La casa è il luogo nel quale gli esseri umani river

Transcript

La casa è il luogo nel quale gli esseri umani river
Prefazione (post-fatta, per la verità)
La casa è il luogo nel quale gli esseri umani riversano i propri desideri, le proprie aspirazioni e le proprie passioni. È lo sfondo sul quale una coppia proietta il film della sua vita futura, la cornice delle proprie
azioni quotidiane. È il vestito che ci si cuce addosso.
Ognuno, quindi, profonde, nella ricerca dello spazio ‘giusto’, grandi energie economiche e intellettuali, ovvero grande impegno nell’immaginare, progettare e realizzare la propria casa. Si va alla ricerca di
qualcosa che sia unico, che rappresenti se stessi in
modo peculiare, ma possa essere apprezzata, al
tempo stesso, ‘in senso universale’. Qualcuno richiede anche alla propria casa doti magiche e divinatorie,
capacità di migliorare il proprio stile di vita, di indurre cambiamenti comportamentali, di stimolare all’ordine e all’organizzazione, di potenziare la concentrazione e favorire un approccio positivo ai problemi
quotidiani.
Forse per questo la ristrutturazione di una casa è
un’esperienza unica nel suo genere, non solo per il
committente, ma anche per il progettista/direttore dei
lavori. Un’esperienza intensa per l’alto contenuto
umano che racchiude, per la necessità che esprime di
7
MATTEO CLEMENTE
GLI ARCHITETTI... DOVREBBERO AMMAZZARLI DA PICCOLI!
dare forma e figuratività estetica alle passioni umane,
ma anche per il confronto-scontro tra diversi universi: quello del committente, con tutto il suo bagaglio
culturale e la sua idea preconcetta di casa e quella del
professionista, con la sua cultura architettonica preordinata, che deve interpretare di volta in volta nuovi
desideri, nuove aspirazioni e nuovi gusti. Alla fine
diviene un confronto tra esseri umani. D’altra parte il
primo, non avendo conoscenza di fatti tecnici, né
possedendo attitudini artistiche, pone nelle mani di
un estraneo, le proprie idee e i propri sogni perché
questi li realizzi. Il secondo, dopo le ambiziose ipotesi iniziali, si trova a dover risolvere anche le cose più
pratiche. Dovrà uscire dal suo ruolo e recitare anche
parti minori, per poter conseguire il risultato estetico
prefissato. I due si confrontano, vivendo stagioni
diverse di attrazione e repulsione; in mezzo sta l’impresa esecutrice dei lavori che entrambi governano.
Se non ci si prende troppo sul serio e si affrontano
difficoltà e sofferenze con la giusta ironia, ci si può
anche divertire molto, in entrambi i ruoli.
Sicuramente, a ristrutturazione finita, molti problemi
si relativizzano e le tensioni lasciano spazio alla soddisfazione per il risultato raggiunto.
Il mio voleva essere un libro umoristico, maturato
sulla scorta di dieci anni di professione, in cui, come
si dice in questi casi, “ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale”... Poi mi sono fatto prendere un po’ la mano da argomenti di cui la nostra
società non si occupa più, come l’estetica contemporanea, rivendicando per l’architetto quel ruolo che,
nell’odierno contesto culturale, è stato usurpato e
negato. Così, con l’intenzione di fare un po’ di sana
ironia, ho finito per fare una ‘seria’ apologia degli
architetti.
Alla fine mi accorgo che, parlando di estetica, si
finisce comunque col parlare di storia, scienza, fisica
e metafisica, giungendo alle ragioni ontologiche ed
esistenziali dell’uomo.
In fondo anche nel ristrutturare una casa si comincia con il voler fare una semplice tinteggiatura delle
pareti, ci si imbarca, talora, in un’opera che può essere inserita nel contesto artistico – culturale contemporaneo e si finisce col restare imbrigliati in un’avventura umana a tutto tondo, in cui rientrano i grandi
sentimenti, le passioni, le tensioni e le ragioni profonde dell’esistenza.
8
9
I
La casa ideale
Ogni committente che si rivolge all’architetto ha
in mente un modello di casa; anzi, più modelli di
casa, a volte molti modelli diversi di casa contemporaneamente... insomma, una grande confusione.
Ognuno attribuisce al momento fatidico in cui si
‘fa’ la casa enorme importanza e di conseguenza
investe l’architetto di grandi responsabilità.
È una tappa a cui si giunge con sforzo, dopo anni
e obbligandosi con un mutuo. Ci si arriva dopo
numerose liti con il partner, coinvolgendo spesso le
rispettive suocere e con notevoli compromessi rispetto alle ipotesi iniziali. Ma quando, prima o poi, si
taglia il traguardo, c’è un solo pensiero che ci riempie la mente: “Finalmente tutto cambierà!” Mai più
gli spazi dove abbiamo vissuto finora! La casa cambierà la nostra vita. Mai più calzini per terra (o sotto
al letto). Mai più le carte dell’ufficio sul mobile da
trucco o sul tavolo della cucina. Mai più il dentrificio
finito, accuratamente riposizionato nel bicchiere per
il secondo che arriva. Persino nostra moglie cambierà. Non avrà più, di prima mattina, la crema depilato-
11
MATTEO CLEMENTE
GLI ARCHITETTI... DOVREBBERO AMMAZZARLI DA PICCOLI!
ria sui baffi e le ciabatte pelose da uomo delle nevi,
ma ci porterà la colazione a letto sorridente – in baby
doll – come nelle pubblicità.
Eccola pronta la casa dei sogni. Sembra già di
vederla sotto le spoglie della casa precedente (tutta
da rifare!), dopo le prime demolizioni dei tramezzi.
In 100 metri quadrati (lordi) abbiamo già pronta la
‘lista della spesa’: un ingresso direttamente nel soggiorno “non come quello della casa di mamma, che
immette nel corridoio.” Un soggiorno doppio, con
zona living completa di caminetto (funzionante),
separata dall’home cinema “mio marito è appassionato e ha tutti i DVD usciti con Panorama negli ultimi 16 anni.” Una cucina grande, bella, luminosa “è
il cuore della casa, deve avere l’isola al centro e lo
storage separato, magari ricavando una piccola dispensa... Mi raccomando, un piccolo tavolino per
quattro per fare colazione senza sporcare la sala da
pranzo, che deve essere una stanza a parte, separata,
con tavolo per otto persone, apribile nelle festività.”
“Adiacente al soggiorno sarebbe opportuno inserire
un piccolo studiolo, per mio marito, così può lavorare al computer nel week-end.”.“Se possibile,” – qui,
il tono oscilla tra il ‘probabilistico’ e la sfida all’intelligenza del professionista che, fra le sue varie
capacità, deve essere anche un ‘abile ricavatore di
spazi minimi,’ – “sarebbe bello inserire un bagnetto
per fare lavare le mani agli ospiti nella zona giorno,
solo water e lavabo: in barca ne ho visto uno che ha
le dimensioni della scrivania del mio studio!” La
zona notte deve essere separata da quella giorno. La
camera da letto con bagno in camera per i genitori e,
pezzo importantissimo, la cabina armadio: il guardaroba tradizionale non si usa più!
Quello del progetto è il momento creativo del
committente privato. Passati i giorni drammatici
della ristrutturazione, ognuno ricorda nitidamente i
momenti, bellissimi invece, in cui sognava la casa
ideale, quando si aspettava il fine settimana per comprare tutte le riviste di arredamento: “AD”, “Il mio
camino”, “La soffitta”, “La mia piscina” (non si sa
mai, siamo al secondo piano ma il balcone è spaziosissimo!), “Ristrutturare in 28mq: numero speciale”
(“Cavoli! noi ne abbiamo 100 e non dovremmo essere in grado di infilarci dentro tutto?”) È allora che gli
italiani, popolo di allenatori, si scoprono un popolo di
architetti, arredatori e ristrutturatori.
Si passa alla fase due: la ‘raccolta iconografica’.
Muniti di forbici, perché le riviste cominciano a
essere tante e non si può continuare a portarle
appresso, si ritagliano quelle figure che evocano
nella nostra memoria l’idea di casa, la sensazione di
spazi belli da vivere e le più recondite tensioni
inconsce dell’animo umano. Un arzillo settantatreenne mi mostrò una doccia a filo-pavimento con
vetro unico della lunghezza di due metri e cinquanta, una specie di ‘doccia da passeggio’ per avventure
alla Richard Gere... Una soluzione che, proposta in
12
13
MATTEO CLEMENTE
GLI ARCHITETTI... DOVREBBERO AMMAZZARLI DA PICCOLI!
altre occasioni, fruttò un certo consenso a diversi
professionisti, ho scoperto.
Dopo qualche settimana l’album delle fotografie
di interni di riferimento, effettuata una bella selezione, ammonta a qualche centinaio di immagini. Anche
i colleghi dell’ufficio, mossi a umana pietà per chi,
preso dalla ristrutturazione della prima casa, è nel
momento più drammatico della sua vita, hanno portato qualche ‘immaginetta’.
La scelta è ardua e all’architetto bisogna chiedere
la ‘conciliazione degli opposti’, come diceva un filosofo che adesso non ricordo (Marsilio Ficino?
Plotino? Devo chiedere all’insegnante di filosofia).
Ci sono cucine in stile provenzale, con piccole
mattonelle dai piccoli decori geometrici blu su fondo
bianco (a tal proposito il collega di prima ha accluso
una foto di un interno con azulejos portoghesi, che ci
assomigliano e potrebbero starci bene insieme, a suo
dire). C’è uno studio con pareti interamente rivestite
di legno di noce scuro, compreso il soffitto cassettonato, e inserti in pelle bordeaux con borchie di fissaggio in ottone. C’è una cabina armadio di 46 mq
(contro i nostri 4 netti), un soggiorno con un mobile
minimal elegantissimo, costituito da un contenitore
basso, rosso cina, lungo 6 metri e 40, con un plasma
a parete e due box vetrati retro-verniciati verde acido
(quelle composizioni che, se le hai scelte, ancora biasimi l’architetto per aver dovuto archiviare in cantina
l’intera Enciclopedia dei ragazzi e i vecchi numeri di
Selezione posti nella più efficiente libreria Ikea della
casa precedente, per lasciare spazio a una candela
natalizia, regalo della zia, nel box vetrato).
Nel repertorio iconografico non mancano mobili
‘in stile’, di quelli finti che imitano mobili d’epoca,
che non esistono più neppure nei migliori negozi di
antiquariato, a cui nessuno vuole rinunciare, perché
‘la casa deve essere calda’, con un tocco di romanticismo: il moderno, da solo, è ‘freddo’. “La casa della
mia amica che ha il marito architetto sembra un ospedale.” “In alternativa, ma non abbiamo ancora ben
deciso, ci piacciono anche queste altre cose... e qui
tirano fuori mobili in stile coloniale, bianchi, trattati
con il decoupage, che lascia intravedere il legno, da
villa sul mare in Grecia, mobili etnici, ‘stile
Marocco’, che danno un tocco di colore, e un certo
sapore di informalità alla casa; uno scrittoio stile vecchia marina, un mobile da trucco rococò, allestito con
una poltrona a forma di fiore rosso in alcantara con
gambe cromate, che fa da contrasto. Una camera da
letto con tatami e futon giapponese. Arte povera, high
tech, rustico da casa toscana, atmosfere di baita di
montagna con variante tirolese e stile inglese.
Sui materiali da utilizzare ancora poche perplessità.
Il pavimento è la base di tutto, l’imprinting della
casa. La casa dei nostri sogni ha il parquet in tutti gli
ambienti. Ma ci sono quelle leggende metropolitane
sui parquet che saltano, esplodono, fessurano, si
rovinano e hanno bisogno di infinite cure e manuten-
14
15
MATTEO CLEMENTE
GLI ARCHITETTI... DOVREBBERO AMMAZZARLI DA PICCOLI!
zione, che costituiscono un forte deterrente, un’ombra lunga sul prosieguo dei lavori, uno spettro che
tormenta le nostre notti. Il cognato, che ha ristrutturato casa da poco e ha fatto tutto da solo, senza architetto – molto meglio! – adduce, a tal proposito, un
campione di piastrella in gres porcellanato 40x40,
con superficie lucida; un materiale pratico, ‘uguale’
al marmo, ma molto più economico, che “dà un senso
di pulito alla casa e non costa neanche molto!”
Risolte con non poche sedute e non senza empasse tali questioni, rimane il grande scoglio da superare: il bagno, o meglio ‘l’ambiente bagno’ o ‘lo spazio
bagno’, come dice il nostro architetto.
Prima di ristrutturare la casa non avevamo mai
pensato di dover dare tutta questa importanza a quei
pochi metri quadrati nei quali campeggiano semplici
oggetti, utili per espletare le funzioni più elementari
che riguardano la persona. A ben pensare non ci
ricordiamo neanche più il colore delle mattonelle del
bagno della casa paterna, e ancora meno la forma dei
sanitari, nonostante si tratti di un luogo assiduamente
frequentato per i primi trent’anni della nostra vita,
giorno più, giorno meno, per trecentossessantacinque
volte all’anno. Eppure – è la pura verità – ho visto il
mio commercialista, accompagnato dalla moglie,
fare le prove sul water nel negozio, valutarne l’altezza, l’ergonomicità della seduta, l’allineamento perfetto del foro posto per il deflusso delle acque (e non
solo), misurare la vicinanza del porta-rotolo e la sua
perfetta collocazione sulla parete: sono scelte che non
si possono sbagliare queste!
Sullo stile del bagno e il disegno delle mattonelle
il nostro architetto sta investendo quasi tutte le energie progettuali, producendo disegni a colori e modelli tridimensionali. Ci accorgiamo che nei negozi di
ceramiche e materiali edili si attribuisce molta importanza a queste scelte e gli si dedica molto tempo.
Insomma, non affrontare in modo approfondito l’argomento sarebbe come ignorare, anche come generico argomento di conversazione, i nomi dei giocatori
della nazionale di calcio durante i mondiali.
Abbiamo acquistato tutti i numeri della rivista “Il
bagno”, “Il mio bagno”, “Interni bagno”; l’architetto
ci ha convinto con la soluzione minimale-high tech,
riuscendo a prevalere (per la prima volta) sulla scuola di pensiero del bagno in ‘stile inglese’ con tendina,
proposto dalla moglie, appoggiata dall’opinione di
mamma e suocera... insomma stavamo incominciando a divertirci un po’, quando ci accorgiamo che il
bagno progettato, a conti fatti, comporterebbe l’investimento di più della metà del budget complessivo a
disposizione per la ristrutturazione.
Allora ‘ffanculo al design del sanitario sospeso,
che in pianta si inscrive in un rettangolo costruito
secondo la ‘sezione aurea’, e ‘ffanculo alla rubinetteria cromo con profili rettangolari e anche al soffione
doccia di proporzioni giganti, che avevamo scoperto
essere più status symbol del Rolex d’oro nell’am-
16
17
MATTEO CLEMENTE
GLI ARCHITETTI... DOVREBBERO AMMAZZARLI DA PICCOLI!
biente maschile. In fondo, come direbbe De
Crescenzo, “un cesso è un cesso anche quando si
espone in un museo!”
Partendo dal “cesso” di De Crescenzo e passando
per l’orinatoio a muro di Duchamp (famosa opera
d’arte del 1915 intitolata Fountain), riaffiora la questione della bellezza dell’ambiente antropizzato e in
generale ‘la questione dell’arte’. Ci accorgiamo di
essere arrivati a trentacinque, quarantacinque, a volte
cinquantacinque anni, senza esserci mai posti il problema di che cos’è l’arte, cos’è bello e cosa è brutto.
Ci accorgiamo che non ci sono mai interessati i
monumenti e gli edifici creati dagli uomini, che
hanno lasciato un segno nella storia, e non crediamo
che possa avere alcuna rilevanza nella nostra vita
domandarci se una facciata di un edificio esprima
contenuti diversi, da quello squisitamente funzionale,
di separare l’ambiente interno da quello esterno,
modulando il passaggio della luce e dell’aria.
D’altra parte l’architettura non è un argomento che
compare nei palinsesti televisivi, non è cioè una forma
di sapere trasmessa dall’unico mezzo di divulgazione
della cultura conosciuto dalla nostra civiltà... e poi si
può sempre rispondere, evitando conversazioni sui
massimi sistemi e tagliando corto: “non è bello ciò
che è bello, ma è bello ciò che piace”. Eppure lo spazio edificato è quello in cui viviamo e non possiamo
ignorarlo. Si può passare indifferenti davanti a un
museo ed ‘evitare’ le opere d’arte che vi sono esposte,
ma non si può restare indifferenti agli spazi urbani e
all’architettura della nostra città. Prestando solo un
po’ di attenzione, ci accorgeremmo che gli edifici possono comunicare, al di là del loro mandato funzionale, sensazioni di confort o di angoscia; che le forme
articolate di un invaso spaziale possono stimolare la
curiosità di scoprire e comprendere gli spazi interni,
che si colgono attraverso visioni multiple e trasversali, al modificarsi del punto di vista; che l’ingresso
della luce all’interno di una chiesa può evocare l’illuminazione divina o far sentire l’impalpabile presenza
dello Spirito Santo. E ci viene il dubbio che la bellezza esista anche nell’architettura!
Ci ricordiamo, allora, di essere stati in un piccolo
museo a Barcellona non proprio contemporaneo, ma
modernista, di aver gustato uno straordinario dessert
in un piccolo patio racchiuso tra i volumi dell’edificio, di aver visto un tramonto riflettersi nelle vetrate
prospicienti il patio e i volumi, bianchi, proiettare
ombre lunghe e immaginifiche; il tutto dopo una
bella scorpacciata di dipinti di Mirò e quindici minuti passati a osservare inebetiti una fontana con gocce
di mercurio in moto perpetuo. E quell’edificio era
bello! Ci ricordiamo ancora lo spazio scenografico
18
19
Cos’è la bellezza nell’architettura?
MATTEO CLEMENTE
GLI ARCHITETTI... DOVREBBERO AMMAZZARLI DA PICCOLI!
all’interno del Guggheneim di Bilbao e l’intrigante
ingresso della luce in un coacervo di materiali differenti. Anche questo ci era sembrato bello e ci aveva
persino fatto dimenticare la stucchevole impressione
lasciataci dai volumi esterni, che invadono lo spazio
urbano come una gigantesca scultura dalle forme gratuite. Belli erano certi involucri di edifici di Herzog e
De Meuron; certi formalismi di Steven Holl. Bello
era il modo di lavorare sul dettaglio di Carlo Scarpa.
Belle erano tante creazioni architettoniche diverse, di
epoche storiche diverse, viste in luoghi diversi del
pianeta.
Ci ricordiamo di una possente cattedrale romanica, con la facciata completamente asimmetrica. Ma
anche della perfetta simmetria e del ritmo costante
della facciata di S. Maria Novella, di quello del porticato dell’Ospedale degli Innocenti di Brunelleschi e
di tutto il Rinascimento italiano, che aveva così
straordinariamente saputo interpretare la centralità
dell’uomo nell’universo e aveva cominciato a guardare il mondo con l’uso della prospettiva.
Ci era sembrata interessante anche una facciata
con finestre disposte in modo casuale, ma controllato, di un gruppo di architetti olandesi. Entusiasmante
un edificio a Weil am Rhein della Zaha Hadid per la
tensione dinamica dei volumi decostruiti. Affascinante un edificio in vetro a Berlino, con una pelle
riflettente, trasparente e cangiante, e la pubblicità in
movimento. Avveniristico il Centre Pompidou a
Parigi, per l’estroflessione di tutti gli elementi tecnologici e strutturali, non più nascosti da un involucro,
pronto a inaugurare una nuova estetica. Anche la facciata gotica di Notre Dame a Parigi non era male,
soprattutto guardata con l’occhio dei pittori impressionisti. La storia complicata della chiesa di S. Nicola
in Carcere, vicino al Foro Olitorio sembra rendere
bello un edificio in cui si sovrappongono il colonnato di un tempio romano, una torre-campanile medievale, una facciata tardorinascimentale e gli elementi
decorativi sette-ottocenteschi dell’interno.
Avevamo anche avvertito un brivido lungo la
schiena nella notte illuminata di Times Square a New
York, lì, nel cuore del mondo, in uno spazio urbano
fatto di display luminosi.
Unica al mondo ci era sembrata la “casa sulla
cascata” di Wright, costruita come un ponte, con una
cascata che le passa sotto e una scala il cui ultimo
gradino è la superficie dell’acqua!
Era stato incredibile anche un giro a Los Angeles
attraverso i suoi quartieri degradati, con un amico
artista, che fotografava dettagli di facciate di capannoni industriali e di modesti manufatti spontanei
autocostruiti, per farne dei bellissimi quadri informali. E quelle facciate ce le aveva fatte vedere con uno
sguardo nuovo, per gli inusitati valori figurativi che
posseggono.
Anzi, riflettendoci bene, ci sembra anche che
abbiano maggiore valore estetico certi piccoli villag-
20
21
MATTEO CLEMENTE
GLI ARCHITETTI... DOVREBBERO AMMAZZARLI DA PICCOLI!
gi di pescatori, venuti su spontaneamente, che quegli
enormi villaggi turistici che deturpano le nostre
coste. Ci sembrano più intriganti certe composizioni
di lamiere giustapposte, con trame grafiche diverse di
carrozzieri anonimi, delle facciate omogenee nei condomini di edilizia economica e popolare, con cellette
progettate tutte uguali, o di altre facciate di grandi
‘contenitori urbani’ nei quartieri dormitorio delle
nostre squallide periferie, legittimate dai Piani
Regolatori... E la faccenda sul bello e sul brutto si
stava facendo complicata!
Allora che cos’è bello in architettura? Che cos’è,
in generale, l’arte? Rimettiamo un po’ in ordine le
idee e cerchiamo di capire se nei nostri pensieri
sparsi ci sia qualcosa di oggettivo, qualcosa che
riguarda il gusto, lo stile o la bellezza come concetto trans-epocale.
Ci domandiamo se in un’opera di architettura, che
possa definirsi tale, debba esserci qualche caratteristica che vada al di là della storia e degli stili; un elemento che ci aiuti a definire un edificio bello, oltre
che utile. La simmetria? Le proporzioni classiche? Il
rispetto di certe leggi compositive e sintattiche? Il rapporto con la natura? La capacità di trasmettere emozioni e di evocare ricordi? L’attitudine a divenire una
rappresentazione simbolica? Non ci sembra che qualcuna di queste caratteristiche possa essere, da sola,
una condizione necessaria e, a ben guardare, neppure
sufficiente, per definire un’opera di architettura.
Ci chiediamo, allora, se il suo valore muti a seconda del contesto storico e culturale. In effetti per un
uomo del Rinascimento ‘gotico’ poteva sembrare
rozzo, avendo in mente il modello classico di proporzione e bellezza. A noi il neoclassicismo settecentesco può sembrare freddo e persino artificiale, nel suo
ostinato recupero della classicità. Ma qui si entra in
questioni di critica storiografica e di ermeneutica da
cui difficilmente si esce.
Leggiamo, tra le varie teorie che cercano di definire ‘che cos’è l’arte’, della cosiddetta teoria istituzionale, elaborata da una certa comunità di critici dell’arte, che possono decidere se un cavallo imbalsamato, appeso a delle funi, possa essere messo in un
museo e definito ‘arte’, e se il letto con le lenzuola
disfatte di Tracey Emin (My bed, 1999), mutande e
calzini compresi, possa essere esposto in una galleria
e acquistato da qualche ricco mercante d’arte come un
capolavoro da mettere nella sua lussuosa dimora (vai
a spiegare a tutte le domestiche che il letto non va
rifatto e i calzini non possono essere spostati... Una
sola distrazione e vanno a farsi benedire migliaia di
dollari!).
Quello che si può, obtorto collo, accettare per l’arte, che è, tutto sommato, autofinalizzata, sembra non
andare bene per l’architettura, che deve pure avere
un’utilità sociale. Se pure esiste una comunità di critici e intellettuali, che decide che una piazza con lastre
bianche di pietra e lunghi porticati a maglia quadrata,
22
23
MATTEO CLEMENTE
GLI ARCHITETTI... DOVREBBERO AMMAZZARLI DA PICCOLI!
con un elemento geometrico ruotato di 30 gradi che
taglia un lato in un sottomodulo dell’altro, è un’opera
di architettura che deve essere costruita, esisteranno
anche delle persone che decideranno di lasciare quella piazza vuota, deserta, in modo che, nella sua astrattezza geometrica, assomigli, piuttosto, a un quadro di
Sironi. Allora quella piazza sarà brutta. O sicuramente meno bella della più piccola, meno geometrica, ma
più frequentata piazzetta dove la gente ama sostare,
incontrasi, vivere e godere.
Cercando un filo conduttore nelle opere di architettura che ci piacciono, ci sembra pertinente la teoria
dell’arte professata dai proseliti di Wittgenstein.
L’esempio riportato dal noto filosofo, in realtà,
riguardava la parola ‘gioco’. Si può utilizzare la parola ‘gioco’ riferendosi a molteplici attività, che, di
fatto, non hanno nulla in comune tra loro. Nel gioco
del lotto il fine sembra essere la vincita di una somma
in denaro, in quello del calcio c’è una componente
atletica, che sembra mancare nel gioco degli scacchi.
Di altra natura ancora il gioco del girotondo dei bambini. I seguaci di Wittgenstein estendono questo concetto alla definizione di ‘arte’, come qualcosa che
può includere opere tra loro molto differenti e,
soprattutto, fornendo la possibilità di ampliare il concetto di arte nel futuro, includendo in questa categoria opere tra loro molto diverse, definibili con aggettivi completamente diversi. Di fatto questa teoria non
ci aiuta a capire che cos’è l’arte e che cosa si può
definire bello e neppure ‘degno di nota’, ma ci dice
semplicemente che si possono definire opere d’arte
cose tra loro molto distanti.
Anche in architettura sembrerebbe possibile definire ‘belle’, o quanto meno ‘interessanti’, opere che
hanno valenze estetiche molto differenti tra loro.
Anche in questa branca del sapere sembrerebbe
comoda una definizione estensiva di ‘opera degna di
nota’, per un certo gruppo di individui aventi comune sentire, già utilizzata nelle disquisizioni filosofiche sulla più generale ‘questione dell’arte’.
Soprattutto, una definizione estensiva di ‘opera
degna di nota’, in architettura, resta aperta a più possibilità di definire ‘bella’ un’opera. Ma è proprio questo il limite della definizione, che non ci fornisce nessun canone estetico di giudizio, nessun criterio per
considerare bella una scelta architettonica, interessante un edificio o affascinante uno spazio.
Una teoria abbastanza verificabile è che la bellezza abbia a che fare con la ‘coerenza sintattica’ del
linguaggio. In quest’accezione semantica, l’armonia
delle forme, l’equilibrio dei colori, l’accostamento
dei materiali, il ritmo delle superfici, hanno significati e valori che si evolvono con la storia, con il gusto
e con i cambiamenti culturali, avendo, quindi, come
unica condizione necessaria e permanente, l’uso di
una sintassi coerente.
Ma con ‘l’analisi grammaticale’ tutt’al più si può
scrivere un pezzo di prosa. La poesia è un’altra cosa.
24
25