persecuzione della cultura ladina). In questo scenario debole, si consolidò il concetto di cultura superflua, non immediatamente assimilabile alla maggioranza territoriale. Risultò infatti superflua, per l’economia e per la politica italiana, anche la componente istriana in fondo troppo slovena per essere veneta. Questo è il caso più importante di cittadini innegabilmente europei, in una percentuale elevata spesso borghesi e aristocratici per abitudini, culturalmente austriaci, che non riuscirono a diventare protagonisti della costruzione europea. Dal 1945 gli istriani si imbarcarono su navi traghetto, adatte solamente all’alto Adriatico, per attraversare l’oceano fino all’Australia, alla Nuova Zelanda e anche fino al Canada. Salparono la Flaminia, la Fairsea e la Toscana, 187 l’ultima fu la Castelverde, praticamente un vaporetto, con il loro carico umano e di drammi culturali irrisolti. In tasca gli esuli avevano il rebus delle carte di identità: documenti in lingua italiana, su carta intestata inglese (fino al 1954, anno in cui Trieste ritornò italiana) con la specifica che indicava il possessore come apolide. Partivano per i continenti oceanici, senza immaginare l’Europa unita, senza nemmeno immaginare l’esistenza del manifesto di Ventotene del 1941, dove la luce intellettuale di Spinelli e Rossi impiantò, nel corpo politico italiano, l’embrione vivo della pratica europeista. La Carta, nata durante il confino fascista dal dibattito delle intelligenze più acute dell’Italia di allora, rimaneva tuttavia un programma ancora molto distante dall’essere strumento del diritto, realtà amministrativa di intervento, scenario normativo adeguato alle esigenze delle cittadinanze. Dobbiamo però sostanzialmente notare che la triste condizione di migranti degli istriani generò un flusso normativo di forte innovazione nei Paesi di arrivo, soprattutto nella società australiana. In meno di un decennio, gli ultimi venuti, normalizzata la loro presenza sul territorio, passarono dalla soddisfazione delle esigenze ritenute principali, come l’acquisto di una casa o di un’automobile, alla piena integrazione sociale. Questo processo positivo di integrazione multilaterale è stato possibile grazie ad una cultura politica disponibile e profondamente cosmopolita. Tale organizzazione amministrativa “aperta” al multiculturalismo produsse e produce un regime normativo e legislativo di riferimento, tanto evoluto da considerare la nazionalizzazione degli stranieri come specifico prodotto democratico. Nei fatti, quindi, si “consuma” più democrazia quando non vi è l’assillo di difendere un’etnia storica, anche di minoranza. Condizione che l’Italia non fu capace di affrontare e che stenta ancora oggi a comprendere. Questo è il nodo nella costituzione della società europea 188 reale contemporanea: verificare, prima di tutto, l’indice di cambio dei valori, come una Borsa delle esperienze culturali, fra le etnie e fra le classi sociali, al fine di garantire un perimetro civile di sicurezza relativa. In Italia l’unico posto possibile dove incardinare e organizzare questa intermodalità dei valori e delle esperienze, sarebbe la scuola e ancora meglio l’università. Proprio questa progettualità appare oggi inesistente. Difatti si continua a interpretare, seguendo una visione keynesiana datata, i nuovi ingressi nel Paese come emergenza organizzativa e la permanenza di altre etnie come capitale sociale, forza lavoro, consumo potenziale, ma mai come sviluppo culturale giuridico. I critici del multiculturalismo, spesso legittimati dalle condizioni storiche deviate dal fondamentalismo, si nascondono in una necessità neo-eurocentrica, controriformista ed indirizzata alla speculazione elettorale. Inoltre, il terrorismo internazionale, conoscendo benissimo i punti sensibili dell’occidente, opera in sostegno della cecità giuridico-economica dei Paesi europei e cerca di non dare ad alcuna società civile la possibilità di organizzare una piattaforma di scambio dei reciproci valori umani. Qualcuno, poco tempo fa, in Italia, sosteneva la necessità di cannoneggiare le barchette mediterranee con il loro carico umano. L’imprudente così ha fatto della massima maoista, “colpirne uno per educarne cento”, una capriola ideologica! Certo è possibile che nel carico clandestino si annidi il terrorista, il temibile “saraceno”, l’anticristo, che con cieca violenza si opponga al sistema dei valori occidentali, ma abbiamo constatato molte volte, che l’orrore può essere residenziale, aereo e tecnologico. Altro fatto, altri protagonisti. Il 25 dicembre del 1996, nel Mediterraneo europeo, accade il peggiore naufragio dalla fine della seconda guerra mondiale. Nel Canale di Sicilia muoiono trecento persone, fra le 189 quali, pakistani, indiani e tamil, nell’affondamento della, precedentemente citata, F-174, una barca in resina con un vecchio entrobordo, comandata da scellerati commercianti di esseri umani. Diversamente dagli istriani, dei quali viaggi ci restano fotografie e diari, narrativa di spessore, di questi altri esuli rimangono i ritratti ripescati dalle reti dei marittimi siciliani. Giovanni Maria Bellu, nel suo libro civile, scrive le storie dei morti di Natale, del loro ripescaggio e definitivo abbandono nella tomba liquida. Tutta la ricerca giornalistica di Bellu è tesa a dimostrare l’umanità dei numeri, della clandestinità, della debolezza economica delle comunità del meridione del mondo. Ogni storia narrata, la terribile sorte delle vicende umane che tendono a ripetersi, provoca sgomento per l’attualità, per l’ignoranza crassa dimostrata dalle leggi e dai tutori della Repubblica. In estate, durante le ferie degli italiani normali, il trauma degli sbarchi, dei voli di rimpatrio, dei centri di permanenza temporanea, continua ad essere materia inerte ripetitiva, adatta per fabbricare i titoli dei giornali. Si dimostra così l’impreparazione nella, certo difficile, costruzione di aree di scambio culturale da parte europea. Si continua a dimostrare che nell’analisi dei costi per la prevenzione del crimine e quindi del necessario isolamento dei rei potenziali in strutture ad hoc, manca totalmente il fattore culturale originario, diciamo di provenienza, dei nuovi arrivati. L’Europa non vuole evidentemente organizzare un codice normativo transnazionale, prima sociologico che giuridico, continuando una politica semantica arcaica, infine sorpassata dai fatti dell’era globale. A sostegno della necessità di cominciare ad elaborare un sistema immunitario a difesa dei valori umani, specificando che in questo momento è in gioco la sopravvivenza dell’Occidente come a noi è noto, possiamo ritornare a guardare al fenomeno istriano. 190 Gli italiani d’Istria, come del resto i tamil, divennero superflui nella programmazione etnica ed economica del territorio di origine, dove una nuova identità voleva e ottenne la supremazia culturale. A questo punto la fuga, il viaggio e l’arrivo in una completamente diversa geografia, dove ricostruire il ruolo comunitario, riconoscere il linguaggio e infine comunicare le proprie necessità. Ma il viaggio istriano stesso, a differenza di quello dei trecento annegati nel canale siciliano, iniziò nel cuore dell’Europa, luogo noto, connotato da una direttrice culturale e democratica robusta, dove questi cittadini europei, definiti apolidi dalla burocrazia, erano comunque portatori di un sistema culturale in larga parte comune anche agli australiani. Le differenze fra i popoli e la dinamica amministrativa diversa furono risolte dalla possibilità di far partecipare i nuovi arrivati alla produzione giuridica del Paese oceanico. Il caso dei morti del Canale di Sicilia, nella notte di Natale come in una favola sottosopra, macabra coincidenza di luoghi biblici di vita e di morte, nello stesso “mare civile” come lo ha definito Fernand Braudel, evidenzia l’ipocrisia normativa delle democrazie mediterranee. Il mare sembra di nessuno, le vicende fuori le mura, oltre la terraferma, sono destinate al mistero. La verità economica del clandestinismo oramai internazionalmente organizzato, ideologico e diffuso come commercio a scopo politico di esseri umani, non trova la durezza che ci si aspetterebbe, dalle democrazie occidentali, nel colpire i vertici delle organizzazioni criminali. Questa debolezza europea, questa assenza di trattati operativi reali, comuni codici penali e comuni tecnologie preventive, relega la lotta per i diritti umani ad una forma di esercizio giuridico-culturale di élite. La definizione di un così imponente problema umanita191 rio, problema linguistico e sostanziale se si confrontano le differenti visioni civiche dei Paesi antipodi, tende ad essere apocalittica. Pertanto non bastano le definizioni conosciute per disegnare il ruolo del cittadino e quindi della cultura della cittadinanza. I fatti, i morti nel mare, le famiglie in attesa di notizie sui congiunti, hanno sorpassato in velocità il significato delle parole, obbligando l’Occidente ad elaborare una nuova economia dei sentimenti e dei diritti personali. In questo panorama civile innovativo si incontrano molti “predoni”, banditi delle parole, alla ricerca di un bottino mediatico, televisivo, immediato, che possa muovere le coscienze sull’onda emotiva, solo per contrastare l’emergenza. Tra i sabotatori peggiori del processo di produzione delle infrastrutture culturali internazionali, vi sono, ovviamente i terroristi professionisti. Questo terremoto civile, questa nuova visione globale dei crolli di tutte le sicurezze sociali, obbliga gli intellettuali alla partecipazione interdisciplinare nella definizione di un originale comune senso del pudore civile. Insomma è necessario, dato il pericolo di dissoluzione delle garanzie politiche, contribuire ad un disegno cognitivo, economicamente sostenibile, condiviso, di territorio intercontinentale dei valori umani. La difesa di tali valori e la promozione dei diritti individuali devono essere intesi come la nuova heimat immateriale alla quale sentirsi indissolubilmente legati. Tornando al di là dell’Oceano Pacifico, forse possiamo trovare un punto di partenza per elaborare una metodologia comportamentale ed introdurre il principio del fallimento come ricchezza sociale. Il caso di empatia civile, in Australia, fra vecchi cittadini e nuovi arrivati ha reso possibile il consolidamento di una piattaforma di interscambio culturale. Da questo comune perimetro di educazione civica è stata edificata una Carta Costituzionale disponibile verso chi australiano vorrebbe diventarlo. 192 Vista così la scena del continente oceanico sembrerebbe idilliaca, con gli istriani testimoni privilegiati del “paradiso del diritto”: tragicamente non lo è. Un numero imprecisato, comunque molte migliaia, di aborigeni sono stati sterminati nella prima metà del novecento, nel bush interno e inospitale, la loro cultura orale e la loro millenaria simbologia sacra è stata definitivamente compromessa dalla colonizzazione. Oggi, riconosciuti come cittadini soltanto nel 1967, gli aborigeni vivono in una specie ibrida di “riserve”, parchi culturali protetti, terribilmente avvilenti. Il confronto riuscito, fra i cittadini non nativi di origine, gli inglesi colonizzatori e le altre nazionalità europee, premetteva come condizione indispensabile la visione occidentale, industriale, dei valori umani, dove il media privilegiato fu la religione di comune ceppo cristiano. A fronte di questo ulteriore accidente storico, si impone una riflessione sui metodi e sugli elementi necessari all’elaborazione di un comune codice culturale che non trascuri nessuna componente etnica e sociale. I diritti umani, la loro amministrazione, la loro garanzia, la loro gratuità, sono condizione non mezzo, pertanto le forze intellettuali devono soprattutto sostenere e promuovere una solida economia del dialogo. In questo paesaggio più attento, possiamo provare a sostenere l’introduzione del principio economico del “fallimento come potenziale di crescita” nel perimetro delle necessità morali per l’elaborazione dei diritti umani. L’economista americana Anna-Lee Saxenian sostiene, in un’ampia ricerca condotta nella Silicon Valley e nel New England, che quelle imprese di ricerca e di innovazione tecnologica che abbiano commesso errori di valutazione o di procedura produttiva siano, effettivamente, più solide e affidabili. Gli errori che possano essere stati commessi dai progettisti dipendenti, una volta analizzati, codificati, stu193 diati a modello e distribuiti come conoscenza a tutti i settori aziendali, costituiscono un capitale assicurativo: di fatto non si può ripetere il medesimo errore senza dolo. Se provassimo ad adattare all’organizzazione sociale e politica questo principio, potremmo ottenere una produzione giuridica di migliore qualità umanistica. L’errore commesso in Australia, dove un’intera porzione della popolazione è stata emarginata e offesa dalle leggi e dal diritto, serve oggi in molti Paesi di riferimento anglosassone come “spia” sulla qualità del prodotto giuridico. Il caso degli aborigeni serve soprattutto alla compenetrazione fra sistema legislativo e ambiente culturale, determinando, almeno allo stato potenziale, un flusso di informazioni adatte alla codificazione dei diritti umani. Non è possibile, invece, indicare la tragedia siciliana come errore “stimolatore”. Tutti i morti in mare, il voltafaccia dello stato di diritto, l’incompetenza della comunità intellettuale, producono soltanto l’orribile risultato della somma delle debolezze italiane. Certamente sarebbe auspicabile considerare urgente la puntualizzazione delle necessità giuridiche improrogabili nel nostro Paese, dato che le morti dei non europei sono quotidiane quanto quelle europee, a causa della primitiva attività del terrorismo. Il diritto umano ad una vita degna dovrebbe essere difeso quanto quello ad una morte degna: si muore e si viene uccisi senza sapere cosa profondamente anima l’assassino, si occultano i motivi economici e morali della nuova barbarìa, se ne sottovalutano i rancori. “La conoscenza è più efficace di uno scudo” scriveva Elias Canetti, in mezzo al novecento e alla disperazione della guerra mondiale, come monito per la sopravvivenza. Sostenere una più adatta metodologia cognitiva per definire i diritti umani, partendo dalla definizione dei valori, significa 194 quindi mutare l’approccio con gli errori. Il mezzo tecnologico, elemento indispensabile per lo sviluppo delle comunicazioni e soprattutto il libero accesso ai terminali interattivi del sistema devono essere garantiti dalle democrazie evolute. Questa partecipazione, questo contributo culturale attraverso la comunicazione diffusa, risulta ad oggi una delle migliori forme di opposizione a quella geografia minima, frammentata e inevitabilmente debole voluta dai totalitarismi e dai terrorismi. A questo punto, per definire meglio la percezione del perimetro storico dentro il quale organizzare i diritti e assicurarne la corretta distribuzione, è necessario ricordare la radice semantica e il preludio filosofico della rivoluzione francese. Questo momento irripetibile della storia di Francia garantisce un dibattito assolutamente ancora vivo, polemico e contraddittorio sul principio stesso di diritto umano: la libertà, come l’uguaglianza e la fratellanza sono ancora diritti naturali? Ecco che si impone la necessità di chiarimento suggerita da Norberto Bobbio, sulla specifica natura dei diritti fondamentali: “i diritti dell’uomo, per fondamentali che siano, sono diritti storici, cioè nati in certe circostanze, contrassegnate da lotte per la difesa di nuove libertà contro vecchi poteri, gradualmente, non tutti in una volta e non in una volta per sempre. […] La libertà religiosa è un effetto delle guerre di religione, le libertà civili delle lotte dei parlamenti contro i sovrani assoluti, la libertà politica e quelle sociali dalla nascita, crescita, e maturità del movimento dei lavoratori salariati, dei contadini con poca terra o nullatenenti, dei poveri che chiedono ai pubblici poteri non solo il riconoscimento della libertà personale e delle libertà negative. Ma anche la protezione del lavoro contro la disoccupazione, e i primi rudimenti contro l’analfabetismo, e via via l’assistenza contro l’invalidità e la vecchiaia…”. Questa visione suggerisce la risposta storica 195 alla questione della maternità dei diritti di origine illuminista. Appunto i diritti, figli di società per definizione mutevoli, sono soggetti ad erosioni, possono cambiare posizione nella scala delle priorità ideali, poiché nascono nuove aspirazioni e si trasmettono in modo differente. Certa rimane la genetica sociale dei diritti storici o fondamentali, ma come lo stesso Bobbio richiama, vi sono nuove generazioni di diritti, non previsti dal codice rivoluzionario d’Oltralpe. Possiamo osservare, ad esempio, il concetto stesso di diritto a vivere in un ambiente non inquinato, molto presente in questi anni di battaglie ecologiste, dal significato assai mutevole: in dipendenza della latitudine nella quale venga definito l’inquinamento stesso. La super produzione industriale del nord del pianeta, del bacino della Ruhr per esempio, determina una polluzione atmosferica negativa per la salute dei cittadini; allo stesso modo però si può definire inquinante la pressione persecutoria costante operata contro ogni cittadino cinese o coreano dal regime al potere. Le emergenze ambientali tuttavia non sono identiche né vengono percepite allo stesso modo da tutti i cittadini del mondo: un tedesco non passeggerebbe mai ai limiti di un grande svincolo autostradale ma un coreano, dissidente dal regime comunista, lo attraverserebbe di corsa mille volte per fuggire all’oppressore. Così la negazione del diritto ad una Patria, alla libertà culturale e linguistica, al culto, alla salute, all’istruzione, alla famiglia, è identica per un tamil e per un istriano, ma il valore stesso che gli viene attribuito, da questa o quella comunità, li distribuisce in una scala di dimensioni differenti. Certamente vi sono diritti inviolabili, almeno sulla carta, come il diritto a non essere torturati oppure il diritto a non essere schiavi, ma per molti esseri umani neanche questi sono garantiti. Tutti i diritti, comunque, possono subire il deterioramento e trasformarsi in status, una volta privati 196 del riconoscimento universale di valori umani. In nome della virtù umanitaria, molto spesso si compiono commerci politici, scansando in acrobazia la stessa forma morale che si difende, finendo così per irrobustire il totalitarismo che si vorrebbe contrastare. Si rischia, se la distribuzione giuridica dei diritti sociali non è preceduta dalla condivisione culturale tra tutte le comunità presenti nel territorio amministrato politicamente, di ridurre la puntualizzazione dei diritti stessi a semplice atto di consumo. Questo rischia di trasporre il diritto a bene di consumo, al quale verrà assegnato un’equivoca soglia di accesso. Ecco come ridurre la natura dei diritti della Rivoluzione Francese ad una collezione terminologica antiquata. Per contrastare la debolezza dei termini, la suscettibilità delle parole e delle istituzioni preposte alla loro garanzia, è necessario tornare a definire il metodo per descrivere i valori umani universali. Innanzi tutto è necessario ricorrere ad una simbologia chiara e forte, che con la stessa solidità contribuisca a non peggiorare la confusione contemporanea. Ad esempio, non deve crollare la certezza di poter essere difesi, a qualunque comunità si appartenga, gratuitamente dall’insieme delle nazioni più sviluppate: in caso di calamità umanitaria come nella programmazione di infrastrutture giuridiche che assicurino l’accesso al diritto legittimo. Le regole semiotiche dovranno essere permanentemente aggiornate dalle comunità intellettuali, supportando la politica, al fine di condizionare le capacità di apprendimento dei cittadini. Queste comunità operative sono le università, le loro associazioni studentesche, gli organi didattici, i bilanci degli atenei, le somme governative per la ricerca. I mezzi per praticare questa pressione culturale, tendente a rafforzare la politica, possono essere soprattutto le nuove reti tecnologiche, le conversazioni globali e lo spirito di 197 libera accessibilità ad esse, così da rompere lo stereotipo della globalizzazione mostruosa, vista a volte come una sorta di golem cannibale e corrotto. “L’uomo è nato libero ed è ovunque in catene”. Con questa sciabolata, che descrive il guaio della modernità, Jean Jacques Rousseau dà inizio al Contratto Sociale, testo impalcatura dell’organizzazione della società della cittadinanza. Infatti la distanza che intercorre fra l’enunciazione del diritto e la sua applicazione è propriamente il nostro disagio: la puntualizzazione del divieto di rendere l’uomo schiavo è, per la maggioranza del Pianeta, utopia politica e mai pratica amministrativa. Il commercio degli uomini attraverso il mediterraneo, la loro riduzione a materia intelligente per la produzione industriale occidentale è nei fatti la distruzione dei trattati internazionali. In questo clima regge solamente l’ipocrisia, sancita e certo condannata dal filosofo francese, dove anche la Dichiarazione Universale è in crisi. La crisi delle parole, la loro fragilità, esplode in pieno contro le Istituzioni democratiche, nel momento stesso in cui la diffusione della Dichiarazione dei diritti è sottomessa al riconoscimento da parte degli Stati che la applicano. In effetti la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo esiste solo in alcuni Paesi ovvero laddove è riconosciuta, rimanendo spesso una professione di volontà culturale. Questo sbilanciamento fra parole e azioni può provocare altri accidenti umani, come il nazismo, che fu il massimo orrore del verbo, o peggiorare in una condizione di incomprensione permanente globale a sfondo religioso. Fu figlia dell’incomprensione la diaspora istriana, come quella tamil, appurato che la distribuzione dei territori, delle maggioranze, dei chilometri quadrati da parte dei vittoriosi, non difese la cultura sociale. Le comunità intellettuali precedentemente citate, chia198 mate a fronteggiare l’emergenza terminologica, devono indiscutibilmente concentrare gli sforzi sulla condizione umana universale per rielaborare un quadro completo dei valori globali. Questo contributo intellettuale dovrebbe servire come supporto dinamico alla comunità dei giuristi, così che essi possano elaborare una piattaforma di norme adatte, che assegnino, in piena consapevolezza, la sanzione al delitto umanitario, ovunque commesso. Si compie un errore di lettura quando si definiscono deboli, in questo contemporaneo momento, le istituzioni europee. Non è dalla debolezza che risulta afflitta l’Europa, bensì dalla confusione e dalla povertà degli strumenti operativi giuridico-culturali. Gli ultimi anni hanno portato un contributo storico di enorme accelerazione economica, di unificazione monetaria, di consolidamento dei mercati, senza però definire eventi adatti alla maturazione del dialogo fra i popoli. Con una metafora potremmo descrivere il senso di disagio attuale: abbiamo salvato la dispensa ma abbiamo dimenticato la biblioteca e il guardaroba d’Europa. Questo malessere, diffuso a tutti i Paesi dell’Unione, nel comprendere le differenze culturali, definirne le mutazioni, le confluenze, ha portato la politica ad uno scontro sui temi religiosi. Gli europei sono tutti di origine cristiana? La cristianità è una radice davvero comune? Questi capziosi quesiti hanno animato per mesi le componenti istituzionali comunitarie, nel tentativo di affermazione egemonica del principio di comunione religiosa, svilendo il tesoro morale originario a tutti i popoli d’Europa. Alla fine della poverissima polemica politica, nel preambolo del trattato costituzionale europeo non è stato inserito il riferimento alla cultura delle religioni, sostanziale per la definizione dei valori comuni. 199 Si è preferito, pavidamente, non usare l’architettura dogmatica comune, storicamente mediterranea, come media popolare diffuso, per trasmettere quella necessaria ricerca e difesa dei valori umani. Questa scelta di comodo complica molto la definizione e la successiva comprensione delle aree filosofiche e giuridiche dedicate alla formazione delle società moderne, cioè costringe in perimetri legnosi l’insieme dei valori umani universali, la puntualizzazione dei diritti e infine l’esercizio della cittadinanza. Proprio la negazione del diritto di cittadinanza, che non era e non è tutt’ora percepito, da molti governi fondamentalisti, come fenomeno di progresso culturale ed economico, ha unito le vicende storicamente lontane degli italiani d’oriente e dei naufraghi della notte di Natale. Rimarranno casi esemplari, per l’assenza di strumenti giuridici operativi, di fallibilità sistematica della comunità internazionale, conservando, nelle tragedie, la distanza siderale tra i produttori di norme e gli aspiranti consumatori di democrazia. Possiamo infine lasciarci ispirare, nel metodo analitico a premessa dell’azione politica, da un ebreo sefardita, di mestiere pittore e poeta per vocazione: Marc Chagall. Dopo la narrazione di intere comunità tradite, popoli messi sottosopra dalle guerre e dalla piena incapacità dei sistemi istituzionali, è giusto approfittare del singolo uomo pittore. Un artista, quando decide di dipingere onestamente, può ritrarre un soggetto alla volta. Non esiste buona pittura quando si è troppo preoccupati della storia universale. Il pittore dipinge un uomo, un cavallo, un paesaggio, l’idea dell’immagine di dio, sempre tenendo conto della fallibilità del significato universale. Egli si preoccupa di raccontare a colori e a segni una storia privata, domestica, che possa alleggerire il ruolo storico dell’uomo. La pittura parte sempre da un’esigenza di leggerezza e di attenzione, di silenzio. Chagall, nel 1915, dipinse la semplice 200 storia di un compleanno: il protagonista regala alla sua amata un mazzolino di fiori di campagna, la bacia, ed improvviso vola nella piccola stanza dal pavimento rosso. Una finestra, con educate tende di pizzo, guarda fuori da questo microcosmo composto da un letto castissimo, uno sgabello e dai pannucci attaccati alla parete di muratura. Questa leggerezza è una condanna all’orrore degli eroi, delle medaglie e del progresso, dove un uomo e una donna rischiano l’eternità solo se ritratti, ricordati, con questo amore reciproco che rimane universale. Forse bisognerebbe tornare ad essere attenti agli interni, come questo di Chagall, così da essere più vicini alla singolarità degli esseri umani, al ruolo stesso di quotidianità del valore e del diritto. - RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI N. BOBBIO, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 2005. I. F. WALTHER – R. METZGER, Chagall, Taschen, Koln, 2000. B. CHATWIN, Le vie dei canti, Adelphi, Milano, 1995. R. PUPO, Il lungo esodo, Rizzoli, Milano, 2005. G. M. BELLU, I fantasmi di Portopalo, Mondadori, Milano, 2004. E. DE LUCA, Solo andata, Feltrinelli, Milano, 2005. A. L. SAXENIAN, Il vantaggio competitivo dei sistemi locali nell’era della globalizzazione, Franco Angeli, Bologna, 2002. E. CANETTI, La lingua salvata, Adelphi, Milano, 2005. A. GRAMSCI, Lettere dal carcere, Einaudi, Torino, 1997. J. J. ROUSSEAU, Il contratto sociale, Laterza, Bari, 1997. P. CORTI, Storia delle migrazioni internazionali, Laterza, Bari, 2003. C. CROUCH, Postdemocrazia, Laterza, Bari, 2003. M. BELPOLITI, Crolli, Einaudi, Torino, 2005. A. SPINELLI – E. ROSSI, Il manifesto di Ventotene, Celid, Torino, 2004. F. BRAUDEL, Il Mediterraneo. Lo spazio e la storia, gli uomini e la tradizione, Newton & Compton, Roma, 2002. 201 8. Ci sono anche diritti dei minori? di Lino D’Andrea * Come Cesvop abbiamo sostenuto non solo materialmente, ma anche moralmente, la realizzazione di questo seminario, in quanto crediamo che siano fondamentali i momenti di confronto tra varie esperienze sul tema dei Diritti e pensiamo che sia necessaria per noi volontari la conoscenza delle leggi e delle esperienze che li garantiscono. Spesso proprio come volontari ci troviamo a rivendicare non la dignità degli ultimi, ma il diritto di cittadinanza. Oltre ad essere rappresentante del Cesvop, sono Presidente dell’Associazione di volontariato “Arciragazzi Palermo”, da 25 anni mi occupo di giovani, ragazzi, e tutte le problematiche a loro connesse, in particolare da anni tento di diffondere e praticare la CARTA DEI DIRITTI DEI MINORI, approvata dall’ONU il 20 novembre del 1989. Differentemente da altri testi e dichiarazioni internazionali, la Carta dei Diritti è un testo che, sottoscritto dagli Stati del mondo diviene in essi legge da rispettare. Per tale ragione non è una dichiarazione ma una Convenzione (in Italia è legge dal maggio 1991). Tale caratteristica rende la Carta dei Diritti uno strumento più raffinato delle precedenti dichiarazioni o trattati. Oltre alla sua caratteristica “giuridica”, la Carta dei Dirit- * Presidente Arciragazzi, Sicilia - Componente Direttivo Cesvop. 203 ti è un testo “aperto”, che definisce standard minimi e che in alcuni casi va specificata (cosa significa “miglior interesse” oppure “standard di vita dignitoso”, etc.) nel luogo di applicazione. Ciò fa della Carta dei Diritti uno strumento di legislazione “soft”, improntato ad un riorientamento delle politiche piuttosto che ad una loro sovversione. In tale senso essa è anche uno strumento culturale di notevole portata. È stata definita, nella premessa al Primo Rapporto sulla Condizione Minorile in Italia. La Carta dei Diritti , più di ogni altro strumento di diritto, incorpora l’intero spettro dei diritti umani – civili, politici, economici, sociali e culturali – ed è finalizzata al pieno sviluppo del potenziale di ogni giovane individuo in un’atmosfera di libertà, dignità e giustizia. La Carta dei diritti è strutturata come segue: - Preambolo - Parte 1 (articoli da 1 a 41): definisce i diritti. - Parte 2 (articoli da 42 a 45): definisce gli strumenti per il monitoraggio e la concretizzazione della Carta dei Diritti. - Parte 3 (articoli da 46 a 54): definisce le procedure per la sua entrata in vigore. La Carta dei Diritti è possibile suddividerla in “tre P”: Diritti di Protezione, Diritti di Prevenzione, Diritti di Partecipazione. Con essa si identificano i diritti “naturali”, quelli specifici di protezione e quelli deputati alla promozione dell’infanzia e dell’adolescenza e dello sviluppo e crescita armonica. A dieci anni dalla ratifica italiana, la Convenzione sui Diritti del Fanciullo del 1989 (Convention on the Rights of the Child - CRC) comincia timidamente ad inserirsi, anche nel nostro Paese, come riferimento culturale nel dibattito sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza. Tuttavia pochi sono coloro che conoscono realmente la portata innovativa di tale documento, così come pochi rie204 scono a trasporre i principi e le norme in essa contenute in strumenti utilizzabili nel loro operare quotidiano. Pertanto, se da un lato il concetto cardine di “superiore interesse del fanciullo” comincia ad essere preso in considerazione, dall’altro l’ampio grado di confusione, fa si che nella maggior parte dei casi venga applicato con arbitraria discrezionalità interpretativa, legata alle competenze personali o alla specifica disciplina del soggetto chiamato in causa. Questa difficoltà interpretativa che corrisponde ad una frammentazione delle competenze e dei ruoli fra tutti i soggetti istituzionali, oltre a non favorire una efficace sinergia tra i contenuti espressi nella Convenzione, determina in molte occasioni una vera e propria confusione. Sono ancora poche infatti le riflessioni che pongono in luce la multidisciplinarità e la necessaria interdipendenza tra i diversi articoli di questo fondamentale documento. La legge 451/97 ha previsto l’istituzione del Centro di Documentazione e Analisi per l’Infanzia e l’Adolescenza. L’istituzione del centro ha rappresentato un notevole progresso nell’affermazione dei diritti del fanciullo in Italia. In particolare per quanto concerne la raccolta di dati, informazioni e l’elaborazione di analisi relative all’infanzia nel nostro Paese, il Centro Nazionale sta divenendo gradualmente un punto di riferimento per gli operatori del settore, anche grazie alle oltre 60 pubblicazioni tra cui quaderni monotematici, riviste, e la creazione di un proprio sito web (www.minori.it). Valutando positivamente i risultati raggiunti si auspica che il Centro di Firenze possa proseguire in continuità nella direzione intrapresa senza dover subire battute d’arresto determinate dall’alternarsi delle legislature. Sulla base della stessa legge è stato istituito anche l’Osservatorio Nazionale sull’Infanzia, a cui dovevano affiancarsi osservatori decentrati su base regionale, ma tale ulti205 ma previsione non può ritenersi ancora attuata. La situazione infatti si presenta estremamente disomogenea sul territorio, in quanto solo in alcune regioni tali osservatori sono effettivamente operativi, con struttura e compiti definiti, in altre esistono solo “sulla carta”, mentre in alcune realtà territoriali devono ancora essere istituiti. La disomogeneità si manifesta anche in relazione alle competenze ed alla struttura di gestione che viene diversamente definita dagli osservatori regionali. Nonostante i notevoli progressi, permane ancora una carenza nel sistema di organizzazione dei dati. In particolare si sottolinea che i dati qualitativi e quantitativi disponibili risentono tuttora di un approccio che trova il suo focus sulla famiglia, e non considera il bambino come unità autonoma di osservazione. In tal senso, ad esempio, non è possibile stabilire il numero di bambini che vivono sotto la soglia di povertà, poiché i dati disponibili si riferiscono ai nuclei famigliari. Per quanto concerne poi la spesa pubblica, il fatto che, per esempio, non sia prevista una voce di spesa sanitaria indirizzata in modo specifico all’infanzia, né sia possibile definire la percentuale precisa di spesa destinata alla protezione ed assistenza dei bambini, evidenzia come vi sia tuttora una disaggregazione dei dati che non include i “minori” come punto di riferimento e come tale carenza informativa sia strettamente collegata ad una scarsa specificità delle politiche rivolte all’infanzia. Risulta poi particolarmente rilevante una mancanza di informazioni quantitative e qualitative in diversi contesti nei quali si verificano violazioni estreme dei diritti del bambino. Realtà quali la prostituzione minorile, lo sfruttamento del lavoro minorile, i minori zingari, il disagio e la discriminazione nei confronti dei bambini stranieri presenti in Italia, rimangono largamente inesplorate sul nostro territo206 rio, con evidenti ripercussioni sulla efficacia dei servizi e delle risposte che vengono formulate per affrontare le diverse problematiche. Ciò che è possibile rilevare dal contesto italiano è la mancanza di una autentica “cultura dell’infanzia” fondata sul protagonismo dei ragazzi; una cultura che, oltre alla vulnerabilità del minore, sia capace di considerare anche le sue competenze e le sue risorse come soggetto sociale attivo. Del resto, un approccio culturale che privilegia la protezione a discapito della partecipazione, conduce inevitabilmente ad uno scarso ascolto del minore, tanto nell’ambito dei procedimenti giudiziari, amministrativi e sanitari, quanto nel contesto scolastico e nella stessa famiglia. È indicativo il fattore che in Italia siano ancora molto rare le espressioni organizzative create e gestite in autonomia da ragazzi. La confusione culturale relativa all’infanzia nel nostro Paese viene anche evidenziata dal fatto che non esista ancora un consenso unanime sulla terminologia da utilizzare per definire la persona sotto i 18 anni, che varia in molti casi a seconda del contesto con il quale il minore entra in relazione. Anche la parola “fanciullo”, utilizzata per la traduzione ufficiale della Convenzione, ha lasciato alquanto insoddisfatti gli operatori del settore, e sicuramente anche i bambini e gli adolescenti, con la conseguenza che quasi sempre nel linguaggio comune si ricorre a dei sinonimi per sostituire questo termine. Finito di stampare nel mese di febbraio 2007 coi tipi della Pitti Grafica s.a.s. Tecniche Editoriali Via S. Pelligra, 6 - 90128 Palermo Tel./Fax 091.481521 E-mail: [email protected] 207