Piccole introduzioni

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Piccole introduzioni
Piccole introduzioni
domenico melidoro
Multiculturalismo
UNA PICCOLA INTRODUZIONE
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Prima edizione maggio 2015
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Indice
Prologo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .p.
1.
9
che cosa è il multiculturalismo?
1.1
Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .“
13
1.2 definire il multiculturalismo . . . . . . . . . . . . . . . . .“
15
1.3 multiculturalismo e liberalismo . . . . . . . . . . . . .“ 20
2.
il multiculturalismo dell’autonomia liberale
2.1 Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .“ 27
2.2 il liberalismo e i limiti della cittadinanza . . . .“ 30
2.3 liberalismo e cultura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .“ 32
2.4. diversità culturale
e diritti delle minoranze . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .“ 35
2.5 diritti delle minoranze e liberalismo . . . . . . . .“ 38
2.6 liberalismo, autonomia
e diritti delle minoranze . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .“ 42
2.7 immigrati e diversità culturale . . . . . . . . . . . . . . .“ 46
3.
il multiculturalismo del riconoscimento
e dell’inclusione
3.1 Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .“
51
3.2 multiculturalismo e riconoscimento . . . . . . . .“ 54
3.3 multiculturalismo, diversità culturale
e dialogo interculturale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .“ 59
3.4 multiculturalismo, eguaglianza
e integrazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .“ 66
5
3.5 i limiti delle teorie multiculturali
basate sul riconoscimento . . . . . . . . . . . . . . . . . . .“
4.
71
il multiculturalismo dell’indifferenza
4.1 Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .“ 77
4.2 un liberalismo della tolleranza . . . . . . . . . . . . . .“ 79
4.3 la società arcipelago e la politica
di indifferenza nei confronti
della diversità culturale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .“ 84
4.4 oltre l’arcipelago liberale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .“ 90
4.5 Perché uno Stato è necessario
per il multiculturalismo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .“ 95
5.
conclusioni
5.1 il discorso sulla crisi del multiculturalismo
europeo e il liberalismo muscolare . . . . . . . . . .“ 101
Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .“ 109
Ma non saprai giammai perché sorrido.
Perché fui il pedante Amleto
della più consolatrice borghesia.
Perché non ho combattuto il Leviatano
Stato che vuole tutto inghiottire
nella macchinosa congerie
della sua burocrazia inesorabile.
Ora mi nascono le unghie come ai morti.
dario Bellezza
Prologo
i tempi erano cambiati. Sempre più spesso, le famiglie – che fossero ebree, cristiane o musulmane – desideravano per i propri
figli un’educazione che non si limitasse alla trasmissione delle conoscenze, e che piuttosto integrasse una formazione spirituale corrispondente alla loro tradizione […] Si trattava dunque di allargare il quadro della scuola repubblicana, di renderlo
capace di coesistere armoniosamente con le grandi tradizioni spirituali – musulmane, cristiane o ebree del nostro paese.
(Houellebecq 2015, p. 95)
il passo appena riportato potrebbe essere tratto dal discorso appassionato di un sostenitore di provvedimenti in
favore del riconoscimento dei gruppi religiosi. chi parla
chiede che la scuola tenga conto delle tradizioni religiose
degli studenti e si occupi, oltre che della trasmissione di nozioni, della formazione spirituale degli studenti. in realtà, le
parole trascritte appartengono a mohammed Ben Abbes,
candidato alle elezioni presidenziali francesi per il partito
dei Fratelli musulmani. Ben Abbes è un personaggio di
Sottomissione, l’ultimo e controverso romanzo dello scrittore francese michel Houellebecq pubblicato all’inizio del
2015, pochi giorni dopo il tragico attentato terroristico ai danni del settimanale satirico Charlie Hebdo.
in Sottomissione, Houellebecq parla di un futuro prossimo in cui un candidato musulmano vince le elezioni presidenziali in Francia e comincia a islamizzare il Paese, a partire dalle scuole e dalle università, fino al punto che templi
laici del sapere come la celebre Sorbona diventano università
islamiche a tutti gli effetti. il processo di islamizzazione ar9
riva fino all’istituzione della poligamia, e non si limita alla
Francia. un partito musulmano conquista il potere in Belgio,
mentre in inghilterra, Germania e olanda vi sono coalizioni in cui organizzazioni politiche musulmane governano al
fianco di partiti laici tradizionali (Houellebecq 2015, p. 236).
È tutta l’europa nichilista e decadente che si rassegna passivamente a sottomettersi all’islam che, qui come in altre opere di Houellebecq, rappresenta l’antitesi di un Vecchio continente ormai privo di valori e vigore.
il romanzo di Houellebecq è una satira acuta e visionaria della realtà. Allo stesso tempo, il suo motivo di fondo,
vale a dire il timore di una imminente islamizzazione dell’europa, è una delle paure più diffuse nell’opinione pubblica
conservatrice (ma non solo conservatrice) di molti Paesi europei. l’occidente, con le sue tradizionali conquiste politiche in termini di eguaglianza, libertà e parità di genere, si
sente minacciato da un islam battagliero e illiberale che, con
le sue mire espansionistiche, metterebbe in discussione la
modernità nel suo complesso.
tra le cause della disgregazione sociale e dell’indebolimento dell’europa, sostengono in molti, ci sarebbe il multiculturalismo. Quest’ultimo, secondo molti opinionisti che
affollano i talk-show televisivi o scrivono sui giornali, sarebbe responsabile per il fallimento dell’integrazione delle minoranze, soprattutto di religione islamica. il multiculturalismo, sostengono taluni, è l’altra faccia di un occidente fiacco e rassegnato che rinuncia a difendere i propri
valori e la propria cultura in nome dell’eguaglianza di tutte le culture.
È proprio di multiculturalismo che questo libro intende discutere. lo farà con gli strumenti della teoria politica,
cercando di affrontare questioni teoriche e casi concreti in
modo rigoroso e senza cedere alla tentazione della polemica
politica. l’intento è quello di trattare le teorie principali del
multiculturalismo e di mostrare come esse rendano conto
di alcune questioni pratiche. la natura introduttiva di questo libro non permette di trattare con la dovuta profondità
tutti i temi affrontati. tuttavia, il lettore che lo ritenesse op10
portuno potrà approfondire gli argomenti facendo ricorso
alla propria coscienza critica e ai testi indicati nella sezione bibliografica che si trova nelle ultime pagine.
la scrittura di un libro, e quell’insieme di attività che costituiscono
la ‘ricerca’, è un’impresa in gran parte solitaria. tuttavia, negli ultimi anni, ho avuto l’opportunità di discutere le questioni trattate in
questo libro con molte persone, nel corso di occasioni formali e informali. desidero ricordare e ringraziare Peter Balint, Sigal Ben-Porath, rajeev Bhargava, michele Bocchiola, luigi caranti, neera
chandhoke, marcello di Paola, Piergiorgio donatelli, Alessandro Ferrara, Samuel Freeman, Valentina Gentile, mohammed Hashas,
John Horton, Volker Kaul, eszter Kollar, chandran Kukathas, Will
Kymlicka, eugenio lecaldano, Peter losonczi, Stephen macedo, Jocelyn maclure, claudia mancina, michele mangini, tariq modood,
Gianfranco Pellegrino, eva Pföstl, daniele Santoro, Aakash Singh e
Kok-chor tan. Sono sicuro di aver appreso da loro molto più di quanto possa apparire dalla lettura delle pagine che seguono.
in questa sede va necessariamente ricordato il debito contratto
nei confronti di Sebastiano maffettone, che da anni svolge il ruolo
di guida insostituibile di una generazione di studiosi di filosofia politica, compreso il sottoscritto. il Center for Ethics and Global Politics,
diretto da maffettone presso l’università luiSS, ha rappresentato
in questi anni il luogo ideale per sviluppare riflessioni sulla filosofia politica e sul multiculturalismo. il dialogo costante con gli studenti triennali, magistrali e dottorali del dipartimento di Scienze politiche della luiSS mi ha fornito sempre spunti e idee degne di riflessione. inoltre, desidero menzionare la serie di incontri del
gruppo tABleS (organizzati alla luiSS da Francesca corrao, carmela
de caro e Sebastiano maffettone), perché si è dimostrata un fertile luogo di discussione sul pluralismo culturale e sulle questioni ad
esso connesse.
11
1. Che cosa è il multiculturalismo?
1.1
Premessa
nelle liberaldemocrazie occidentali si parla di multiculturalismo da circa cinquant’anni. infatti, è almeno a partire dagli anni ’60 del secolo scorso che, soprattutto in canada e
Australia, la presenza di gruppi etnici e culturali diversi all’interno dei confini del medesimo Stato-nazione è diventata una delle questioni centrali del dibattito politico. Più precisamente, considerando che per i Paesi appena elencati
quelli erano anni di immigrazione di massa, ci si cominciò
a chiedere quale fosse la risposta adeguata delle istituzioni alla diversità culturale. Quest’ultima era rappresentata
principalmente da gruppi di immigrati, da minoranze nazionali e da popolazioni indigene. Bisognava in qualche
modo riconoscere questa pluralità culturale, e dunque
adottare politiche pubbliche capaci di riflettere il fatto che
alcuni cittadini avanzassero richieste in quanto membri di
un gruppo piuttosto che come individui? oppure, più semplicemente, per evitare la disgregazione sociale c’era bisogno di riproporre le consuete politiche di assimilazione delle minoranze, in modo da indurre le minoranze ad essere
indistinguibili dalla maggioranza?
il canada scelse la strada del riconoscimento della diversità culturale tanto che, nel 1971, il primo ministro Pierre trudeau adottò ufficialmente il multiculturalismo come
politica pubblica. lo scopo era quello di sostenere e promuovere le minoranze culturali e, allo stesso tempo, di includerle nello spazio pubblico in qualità di eguali. Per i tre
decenni successivi, anche nell’opinione pubblica delle al13
tre liberaldemocrazie occidentali il multiculturalismo ha goduto di buona fama. Sembrava che il multiculturalismo à la
canadese, ovviamente modificato a seconda dei contesti,
fosse la risposta giusta alla diversità culturale e che le politiche di riconoscimento delle minoranze culturali potessero garantire la coesione sociale e la coesistenza pacifica
tra diversi.
negli ultimi anni, tuttavia, l’atteggiamento generalmente
positivo nei confronti del multiculturalismo è mutato. da più
parti, anche a causa del clima socio-politico venutosi a creare all’indomani degli attentati dell’11 Settembre 2001, si è parlato di fallimento delle politiche multiculturali. È sembrato
quasi che il riconoscimento della diversità culturale, anziché
l’integrazione, avesse prodotto l’isolamento e la ghettizzazione delle minoranze, con presunte conseguenze che vanno dalla crescita del radicalismo religioso fino al terrorismo
vero e proprio. Perciò, sostengono i detrattori odierni del multiculturalismo, bisogna sostituire le fallimentari politiche
multiculturali con nuove politiche di integrazione civica
che riportino alcuni valori tradizionali quali la libertà di
espressione e di culto, l'uguaglianza dei diritti e il rispetto della legge, al centro della vita collettiva delle liberaldemocrazie occidentali. Queste preoccupazioni che, come è facile capire, riguardano principalmente le minoranze musulmane
in europa o in America del nord, sono state sollevate nel 2011
dal premier britannico david cameron che, insieme ad Angela merkel e a nicolas Sarkozy, è tra i leader occidentali più
convinti del fallimento del multiculturalismo.
con questo libro non intendo occuparmi di storia del
multiculturalismo. tantomeno pretendo di riflettere sociologicamente sulle ragioni del presunto fallimento delle
politiche ispirate al multiculturalismo. il mio scopo è piuttosto quello di analizzare la natura e i limiti del multiculturalismo dal punto di vista della teoria politica. Più in
particolare, intendo discutere criticamente alcune delle questioni teorico-politiche che sono al centro della discussione accademica internazionale sul multiculturalismo negli
ultimi anni.
14
Prima di entrare nel vivo della discussione ritengo
opportuno precisare che cosa si intenderà per multiculturalismo nelle prossime pagine. la prossima sezione preciserà il significato di multiculturalismo che adotterò nel
prosieguo del libro. nella terza sezione specificherò i nessi tra multiculturalismo e liberalismo. A partire dal rapporto
tra queste due teorie individuerò le tre posizioni teoriche
che saranno analizzate nei capitoli 2, 3 e 4.
1.2
Definire il multiculturalismo
che ‘multiculturalismo’ sia un concetto al quale, sia in teoria politica sia nel dibattito pubblico, sono stati attribuiti molteplici significati è una constatazione a proposito della
quale è facile essere d’accordo. come è stato osservato, ci
si è serviti del termine ‘multiculturalismo’ per indicare
una pluralità di questioni che vanno «dal discorso sulle minoranze alla critica post-coloniale, dai gay and lesbian studies alla narrativa chicano» (Bhabha 1998, p. 31). Alcuni
studiosi hanno inteso il multiculturalismo come una teoria
che riguarda in primo luogo i diritti delle minoranze nazionali. Altri si sono concentrati sui diritti degli immigrati
e su cosa bisognerebbe fare per rendere equa la loro integrazione all’interno del Paese che li accoglie. Altri ancora
hanno riflettuto su come bisognerebbe trattate le minoranze
religiose o i gruppi lGBt in modo da evitare discriminazioni
arbitrarie in ambito scolastico o lavorativo. infine, alcuni teorici hanno visto il multiculturalismo come una teoria che
rivela i limiti dei principi liberali quando si tratta di discutere le condizioni dei popoli indigeni oppure di questioni
inerenti contesti sociali post-coloniali.
considerata questa pluralità di significati, la difficoltà
(o forse addirittura l’impossibilità) di identificare un significato non controverso o universalmente accettabile di
‘multiculturalismo’ non dovrebbe sorprendere. A questa difficoltà non sfugge nemmeno il modo di intendere e definire
il multiculturalismo che offrirò in questo libro. lungi dal15
l’aspirare a una definizione universalmente accettabile,
mi riterrò soddisfatto se il modo in cui il multiculturalismo
sarà trattato in queste pagine illustrerà criticamente e rigorosamente alcune influenti teorie politiche che discutono
di come le istituzioni politiche devono affrontare le questioni poste dalla diversità culturale.
il punto di partenza della mia riflessione è che la diversità culturale rappresenta semplicemente un fatto che
caratterizza le società liberal-democratiche contemporanee.
in una società che garantisce le tradizionali libertà di pensiero, associazione ed espressione, la presenza di diversi
gruppi culturali è un fenomeno facilmente osservabile.
Gli individui, se ne hanno la libertà, tendono a costituire molteplici gruppi. Questi gruppi, se si trovano in condizioni di
adeguata libertà, tenderanno a distinguersi tra essi per
quanto riguarda credenze, tradizioni e valori. il quadro diventa ancora più complesso se consideriamo che anche la
presenza di immigrati portatori di tradizioni e valori diversi
è solitamente ritenuta una delle cause dell’incremento
della diversità culturale. Quest’ultima aumenta anche
quando uno Stato autonomo viene annesso ad un altro Stato, vale a dire nel caso delle minoranze nazionali delle
quali si discuterà più diffusamente nel capitolo successivo.
A questo punto è opportuno fare due precisazioni. la
prima riguarda la nozione di ‘cultura’ che viene adottata in
questo libro, mentre la seconda riguarda alcune conseguenze che derivano dall’assunzione della diversità culturale come fatto.
ogni volta che in questo libro si parlerà di cultura, a
meno di indicazioni diverse, si intenderà «un sistema di credenze e pratiche nei termini del quale un gruppo di esseri
umani comprendono, regolano e strutturano le loro vite individuali e collettive. [la cultura] è un modo di comprendere
e organizzare la vita umana» (Parekh 2006², p. 143). data questa definizione di cultura, un gruppo culturale deve essere
inteso come un insieme di esseri umani che condividono una
cultura che è (almeno in parte) diversa da quella che contraddistingue altri gruppi. dunque, è come se un gruppo cul16
turale fosse tenuto insieme da una cultura, ed è proprio la
condivisione di una cultura a rendere possibile l’identificazione di un gruppo e a distinguerlo dagli altri gruppi.
Quando si discute di cultura e di gruppi culturali bisogna evitare di cadere nel cosiddetto essenzialismo (Benhabib 2005; Bhabha 2001; Kymlicka 2015; mason 2007; Patten
2014; Phillips 2007). chi vede le culture in termini essenzialisti, come ha scritto Anne Phillips, «esagera l’unità interna
delle culture, solidifica le differenze […] fa in modo che le persone che appartengono ad altre culture sembrino più esotiche e differenti di quanto siano realmente» (Phillips 2007,
p. 14). la cultura e i gruppi culturali non devono essere visti come delle entità immutabili, monolitiche e omogenee.
le culture sono infatti entità fluide, diversificate al loro interno, sempre soggette al mutamento in risposta all’evolversi
delle circostanze, e caratterizzate da dissensi più o meno
profondi.
negli ultimi anni il multiculturalismo è stato frequentemente criticato in quanto essenzialista. tuttavia, mi sembra si possa affermare che l’obiezione sia mal posta o esagerata. infatti, uno degli assi portanti di molti dei tentativi
di elaborare una difesa del multiculturalismo è stato proprio
quello di scardinare l’essenzialismo cui le maggioranze
hanno fatto ricorso per elaborare idee di identità nazionale solide e monolitiche che finiscono per escludere le minoranze culturali e le loro specificità (Kymlicka 2015, p. 212).
Per quanto riguarda invece l’assunzione della diversità come fatto che caratterizza le società liberal-democratiche contemporanee, bisogna osservare che essa ha delle
conseguenze fondamentali per le questioni affrontate in
questo libro. innanzitutto questa assunzione implica che la
diversità culturale sia una circostanza che le istituzioni devono considerare e alla quale devono fornire delle risposte.
Se invece la diversità fosse più di un fatto, e cioè un valore
da perseguire, l’atteggiamento delle istituzioni sarebbe inevitabilmente diverso. in questo caso ci sarebbero, sempre
e comunque, delle ragioni valide per preferire una società
più pluralista dal punto di vista culturale rispetto a una più
17
omogenea. inoltre, le istituzioni dovrebbero sforzarsi per
realizzare una società pluralista dal punto di vista culturale,
indipendentemente dalle preferenze dei cittadini e dalle circostanze storiche e sociali che essi si trovano a fronteggiare.
A questo punto, coerentemente con le considerazioni
appena svolte sulla nozione di cultura e sulla diversità
culturale come fatto, è possibile avanzare una definizione
di ciò che qui si intende per multiculturalismo nell’ambito
teoria politica. considero multiculturali quelle teorie che cercano di rispondere alla seguente domanda: in che modo le
istituzioni politiche devono affrontare i problemi posti dal
fatto della diversità culturale, vale a dire dalla presenza di
diverse culture all’interno della stessa comunità politica?
diversità culturale, sostengono i teorici del multiculturalismo, significa anche che in una comunità politica
esistono maggioranze e minoranze culturali (immigrati,
minoranze nazionali, popoli indigeni, ecc.). Al centro della
riflessione del multiculturalismo si trova il fatto che le società, per effetto del processo di costruzione dello Statonazione, sono strutturate in un modo che le norme sociali,
la lingua e gli usi riflettano le preferenze, i principi e le tradizioni della maggioranza. Anche ciò che è normale, nel senso di socialmente accettato, viene definito sulla base dei valori della maggioranza.
in una situazione del genere, le minoranze potrebbero
incontrare difficoltà a vivere secondo ciò che esse ritengono
giusto e doveroso. Si consideri, per esempio, l’obbligo di indossare il casco per i motociclisti. Quest’obbligo, nel nostro
Paese, è generalmente accettato per i benefici che produce in termini di prevenzione del rischio di infortuni. la minoranza Sikh, che per motivi religiosi ha l’obbligo di indossare il turbante, potrebbe considerare l’obbligo di indossare il casco come un ostacolo al rispetto di un fondamentale obbligo di coscienza. in che modo bisogna affrontare i conflitti tra obblighi di legge e obblighi di fede (lecaldano 2013)? È accettabile esentare i membri di una minoranza dal rispetto di una legge che contrasta con i loro
principi religiosi (de caro 2014)? come rispondere alla di18
suguaglianza di condizioni tra maggioranze e minoranze culturali? Bisogna riconoscere diritti alle minoranze, oppure assumere un atteggiamento di laissez faire? inoltre, fino a che
punto si può concedere autonomia alle minoranze culturali?
Sono queste, ed altre ancora, le domande tipicamente affrontate dal multiculturalismo, e ne renderemo conto nelle pagine di questo libro.
Per il momento mi soffermerò su due aspetti della definizione di multiculturalismo appena formulata. in primo
luogo, la presente definizione si distingue in maniera piuttosto netta da alcune definizioni, che qui chiamerò ristrette, per le quali una qualche forma di approvazione della diversità culturale è un elemento essenziale di ogni multiculturalismo. in secondo luogo, vi sono delle affinità e delle diversità tra il multiculturalismo come viene qui trattato e il liberalismo. nel resto di questa sezione renderò conto del primo aspetto, mentre il secondo sarà oggetto della
sezione successiva.
una definizione ristretta di multiculturalismo è stata recentemente proposta da George crowder. in Theories of Multiculturalism crowder sostiene che il punto di partenza
del multiculturalismo è che molte società contemporanee sono multiculturali, nel senso che «contengono molteplici culture» (crowder 2013, p.7). A questo fatto, il multiculturalismo risponde con un atteggiamento che va oltre la
mera tolleranza. infatti, la diversità culturale è approvata e
riconosciuta dalle istituzioni pubbliche per mezzo dell’attuazione di misure politiche ad hoc. una definizione del genere, sebbene inizialmente plausibile e molto diffusa, a
mio avviso, restringe eccessivamente l’ambito del multiculturalismo. Sebbene crowder lo neghi (crowder 2013, p.
8), sembrano di fatto essere escluse tutte quelle teorie per
le quali la diversità in sé non è un valore da promuovere o
da celebrare. inoltre, questa definizione assume senza fornire un adeguato argomento che qualche forma di riconoscimento della diversità culturale sia in ogni caso un tratto definitorio del multiculturalismo. come si vedrà più in
dettaglio nel capitolo 4, non sempre il riconoscimento pub19
blico è auspicabile, e non sempre la diversità culturale è preferibile all’omogeneità (Kukathas 1998, 2008).
1.3
Multiculturalismo e liberalismo
concepire il multiculturalismo come una teoria riguardante la risposta delle istituzioni alla diversità culturale e
sottolineare che l’obiettivo del multiculturalismo consiste nell’analisi delle condizioni in cui sia possibile realizzare
la coesistenza pacifica tra gruppi culturali diversi e potenzialmente in conflitto, pone la questione del rapporto tra
multiculturalismo e liberalismo (Weinstock 2015). Quest’ultimo è infatti una tradizione del pensiero politico che,
fin dalle origini, ha posto al centro della sua riflessione teorica la diversità.
È qui sufficiente richiamare la diffusa ipotesi secondo
la quale alle origini del liberalismo ci sarebbe la ricerca delle condizioni che rendono possibile la coesistenza pacifica
tra persone con fedi religiose diverse all’indomani delle sanguinarie guerre di religione che sconvolsero l’europa tra il
XVi e il XVii secolo (rawls 1994, p. 12; laden e owen 2007,
p. 8). dunque, secondo questa versione delle origini del liberalismo, il problema che i liberali si pongono all’inizio della loro storia è la diversità religiosa.
Per venire a tempi più recenti, John rawls, che è il filosofo politico più influente del secolo scorso, ha sostenuto che la propria teoria liberale ritiene fondamentale la seguente domanda: «come è possibile che esista e duri nel tempo una società stabile e giusta di cittadini liberi e uguali profondamente divisi da dottrine religiose, filosofiche e morali
incompatibili?» (rawls 1994, p. 6). Quindi, la diversità (di dottrine religiose, filosofiche e morali) è un aspetto essenziale del progetto filosofico rawlsiano. una prova ulteriore del
fatto che la riflessione sulla diversità occupi un ruolo fondamentale nel liberalismo è data dalla francese catherine
Audard. Quest’ultima, in una recente e voluminosa monografia sul liberalismo, ha affermato che tutta la storia del li20
beralismo può essere letta come un tentativo di rispondere alla domanda «come vivere insieme?» (Audard 2009, p.
727) a dispetto del fatto che gli individui sono diversi per
quanto riguarda credenze, valori, interessi, ecc.
Quindi, ci si potrebbe chiedere, quali sono le reali differenze tra liberalismo e multiculturalismo, in particolare
a proposito del modo in cui queste teorie considerano la diversità? un essenziale punto di differenza è che il multiculturalismo, come si è detto nella sezione precedente,
mette al centro dei suoi interessi la diversità tra culture e
gruppi culturali presenti all’interno della stessa comunità
politica. il liberalismo, invece, assume che le diverse credenze morali e filosofiche presenti in una società liberaldemocratica siano aspetti di un’unica cultura (Kymlicka
1989, p. 177). come ha scritto Bhikhu Parekh, il liberalismo
«è sensibile alla pluralità di visioni morali, non alla pluralità
di culture, e trascura le aspirazioni culturali di quelle comunità come i popoli indigeni, minoranze nazionali, gruppi subnazionali e immigrati». tutti questi gruppi avanzano
diverse rivendicazioni, ma in genere richiedono qualche forma di autonomia culturale. tale richiesta, come si vedrà nei
capitoli successivi, implica una messa in discussione della
tradizionale idea liberale di «una struttura giuridica e politica
omogenea» (Parekh 2006², p. 89). un esempio può essere utile a chiarire quanto sto qui sostenendo.
Pensiamo al processo che nell’immediato dopoguerra
portò i cattolici e i comunisti eletti nell’Assemblea costituente a scrivere insieme la costituzione italiana (maffettone 2010, p. 258). i due gruppi erano radicalmente diversi
per quanto riguarda i valori politici e le credenze morali. cattolici e comunisti avevano, per esempio, opinioni divergenti
sul capitalismo, sul ruolo della chiesa nella vita pubblica,
sui rapporti tra i generi e sulle alleanze internazionali del
nostro Paese. tutte queste opinioni possono essere considerate come aspetti contrastanti della cultura (secondo la
definizione che qui stiamo adottando) italiana di metà novecento. Questa cultura era già allora pluralista a tal punto da includere sia coloro che vedevano negli Stati uniti il
21
faro delle libertà, sia coloro che consideravano quello stesso Paese il principale esponente di un modello economico
da combattere. eppure, nonostante le divergenze ideologiche, nessuno dei due gruppi aspirava a ottenere una
qualche forma di autonomia culturale o giuridica, come potrebbe verificarsi nel caso delle minoranze culturali.
Si considerino, per esempio, le minoranze musulmane
emigrate in un Paese europeo (corrao e maffettone 2014) e
la loro eventuale richiesta di avere dei tribunali islamici che
applichino la Sharia per risolvere alcune controversie relative al divorzio o all’eredità (Schachar 2001). Questo caso
non mostra solo che in una società esistono diversi individui e gruppi con credenze contrastanti, ma che una minoranza chiede autonomia rispetto a delle leggi e a delle pratiche che si presume siano valide erga omnes. Si tratta,
come è facile intuire, di questioni piuttosto differenti rispetto
a quella considerata nel paragrafo precedente.
A rischio di un’eccessiva semplificazione, si potrebbe
dire che il liberalismo, soprattutto fino agli anni ’80 del secolo scorso, si è occupato di problemi come quelli che sorgono nel caso dei cattolici e dei comunisti nell’Assemblea
costituente, vale a dire in quei casi in cui la diversità morale,
politica e filosofica è interna a un’unica cultura. il multiculturalismo, invece, può essere visto come un invito a riflettere su questioni come quelle poste dal fenomeno dell’immigrazione, ove la diversità che crea problema non è il
prodotto di un’unica cultura.
il rapporto tra liberalismo e questioni come quelle delle minoranze culturali e dell’appartenenza a un gruppo culturale è complesso e ha attraversato diverse fasi. in breve,
si può dire che i liberali del XiX secolo e quelli dei primi decenni del XX (mill, Green, Hobbouse e dewey) hanno riconosciuto il valore delle culture e hanno cercato di concepire
l’appartenenza culturale all’interno del framework definito
dai principi liberali fondamentali, soprattutto autonomia ed
eguaglianza (Kymlicka 1989, cap. 10; Kymlicka 1999, cap. 6).
tuttavia, questa sensibilità alla cultura non sempre si accompagnava a un atteggiamento benevolo nei confronti del22
le minoranze nazionali, come dimostra il caso dell’avversione di John Stuart mill nei confronti delle minoranze nazionali (Savidan 2010, p. 44).
una fase diversa del rapporto tra liberalismo e cultura
ha avuto inizio con la fine della Seconda guerra mondiale.
A partire da quel momento il liberalismo è sembrato disinteressarsi pressoché totalmente delle questioni culturali.
le ragioni di questo disinteresse sono diverse. Alcune
sono di carattere storico e contestuale, mentre altre sono
metodologiche e riguardano il carattere della filosofia politica della seconda metà del novecento.
Per quanto riguarda le ragioni storiche e contestuali, bisogna osservare che dopo la fine del conflitto, in occidente si assistette alla diffusione di una moralità politica basata
sui diritti umani. Questi ultimi appartengono agli individui
in quanto tali, considerati indipendentemente dalla loro appartenenza etnica, religiosa e culturale. l’attenzione che i
diritti umani rivolgevano nei confronti dell’individuo in
quanto tale metteva in secondo piano, fino a farle quasi
scomparire, le questioni concernenti la cultura e l’appartenenza culturale. inoltre, ogni discorso sulla diversità culturale sembrava essere troppo particolaristico e potenzialmente in grado di innescare pericolosi fenomeni di separatismo che avrebbero potuto turbare la pace e la stabilità appena raggiunte dopo un drammatico periodo bellico.
A queste considerazioni, si è detto, si affiancano ragioni
di tipo metodologico. la pubblicazione di Una teoria della
giustizia di rawls (2008) nel 1971 segnò la rinascita della filosofia politica normativa. Quest’opera, che caratterizzò in
maniera significativa il dibattito accademico successivo, impose uno stile filosofico molto astratto. il carattere dell’indagine filosofica richiedeva di attuare diverse astrazioni e
idealizzazioni. Si consideri ad esempio il modo in cui lo stesso rawls considera la società. Perfino in Liberalismo politico (rawls 1994), che per molti versi è un’opera più sensibile al contesto rispetto a Una teoria della giustizia, rawls assume di occuparsi di una società nazionale chiusa, cioè di
una società «autosufficiente e priva di relazioni con altre so23
cietà. Se ne diventa membri solo per nascita, e se ne esce
solo alla morte» (rawls 1994, p. 29). Questo modo di intendere la società invita a trascurare questioni come quelle dell’immigrazione che sono tra le cause principali della diversità culturale. inoltre, la richiesta di neutralità, che è un
aspetto tipico di buona parte del liberalismo contemporaneo, richiede di considerare secondarie le affiliazioni particolari degli individui e, dunque, anche la loro appartenenza
culturale (carens 2000, p. 8).
eppure, nonostante lo scarso interesse del liberalismo
post-bellico per le questioni multiculturali, è fuor di dubbio
che la discussione su multiculturalismo e diversità culturale
abbia avuto inizio in contesti dominati dal liberalismo inteso
sia come teoria politica (laden e owen 2007, p. 7) sia come
assetto istituzionale. come si è detto all’inizio, la discussione
pubblica sul multiculturalismo è iniziata in Paesi come
l’Australia e il canada, vale a dire in contesti sociali pluralisti che nei decenni scorsi cominciarono gradualmente ad
abbandonare l’idea che l’assimilazione delle minoranze
fosse una scelta obbligata per ogni regime liberal-democratico. invece, in ambito accademico la riflessione filosofica sul multiculturalismo ha avuto inizio verso la fine degli anni ’80, periodo in cui si cominciò a riflettere sistematicamente su quale fosse il legame concettuale tra liberalismo e diversità culturale (Kymlicka 1989; Kymlicka 2002²,
cap. 8).
come è stato scritto recentemente, «buona parte del dibattito sul multiculturalismo è una discussione in famiglia
tra liberali su cosa il liberalismo o i valori liberali implichino» (levey 2010, p. 19). diversi studiosi, sostenitori o critici del liberalismo, si sono interrogati su come i valori liberali (autonomia individuale ed eguaglianza, in primo luogo)
debbano o possano rendere conto di questioni quali quelle legate all’appartenenza culturale o agli svantaggi derivanti
dal fatto di far parte di un gruppo culturale minoritario. Si
possono distinguere almeno tre posizioni differenti:
a) i principi liberali, adeguatamente interpretati, richiedono una qualche forma di riconoscimento della di24
b)
c)
versità culturale. in particolare, l’autonomia individuale, per fiorire ha bisogno di un determinato contesto culturale (Kymlicka 1989, 1999, 2007; raz 1994).
Quindi, quando uno Stato si interessa di cultura non fa
altro che operare per promuovere uno dei tipici valori del liberalismo.
i principi liberali, da sé, non sono sufficienti a rendere
conto delle questioni concernenti la diversità culturale,
per cui il multiculturalismo richiede di andare oltre questi principi. infatti, i principi liberali, concentrandosi sui
diritti individuali, non riescono a rendere conto dell’importanza dei gruppi e delle culture. l’obiettivo di
queste teorie è di realizzare una società più inclusiva
di quella liberale, facendo ricorso a un approccio dialogico (Parekh 2006²; modood 2013²; taylor 1998).
i principi liberali, se propriamente intesi, richiedono che
lo Stato sia indifferente alla diversità culturale. l’unica
funzione dello Stato consiste nel garantire la pace tra
i gruppi culturali e nel promuovere le condizioni in cui
i gruppi possano vivere secondo i propri valori in un
contesto di reciproca tolleranza (Kukathas 1998, 2008;
2011; levy 2000). ogni forma di riconoscimento è al di
là dei compiti di chi detiene il potere politico ed è da scoraggiare poiché potrebbe far sorgere conflitti.
Allora, in sintesi, si può dire che a partire dal liberalismo, si
possono distinguere tre versioni di multiculturalismo. la prima ritiene che liberalismo e multiculturalismo siano pienamente compatibili, e che non vi sia contraddizione tra liberalismo e accomodamento della diversità culturale. la seconda sostiene che il multiculturalismo richiede di andare
oltre i principi liberali tradizionali. la terza, infine, in ragione
della fedeltà al valore della tolleranza liberale, nega ogni legittimità al riconoscimento della diversità culturale all’interno di uno Stato liberale. le tre posizioni appena distinte saranno oggetto, rispettivamente, dei capitoli 2, 3 e 4. in
questi capitoli esporrò in dettaglio i tre approcci e mostrerò le difficoltà teoriche in cui incorrono. le teorie discusse
25
saranno illustrate facendo riferimento sia ad alcuni degli autori che le hanno difese in maniera sistematica sia ad alcuni
casi pratici al centro della discussione pubblica sul multiculturalismo. da ultimo, nel quinto capitolo affronterò in breve il dibattito sulla presunta crisi del multiculturalismo (Vertovec e Wessendorf 2010; rattansi 2011; ossewaarde 2014)
e valuterò la posizione alternativa che alcuni critici del multiculturalismo propongono.
il quadro complessivo che emergerà da questo libro non
è esaustivo, né pretende di esserlo. Aver assunto, in un certo qual modo, la centralità del liberalismo nel discorso sul
multiculturalismo non implica che non esistano altre forme di multiculturalismo se non quelle qui individuate in relazione ai principi liberali. esistono sicuramente altri multiculturalismi che qui non saranno oggetto di un’analisi approfondita, come per esempio quelli femminista o post-coloniale. Ad ogni modo, scopo di questo volume non è quello di rendere conto di tutto il multiculturalismo, ma di analizzare alcune teorie e questioni riguardanti la diversità culturale nel contesto delle democrazie liberali contemporanee. Per ciò, condurre questa analisi in rapporto al liberalismo, che è la teoria egemone nei contesti in cui il multiculturalismo è stato avvertito come problema teorico e politico, non è un’impresa del tutto arbitraria e priva di senso.
26
2. Il multiculturalismo
dell’autonomia liberale
2.1
Premessa
Questo capitolo renderà conto del cosiddetto ‘culturalismo
liberale’ (murphy 2012, p. 67). Si tratta di un approccio piuttosto diffuso a partire dalla fine degli anni ’80 del secolo scorso. Gli autori (tamir 1993; Spinner-Halev 1994; raz 1994; Kymlicka 1989, 1999, 2007) che, in forme diverse, hanno elaborato posizioni che possiamo far rientrare all’interno del ‘culturalismo liberale’ condividono l’idea che i principi liberali sono pienamente compatibili con il multiculturalismo e
che il riconoscimento di alcuni diritti alle minoranze culturali deriva dal valore della cultura e dell’appartenenza a
un gruppo culturale per gli individui.
il liberalismo, a causa del suo carattere individualistico, ha spesso posto in secondo piano la cultura e il valore
dell’appartenenza a un gruppo come se si trattasse di questioni trascurabili oppure pericolose a causa delle possibili implicazioni illiberali. tradizionalmente il liberalismo
ha creduto che le funzioni dello Stato dovessero limitarsi
alla concessione di diritti individuali. Per alcuni liberali, infatti, ogni discorso sui gruppi e sul valore dell’appartenenza sembra andare in direzione contraria al riconoscimento dei diritti individuali. Sembrerebbe che l’interesse per i
gruppi rappresenti una distrazione rispetto al primato dell’individuo che, per i liberali, costituisce l’elemento ultimo
della considerazione morale e politica.
eppure, sostengono i fautori del culturalismo liberale,
esistono delle ragioni per le quali il liberalismo dovrebbe
prestare attenzione a questioni quali la cultura e l’appar27
tenenza a un gruppo. Queste ragioni hanno a che fare
principalmente col fatto che la cultura è il contesto all’interno del quale l’individuo trova le opzioni che gli consentono di scegliere per dare un significato alla propria vita
e di realizzarsi come essere autonomo. l’autonomia, infatti,
non si esercita nel vuoto, ma in un contesto che presenta
opzioni significative tra le quali esercitare la scelta. Si può
dunque dire che una prima ragione per cui il liberalismo dovrebbe interessarsi della cultura concerne il legame tra cultura e autonomia. l’autonomia è un valore fondante del liberalismo (anzi, per gli autori di cui si occupa questo capitolo è il valore fondante). date queste considerazioni, occuparsi del contesto all’interno del quale l’autonomia individuale fiorisce non può essere estraneo alla tradizione
liberale.
A queste riflessioni bisogna aggiungere che l’appartenenza a un determinato gruppo culturale influenza in maniera significativa le possibilità di vita di un individuo. Joseph raz ha individuato tre modi in cui ciò si verifica. in primo luogo, visto che una cultura rappresenta «l’orizzonte delle opportunità» di un individuo (raz 1994, p. 176), quando una
cultura attraversa una fase di decadenza l’individuo vedrà
peggiorare le proprie condizioni in quanto non avrà a disposizione un ricco contesto di scelta. Al contrario, quando una cultura attraversa una fase positiva, gli individui godranno di un contesto che mette loro a disposizione un ricco ventaglio di opzioni. in secondo luogo, la condivisione
di una cultura facilita le relazioni sociali, nel senso che persone appartenenti alla medesima cultura hanno significati condivisi che permettono loro di instaurare e far durare
relazioni affettive significative. infine, come ci sarà modo
di approfondire nel prosieguo, l’appartenenza a un gruppo
culturale è fondamentale nel processo di identificazione di
ciascuno. Appartenere a una cultura ci dice, in parte, chi siamo, e pone gli individui in rapporto con altri individui che
si identificano con la stessa cultura. dunque, anche in questo caso l’interesse per l’appartenenza a un gruppo culturale,
essendo connesso all’interesse per le condizioni di vita di
28
un individuo, non conduce il liberalismo al di là delle questioni di cui esso si è occupato tradizionalmente.
le considerazioni svolte finora danno un quadro preliminare del culturalismo liberale e del suo interesse per la
cultura e l’appartenenza a un gruppo culturale. Almeno a
questo livello, non sembrano esserci problemi per quanto
riguarda la compatibilità tra liberalismo e multiculturalismo.
Alcune questioni tipiche del multiculturalismo (cultura e appartenenza a un gruppo) sono viste in relazione all’autonomia individuale e alle possibilità di vita di un individuo,
che sono temi che il liberalismo, per la sua natura individualista, ha sempre avuto profondamente a cuore. Si tratta, come è facile capire, di una concezione strumentale della cultura e dell’appartenenza a un gruppo, nel senso che
esse vengono valutate positivamente nella misura in cui promuovono altri beni, vale a dire l’autonomia individuale e le
condizioni di vita delle persone.
Questo capitolo approfondirà questi e altri aspetti del
culturalismo liberale. nelle prossime pagine tale approccio
sarà illustrato facendo riferimento al lavoro del filosofo canadese Will Kymlicka che, già a partire dalla fine degli
anni ’80, è stato il primo studioso ad elaborare una versione sistematica del culturalismo liberale e, più in generale,
a introdurre il multiculturalismo nel dibattito filosoficopolitico internazionale. in ciò che segue, dunque, renderò
conto in dettaglio della teoria di Kymlicka, in particolare del
modo in cui egli tenta di elaborare una visione liberale della cultura e dei diritti delle minoranze culturali. A questa teoria muoverò alcune obiezioni, soprattutto a proposito della centralità che essa riconosce al valore dell’autonomia individuale e del fatto che non riesce a comprendere pienamente il carattere della diversità rappresentata dagli immigrati.
29
2.2
Il liberalismo e i limiti della cittadinanza
il diffondersi sia in filosofia politica che nel dibattito pubblico di termini quali ‘multiculturalismo’, ‘politica della differenza’, ‘politica dell’identità’ e ‘politica del riconoscimento’ indica la crisi del modello di cittadinanza basato sul
possesso di diritti comuni e universali . Questo modello, che
è stato prevalente nei Paesi liberal-democratici occidentali
a partire dal secondo dopoguerra, accordava il riconoscimento dello status di cittadino a tutti gli individui di uno Stato mediante la concessione progressiva di diritti civili, politici e sociali (marshall 1965). tuttavia, il possesso dei diritti
di cittadinanza non ha impedito che alcuni gruppi (per
esempio i neri, i gay e le lesbiche, le donne, le minoranze religiose, gli immigrati, i popoli indigeni) si sentissero marginalizzati, oppressi ed esclusi, e che percepissero di avere uno
status inferiore rispetto a quello della maggioranza. come
ha scritto Kymlicka, è diventato via via sempre più chiaro
che molti gruppi sentono di vivere in una condizione di marginalità nonostante godano dei comuni diritti di cittadinanza. i componenti di questi gruppi sentono di essere
esclusi non solamente perché appartengono a categorie
svantaggiate dal punto di vista economico, ma anche a
causa della propria identità socio-culturale, vale a dire la loro
differenza (Kymlicka 2002, p. 239).
da queste premesse deriva il bisogno di andare oltre
il concetto tradizionale di cittadinanza. Per arginare il fenomeno dell’esclusione delle minoranze e per far sì che la
profonda diversità e il pluralismo culturale che caratterizzano le moderne società occidentali vengano accettati, riconosciuti e accomodati, c’è bisogno di una nozione di
cittadinanza sensibile all’identità socio-culturale degli individui. Solo in questo modo la diversità culturale può essere riconosciuta, anziché oscurata mediante un’idea di cittadinanza uniforme che assume come accettabile universalmente un modello di individuo (solitamente maschio, bianco, eterosessuale) che in realtà non è affatto universale.
30
un importante elemento di novità è costituito anche dal
fatto che le richieste di accettazione, riconoscimento e accomodamento sono state avanzate spesso da soggetti considerati non come individui isolati, ma come membri di gruppi esclusi o oppressi. Perciò, il processo di elaborazione di
un’idea di cittadinanza maggiormente sensibile alla diversità è stato accompagnato dalla comparsa di nozioni controverse come ‘diritti collettivi’ o ‘diritti di gruppo’.
il liberalismo, essendo per tradizione una teoria politica
individualista, è sembrato incapace difendere i diritti delle minoranze. infatti, almeno fino alla fine degli anni ’80 del
secolo scorso, il discorso sui diritti delle minoranze è stato
percepito come una reazione generale all’astrattezza individualistica e all’atomismo del liberalismo contemporaneo. l’enfasi liberale sull’autonomia individuale e sull’individualismo morale è stata assunta dagli autori comunitaristi (Sandel 1994; macintyre 2007²) come la prova che il
liberalismo sarebbe una teoria inadeguata a rendere conto della natura sociale dell’individuo e, di conseguenza, dei
diritti delle minoranze.
l’opera di Kymlicka si colloca in maniera originale in
questa temperie culturale. Fin dal suo primo libro (Kymlicka
1989), il filosofo canadese ha cercato di dimostrare non solo
che il liberalismo può elaborare un’efficace teoria dei diritti
delle minoranze, ma che sono le premesse stesse della
teoria liberale a esigerlo. infatti, il progetto teorico di Kymlicka consiste nella giustificazione dei «diritti delle minoranze come mezzi per proteggere comunità culturali la
cui sopravvivenza è considerata essenziale per la libertà e
l’eguaglianza degli individui che le compongono» (murphy 2012, pp. 62-63). Al fine di illustrare gli aspetti essenziali
della teoria di Kymlicka, nella prossima sezione analizzerò che cosa egli intende per liberalismo e per cultura. dopo
di ciò, nella quarta sezione, renderò conto delle nozioni di
diversità culturale e diritti delle minoranze.
31
2.3
Liberalismo e cultura
Kymlicka concepisce il liberalismo come una teoria politica
normativa, vale a dire come «un insieme di argomenti morali sulla giustificazione dell’agire politico e delle istituzioni» (Kymlicka 1989, p. 9). il liberalismo così inteso ha una moralità politica specifica, che Kymlicka espone mediante
tre proposizioni. la prima riguarda gli interessi degli esseri umani: «il nostro interesse essenziale consiste nel condurre una vita buona, nell’avere quelle cose che una vita
buona contiene» (Kymlicka 1989, p. 10). Questa asserzione
non va intesa nel senso relativistico o scettico per cui ogni
vita, quali che siano i valori sottoscritti o le esperienze
vissute, ha valore. Kymlicka infatti sostiene che vivere
una vita buona non equivale a condurre una vita che semplicemente crediamo essere buona (Kymlicka 1989, p. 10).
Gli esseri umani sono fallibili, e possono elaborare credenze errate sul valore di ciò che stanno perseguendo. il processo deliberativo per identificare quale vita sia buona e
quali fini debbano essere perseguiti non avviene nel vuoto, ma in un contesto caratterizzato da relazioni di interdipendenza. tale contesto, come si vedrà, è rappresentato dalla cultura.
Se si accettano queste considerazioni, l’obiezione secondo la quale il liberalismo si baserebbe sull’idea di un soggetto avulso dalle relazioni sociali, i cui interessi e preferenze sono dati indipendentemente dal condizionamento
sociale, è mal posta. Sia John Stuart mill sia John rawls, che
insieme a ronald dworkin (mill 1999; rawls 2008; dworkin
2010), sono gli autori liberali che esercitano maggiore influenza sul lavoro teorico di Kymlicka, hanno insistito sia
sul fatto che i fini individuali si formano all’interno della società sia che il carattere di ciascun individuo è plasmato e
modificato in diversi modi dall’interazione sociale.
l’esposizione della moralità politica del liberalismo
di Kymlicka si completa con altre due proposizioni che rappresentano le pre-condizioni della realizzazione della vita
buona: «una è che dobbiamo condurre la nostra vita dal32
l’interno, in accordo con le nostre credenze su ciò che conferisce valore alla vita; l’altra è che dobbiamo essere liberi
di mettere in dubbio queste credenze, di esaminarle alla luce
di qualunque informazione, esempi e argomenti che la nostra cultura possa fornirci» (Kymlicka 1989, p. 13). ciò vuol
dire che, perché qualcosa abbia valore per l’individuo, questi deve sottoscriverla. una credenza religiosa, per esempio,
non conferisce valore alla vita umana se viene imposta coercitivamente e non è il frutto di una deliberazione libera.
da qui derivano, secondo Kymlicka, le libertà civili e personali tradizionalmente associate al liberalismo, nonché l’avversione per il paternalismo ingiustificato e l’interesse liberale per la tutela della privacy. inoltre, in conseguenza della fallibilità umana, ciascuno deve poter vivere in un contesto che gli permetta di conoscere differenti concezioni del
bene e di disporre di quelle informazioni necessarie a esaminare il proprio piano di vita e a rivederlo qualora ce ne
fosse bisogno. da queste ulteriori considerazioni si può riconoscere la centralità dell’interesse statale per l’educazione
dei cittadini e l’importanza di altre libertà individuali care
al liberalismo come quella di espressione, di associazione,
di stampa.
un liberalismo come quello di Kymlicka, che abbiamo
visto essere tutt’altro che astrattamente individualistico, riconosce un valore fondamentale alla cultura e all’appartenenza culturale. infatti, pur sostenendo che in una società
liberale la decisione su come vivere spetti in ultima istanza
all’individuo (Herr 2007, p. 31), Kymlicka riconosce che
ogni decisione implica sempre una selezione tra le opzioni
che il contesto di scelta ci fornisce. Per Kymlicka il contesto
all’interno del quale gli individui scelgono per dare un significato alla propria vita è costituito dalla cultura (Kymlicka
1999, pp. 145-148). Perciò, il valore che il liberalismo può attribuire a una cultura non è un valore in sé, ma un valore derivante dal fatto di essere il contesto all’interno del quale le
scelte individuali si compiono e acquistano significato.
Per Kymlicka, la cultura è fondamentale per gli individui
anche in un secondo senso: essa conferisce loro identità. i
33
membri di una cultura tendono a identificarsi con essa fino
al punto che perfino il rispetto di sé di ciascuno è influenzato dal modo in cui la propria cultura è percepita dagli altri. in altri termini, quando una cultura non viene rispettata, vi saranno delle conseguenze negative per la dignità e
l’autostima dei membri della cultura stessa (Kymlicka 1999,
p 157). Kymlicka sostiene che il valore dell’appartenenza culturale non riguarda solo le società tradizionali, ma anche
quelle liberali, in cui le libertà e i diritti individuali sono tutelati e non esiste una concezione del bene condivisa da tutti i cittadini. in questo senso, l’approccio liberale all’appartenenza culturale si distingue da quello comunitarista, il quale invece presuppone che la comunità culturale nei confronti della quale l’individuo avverte un legame costitutivo
sia una comunità che condivide una specifica concezione
del bene.
Arrivati a questo punto, è opportuno precisare che
quando Kymlicka parla di cultura si riferisce a culture sociali
(‘societal cultures’). con questa espressione si vuole sottolineare che a caratterizzare le culture sociali ci sono non solo
valori e tradizioni comuni, ma anche un insieme di istituzioni e pratiche sociali condivise (Kymlicka 1999, p. 135). Più
precisamente, secondo Kymlicka una cultura sociale «è una
cultura territorialmente concentrata, basata su un linguaggio condiviso che è usato in molte istituzioni sociali, sia
nella vita pubblica che privata (scuole, mezzi di comunicazione, diritto, economia, governo)» (Kymlicka 2001, p. 25).
coloro che appartengono alla medesima cultura sociale condividono un linguaggio e delle istituzioni, ma non necessariamente credenze religiose, tradizioni e stili di condotta personale. infatti, una cultura sociale può essere, e in genere è, pluralista.
la creazione delle culture sociali è un fenomeno strettamente connesso al processo di modernizzazione. Kymlicka sostiene infatti che «la modernizzazione consiste nella diffusione, nell’ambito di una società intera, di una cultura
comune, compresa una lingua standardizzata, che si esprime in istituzioni economiche, politiche e formative comu34
ni» (Kymlicka 1999, p. 135). l’esistenza di culture sociali così
come Kymlicka le intende è stata funzionale al bisogno dell’economia moderna di avere una forza lavoro adatta alle
sue esigenze di sviluppo, e ha reso possibile la diffusione dell’elevato livello di solidarietà necessario al sostegno dei meccanismi del welfare state. inoltre, l’esistenza di una cultura
comune ha reso possibile la realizzazione di un sistema educativo pubblico che, a sua volta, ha consentito l’affermarsi
quell’eguaglianza di opportunità che costituisce uno dei fondamenti del sistema democratico.
2.4
Diversità culturale e diritti delle minoranze
Kymlicka distingue tra due tipi di diversità culturale ai quali corrispondono due tipi di Stati. nel primo caso la diversità culturale «trae origine dall’assorbimento in uno stato
più ampio di culture territorialmente concentrate che in precedenza si governavano da sole» (Kymlicka 1999, p. 21), sia
che si tratti di popoli indigeni, sia di gruppi che si percepiscono come vere e proprie nazioni all’interno di uno Stato
più grande dopo aver subito una colonizzazione o una conquista. le culture che vengono incorporate vengono definite
‘minoranze nazionali’, e lo Stato al cui interno sono presenti
minoranze nazionali viene definito ‘multinazionale’. in uno
Stato multinazionale, dunque, sono presenti due o più culture sociali distinte, e le culture minoritarie non aspirano all’assimilazione, ma a forme di autonomia o di auto-governo
che consentano loro di preservare la propria specificità
culturale. Gli uSA e il canada sono considerati esempi di Stati multinazionali. negli uSA le minoranze nazionali sono rappresentate dai Portoricani, dalle tribù indiane, dagli aborigeni Hawaiani e da tutti quei gruppi che sono stati involontariamente annessi agli uSA in seguito a colonizzazione
o conquista. le minoranze nazionali canadesi sono invece
rappresentate dagli indigeni e dagli abitanti del Quebec.
l’immigrazione costituisce la seconda forma di diversità culturale. i gruppi di immigrati vengono definiti ‘grup35
pi etnici’, e uno Stato in cui sono presenti nutrite comunità
di immigrati è definito ‘polietnico’. Gli immigrati, secondo
Kymlicka, non possiedono una cultura sociale distinta da
quella maggioritaria. infatti, essendosi trasferiti volontariamente in un altro Stato, gli immigrati sono disposti ad integrarsi nella nuova cultura sociale senza la pretesa (ma,
come si vedrà in seguito, anche senza le possibilità) di ricostituire la propria cultura sociale nel Paese che li ospita.
uno Stato può essere sia multinazionale sia polietnico,
come dimostrano gli uSA e il canada, dove esistono sia minoranze nazionali sia comunità di immigrati.
Kymlicka ritiene che la diffusione internazionale del
multiculturalismo sia stata resa possibile dall’accettazione
di tre principi fondamentali. in primo luogo, l’idea che lo Stato sia proprietà esclusiva del gruppo culturale dominante
è stata abbandonata. Al suo posto, si è andato affermando
sempre di più il principio che «lo Stato deve essere considerato appartenente a tutti i cittadini in eguale misura»
(Kymlicka 2007, p. 65; 2007ₐ, pp. 18-19). in secondo luogo, c’è
stato un passaggio dall’idea che le minoranze non devono
essere coercitivamente assimilate o escluse all’idea che le
minoranze possono partecipare da eguali nella sfera pubblica affermando la propria identità etnica. infine, si è ottenuto il riconoscimento dei torti commessi dalle maggioranze nei confronti delle minoranze, e si è accettata la legittimità di politiche compensative.
Gli stati polietnici e multinazionali hanno messo in
atto i tre principi appena elencati concedendo alle minoranze alcuni diritti. Kymlicka distingue tra diritti di auto-governo, diritti polietnici e diritti di rappresentanza speciale
(Kymlicka 1999, p. 50). Più nello specifico, i diritti di auto-governo riguardano l’autonomia politica o la giurisdizione territoriale concessa alle minoranze nazionali. i diritti polietnici invece sono quei diritti concessi agli immigrati e alle minoranze religiose per esprimere la loro particolarità culturale (per esempio, finanziamenti di attività culturali delle minoranze, esenzioni nei confronti di leggi che svantaggiano particolarmente alcuni gruppi, ecc.). infine, i diritti di
36
rappresentanza speciale sono quei diritti richiesti per sopperire ai possibili deficit di rappresentatività delle istituzioni
nei confronti delle aspettative e degli interessi delle minoranze.
Questi tipi di diritti costituiscono «forme di cittadinanza differenziata secondo l’appartenenza di gruppo»
(Kymlicka 1999, p. 81) perché vengono attribuiti non all’individuo in quanto tale, ma all’individuo in quanto facente
parte di un gruppo culturale. Spesso in questi casi si è parlato di diritti collettivi, suggerendo «una falsa dicotomia»
(Kymlicka 1999, p. 82) con i diritti individuali, come se tutti i diritti relativi alla cittadinanza differenziata fossero
esercitati collettivamente. invece, come Kymlicka fa notare,
esistono diritti conferiti ai gruppi che sono esercitati dagli
individui, come per esempio il diritto all’uso della lingua del
gruppo culturale minoritario.
Ad ogni modo, ciò che più conta per Kymlicka è affermare che i diritti delle minoranze non implicano quella che
potremmo definire una deriva collettivista del multiculturalismo. in altri termini, i diritti delle minoranze non fanno sì che il multiculturalismo privilegi la collettività rispetto all’individuo. infatti, Kymlicka è molto chiaro nel sostenere che i diritti delle minoranze hanno poco a che fare
con la contesa tra collettivisti e individualisti sulla priorità
degli individui o dei gruppi. Questi diritti «si basano piuttosto
sull’idea che la giustizia tra i gruppi richiede la concessione di diritti diversi a membri di gruppi diversi» (Kymlicka
1999, p. 87). infatti, come si vedrà nella sezione successiva,
alla base di questi diritti ci sono ragioni egualitarie, vale a
dire ragioni aventi a che fare con il fatto che alcuni individui possono essere svantaggiati perché appartengono a una
minoranza culturale.
nel prossimo paragrafo si vedrà anche che le ragioni del
conferimento di alcuni diritti alle minoranze sono, secondo
Kymlicka, coerenti con i principi del liberalismo. Anzi, è una
corretta comprensione e applicazione di tali principi che conduce al riconoscimento della legittimità di queste misure che,
pur non essendo estranee alla tradizione liberale, sono sta37
te sottostimate dai liberali contemporanei come John rawls
e ronald dworkin. Questi ultimi, come si è detto nel capitolo
precedente, hanno posto il pluralismo delle società contemporanee al centro della loro riflessione, ma hanno misconosciuto la reale natura della diversità culturale perché
hanno considerato il suddetto pluralismo come un fenomeno interno a un’unica cultura.
2.5
Diritti delle minoranze e liberalismo
Kymlicka sostiene che, data la centralità della libertà individuale per il liberalismo complessivamente inteso, i diritti delle minoranze possono essere accettati da un punto di
vista liberale solo quando non contraddicono il rispetto «della libertà e dell’autonomia degli individui» (Kymlicka 1999,
p. 133). i diritti delle minoranze si presentano come misure
per tutelare una cultura e quindi, se si vuole sostenere
che questi diritti sono coerenti con i principi del liberalismo,
bisognerà dimostrare che la difesa della propria cultura può
essere una fonte legittima di pretese da parte degli individui. A questo punto bisogna precisare che, quando Kymlicka
parla di difesa di una cultura, egli non intende la protezione del carattere di una cultura, cioè le norme, i valori e le istituzioni di una comunità in un determinato momento, ma
della struttura culturale. in questo senso, «la comunità culturale continua a esistere anche quando i suoi membri
sono liberi di modificare il carattere della cultura, qualora
essi non ritengano più di valore i suoi stili di vita tradizionali» (Kymlicka 1989, pp. 166-167). dunque, difendere una cultura non equivale a bloccarne l’evoluzione storica in modo
da preservarne l’autenticità.
Kymlicka utilizza due argomenti a sostegno della tesi
della compatibilità tra diritti delle minoranze e liberalismo: il primo fa riferimento alla cultura come contesto all’interno del quale l’autonomia individuale si esercita e acquisisce significato, il secondo invece si basa sulle premesse egualitarie della teoria liberale.
38
del primo argomento si è detto qualcosa già nel secondo
paragrafo. Gli individui compiono le proprie scelte a partire dalle opzioni messe a disposizione dal contesto culturale
in cui vivono. da un punto di vista liberale, gli individui scelgono e diventano autonomi all’interno della cultura a cui appartengono. Quindi, se i diritti delle minoranze vengono intesi come misure atte ad assicurare che ciascuno abbia le
condizioni necessarie alla fioritura della propria vita autonoma non si vede perché il liberalismo dovrebbe negare
il riconoscimento di queste politiche in favore delle minoranze culturali. Ad esempio, la concessione di diritti all’auto-governo per le minoranze nazionali deve essere vista come un modo per assicurare che ciascun individuo possa continuare a vivere nella cultura sociale nella quale è stato educato e nella quale trova la possibilità di scegliere ciò
che ha valore.
A questo punto, una possibile obiezione potrebbe essere
sollevata da coloro che fanno notare il pericolo derivante
dalla concessione alle minoranze illiberali di diritti del
tipo di quelli che qui stiamo discutendo. Si consideri, per
esempio, un gruppo tradizionalista che chieda e ottenga dei
diritti per rafforzare alcune forme di controllo della vita delle donne da parte degli uomini. in questo caso, i diritti delle minoranze favorirebbero l’oppressione di alcuni individui all’interno del gruppo, vale a dire le donne. Kymlicka risponde formulando una distinzione tra due tipi di pretese
che una minoranza culturale può avanzare: restrizioni interne e tutele esterne. le prime consistono in quelle misure che un gruppo può avanzare per ridurre, attraverso la restrizione delle libertà fondamentali individuali, l’impatto del
dissenso interno. Questo tipo di limitazioni delle libertà sono
incompatibili con il liberalismo. invece, le tutele esterne
sono quelle misure che un gruppo etnico o nazionale potrebbe richiedere per «proteggere la sua esistenza e identità mediante l’attenuazione degli effetti delle decisioni
della società dominante» (Kymlicka 1999, p. 66). i diritti delle minoranze sono accettabili quando si presentano sotto
forma di tutele esterne. in questo caso, non sono presenti
39
violazioni dei diritti individuali, e la richiesta di particolari forme di tutela giuridica risponde al bisogno di difendere i gruppi culturali minoritari dall’impatto di quelle decisioni della maggioranza che potrebbero influire negativamente sulla conservazione delle culture minoritarie.
l’accettabilità delle tutele esterne risulta più chiara alla
luce del secondo argomento di Kymlicka a favore della compatibilità tra diritti delle minoranze e liberalismo, quello basato sul carattere egualitario della teoria liberale. Sia John
rawls che ronald dworkin hanno difeso teorie della giustizia distributiva secondo le quali bisogna compensare o
rimuovere gli svantaggi derivanti da caratteristiche moralmente arbitrarie (rawls 2008) che influiscono pervasivamente sulla vita degli individui. in particolare, dworkin
ha elaborato una teoria della giustizia secondo la quale la
distribuzione delle risorse deve essere «sensibile alle ambizioni», ma non «sensibile alle doti» (dworkin 2002). Secondo i principi di questa teoria, la condizione di ciascuno
deve dipendere innanzitutto dalle sue ambizioni e dalle scelte che da queste ambizioni discendono. invece, le circostanze che ciascuno si trova a fronteggiare indipendentemente da ciò che sceglie, inclusa la cattiva sorte nel possesso
di doti naturali, dovrebbero essere compensate.
Kymlicka ritiene che i diritti delle minoranze culturali possano legittimamente trovare posto all’interno di una
teoria come questa. egli sostiene che «i membri delle culture
minoritarie possono subire disuguaglianze che sono il risultato delle loro circostanze o dotazioni, non delle loro scelte e ambizioni» (Kymlicka 1989, p. 190), e che i diritti delle
minoranze possono essere visti come gli strumenti adeguati
per contrastare tali disuguaglianze. la cultura è un bene fondamentale per ciascuno perché, come abbiamo visto, essa
rappresenta il contesto all’interno del quale le scelte individuali si esercitano e acquistano significato. Quindi, lo svantaggio che un individuo subisce quando la sua cultura è in
pericolo è particolarmente importante, e soprattutto non dipende dalle proprie decisioni. infatti, essere parte di una cultura particolarmente svantaggiata è una questione che ha
40
a che fare con la sorte piuttosto che con una decisione. in
questo senso allora, il riconoscimento di un diritto può
«compensare questo svantaggio, in quanto attenua la vulnerabilità delle culture minoritarie rispetto alle decisioni della maggioranza» e assicurare «che i membri della minoranza
abbiano, rispetto ai membri della maggioranza, le stesse opportunità di vivere e lavorare nella loro cultura» (Kymlicka 1999, p 190).
i diritti delle minoranze sono diversi e cambiano in base
alla minoranza considerata. nel caso delle minoranze nazionali, l’uguaglianza liberale consente la concessione di diritti all’auto-governo grazie ai quali una minoranza può mantenere in vita la propria cultura. in generale, il multiculturalismo ha funzionato molto bene in questi casi e non ha
creato particolari problemi (Kymlicka 2012). il discorso da
fare a proposito delle minoranze etniche, vale a dire gli immigrati, è diverso e ben più complesso.
Gli immigrati, come si è detto, non costituiscono delle
culture sociali distinte all’interno della cultura maggioritaria.
essi, inoltre, sono privi delle condizioni necessarie a mantenere una cultura sociale distinta all’interno dello Stato nel
quale si trasferiscono. Perché nel mondo moderno una
cultura sociale possa mantenersi e prosperare è necessario
che, in un determinato territorio, un gruppo culturale possa quotidianamente usare la propria lingua, controllare il
sistema educativo, il pubblico impiego (amministrazione ed
esercito in primo luogo) e le politiche migratorie. nel caso
degli immigrati, queste condizioni non si verificano. Anzi,
secondo Kymlicka, in generale gli immigrati aspirano a integrarsi e non rappresentano una minaccia per l’unità statale. le loro richieste di diritti non vanno interpretate
come pericolosi segnali di separatismo, ma come la ricerca
di «termini equi di integrazione» (Kymlicka 2001, p. 162). in
altri termini, quelli che prima abbiamo definito diritti polietnici hanno lo scopo di rinegoziare i termini dell’integrazione degli immigrati in modo da consentire loro di integrarsi nella cultura dello Stato in cui si trasferiscono nel
rispetto della propria specificità. un esempio per illustrare
41
questo punto può essere rappresentato dalla richiesta di poter indossare il velo islamico avanzata dalle minoranze islamiche in europa.
2.6
Liberalismo, autonomia
e diritti delle minoranze
come abbiamo visto, per Kymlicka, i diritti delle minoranze possono essere accettati da una prospettiva liberale
quando rispettano l’autonomia individuale. il ruolo dell’autonomia per Kymlicka è talmente rilevante che egli arriva ad assumerla come valore fondante della propria teoria liberale (Kymlicka 1996, p. 95). Kymlicka intende l’autonomia come revisibilità razionale (rational revisibility) dei
propri fini, cioè come capacità di rivedere i propri fini in base
a ragioni. la nozione di scelta e di autonomia che Kymlicka adotta è meno sostantiva di quella kantiana, secondo la
quale scegliere ha valore intrinseco perché riflette la natura
razionale degli esseri umani, o milliana, la quale invece fa
ricorso al valore intrinseco dell’individualità. eppure, anche
in questa accezione che Kymlicka ritiene largamente accettata sia dalle minoranze nazionali sia dagli immigrati presenti nelle liberaldemocrazie occidentali, l’idea di autonomia si mostra problematica.
in primo luogo, la tesi per cui una vita buona deve essere una vita autonoma nel senso specificato da Kymlicka
non è auto-evidente, né universalmente condivisa (Goodin
2006, p. 292). nella terza sezione abbiamo esposto quelle che
Kymlicka ritiene le due condizioni per la realizzazione di
una vita buona, vale a dire che la vita deve essere vissuta
dall’interno e che si deve avere la possibilità di rivedere i propri fini. non si tratta di proposizioni che godono di unanime accettazione neppure nelle moderne società liberali.
come ha scritto Parekh, «l’idea di vivere dall’interno è essenzialmente Protestante, e ha giocato solo un ruolo limitato nell’Atene e nella roma classica, nell’europa medievale,
nella cristianità cattolica, e nelle civiltà non-occidentali» (Pa42
rekh 2006², p. 106). nemmeno la revisibilità dei propri fini
sembra indiscutibile come condizione per la realizzazione
della vita buona. Pensiamo, per esempio, a coloro per i
quali una vita pienamente riuscita è quella che, seguendo
una determinata tradizione, mostra fedeltà assoluta a un determinato fine che viene assunto come dato e indiscutibile. Per persone come queste il successo della vita non è connesso alla scelta e alla revisione critica di un piano di vita,
ma al modo in cui si onora e si è coerenti con il fine supremo che la tradizione ha messo loro a disposizione. dunque,
l’autonomia, insieme allo spirito critico e razionalista che
spesso l’accompagnano, «è solo uno dei modi possibili di esistenza nelle società liberali – uno tra gli altri» (Galston
2002, p. 24). Per questa ragione, una teoria secondo la quale una vita non può dirsi riuscita sotto il punto di vista etico qualora non si diano le condizioni di cui parla Kymlicka
ci sembra incapace di cogliere e rispettare la profonda diversità che caratterizza il mondo contemporaneo.
ugualmente discutibile sembra anche il modo in cui
Kymlicka rende conto del valore dell’appartenenza culturale e il modo in cui il soggetto morale concepisce il rapporto
con la propria cultura. dal punto di vista di Kymlicka,
come si è detto, l’individuo attribuisce valore al fatto di appartenere a una determinata cultura sia perché essa costituisce il contesto in cui si danno opzioni di scelta autonome, sia perché conferisce identità ai propri membri (Ferrara
2014, p. 156). Per gli appartenenti a gruppi minoritari tradizionali queste due condizioni potrebbero entrare in un
conflitto difficilmente risolvibile. essi potrebbero attribuire un ruolo centrale al fatto che, nel conferire identità ai suoi
membri, una cultura limita le possibilità di scelta individuali
e quindi la possibilità che essi si sviluppino come individui
autonomi. come ha scritto monique deveaux, «piuttosto che
citare la “scelta individuale dotata di significato” come il beneficio più importante derivante dal fatto di far parte di una
cultura, i membri dei gruppi culturali minoritari potrebbero sottolineare i modi in cui l’essere membro dà un senso
di appartenenza – un contesto sicuro e stabile che fornisce
43
stabilità emotiva e psicologica limitando in parte il caotico
e disorientante insieme di scelte di vita possibili nel mondo moderno» (deveaux 2000, p. 132). in casi come questi,
l’enfasi posta da Kymlicka sull’autonomia potrebbe rappresentare una mancanza di rispetto e comprensione per
la specificità di alcune minoranze.
Al contrario di quanto Kymlicka sostiene, nelle moderne società liberal-democratiche esistono diversi gruppi culturali, non necessariamente di natura religiosa, che attribuiscono grande valore al rispetto delle tradizioni e che
concepiscono la realizzazione della propria vita buona all’interno del quadro delineato dalla propria appartenenza
culturale. un’enfasi accentuata sull’autonomia potrebbe condurre alla marginalizzazione di tali gruppi. Per esempio, poiché una cultura ha valore solo quando rende possibile
l’esercizio dell’autonomia, i diritti delle minoranze spetterebbero solo a quei gruppi che riconoscono il primato dell’autonomia stessa (moore 2001, p. 55). Al contrario, le richieste per il riconoscimento di diritti per quelle minoranze
culturali che si ispirano ad altri valori, ma che potrebbero
ugualmente trovarsi in una situazione di svantaggio immeritato, non avrebbero alcuna legittimità. Questo però è
in tensione con quell’argomento di Kymlicka che attribuisce diritti alle minoranze culturali basandosi sulle premesse egualitarie della teoria liberale.
il liberalismo di Kymlicka aspira esplicitamente a liberalizzare (Kymlicka 1999, p. 165) le minoranze non-liberali.
tale processo di trasformazione non deve però avvenire in
maniera coercitiva. infatti, Kymlicka distingue tra il processo
di identificazione della teoria liberale più difendibile, ossia
quella basata sull’autonomia, e il problema di chi possa esercitare l’autorità di imporla alle minoranze che non riconoscono il primato dei valori liberali. il divieto di imporre i principi della teoria liberale che, almeno in principio, vige nelle relazioni tra Stati nazione indipendenti, deve essere
esteso anche ai rapporti tra Stato e minoranze. tranne che
nel caso di gravi violazioni dei diritti umani degli individui
coinvolti, un intervento coercitivo diretto non è ammissi44
bile. ciò che gli Stati liberali possono fare si limita all’azione indiretta e al fornire incentivi alla liberalizzazione.
tuttavia, nonostante la cautela di Kymlicka nel negare la legittimità dell’imposizione del liberalismo, crediamo
che il suo approccio, nel porsi l’obiettivo della liberalizzazione delle culture non-liberali, si dimostra incapace di rispettare le minoranze nella loro specificità. la liberalizzazione delle minoranze, come ha opportunamente osservato
Bhikuh Parekh, potrebbe «trasformarle in qualcosa che
esse non sono» (Parekh 2006², p. 108). Sulla trasformazione delle culture non c’è niente da obiettare. infatti, a meno
che non si condivida la poco plausibile tesi secondo la
quale le culture sono entità immutabili, isolate e al di là del
divenire storico, si deve ammettere che le circostanze storiche e le relazioni reciproche operano incessantemente a
favore della loro evoluzione. i problemi per una teoria che
intende tener fede ai principi del liberalismo egualitario sorgono se si considera che, nel processo di integrazione delle minoranze, a trasformarsi è sempre la cultura minoritaria. A ciò bisogna aggiungere che tale trasformazione avviene secondo i criteri sottoscritti dalla cultura maggioritaria. dunque, i rapporti di forza tra i gruppi culturali non
vengono messi in discussione. ciò entra in evidente tensione sia con uno dei principi che Kymlicka considera
connessi con la diffusione del multiculturalismo liberale,
vale a dire l’idea che lo Stato non appartiene al gruppo culturale maggioritario ma è proprietà di tutti i cittadini indipendentemente dal gruppo culturale di appartenenza, sia
con l’egualitarismo che in generale caratterizza l’approccio
liberale di Kymlicka.
in parziale risposta a un’obiezione di questo tipo, Kymlicka ha sostenuto che «la concezione liberale del multiculturalismo inevitabilmente, intenzionalmente e impenitentemente trasforma le tradizioni culturali dei popoli»
(Kymlicka 2007, p. 99). la richiesta è che sia il gruppo dominante sia quello subordinato entrino in relazioni e siano
coinvolti in pratiche che esigono trasformazioni per entrambe le parti coinvolte. in questo senso, al gruppo mag45
gioritario si richiede di «rinunciare alle fantasie di superiorità razziale, di abbandonare le pretese di esclusiva proprietà dello Stato, e di desistere dal tentativo di plasmare le
istituzioni pubbliche esclusivamente secondo la propria immagine nazionale» (Kymlicka 2007, p. 99-100), mentre da
parte delle minoranze si esige il rifiuto delle pratiche contrarie ai principi liberal-democratici. non si può negare
che queste considerazioni (per altro in linea con la considerazione dell’integrazione degli immigrati come una strada a doppio senso [two-way street] di cui parleremo più estesamente nella prossima sezione) rappresentino un significativo passo in avanti rispetto a un approccio semplicemente assimilazionistico secondo il quale le minoranze devono adeguarsi ai principi e agli stili di vita della maggioranza. tuttavia, i problemi per l’approccio di Kymlicka
persistono perché al gruppo dominante viene richiesto di
trasformarsi secondo principi che sono propri ma che, per
accidente storico o negligenza, non vengono rispettati. Al
contrario, alle minoranze si richiede di conformarsi a principi che, in varia misura, sono loro estranei.
2.7
Immigrati e diversità culturale
come si è detto, Kymlicka intende l’immigrazione come la
seconda fonte della diversità culturale. l’immigrazione è vista come un fenomeno largamente volontario, e i migranti sono considerati come generalmente disponibili a integrarsi nella società che li accoglie. essi non cercano, né hanno la possibilità di ricreare, la cultura sociale del Paese di provenienza, ma, attraverso la richiesta di provvedimenti politici specifici, cercano di ottenere un’integrazione che sia
il più equa possibile. dunque, sia gli immigrati sia le politiche dello Stato liberale nei loro confronti non si propongono,
tranne che nel caso di sparute minoranze conservatrici
come gli Amish, il fine della segregazione o dell’auto-segregazione. Kymlicka sostiene che gli immigrati «vogliono
che le istituzioni maggioritarie della loro società siano ri46
formate in modo da accomodare le loro differenze culturali
e da riconoscere il valore della loro eredità culturale»
(Kymlicka 1996a, p. 119). Gli immigrati cercano l’inclusione
nella vita istituzionale e politica e ne sottoscrivono i valori fondamentali senza rappresentare minacce per la stabilità e per la pace sociale.
Kymlicka osserva con favore che, a partire dagli Anni ’60
del secolo scorso, nei tre Paesi a maggiore immigrazione (uSA,
canada e Australia) ci sia stato il passaggio da un modello assimilazionista detto ‘Anglo-conformity’ (Kymlicka 2001, p. 153),
secondo il quale gli immigrati devono adeguarsi sotto ogni
aspetto alle pratiche culturali e all’identità maggioritaria
del Paese in cui si trasferiscono fino a diventare indistinguibili
dai nativi, ad un modello più tollerante secondo il quale l’integrazione degli immigrati esige che la loro inclusione consenta la conservazione della propria specificità culturale. Gli
immigrati chiedono di partecipare alla vita del Paese in cui
si trasferiscono in qualità di cittadini degni di eguale considerazione e rispetto. essi hanno il diritto, ma perfino il dovere
(Kymlicka 2001ₐ, p. 263) di diventare membri a pieno titolo
della loro nuova comunità politica. tuttavia, l’integrazione,
lungi dall’essere un processo che richiede sacrifici esclusivamente da parte degli immigrati è una ‘strada a doppio senso’ (Kymlicka 2001, p. 171), in quanto la presenza di immigrati
modifica anche la società che li accoglie. in particolare, la politica di uno Stato liberale nei confronti degli immigrati è una
politica di integrazione pluralistica (Spinner 1994, cap. iV): l’inclusione delle minoranze etniche pluralizza la cultura sociale
maggioritaria in quanto vi immette gruppi diversi che sono
portatori di identità culturali specifiche ma, allo stesso tempo, anche le abitudini e le pratiche degli immigrati si modificano in senso liberale a contatto con quelle della società in
cui si trasferiscono.
le tesi di Kymlicka sull’immigrazione possono essere
sottoposte a diverse critiche. in primo luogo, è possibile
avanzare qualche perplessità a proposito dell’idea che gli
immigrati, tranne in casi tutto sommato marginali, cerchino sempre di integrarsi nella società in cui si trasferiscono
47
(Stjernfelt 2012, p. 55). inoltre, anche l’idea che i fenomeni
migratori siano sempre di natura volontaria può essere messa in dubbio (Kukathas 1997, pp. 412-416). A proposito della
volonterietà dell’immigrazione, tariq modood ha sostenuto che «la dicotomia tra migranti volontari e popoli incorporati è troppo rigida». egli si riferisce in particolare alla
difficoltà di concepire come volontari i flussi migratori
che, a partire dalla seconda metà del novecento, hanno interessato la Gran Bretagna e i Paesi che un tempo erano sue
colonie. Più che di migrazioni volontarie si tratterebbe di movimenti connessi all’eredità coloniale (modood 2013², p. 31).
un’altra difficoltà cui va incontro il modello teorico di
Kymlicka quando affronta il problema delle minoranze etniche si spiega in parte con una qualche forma di pregiudizio
multinazionale (modood 2013², p. 32). Pur essendo, come abbiamo visto a proposito dell’idea di integrazione pluralistica,
«pragmaticamente generoso nell’affrontare i bisogni politici e culturali e le insicurezze dei migranti», l’approccio di
Kymlicka si presenta però come «teoricamente ingeneroso» (modood 2013², p. 32) nei confronti degli stessi componenti delle minoranze etniche. infatti, l’argomento principale di Kymlicka in favore dei diritti per le minoranze culturali si basa, come abbiamo visto, sull’appartenenza degli
individui a una cultura sociale. Gli immigrati ne sono privi
e dunque, non esiste un argomento specifico che giustifichi i diritti polietnici con la stessa cogenza dei diritti concessi alle minoranze nazionali. una ragione del pregiudizio
multinazionale è, secondo modood, l’origine canadese di
Kymlicka e il suo interesse ricorrente per le questioni delle minoranze nazionali in canada e negli Stati uniti. da ciò
risulterebbe, sempre secondo modood, una scarsa applicabilità del modello di Kymlicka per l’analisi del fenomeno della diversità culturale in Gran Bretagna e nell’europa
occidentale, dove l’immigrazione rappresenta un problema di gran lunga più percepibile e urgente di quello delle
minoranze nazionali.
A mio avviso, i limiti dell’approccio di Kymlicka nell’affrontare le minoranze etniche vanno ricondotti più in
48
generale al fatto che la diversità culturale rappresentata
dagli immigrati è ampiamente sottostimata rispetto alla diversità delle minoranze nazionali. Ad esempio, in risposta
alle preoccupazioni a proposito di un generale arretramento delle politiche multiculturali nelle liberaldemocrazie occidentali, Kymlicka ha scritto che «le rivendicazioni dei gruppi nazionali e dei popoli indigeni comportano
generalmente una più sostanziale immissione di diversità etnoculturale nella sfera pubblica e un più sostanziale
livello di cittadinanza differenziata di quello che è richiesto dai gruppi di immigrati» (Kymlicka 2007, p. 51). dal
momento che le minoranze nazionali e i popoli indigeni
sono concentrati in un territorio differente rispetto a
quello della maggioranza, e, vista l’indipendenza culturale
che lo stesso modello di Kymlicka attribuisce sia alle une
che agli altri, ci risulta difficile comprendere come la diversità che essi rappresentano sia presente all’interno
della sfera pubblica di un Paese liberal-democratico, se non
in una forma molto indiretta e attenuata. Gli immigrati, al
contrario, non sono territorialmente concentrati in un’area
e, almeno tendenzialmente, non assumono un atteggiamento isolazionista. dunque, la diversità che essi introducono nelle società in cui si trasferiscono è ben più percepibile, se non altro perché le loro pratiche e i loro valori convivono, talvolta pacificamente ma spesso anche in
modo conflittuale, con le pratiche e i valori del gruppo maggioritario. È questo tipo di diversità che una società liberal-democratica deve assumere come prioritaria, ed è
sulla necessità di accomodarla secondo equità che i classici principi liberali di libertà, eguaglianza e inclusione devono esercitarsi.
infatti, l’integrazione pluralista di cui parla Kymlicka non
è stata ancora ottenuta. Anzi, per sua stessa ammissione,
negli ultimi anni si è diffuso un clima di sfiducia nei confronti delle politiche multiculturali, in particolare di quelle rivolte agli immigrati (Kymlicka 2007, p. 56). Se le riflessioni fatte nelle pagine che precedono hanno una qualche plausibilità, un modello teorico come quello di Kym49
licka, basato sull’idea dell’autonomia quale valore fondamentale del liberalismo e sulla tesi per cui nel discorso sui
diritti delle minoranze bisogna assumere come prioritaria
la diversità delle minoranze nazionali, non è lo strumento
più adeguato.
50
3. Il multiculturalismo
del riconoscimento e dell’inclusione
3.1
Premessa
in questo capitolo discuterò alcune formulazioni del multiculturalismo caratterizzate da un atteggiamento critico rispetto al liberalismo. Si tratta di quelle teorie multiculturali che potrebbero essere definite anche post-liberali (mancina
2012, p. 92) per il fatto che, pur partendo dalla considerazione
di principi e istituzioni liberali, ritengono che una risposta
adeguata alla diversità culturale richieda il superamento, o
almeno una severa messa in discussione, del liberalismo e
dei suoi principi fondamentali. in altri termini, come ha scritto uno degli studiosi che meglio hanno elaborato una versione di multiculturalismo post-liberale, «il multiculturalismo è un figlio dell’egualitarismo liberale ma, come tutti i figli, non è semplicemente una fedele riproduzione dei genitori» (modood 2013², p. 7). nelle pagine che seguono mostrerò che la discontinuità si mostra soprattutto nel riconoscimento della diversità culturale e nella rilevanza attribuita all’inclusione delle minoranze culturali.
Per quanto riguarda il riconoscimento della diversità
culturale, le teorie multiculturali che qui saranno discusse
giudicano positivamente che in una società siano presenti diversi gruppi culturali. la diversità culturale, per questi
teorici, non è un semplice fatto, un aspetto del mondo sociale contemporaneo, ma, come si vedrà più approfonditamente nelle pagine di questo capitolo, un valore che
deve essere approvato e promosso (Smith 2010, p. 159)
un altro tratto che accomuna questi approcci è la centralità del concetto di inclusione delle minoranze cultura51
li. infatti, il multiculturalismo che analizzerò in questo capitolo è un multiculturalismo dell’inclusione. esso aspira
ad accogliere, nelle modalità che chiarirò, le minoranze all’interno della società liberal-democratica. infatti, al contrario
di quel che molti critici temono, il multiculturalismo dell’inclusione non alimenta una società di gruppi separati, ma
incoraggia il rispetto per il pluralismo culturale e la partecipazione delle minoranze alla vita pubblica della società
complessivamente considerata. la diversità culturale,
come si è detto, è un aspetto delle società liberal-democratiche che deve essere valutato positivamente piuttosto
che essere semplicemente accettato come un dato della realtà sociale. inoltre, i gruppi culturali devono essere riconosciuti in modi e forme che mostrano la ristrettezza dei
principi liberali classici.
il punto di partenza dei sostenitori del multiculturalismo
che saranno analizzati in questo capitolo è che le società liberal-democratiche, nonostante il loro carattere intrinsecamente inclusivo, avrebbero in sé la tendenza a escludere
le minoranze. come è possibile, ci si potrebbe chiedere, che
una democrazia liberale, vale a dire una forma di governo in
cui tutto il popolo è detentore del potere politico, possa alimentare il rischio dell’esclusione sociale? Bisogna partire dalla considerazione che una condizione perché un regime liberal-democratico prosperi è che i cittadini condividano
un’identità politica piuttosto forte. Perché una società possa funzionare bene, c’è bisogno che i cittadini nutrano una
grande fiducia reciproca e che si sentano parte di una società
stabile e coesa. Questa situazione cambia quando gruppi nuovi e diversi, ad esempio gli immigrati, entrano in scena.
l’identità politica condivisa dalla maggioranza viene messa
sotto pressione a seguito della comparsa di gruppi portatori di un’identità morale e politica (almeno parzialmente) diversa. A questo punto, la maggioranza, per far fronte al contesto mutato, è chiamata a ridefinire la propria identità politica e i legami culturali ed emotivi che la tengono insieme.
non si tratta, come è facile intuire, di un compito facile. Spesso le liberaldemocrazie hanno affrontato questa si52
tuazione nel modo più semplice, vale a dire negando il problema. Ai nuovi arrivati si è negata la cittadinanza, come si
è verificato in Germania nel caso degli immigrati turchi. oppure, in molti altri casi, è successo che si è continuato a «parlare, pensare e far politica perpetuando la distinzione tra ‘noi
e loro’» (taylor 1999, p. 150). tuttavia, queste esclusioni sono
discutibili sia dal punto di vista morale sia politico. in primo luogo, l’esclusione minaccia l’eguale considerazione morale degli individui, che sembra un principio generalmente dato per scontato per lo meno a partire dall’inizio dell’età
moderna. in secondo luogo, l’esclusione rappresenta una
contraddizione rispetto alla logica della sovranità popolare intesa come governo di tutto il popolo (taylor 1999, p. 155).
Al carattere potenzialmente escludente della liberaldemocrazia, il multiculturalismo di cui renderò conto in questo capitolo contrappone delle strategie argomentative che
mirano a rendere possibile l’inclusione delle minoranze
intese come gruppi piuttosto che degli individui uti singuli.
infatti, l’esclusione alla quale il multiculturalismo si oppone riguarda i gruppi, o meglio gli individui in quanto appartengono a gruppi minoritari. in questo senso, quando per
esempio gli immigrati vengono esclusi, ciò accade perché
essi, in qualità di individui, condividono una cultura diversa da quella della maggioranza. l’inclusione, invece implica il riconoscimento pubblico della diversità culturale, cioè
l’accettazione di comportamenti, pratiche e identità differenti
come opzioni normali e legittime che i cittadini di una società
aperta possono avere a disposizione (Galeotti 2002, p. 15).
nel prosieguo analizzerò tre possibili versioni del multiculturalismo del riconoscimento e dell’inclusione. la prima versione, a partire dall’importanza del riconoscimento
dell’identità e del rispetto per le culture, sviluppa una versione
comunitarista del multiculturalismo che si oppone al carattere astratto e individualista del liberalismo contemporaneo. la seconda versione, invece, prende le mosse dalla critica al carattere etnocentrico del liberalismo per elaborare
un modello di dialogo interculturale capace di affrontare le
controversie multiculturali. infine, il terzo e ultimo approc53
cio analizzato considera il multiculturalismo come una teoria basata sull’eguaglianza e sull’integrazione delle minoranze
in un contesto pluralista dal punto di vista culturale. le
prossime tre sezioni discuteranno rispettivamente i tre approcci appena elencati. nell’ultima sezione formulerò alcune obiezioni alle teorie esposte in questo capitolo.
3.2
Multiculturalismo e riconoscimento
La politica del riconoscimento di charles taylor (1998) è il saggio in cui si trova chiaramente formulata la versione di multiculturalismo dell’inclusione che qui sarà analizzata per prima. taylor parte dall’assunto che l’identità umana dipende,
in parte, da come gli altri individui ci riconoscono. Per gli individui, un riconoscimento adeguato è «un bisogno umano
fondamentale» (taylor 1998, p. 10). infatti, sia un mancato
riconoscimento sia un riconoscimento inadeguato hanno
delle conseguenze negative per il benessere umano che si
configurano come vere e proprie forme di oppressione. il
soggetto non-riconosciuto o vittima di mis-conoscimento,
essendo imprigionato in un’identità che non gli appartiene,
vive una vita falsa e impoverita.
Ad avviso di taylor il riconoscimento e l’identità sono
diventati un problema politico solo a partire dal XViii secolo.
in età premoderna, infatti, il riconoscimento non creava particolari problemi, visto che ciascuno occupava il posto
che la struttura gerarchica gli assicurava all’interno della società. con l’avvento della modernità si verificano due cambiamenti che trasformano il modo e il senso in cui identità
e riconoscimento vengono trattati nella sfera pubblica.
in primo luogo, si verifica il crollo delle gerarchie sociali
e, con esse, del concetto di onore. l’onore è generalmente
inteso in senso tradizionalista e anti-egualitario. in una
società in cui vige l’onore esistono persone che lo posseggono e persone che ne sono prive, e le seconde hanno uno
status inferiore rispetto alle prime. Al concetto di onore si
sostituisce quello di dignità, che è invece intrinsecamente
54
egualitario e tipico di una società democratica. in un contesto democratico, infatti, vige il principio che, al di là delle differenze socio-economiche, tutti gli individui posseggono eguale dignità, nel senso che sono meritevoli della stessa considerazione e rispetto in quanto cittadini.
il secondo cambiamento riguarda invece l’affermarsi
dell’identità come concetto individualizzato. nel mondo moderno ciascuno ha la propria particolare identità, e la ritrova
in sé stesso attraverso un percorso di scoperta che ci rivela gli uni diversi dagli altri. tuttavia, queste ultime osservazioni non devono indurre a concludere che la costruzione
della propria identità avvenga in condizioni di isolamento.
infatti, il processo in cui ciascun individuo scopre la propria
identità si svolge in un contesto dialogico, tanto che, come
scrive taylor, «la mia identità dipende in modo cruciale dalle mie relazioni dialogiche con gli altri» (taylor 1998, p. 19).
inoltre, in polemica con il presunto carattere atomistico del
liberalismo contemporaneo (taylor 1985), taylor insiste sul
radicamento comunitario di ogni processo di costruzione
dell’identità. in altri termini, c’è un legame necessario tra individuo e comunità, nel senso che l’individuo acquista la propria identità solo all’interno di un contesto comunitario in
cui si condividono valori e modi di interpretare il mondo
(mulhall e Swift 1996², pp. 111-112).
i due cambiamenti appena descritti hanno prodotto fenomeni nuovi e significativi nell’ambito politico. il primo, vale
a dire la transizione dall’onore alla dignità, ha fatto emergere
la politica universalistica della dignità, secondo cui tutti gli
individui, in quanto posseggono eguale dignità, godono di
eguali diritti. il secondo cambiamento, innescato dall’affermarsi della nozione moderna di identità, ha invece dato
origine alla politica della differenza. Questo tipo di politica
richiede il riconoscimento dell’identità «irripetibile, distinta da quella di chiunque altro, di questo individuo o questo
gruppo» (taylor 1998, p. 24). la politica della differenza, così
intesa, rappresenta una soluzione di continuità rispetto a una
politica tradizionale in cui le specificità delle identità minoritarie venivano semplicemente ignorate o soppresse, e
55
l’assimilazione al gruppo maggioritario sembrava essere il
destino inevitabile delle minoranze.
Bisogna precisare che la politica della differenza, al pari
di quella dell’eguale dignità, ha un carattere universalistico. infatti, secondo taylor, anche la politica della differenza si basa su una potenzialità universale, «quella di formare e definire la propria identità, non solo come individui, ma
anche come cultura; e questa potenzialità deve essere rispettata allo stesso modo in tutti» (taylor 1998, p. 28). tuttavia, sebbene entrambe siano in qualche modo universaliste, vi sono due aspetti che distinguono la politica della differenza da quella della dignità.
in primo luogo, esiste una differenza fondamentale per
quanto riguarda l’oggetto di considerazione dei due tipi di
politica. la politica della dignità si rivolge, per così dire, a ciò
che gli esseri umani condividono nonostante le differenze
contingenti. la politica della differenza, al contrario, si
concentra su ciò che è distintivo in ogni essere umano, considerato sia come individuo sia come membro di un gruppo culturale. la richiesta di considerare gli esseri umani anche come appartenenti a un gruppo culturale è il secondo
aspetto della politica della differenza su cui bisogna soffermarsi. infatti, se la politica della dignità considera gli individui uti singuli (nel senso che ogni individuo ha dignità
in quanto tale, indipendentemente dal gruppo al quale appartiene), l’identità che la politica della differenza intende
promuovere ha carattere collettivo.
come è facile intuire, politica della dignità e politica della differenza entrano spesso in conflitto, sebbene siano
entrambe basate sull’idea di eguale rispetto. Per la politica
della dignità l’eguale rispetto si concretizza quando si trattano le persone astraendo da ciò che le differenzia, cioè in
un modo cieco alle differenze. invece, la politica delle differenza chiede di valorizzare e coltivare ciò che distingue
gli individui e i gruppi culturali (taylor 1998, p. 29).
la cecità alle differenze tipica della politica della dignità
è espressa molto bene dal liberalismo neutralista elaborato da filosofi come John rawls (2008), Bruce Ackerman
56
(1984) e ronald dworkin (2010). Per questi autori una società
autenticamente liberale rispetta i diritti individuali e aspira a mantenere un atteggiamento neutrale nei confronti delle concezioni del bene che gli individui fanno proprie e alla
luce delle quali decidono di vivere la propria vita. Per neutralità si intende che lo Stato non deve favorire alcuna
idea di vita buona, si tratti di una visione religiosa o secolare, e che le affiliazioni culturali, religiose e morali degli individui non devono avere alcun peso nel conferimento dei
diritti liberali. una società liberale, in questo senso, è tenuta
insieme dal rispetto di procedure piuttosto che da una visione del bene. È il rispetto delle procedure liberali, sostengono i liberali neutralisti, a garantire che ciascuno possa vivere come ritiene giusto in accordo con la possibilità
altrui di fare altrettanto.
taylor sostiene che il liberalismo neutralista basato sui
diritti individuali dovrebbe essere criticato in quanto «inospitale verso le differenze» (taylor 1998, p. 48). Questa forma di liberalismo aspira ad applicare uniformemente le regole a tutti i casi concreti e, a causa del suo carattere fortemente individualistico, esclude che una società debba e
possa avere dei fini collettivi. Per queste ragioni, il liberalismo neutralista e la politica della dignità (che costituisce
le sue premesse) non riescono a rendere conto di alcuni casi
particolarmente significativi, come quelli che sono al centro della riflessione della politica delle differenza. Per
esempio, in Québec, la popolazione francofona chiede una
sostanziale autonomia culturale al fine di perpetuare la cultura francese costantemente minacciata da quella anglofona. i governi del Québec assumono che la differenza
della cultura francofona debba essere riconosciuta e che la
sopravvivenza di questa cultura sia un bene collettivo degno di essere perseguito. Per realizzare questo bene è necessario mettere in atto dei provvedimenti (in ambito educativo, per esempio) che costituiscono delle trasgressioni
evidenti del requisito della neutralità liberale. infatti, privilegiando la cultura francofona, la società politica non è
neutrale tra coloro che vogliono essere fedeli alla cultura
57
dei loro antenati francofoni e coloro che invece intendono
svilupparsi autonomamente e aderire alla cultura anglofona.
c’è da dire che, per taylor, la neutralità liberale non è
né possibile né desiderabile (taylor 1998, p. 50). non è possibile perché il liberalismo è una moralità politica specifica
e particolare, legata a determinati contesti storici e politici.
inoltre, non è desiderabile perché impedisce di comprendere appieno che ogni società si regge su un’idea di bene comune molto più sostantiva di quella immaginata dai liberali.
Questi ultimi, sostenendo la priorità degli individui rispetto alla comunità, ritengono che l’unico bene comune accettabile sia costituito dalla convergenza degli interessi individuali. invece, per taylor, ogni comunità è contraddistinta
dalla condivisione di un’idea di bene comune, in base al quale le preferenze e i valori individuali devono essere giudicati (Kymlicka 2002, p. 220). inoltre, visto che, come si è già
detto, la comunità è il contesto all’interno del quale gli individui sono situati e formano la loro identità, la comunità
stessa è un bene da preservare.
in questo modo, sostiene taylor, si può rendere conto
di come il Québec possa violare i precetti della neutralità
liberale e cercare di promuovere politicamente la preservazione della cultura francofona. tuttavia, anche la concezione avanzata da taylor assume di muoversi nell’ambito
del liberalismo, sebbene si tratti di un liberalismo diverso
da quello cieco alle differenze ispirato alla politica della dignità (Smith 2010, p. 164). infatti, la promozione e la preservazione di una cultura messe in atto dalla politica della
differenza, pur potendo violare alcune diritti e libertà individuali (come quella di avere una segnaletica nella propria lingua di origine) devono attenersi al rispetto dei diritti
fondamentali (alla vita, alla libertà di espressione, alla libertà
di coscienza, ecc.).
Prima di concludere l’esposizione dell’approccio di
taylor al multiculturalismo e alla differenza culturale, ritengo opportuno precisare un punto particolarmente importante sul quale ritornerò nell’ultima sezione di questo
capitolo. taylor ha una concezione molto forte dell’idea di
58
riconoscimento. infatti, come ha scritto Anna elisabetta Galeotti, per taylor il riconoscimento implica che la differenza
culturale sia non solo riconosciuta e accomodata attraverso adeguate politiche pubbliche, ma anche approvata in
quanto dotata di valore intrinseco (Galeotti 2002, pp. 14-15).
tuttavia, nonostante l’attribuzione di valore intrinseco
alla differenza, taylor non si spinge fino a sostenere che tutte le culture siano eguali e che tutte meritino di essere promosse e difese allo stesso modo. un’idea del genere, secondo
taylor, non può essere sostenuta a priori, senza conoscere
il contenuto e la natura specifici di ogni cultura. un atteggiamento più saggio è invece quello di accostarsi allo studio di ogni cultura presumendo che essa sia degna di rispetto e abbia valore. Per dirla con taylor, bisogna assumere
quasi come un atto di fede che «tutte quelle culture umane
che hanno animato intere società per un lasso di tempo considerevole abbiano qualcosa di importante da dire a ogni essere umano» (taylor 1998, p. 55). dunque, così stando le cose,
ogni cultura deve essere protetta e preservata, soprattutto
quando si ha a che fare con culture minoritarie la cui sopravvivenza è minacciata dal potere della maggioranza.
3.3
Multiculturalismo, diversità culturale
e dialogo interculturale
un’altra versione particolarmente interessante del multiculturalismo dell’inclusione di cui questo capitolo rende
conto è stata elaborata dal filosofo anglo-indiano Bhikhu Parekh. egli ha difeso una teoria sistematica del multiculturalismo (uberoi e modood 2015) in cui la critica al carattere universalistico e monista del liberalismo contemporaneo
si congiunge all’uso del dialogo interculturale quale strumento fondamentale per la trattazione dei conflitti tipici del
multiculturalismo.
Parekh è uno di quegli autori che molto hanno insistito sul carattere particolaristico sia della liberaldemocrazia
come forma di governo sia del liberalismo come teoria
59
politica (Parekh, 1992). il problema, osserva Parekh, consiste nel fatto che il liberalismo è «un modo di pensare e vivere […] È storicamente specifico, legato a una particolare
cultura, economia e politica, e non viaggia da solo né resiste a lungo in loro assenza» (Parekh, 2011, 81). il liberalismo
pone una grande enfasi sull’individualismo, sull’ideale dell’autonomia personale, sulla razionalità, sulla scelta del
soggetto morale indipendente dal contesto sociale in cui
opera. inoltre, il liberalismo ritiene che le relazioni tra Stato e cittadino non siano mediate da istituzioni intermedie
(famiglia, clan, associazioni varie). il liberalismo, sostiene Parekh, nonostante l’aspirazione ad essere una teoria universalistica, esprime valori storicamente determinati, la cui
accettazione in contesti diversi da quello in cui hanno
avuto origine è profondamente problematica. Si pensi a
come un cittadino islamico potrebbe trovarsi in difficoltà
nel concepire il proprio rapporto con lo Stato in termini
astrattamente individualistici.
dato il carattere particolaristico e storicamente situato del liberalismo, affrontare le questioni poste dalla diversità culturale da un punto di vista liberale appare piuttosto problematico. come si è visto nel capitolo precedente, assumere che la visione liberale della vita sia universalmente accettata può risultare in un’imposizione di valori
e prospettive sulla vita individuale e collettiva che le minoranze culturali non-liberali potrebbero ragionevolmente mettere in discussione. Queste osservazioni valgono
sia per i teorici come Kymlicka e raz, sia per il femminismo
liberale à la okin (2007) che, proprio a partire dal carattere universalistico dei valori liberali, ha sottolineato come il
multiculturalismo possa essere pericoloso per i diritti e la
condizione sociale delle donne (Parekh 2007; Schachar
2007, pp. 117-123).
Ad avviso di Parekh, l’errore di fondo del liberalismo
contemporaneo è quello di assolutizzare il liberalismo (Parekh 2006², p. 110), cioè di porlo al centro dell’analisi teorica e di renderlo l’unico punto di riferimento anche quando
ci si accosta a tradizioni culturali diverse. A parziale difesa
60
dei liberali come rawls, raz e Kymlicka, Parekh ammette
che essi hanno riconosciuto il valore delle culture e del
modo in cui esse plasmano i bisogni e le capacità umane.
Questi liberali, tuttavia si sono limitati a riconoscere il valore strumentale della cultura, ma non si sono spinti fino al
riconoscimento del valore della diversità culturale (Parekh 2006², pp. 97-98; Young 2001, p. 117). in altri termini, i
liberali apprezzano la cultura per ciò che rende possibile
fare, per il fatto cioè di rappresentare il contesto che struttura le vite individuali, ma non sono capaci di fare il passo
ulteriore che, secondo Parekh, consiste nel mostrare perché
la diversità culturale sia qualcosa di cui avere cura per il suo
valore intrinseco.
nel resto di questa sezione esporrò gli argomenti di Parekh a sostegno del valore intrinseco della diversità culturale e renderò conto del modo in cui il dialogo interculturale viene utilizzato. esso, come si vedrà, serve a mettere in discussione i valori (liberali) su cui si reggono le liberaldemocrazie occidentali e ad affrontare le richieste di
esenzione che alcune minoranze culturali avanzano quando leggi universalmente valide contrastano con i dettami
della loro coscienza.
Secondo Parekh, esistono quattro ragioni a sostegno del
valore intrinseco della diversità culturale. Prima di elencare
queste ragioni, ritengo opportuno sottolineare che, secondo Parekh, ogni argomentazione a supporto del valore della diversità culturale non implica che una cultura possa essere preservata indipendentemente dalla volontà dei suoi
membri. in questo senso, una cultura sopravvive fino a quando i suoi membri si sentono vincolati dalla condivisione dei
valori che la identificano (Parekh 2006², p. 169).
in primo luogo, nessuna cultura (nel senso specificato
nella seconda sezione del primo capitolo), per quanto ricca e sviluppata, «racchiude tutto ciò che ha valore nella vita
umana e sviluppa l’intera gamma delle possibilità umane»
(Parekh 2006², p. 167). dunque, le culture si completano e
correggono a vicenda, e con ciò ampliano gli orizzonti della mente umana. È importante sottolineare come, per Pa61
rekh, una cultura ha valore per qualcuno anche quando essa
non rappresenta un’opzione disponibile per costui. Ad
esempio, la cultura di un popolo primitivo, benché non sia
(ad eccezione di casi estremi e statisticamente trascurabili) un’opzione a disposizione di noi cittadini di Paesi occidentali, può tuttavia avere valore dal momento che mostra
l’esistenza di altre possibilità e, allo stesso tempo, la parzialità
del nostro modo di vivere. inoltre, anche l’esistenza di culture remote sprona la nostra immaginazione a pensare
l’alterità e induce la nostra mente a riconoscere i limiti
delle nostre categorie concettuali.
in secondo luogo, la diversità culturale è un «elemento costitutivo e una condizione della libertà umana» (Parekh
2006², p. 167). infatti, in assenza di altre culture, gli esseri
umani rimarrebbero imprigionati nella loro cultura d’origine
e tenderebbero ad assolutizzarla. invece, grazie all’esistenza di altre culture, ciascuno può avere diversi punti dai
quali osservare la propria cultura dall’esterno, per valutarne
i punti deboli e quelli di forza.
in terzo luogo, la diversità culturale ci segnala anche la
complessità della nostra stessa cultura. A contatto con
culture altre, ciascuno si rende conto di quanto la sua stessa cultura sia il prodotto di influenze diverse e sia oggetto
di diverse interpretazioni. dunque, in condizioni normali e
in assenza di forme pervasive di coercizione, nessuna cultura può essere ridotta facilmente all’omogeneità.
infine, la diversità culturale crea un clima in cui le
culture si incontrano in un dialogo da cui tutti possono trarre benefici. le culture, entrando in contatto, scambiano idee
e si arricchiscono integrandosi, sperimentando e creando
nuove idee che nessuna cultura avrebbe potuto generare
da sola. infatti, le culture, secondo Parekh, non sono blocchi monolitici ma sono in continuo flusso e in evoluzione.
esse non vivono in isolamento, ma hanno connessioni e interazioni costanti, prima di tutto attraverso il dialogo.
la nozione di dialogo interculturale, di chiara ascendenza gandhiana (Parekh 2006², p. 372; Pantham 2015), è
centrale nel lavoro di Parekh sul multiculturalismo. in
62
quel che segue ne delineerò i tratti essenziali. innanzitutto,
va detto che il dialogo interculturale è l’unico accettabile
mezzo al quale si deve fare ricorso quando si discute di alcune pratiche minoritarie che violano i principi che la
maggioranza intende rispettare. nelle intenzioni di Parekh, il dialogo interculturale svolge un ruolo essenziale per
mostrare i limiti di un liberalismo che, nonostante la sua parzialità, si presenta come imparziale e universalista.
il punto di partenza del dialogo interculturale è rappresentato da quelli che Parekh chiama valori operativi
pubblici (Parekh 2006², p. 269), cioè quei valori (non immutabili) che regolano la vita dei membri di una società. i
valori operativi pubblici costituiscono, per così dire, «la struttura morale condivisa della vita pubblica di una società» (Parekh 2006², p. 270). essi infatti sono incorporati nella costituzione, regolano la legislazione ordinaria e le relazioni
tra i singoli cittadini.
il dialogo interculturale, secondo Parekh, è bifocale
(Parekh 2006², p. 271), nel senso che richiede una riflessione
critica sia sulle pratiche per le quali una minoranza chiede
un’esenzione sia sui valori fondamentali che regolano la vita
della maggioranza, vale a dire i valori operativi pubblici. così
facendo, la maggioranza e le minoranze sono chiamate a
mettere in discussione i propri comportamenti, le proprie
credenze e i valori che orientano la loro vita associata. entrambi i gruppi entrano in un processo dialogico che può
spingerli a rivedere alcuni aspetti del loro modo di essere
che consideravano come un dato acquisito e non rivedibile. È per questo che Parekh sostiene che il dialogo ha un effetto trasformativo su tutte le parti coinvolte.
il dialogo interculturale, per essere precisi, si articola
in tre fasi. Si tratta, come Parekh sottolinea, di tre fasi che non
avvengono necessariamente in sequenza. All’occorrenza,
inoltre, una delle tre può essere saltata. nella prima fase, la
minoranza è chiamata a difendere quella pratica che la maggioranza ritiene offensiva nei confronti dei valori operativi pubblici. in questa fase, la minoranza cerca di mostrare
che la pratica in questione è dotata di autorità in quanto par63
te integrante della sua cultura e, per questa ragione, crea degli obblighi. la maggioranza, di solito, non è persuasa da questa strategia argomentativa, dal momento che il fatto che una
pratica rientri tra ciò che una cultura consente non equivale
a renderla moralmente accettabile.
Bisogna dunque passare alla seconda fase del dialogo.
Arrivati a questo punto, la minoranza può sostenere che la
pratica al centro del dialogo può essere apparentemente discutibile, ma deve essere consentita perché è talmente
connessa ad altri elementi della sua cultura che, qualora fosse vietata, ci sarebbe lo sconvolgimento della cultura minoritaria stessa. non è detto che la maggioranza accetti il ragionamento della minoranza. infatti, dinnanzi a una pratica inammissibile la maggioranza può affermare che nessun
modo di vita è di per sé intoccabile, e dovrebbe essere
modificato quando la sua sopravvivenza dipende da simili pratiche.
infine, l’ultima fase del dialogo interculturale prevede
che la minoranza sostenga o che la pratica che la maggioranza vorrebbe proibire è accettabile alla luce dei valori operativi pubblici, cioè dei valori della maggioranza stessa, oppure che la pratica arricchisce la società nonostante sia in
contrasto con i valori della maggioranza. A questo punto, la
maggioranza può accettare la pratica della minoranza, ma,
se questo non accade è meglio rimandare la decisione fino
a quando maggioranza e minoranza non abbiano realizzato un percorso di convivenza che facilita la comprensione
reciproca. tuttavia, se una decisione è urgente e necessaria, Parekh suggerisce di dare priorità al rispetto della maggioranza e dei suoi valori per evitare di creare un eccessivo disorientamento morale e sociale.
Per vedere come il dialogo culturale funziona in concreto, considererò il modo in cui Parekh discute di mutilazioni genitali femminili (mGF) per le bambine, cioè di escissione (o clitoridectomia) e infibulazione (Parekh 2006², p.
274). il fenomeno riguarda almeno venticinque Paesi in Africa, medioriente e Sud-est asiatico ed è uno dei temi più discussi nell’ambito del multiculturalismo perché, nono64
stante sia proibito in tutti i Paesi occidentali, esistono delle comunità di immigrati musulmani che chiedono la libertà
di praticare mGF. la difesa di questa pratica può essere articolata seguendo le tre fasi del dialogo interculturale elaborato da Parekh.
in una prima fase, la difesa delle mGF può fare riferimento al fatto che la pratica in questione è richiesta dalla
religione o dalla cultura del gruppo al quale le bambine appartengono e, solo per questo fatto, è vincolante. Poi, nella
seconda fase, si può sostenere che le mGF sono connesse
ad altre pratiche e credenze che sono fondamentali per l’integrità dello stile di vita della comunità cui le bambine appartengono. Ad esempio, si può sostenere che praticando
le mGF si può garantire la morigeratezza della vita sessuale delle giovani donne e, dunque, renderle degne di rispetto in vista del matrimonio. ciò assicurerebbe alle giovani
donne di essere socialmente accettate all’interno della
loro comunità. infine, e siamo alla terza fase, i difensori delle mGF possono fare riferimento ai valori che le mGF promuovono e che la società nel complesso dovrebbe tenere
in considerazione. Giunti a quest’ultimo stadio, si potrebbe
infatti sostenere che le mGF assicurano che la sessualità femminile sia tenuta a freno, soprattutto durante l’adolescenza, e che si pongano argini rispetto all’ossessione per la sfera sessuale che tanti problemi psicologici può creare sia nelle giovani generazioni sia negli adulti.
Parekh crede che nessuna di queste difese riesca nell’obiettivo di rendere accettabili le mGF. Per quanto riguarda la prima, Parekh osserva che il fatto che una pratica sia imposta da una religione o da una cultura è una ragione per rispettarla, ma non è una ragione conclusiva. Parekh osserva anche che il corano non menziona mai le mGF
e che negli Ḥadīth si trova solo un riferimento ambiguo a
questa pratica. inoltre, molti Paesi musulmani non praticano
le mGF e, anche nei Paesi dove vengono generalmente
praticate, esiste un vivace dissenso a riguardo.
Anche le altre due strategie difensive, secondo Parekh, non riescono nell’intento. infatti, in entrambi i casi, i
65
presunti benefici non sono sufficienti a mettere in secondo piano tutti i danni che deriverebbero dalle mGF e che
sono ampiamente documentati e confermati sia dalla comunità scientifica internazionale sia dalle testimonianze
delle donne cui le mGF sono state imposte in tenera età. depressione, malesseri psicologici e incapacità di avere una
vita sessuale soddisfacente sono tutte conseguenze facilmente prevedibili, mentre i benefici sono altamente ipotetici. Per esempio, a proposito del controllo della sessualità su cui fa leva la seconda fase del dialogo, non è detto che
le mGF garantiscano la verginità (Parekh 2006², p. 277) o la
modestia in ambito sessuale, e che garantiscano che le
giovani donne siano accettate socialmente. inoltre, per
quanto riguarda i valori che le mGF promuoverebbero nella società complessivamente intesa, è difficile che un atteggiamento virtuoso, come potrebbe essere la disciplina
nella sfera sessuale, possa essere il risultato di una pratica
che si spinge fino a eliminare la «possibilità fisica di un vizio» (Parekh 2006², p. 277). infatti, l’esercizio della virtù richiede la possibilità di scegliere tra condotta viziosa e condotta virtuosa, ma le mGF, se praticate, eliminano letteralmente la possibilità di perseguire un (presunto) vizio.
3.4
Multiculturalismo, eguaglianza e integrazione
la terza e ultima teoria di cui renderò conto in questa sezione è stata formulata dal sociologo tariq modood in Multiculturalism. A Civic Idea, un volume pubblicato per la prima volta nel 2007 e poi, in seconda edizione aggiornata, nel
2013 (modood 2013²). tra quelle considerate in questo capitolo, la teoria di modood è quella meno filosofica e astratta. nell’approccio elaborato da modood, infatti, prevalgono
la concretezza e l’attenzione per gli aspetti sociologici, anche se l’influenza esercitata dell’elaborazione filosofica di
taylor e Parekh è chiara ed esplicita (martínez 2013, p.
735). infatti, a proposito della giustificazione del multiculturalismo, modood scrive che essa si basa sul «bisogno di
66
rispettare identità stigmatizzate o marginalizzate che sono
tuttavia importanti per le persone e non possono essere trascurate in nome dell’individuo o […] della coesione sociale,
dell’integrazione o della cittadinanza» (modood 2013², p. 112).
l’affinità con le teorie di Parekh e taylor presentate nelle
due sezioni precedenti si nota piuttosto facilmente.
modood definisce il multiculturalismo come «l’accomodamento politico delle minoranze costituite da immigrati
che, partendo da Paesi non occidentali, si trasferiscono nel
ricco occidente» (modood 2013², p. 5). dunque, il concetto
di multiculturalismo cui modood si riferisce è piuttosto ristretto, per lo meno rispetto a quello adottato da Kymlicka.
Quest’ultimo, come si è visto nel secondo capitolo, ritiene
che il multiculturalismo riguarda sia le minoranze nazionali
sia gli immigrati, ma finisce per privilegiare le prime a causa di quello che modood definisce pregiudizio multinazionale (modood 2013², p. 32). invece, il multiculturalismo
di modood, come si evince dalla definizione appena riportata, si occupa degli immigrati, in particolare della condizione degli immigrati musulmani nelle democrazie occidentali nel difficile clima socio-politico del post 11 Settembre (modood 2013², p. 13).
il punto di partenza della riflessione di modood è la differenza considerata in termini negativi, cioè come discriminazione, stigmatizzazione, esclusione, razzismo, ecc. (modood 2013², p. 34). il multiculturalismo parte dalla constatazione che esistono alcune differenze (rappresentate dai
gruppi minoritari di immigrati) che la maggioranza percepisce come deviazione dalla normalità (che è invece costituita dalla cultura e dall’identità della maggioranza stessa).
Queste differenze, per effetto del multiculturalismo, non
sono né cancellate né nascoste, ma diventano oggetto di valutazione positiva, cioè qualcosa da apprezzare, difendere
e promuovere.
la trasformazione della differenza culturale da elemento deviante a valore si coglie pienamente facendo riferimento alle tre parole-chiave del multiculturalismo di
modood, vale a dire eguaglianza, pluralità e integrazione
67
(modood 2005). le esporrò una per volta nel resto di questa sezione.
Per quanto riguarda l’eguaglianza, bisogna sottolineare che essa deve essere applicata ai gruppi e non solo agli
individui, come invece vorrebbe la tradizione liberale. il problema di una concezione individualista dell’eguaglianza è
che essa non riesce a cogliere pienamente l’esistenza di diseguaglianze dovute al fatto che gli individui posseggono
una determinata identità di gruppo. Si pensi al razzismo.
Questa odiosa forma di discriminazione colpisce gli individui non in quanto tali, ma in ragione della loro appartenenza a una minoranza etnica. il multiculturalismo, dunque,
intende realizzare una condizione di eguaglianza in cui le
possibilità di vita di un individuo non devono essere influenzate negativamente dall’appartenenza dell’individuo
in questione a un gruppo economicamente o politicamente debole, oppure vittima di pregiudizi e discriminazioni.
l’eguaglianza che il multiculturalismo di modood persegue è di natura sostanziale piuttosto che semplicemente formale. modood, riprendendo delle considerazioni di iris
Young (1996), sostiene che l’eguaglianza risultante «dall’applicazione imparziale e coerente di un unico insieme di
regole, nome o convenzioni» (modood 2013², p. 49) non basta per evitare che individui e gruppi subiscano discriminazioni e diseguaglianze. infatti, anche quando questo tipo
di eguaglianza viene soddisfatta, ci potrebbero essere alcuni
gruppi che hanno buone ragioni per mettere in discussione la natura delle regole applicate. ci si potrebbe chiedere,
per esempio, chi sia stato a formularle e se, nel formularle,
ci siano stati dei gruppi i cui interessi sono stati trascurati
oppure neppure presi in considerazione.
È ovvio che a formulare le norme che regolano lo spazio pubblico sia stata la maggioranza. in genere, la distinzione pubblico/privato o le caratteristiche personali e collettive che rientrano nell’ambito di ciò che è considerato normale sono state stabilite tenendo presenti i valori e le tradizioni della maggioranza. il modo in cui ciò avviene può
essere fonte di ineguaglianze significative, nonostante le re68
gole vengano applicate coerentemente e senza discriminazioni di sorta.
consideriamo per un momento le politiche sociali per
le abitazioni in un Paese occidentale (modood 2013², p.
51). esse si basano su un concetto di famiglia ristretta che è
tutt’altro che universalmente accettato. la famiglia normale
è quella mononucleare, cioè composta da genitori e (eventuali) figli. tuttavia, questo modello di famiglia potrebbe risultare problematico in un contesto di pluralismo culturale. Gli immigrati bengalesi a londra, per esempio, hanno un
concetto di famiglia esteso e multi-generazionale che mal
si concilia con quello su cui si basa il sistema delle politiche
per la casa nel regno unito. Allora, se le politiche sociali per
le abitazioni si basano sulla nozione di famiglia mononucleare, ci si verrebbe a trovare in un una condizione in cui,
nonostante l’eguaglianza formale, gli immigrati potrebbero sentirsi discriminati in quanto incapaci di trarre concreto
beneficio da alcune politiche sociali.
l’eguaglianza multiculturale, dunque, chiede di andare oltre le abituali norme di non-discriminazione e l’applicazione universale delle regole di convivenza. È come se il
multiculturalismo chiedesse di includere anche le minoranze nel processo di identificazione di ciò che è considerato normale nello spazio pubblico. in una società multiculturale, infatti, le identità minoritarie non sono costrette
a ritirarsi nel privato, quasi fossero qualcosa da nascondere in quanto difformi dalla maggioranza, ma acquistano una
dimensione pubblica.
Per esempio, in una società che è a maggioranza cattolica e non è sensibile alla diversità culturale, gli immigrati
musulmani possono sentirsi, in un certo senso, cittadini di
seconda classe. essi sono liberi di professare la propria fede
purché lo facciano in privato. Sono anche liberi di accedere alla sfera pubblica, a condizione però di privarsi di ciò che
li caratterizza come musulmani. lo spazio pubblico, dominato dalla religione cattolica e dalle sue multiformi manifestazioni esteriori, viene dato per acquisito e immodificabile. il multiculturalismo, invece, opera in modo da plu69
ralizzare lo spazio pubblico di una società pluralista dal punto di vista culturale, nel senso che il ventaglio delle opzioni normali, accettabili e meritevoli di rispetto viene ampliato.
il risultato è che in una società multiculturale, anche le identità minoritarie possono avere una dimensione pubblica, e
coloro che ne sono portatori non provano vergogna nel mostrarsi diversi agli occhi della maggioranza.
la seconda parola-chiave del multiculturalismo di
modood, come detto, è pluralità. Per definizione, una società
è multiculturale quando al suo interno esistono molti gruppi culturali. Questi gruppi hanno però caratteristiche molto differenti, e le politiche pubbliche che a esse si rivolgono devono essere sensibili a questa pluralità. i gruppi,
come scrive modood, hanno diverse «vulnerabilità, bisogni
e priorità» (modood 2013², p. 42, 108), per cui non esiste un
provvedimento che vada ugualmente bene per tutti i gruppi. Per esempio, possono esistere gruppi per i quali lo svantaggio è principalmente di natura socio-economica, mentre
altri gruppi possono essere economicamente agiati ma
allo stesso tempo essere vittime di odiosi stigmi sociali e pregiudizi difficili da sradicare. Quindi, pretendere che un’unica risposta sia adeguata a tutte le situazioni di svantaggio
è una richiesta eccessivamente omogeneizzante e irrispettosa della pluralità di forme che lo svantaggio e la discriminazione possono assumere.
infine, l’ultima parola-chiave è integrazione. in polemica
con i critici del multiculturalismo che da tempo ne hanno
decretato la morte e che lo ritengono responsabile della disintegrazione della società e dell’indebolimento dei legami
sociali (ossewaarde 2014; Vertovec e Wessendorf 2010), modood afferma che il multiculturalismo è uno specifico
modo di intendere l’integrazione (modood 2013², p. 146).
il multiculturalismo, secondo modood, esclude che le
minoranze debbano passare attraverso un processo di assimilazione alla maggioranza. Per assimilazione si intende
un processo unidirezionale in cui le minoranze si trasformano fino a diventare, per quanto è possibile, identiche alla
maggioranza, mentre a quest’ultima non vengono richiesti
70
particolari cambiamenti. l’integrazione, invece, è un processo sociale bidirezionale in cui sia la maggioranza sia le
minoranze si trasformano mettendo in discussione tradizioni, valori e credenze consolidate.
esistono almeno due aspetti dell’integrazione multiculturale che vale la pena sottolineare. in primo luogo,
l’integrazione riguarda non solo gli individui, ma anche i
gruppi. infatti, il multiculturalismo propriamente inteso si
occupa di accomodare l’identità dei gruppi. Siccome, come
ho già sottolineato, i gruppi sono tra loro differenti, ogni gruppo avrà il suo modo specifico di integrarsi, e ogni integrazione richiederà specifiche politiche in casi differenti.
in secondo luogo, l’integrazione crea nuove forme di appartenenza che ridisegnano il concetto stesso di cittadinanza. Gli individui appartenenti a gruppi culturali che si integrano diventano pienamente cittadini, ma in forme peculiari. il multiculturalismo dà origine alle cosiddette identità
con il trattino (hyphenated identities), come ad esempio gli italo-americani, gli ebrei-americani o i musulmani-britannici. un
italo-americano, in questo senso, è cittadino americano a tutti gli effetti, ma lo è in maniera conforme alla propria origine
etnica. Questo significa che in una società pienamente multiculturale è il concetto stesso di cittadinanza a pluralizzarsi, in analogia con quel che succede allo spazio pubblico: tutti possono essere cittadini, ma ciascuno lo è a suo modo, cioè
in maniera conforme al gruppo culturale di origine. Ancora
una volta, l’identità non viene né rimossa né rilegata nella sfera privata. Al contrario, entra a pieno titolo nell’ambito pubblico e lo trasforma in senso egualitario.
3.5
I limiti delle teorie multiculturali
basate sul riconoscimento
in questa sezione conclusiva formulerò delle obiezioni riguardanti alcuni aspetti delle teorie analizzate in questo capitolo. mi concentrerò sulla problematicità della nozione di
rispetto e riconoscimento per le culture, sul modo in cui tay71
lor rende conto della preservazione delle culture minoritarie
(su tale questione ritornerò nel prossimo capitolo) e sulla
nozione di dialogo interculturale di Parekh.
un aspetto del rispetto e del riconoscimento per le culture che può essere particolarmente problematico consiste
nella compossibilità (levy 2000, p. 32). Gli autori analizzati in questo capitolo sembrano affermare che il rispetto per
le culture debba essere eguale. tutti i gruppi culturali, infatti,
devono essere rispettati e riconosciuti dallo Stato che esercita l’autorità nel posto in cui risiedono. ma, ci si potrebbe
chiedere, è possibile che uno Stato rispetti tutte le culture
e attribuisca loro lo stesso valore? una risposta molto netta è stata formulata da Brian Barry. l’eguale riconoscimento di tutte le culture, sostiene Barry, è impossibile dal
punto di vista logico. le culture hanno un contenuto proposizionale (Barry 2001, p. 270), cioè includono idee che ci
portano a formulare giudizi sul vero e sul falso o sul giusto
e lo sbagliato. Questi giudizi, per ragioni puramente logiche,
non possono essere tutti veri. tuttavia, l’affermazione dell’eguale valore di tutte le culture indurrebbe ad attribuire
lo stesso valore a due culture distinte, sebbene la prima affermi “x è vero” e la seconda “x è falso”.
A dire il vero, taylor è ben consapevole delle difficoltà poste dal problema della compossibilità del rispetto e del
riconoscimento di tutte le culture. infatti, come si è visto alla
fine della seconda sezione di questo capitolo, taylor risolve la questione con una generica presunzione di eguale valore di tutte le culture. A mio avviso, questa soluzione è inadeguata perché taylor non rinuncia ad attribuire valore intrinseco a ogni cultura e a sostenere che ogni cultura deve
essere preservata, soprattutto quando si tratta di culture minoritarie.
Affermare, come fa taylor, che ogni gruppo può legittimamente avanzare richieste di sostegno da parte dello Stato ogniqualvolta rischi di scomparire, è una tesi molto forte e discutibile (Patten 2014, p. 154). essa sembrerebbe conferire alle culture una vita autonoma, indipendentemente
dagli individui che ne fanno parte. una visione preserva72
zionista, per la quale una cultura deve essere preservata
sempre e comunque, rischia di non riuscire a distinguere tra
casi in cui una cultura scompare per effetto della dissociazione volontaria dei suoi membri e casi in cui essa decade
a causa di interventi coercitivi dall’esterno.
Su quest’ultimo punto ritornerò nel prossimo capitolo.
Per ora, concludo questa sezione con alcune osservazioni
sul dialogo interculturale di Parekh. mi soffermerò in particolare sul fatto che, nonostante le intenzioni di Parekh, il
dialogo interculturale fa ricorso ad alcuni aspetti del liberalismo dai quali Parekh stesso intende distanziarsi criticamente. come si è visto, l’approccio dialogico serve per affrontare alcune questioni tipiche del multiculturalismo. nella terza sezione ho discusso le caratteristiche principali del
dialogo interculturale e, facendo riferimento alla questione delle mutilazioni genitali femminili, ho esposto i passaggi
argomentativi mediante i quali una minoranza può cercare di difendere la legittimità di una pratica che la maggioranza proibisce.
come si è detto, l’approccio dialogico di Parekh intende mettere in discussione il presunto carattere universale
del liberalismo. Già nel secondo capitolo ho riportato alcune
obiezioni di Parekh nei confronti dell’autonomia individuale
quale valore fondamentale della fioritura degli esseri umani. Si è già detto che l’autonomia, per come la intendono i liberali, è un valore che non può essere accettato universalmente da tutte le culture. Perciò, un multiculturalismo
basato sull’autonomia correrebbe il rischio di trasformare
le minoranze culturali in modi che esse stesse potrebbero
rifiutare in quanto lesivi dell’integrità delle loro forme di vita.
la polemica di Parekh nei confronti del liberalismo è
un tratto caratteristico anche del modo in cui il dialogo interculturale è elaborato. Parekh, per esempio, critica il liberalismo di John rawls per il carattere eccessivamente razionalistico e astratto che attribuisce alla deliberazione
politica. Secondo Parekh, gli argomenti usati nella deliberazione pubblica non possono essere puramente razionali e astratti (Parekh 2006², p. 311), ma devono riflettere ade73
guatamente il fatto che ogni individuo sia immerso in un determinato contesto culturale dal quale non può prescindere
quando argomenta pubblicamente a sostegno di una posizione politica.
eppure, il tentativo di differenziarsi da alcuni tratti
caratteristici del liberalismo non riesce pienamente. Sia il
liberalismo sia l’approccio dialogico di Parekh sono piuttosto
esigenti. entrambi richiedono che i processi dialogici siano
governati da regole di partecipazione equa, che ci sia libertà
di espressione e che le informazioni circolino liberamente.
inoltre, in entrambe le teorie, di norma ciascuno parla per
sé, tranne in quei casi in cui qualcuno sia democraticamente
autorizzato a sostituirsi a un altro (Kymlicka 2001b, p. 132).
Perciò il modello di Parekh è anche non meno astratto
e idealizzante di alcune delle teorie che egli critica. infatti,
perché il dialogo interculturale raggiunga il suo scopo, cioè
il consenso, è necessario che gli argomenti che offriamo siano accessibili e accettabili anche a persone che appartengono a culture radicalmente diverse dalle nostre. Gli argomenti utilizzati nel dialogo aspirano a persuadere razionalmente i nostri interlocutori. Si deve osservare che, secondo Parekh, la persuasione è una pratica non-avversariale
(Parekh 2006², p. 308), nel senso che gli interlocutori non
devono essere visti come avversari da sconfiggere, ma
come concittadini da convincere facendo ricorso all’argomentazione. la persuasione, sempre ad avviso di Parekh,
mira a costruire legami comuni e a forgiare «un ‘noi’ collettivo» (Parekh 2006², p. 309). tuttavia, se il dialogo interculturale presenta queste caratteristiche, le differenze
rispetto ai modelli che Parekh stesso critica (rawls e Habermas in particolare) diventano difficili da individuare.
dato il carattere conflittuale delle società multiculturali, anche il modello dialogico di Parekh sembra far ricorso a forti astrazioni e idealizzazioni.
inoltre, al pari delle teorie criticate per il carattere eccessivamente razionalistico ed idealistico, anche nel dialogo
interculturale di Parekh il ruolo della ragione è richiamato
più volte, e lo stesso Parekh, nel recente A New Politics of
74
Identity, insiste sul fatto che le società culturalmente pluraliste dovrebbero sforzarsi di creare le condizioni ideali perché un dialogo razionale tra diversi possa avere luogo (Parekh 2008, pp. 179-180).
il punto fondamentale è che Parekh, come è stato affermato, condivide con gli autori che intende criticare
(rawls e Habermas in primo luogo) una concezione kantiana
della personalità morale (Preiss 2011, pp. 153). Gli esseri
umani, secondo Parekh e Kant, hanno eguale valore morale
e, per questa ragione, quando agiscono devono farlo rispettando la dignità altrui. il rispetto per la dignità, e anche
su questo punto Parekh segue Kant, richiede (tra le altre
cose) che ciascuno sia considerato un agente autonomo,
cioè «capace di auto-determinarsi e perseguire scopi autoimposti» (Parekh 2008, p. 220).
in conclusione, da quanto si è detto finora appare
chiaro che, nonostante proclami il contrario, anche la teoria di Parekh privilegia il soggetto morale liberale e, per questa ragione, è incapace di cogliere a pieno la diversità culturale. esistono dei gruppi culturali che non conferiscono
all’autonomia individuale alcun primato e privilegiano stili di vita al cui centro c’è il rispetto della tradizione e delle
forme di vita che a essa si accompagnano. coloro che appartengono a queste minoranze vivono vite in cui la curiosità intellettuale, l’auto-critica e la conoscenza degli stili di vita altrui, potrebbero rivestire un ruolo trascurabile.
eppure si tratta di capacità intellettuali che Parekh ha in
grande considerazione fino al punto da metterle al centro
del sistema educativo multiculturale (Parekh 2006², p.
227) e ritenerle necessarie per partecipare al dialogo interculturale. tuttavia, per coloro che appartengono a gruppi che non coltivano queste capacità, l’accesso stesso al dialogo non sarà agevole, ed è facile prevedere che la maggioranza avrà buon gioco nel mostrare che le loro pretese
non possono essere accettate.
75
4. Il multiculturalismo
dell’indifferenza
4.1
Premessa
le teorie discusse fino a questo punto sostengono, in forme
differenti, che qualche forma di riconoscimento per la diversità culturale e per l’appartenenza degli individui a un
gruppo culturale sia un tratto essenziale del multiculturalismo. Per i sostenitori del multiculturalismo considerati nei
due capitoli precedenti, l’appartenenza degli individui ai
gruppi è qualcosa che ha valore, e quindi le istituzioni devono tenerne conto.
nel secondo capitolo si è visto che il culturalismo liberale attribuisce un grande valore all’appartenenza culturale e che esiste un legame molto forte tra esercizio dell’autonomia individuale e contesto culturale all’interno del
quale ciascuno vive. Per i sostenitori del culturalismo liberale il riconoscimento si concretizza attraverso la concessione di diritti alle minoranze culturali all’interno di un
quadro teorico che non mette in discussione i principi fondamentali del liberalismo. le teorie discusse nel terzo capitolo condividono una nozione più sostantiva di riconoscimento che, in alcuni casi, può richiedere di andare oltre
i principi del liberalismo. in entrambi i capitoli ho sollevato
delle obiezioni che mettono in dubbio la plausibilità complessiva sia del culturalismo liberale sia dell’approccio difeso
dai teorici del dialogo multiculturale come Parekh.
le difficoltà incontrate dalle teorie secondo le quali il
multiculturalismo deve riconoscere la diversità culturale mi
spingono a indagare se sia possibile difendere una versione di multiculturalismo in cui il riconoscimento non gioca
77
alcun ruolo. infatti, esistono delle versioni di multiculturalismo piuttosto minimale (Yack 2002, p. 115) per le quali la
preservazione della diversità culturale o l’espansione dei
diritti non costituiscono fini di particolare rilevanza. Autori
come Jacob t. levy (2000) e chandran Kukathas (2011), pur
da punti di vista molto diversi, sostengono che il fine principale del multiculturalismo è quello di garantire la pace tra
gruppi culturali che convivono all’interno della stessa comunità politica. il riconoscimento della diversità culturale,
sostengono questi autori, è da evitare in quanto potrebbe
condurre a conflitti (Kukathas 1998, 2011, 2008) oppure a pericolose forme di violenza, crudeltà e umiliazione (levy
2000). Se si vuole garantire la pace ed evitare sofferenze, sostengono i difensori di questo multiculturalismo minimale, le istituzioni politiche non devono riconoscere la diversità
culturale.
in questo capitolo esporrò e valuterò criticamente
questo approccio, soffermandomi in particolare sull’opera
di chandran Kukathas. A quest’ultimo si deve infatti una versione sistematica di quello che si può chiamare multiculturalismo dell’indifferenza (Kukathas 2012, p. 513). Si tratta
di una teoria per la quale l’indifferenza, nel senso che diventerà più chiaro nelle pagine che seguono, è l’atteggiamento che le istituzioni politiche devono adottare nei confronti della diversità culturale. la teoria di Kukathas attribuisce grande valore alla tolleranza e alla libertà di coscienza in un quadro marcatamente individualistico e liberale. il punto di partenza della riflessione di Kukathas è
l’esistenza di un profondo legame concettuale tra liberalismo e multiculturalismo. infatti, come si legge in un saggio
del 2008, «il liberalismo è una dottrina profondamente
simpatetica con il multiculturalismo perché è una dottrina
che proclama l’importanza della libertà individuale di vivere
una vita propria, anche se la maggioranza della società la
disapprova. Secondo la tradizione liberale, gli stili di vita minoritari, vale a dire la differenza, devono essere tollerati piuttosto che soppressi» (Kukathas 2008, p. 37). dunque, una società liberale tende ad accettare le minoranze e a non im78
porre agli individui di vivere secondo standard morali e culturali che essi non approvano. in un quadro siffatto, il compito del liberalismo è quello di far coesistere pacificamente individui e gruppi che appartengono a gruppi diversi e che
possono entrare in conflitto per svariate ragioni.
le pagine che seguono esporranno nel dettaglio il liberalismo di Kukathas e il modo in cui esso affronta i problemi posti dalla diversità culturale. Più precisamente, nella prossima sezione renderò conto del modo in cui Kukathas
concepisce il liberalismo. nella terza sezione illustrerò gli elementi essenziali della cosiddetta società arcipelago, che è la
società retta dai principi liberali così come Kukathas li intende. nella quarta sezione formulerò delle obiezioni all’approccio di Kukathas. mi concentrerò sull’incapacità da
parte di questa teoria di assicurare agli individui il diritto di
dissociarsi dal gruppo al quale appartengono (right of exit),
sull’assenza di un’adeguata nozione di comunità politica e
sul ruolo eccessivamente ridotto che viene riconosciuto allo
Stato. il capitolo si concluderà con la presentazione di alcune
ragioni a favore dell’esistenza di uno Stato unitario quale garanzia dell’esistenza pacifica di una società multiculturale.
4.2
Un liberalismo della tolleranza
in Two Concepts of Liberalism Kukathas sostiene che «il liberalismo è una risposta al fatto della diversità umana e ai problemi che essa produce» (Kukathas 2000, p. 100). ci sono almeno due modi di rispondere a questa domanda e, dunque,
due modi di intendere il liberalismo. in primo luogo, il liberalismo può essere visto come una teoria che descrive i principi seguiti da una comunità. in questo senso, «una comunità
è liberale se le sue istituzioni promuovono i valori che la rendono liberale» (Kukathas 2000, p. 98). l’autonomia in senso
kantiano o l’individualità in senso milliano sono di solito i valori alla base di questo tipo di liberalismo. dunque, una comunità è liberale quando promuove uno di questi valori attraverso l’operato delle istituzioni politiche.
79
Questa prima versione di liberalismo assume che gli individui, nonostante il disaccordo su molte questioni di natura morale, religiosa o filosofica, possano raggiungere un
accordo su alcuni fondamentali principi di giustizia. la
teoria della giustizia elaborata da rawls (2008) è un esempio tipico di questo modo di intendere il liberalismo. Kukathas, tuttavia, ritiene altamente improbabile che sia possibile raggiungere un accordo sui principi di giustizia in condizioni di pluralismo come quelle che caratterizzano le società liberal-democratiche contemporanee. infatti, ci si potrebbe chiedere, perché l’accordo è ottenibile solo quando
si considerano i principi di giustizia? il disaccordo tra libertari e socialisti sulla giustizia distributiva è altrettanto
profondo di quello che divide, per esempio, atei e credenti. Per ciò, sostenere che il disaccordo riguarda tutti gli ambiti tranne i principi di giustizia rischia di essere una mossa teorica sbrigativa e incapace di cogliere pienamente la
natura dei disaccordi tra individui (Kukathas 2000, p. 101).
Kukathas ritiene preferibile il secondo modo di intendere il liberalismo. da questo punto di vista, il liberalismo
non dovrebbe avere come questione fondamentale né i principi di giustizia né le norme che gli individui assumono come
rilevanti nelle loro vite private. Al contrario, il liberalismo
dovrebbe occuparsi di risolvere i conflitti all’interno della
società in modo da assicurare la pace. i compiti di uno Stato liberale sono essenzialmente quelli di un arbitro che risolve i conflitti tra individui e gruppi. Questo modo di concepire il liberalismo è, secondo Kukathas, coerente con le
origini storiche e con gli scopi tradizionali del liberalismo.
infatti, per Kukathas, il liberalismo delle origini era più
preoccupato di come assicurare un regime di pace e reciproca tolleranza che di creare una società giusta, nel senso di conforme a determinati principi di giustizia sociale (Kukathas 2011, p. 83).
un liberalismo come quello di Kukathas è pluralista, nel
senso che ammette l’esistenza di più di un’autorità legittima all’interno del medesimo Stato. inoltre, come si vedrà
meglio nella prossima sezione, in questo liberalismo, l’uni80
tà dello Stato non rappresenta un valore particolarmente
rilevante.
la centralità del valore della tolleranza, e dunque la distanza da quegli approcci basati sull’autonomia come quello di Will Kymlicka già analizzato, è un aspetto fondamentale
del liberalismo di Kukathas sul quale mi concentrerò nel resto di questa sezione. Si tratta di un approccio molto esplicito
nell’affermare che l’autonomia non deve essere il valore principale dell’ordinamento liberale. come ha scritto Anne Phillips, «nell’ambito della teoria politica l’attacco più netto all’idea
di autonomia si trova nell’opera di Kukathas» (Phillips 2007,
p. 104). infatti, per l’autore di The Liberal Archipelago, sostenere l’idea che l’autonomia sia l’aspetto essenziale dell’ideale
di fioritura umana impedisce agli individui di prestare attenzione a ciò che realmente conta, vale a dire la capacità di
vivere secondo i dettami della propria coscienza. dunque, secondo Kukathas, una vita eticamente riuscita, cioè secondo
coscienza, può essere una vita non-autonoma.
l’obiettivo principale della critica di Kukathas ai sostenitori dell’autonomia consiste nel precisare che la revisione e l’analisi dei propri fini non sono necessarie per vivere una vita buona. il punto è che per Kukathas anche una
vita non riflessiva può essere una vita che degna di essere
vissuta (Kukathas 2011, p. 114). ci possono essere dei casi in
cui l’analisi degli aspetti essenziali della propria vita potrebbe rovinarla e privarla di significato. inoltre, esistono delle persone che non hanno alcun interesse per la valutazione
e la revisione critica degli aspetti fondamentali della propria
vita. Se questo è vero, allora tutte quelle teorie liberali,
come quelle di Kymlicka o di rawls, che pensano che un atteggiamento razionalistico sia una componente necessaria
di una vita buona commettono un errore piuttosto serio.
dunque, coloro che sostengono che le istituzioni politiche dovrebbero promuovere, più o meno direttamente, stili di vita basati sull’ideale di autonomia come revisione razionale dei propri piani di vita, non fanno altro che imporre una visione del bene sulla cui universale accettazione sussistono dubbi consistenti.
81
Per Kukathas, invece, «una società o una comunità è liberale se, o nella misura in cui, è tollerante» (Kukathas
2011, p. 60). in questo approccio, la tolleranza non è una virtù esigente e difficile da realizzare. Kukathas, infatti, non ritiene che ciò che viene tollerato debba essere allo stesso
tempo rispettato o ammirato. la tolleranza richiede poco
più che indifferenza nei confronti della persona o dell’azione che viene tollerata (Kukathas 2011, p. 60). come è
facile capire, questo modo di rendere conto della tolleranza è diverso da quello di autori che, come rawls (2008),
Kymlicka (1999) o deborah Fitzmaurice (1993), difendono
il valore della tolleranza in modo indiretto. essi condividono
l’idea del primato dell’autonomia, ed è proprio questo valore
che definisce i limiti di ciò che deve essere tollerato. in altri termini, l’autonomia rappresenta il punto di osservazione
dal quale si decide cosa deve essere tollerato e ciò che invece deve proibito o scoraggiato: ciò che è coerente con il
rispetto dell’autonomia rientra nell’ambito del tollerabile,
mentre ciò che mal si concilia con l’autonomia appartiene
all’ambito di ciò che deve essere proibito o scoraggiato
(Kukathas 2006, p. 110).
le teorie liberali che difendono concezioni della tolleranza basate sull’autonomia hanno di solito un «impulso
liberalizzante» (murphy 2012, p. 67). Queste teorie tendono
a richiedere che le minoranze si trasformino in senso liberale e accettino il primato dell’autonomia. tuttavia, considerando che le minoranze spesso rifiutano l’autonomia
come valore centrale della vita individuale e collettiva, le
trasformazioni richieste potrebbero comportare delle violazioni della loro integrità. Kukathas rifiuta questo approccio per due ragioni. in primo luogo, esso assume senza adeguata giustificazione che in una società liberale esista un ordine morale prestabilito e che quest’ordine attribuisca un primato morale all’autonomia. in secondo luogo,
le concezioni della tolleranza basate sull’autonomia si preoccupano più della perpetuazione dell’ordine liberale che,
come fa tradizionalmente il liberalismo, del rispetto dei dissenzienti. Questo fatto, secondo Kukathas, potrebbe crea82
re rischi di «intolleranza e dogmatismo morale» (Kukathas 2011, p. 221)
dati i problemi in cui incorrono le teorie della tolleranza
basate sull’autonomia, Kukathas propone una concezione
alternativa. Questa concezione riconosce il valore strumentale della tolleranza ma va oltre il riconoscimento di
questo tipo di valore. infatti, secondo Kukathas, la tolleranza
ha valore strumentale perché si contrappone alla certezza
morale: gli esseri umani sono fallibili, e quindi tollerare diverse credenze può, alla lunga, permettere di ottenere credenze vere, o quantomeno più adeguate perché sottoposte
al confronto con credenze opposte. A queste considerazioni
Kukathas aggiunge che la tolleranza è «la condizione che dà
valore ai giudizi» (Kukathas 2011, p. 222). Su questo punto egli
segue l’argomento secondo il quale, in una società liberale,
non esiste un’autorità che abbia un accesso privilegiato alla
verità. in questo caso, la risposta liberale consiste nel fare
appello alla ragione, invocando «una serie di procedure cognitive, di strategie e di modelli, anche se non sono immutabili o al di là di critiche e revisioni» (Kukathas 2011, p. 222).
in un quadro come questo, l’autorità della ragione dipende
dal fatto che essa è situata in un contesto pubblico di apertura e critica. dunque, la tolleranza di visioni diverse e potenzialmente contrastanti è fondamentale per garantire l’autorità della ragione.
Questa concezione della tolleranza, con i suoi richiami
alla ragione, sembra produrre alcuni degli esiti delle teorie
basate sull’autonomia, vale a dire la liberalizzazione delle
minoranze. eppure non è così. Kukathas esclude che questa concezione della tolleranza porti a liberalizzare le minoranze conservatrici che rifiutano l’idea che una vita,
per essere apprezzabile, dovrebbe essere vissuta in modo
autonomo e razionale. ciò che conta, dal punto di vista liberale, non è massimizzare la ragione, nel senso di promuovere stili di vita ispirati all’autonomia e alla revisione
critica dei valori e delle credenze, ma onorarla (Kukathas
2011, p. 227). la ragione viene onorata, secondo Kukathas,
quando si esclude l’uso della forza per affrontare il disac83
cordo su come vivere e si privilegiano pratiche come la persuasione e l’esempio.
l’uso della forza, e dunque la liberalizzazione, devono
essere esclusi anche nel caso di quelle maggioranze che non
vivono secondo i principi del liberalismo. Secondo Kukathas, anche le minoranze illiberali, perfino quelle più isolazioniste come gli Amish e gli utteriti (Kukathas 2011, p. 224),
non devono essere liberalizzate. Farlo significherebbe
mancare di rispetto alla ragione stessa, in quanto significherebbe dare per risolto in favore dell’autonomia un confronto tra stili di vita alternativi che le società liberale rende possibile.
Questa complessa teoria della tolleranza (qui riassunta in modo molto sommario) ha delle implicazioni per
quanto riguarda la diversità culturale e il multiculturalismo
che saranno discusse nella sezione successiva. esporrò il
modello di società che Kukathas fa derivare da questa
concezione di tolleranza soffermandomi soprattutto sulla
riduzione delle prerogative dello Stato rispetto ai gruppi culturali e sulle ragioni per cui la diversità culturale non deve
essere riconosciuta.
4.3
La società arcipelago e la politica di indifferenza
nei confronti della diversità culturale
in Arcipelago liberale, Kukathas scrive che «la società libera descritta dal liberalismo non è un’unità sociale stabile,
creata o sostenuta da una dottrina condivisa. È piuttosto un
insieme di comunità (e dunque di autorità) legate in base a
leggi che riconoscono la libertà degli individui di associarsi come e con chi desiderano» (Kukathas 2011, p. 55). una
società autenticamente liberale è, secondo Kukathas, una
società arcipelago composta da molte comunità che, come
le isole di un arcipelago, navigano in un mare di reciproca
tolleranza. Agli individui si riconosce la libertà di far parte
di gruppi di qualsiasi tipo, perfino illiberali. Bisogna comunque osservare che l’appartenenza a un gruppo non è
84
esclusiva, nel senso che un individuo può far parte allo stesso tempo di diversi gruppi, i quali possono influire sulla sua
vita in modi differenti.
come è facile capire, nel modello di società raccomandato da Kukathas il ruolo dello Stato è sensibilmente
meno esteso rispetto a quello riconosciuto da altri teorici
liberali. Per esempio, Kukathas considera avversari del
suo Arcipelago liberale tutti coloro che fanno rientrare tra
i doveri dello Stato quello di sostenere e promuovere una
specifica concezione di giustizia liberale. Questa promozione si traduce nella liberalizzazione della società in generale e dei gruppi culturali che la popolano. Per Kukathas,
invece, né la liberalizzazione della società né quella dei gruppi rientrano tra le funzioni legittime di uno Stato liberale.
come si è già detto, più che promuovere la giustizia o tentare di rendere virtuose gli individui (Şahin 2010, p. 95), lo
Stato dovrebbe preoccuparsi di mantenere la pace e l’ordine
sociale in un contesto in cui differenti gruppi possono entrare in conflitto.
in questo senso, la teoria di Kukathas può essere definita
proceduralista (Parekh 2006², p. 199). una teoria del genere
ritiene che lo Stato sia neutrale rispetto ai fini degli individui
e si limiti a stabilire alcune norme di condotta minimali che
poi andranno a costituire la cornice all’interno della quale ciascuno persegue i propri fini. inoltre, il modello proceduralista non riconosce allo Stato alcun fine proprio se non la garanzia dell’ordine e della pace. in altri termini, lo Stato è un
arbitro (Kukathas 2011, p. 355) il cui compito consiste nel rendere possibile la coesistenza di gruppi diversi. Per essere più
precisi, lo Stato è «solo un arbitro, non l’arbitro» (Kukathas
2011, p. 355). in una società liberale lo Stato non è l’unico arbitro, nel senso che esistono altre autorità legittime. tuttavia,
lo Stato è un arbitro particolarmente importante a causa della natura e delle dimensioni del suo potere coercitivo.
nel complesso, l’atteggiamento di Kukathas nei confronti dello Stato è caratterizzato da scetticismo e sospetto (murphy 2012, p. 68). l’esistenza di un forte Stato centrale
costituisce una minaccia alla libertà individuale, dal mo85
mento che la richiesta di conformità a un apparato amministrativo centralizzato può condurre a violazioni della libertà degli individui di vivere secondo i dettami della propria coscienza. la «spinta verso l’uniformità» (levy 2000,
p. 41) è sempre stata pericolosa per la pace sociale, soprattutto per quelle società caratterizzate da disaccordi profondi
e irriducibili. la storia è ricca di circostanze in cui lo Stato
si è rivelato «il più potente strumento di dominazione che
si conosca» (Kukathas 2011, p. 268). Ad esempio, le persecuzioni religiose dell’europa del XVi secolo, sebbene fossero
apparentemente basate solo su ragioni religiose e teologiche, furono determinate anche dalle necessità dei nascenti
Stati-nazione europei di stabilire confini sicuri e, allo stesso tempo, di delimitare il ruolo delle chiese all’interno di questi confini. il problema è quindi che lo scopo principale dello Stato-nazione moderno, cioè ottenere una società omogenea a partire da una condizione di diversità, fu perseguito
anche a discapito della diversità e senza preoccuparsi molto della tolleranza. Gli Stati contemporanei attraversano una
fase storica molto diversa ma, secondo Kukathas, anche oggi
la richiesta di unità può rappresentare una minaccia per la
tolleranza e l’accettazione della diversità culturale.
A questo punto, dopo aver spiegato l’immagine dell’arcipelago liberale e il ruolo dello Stato, tratterò il modo in
cui il problema della diversità è affrontato nel modello
proposto da Kukathas. il punto di partenza per questa analisi è un passaggio del primo capitolo di Arcipelago liberale
in cui, in polemica con autori come William Galston (1995,
2002), Kukathas scrive che la diversità «non è il valore
perseguito dal liberalismo, ma costituisce la fonte del problema a cui esso offre una soluzione» (Kukathas 2011, p. 69),
cioè come far vivere liberamente individui e gruppi che possono avere opinioni contrastanti su come vivere. È semplicemente un fatto della vita sociale che ci sia una pluralità di culture, religioni e linguaggi. il liberalismo, per Kukathas, imbocca una strada sbagliata se aspira a proteggere o celebrare questa diversità assumendo che abbia valore intrinseco.
86
infatti, i sostenitori entusiasti della diversità hanno
delle difficoltà a rendere conto di alcune situazioni tipiche
che si verificano in contesti multiculturali. Pensiamo, per
esempio, a quando una lingua scompare perché coloro che
la usavano cominciano a utilizzarne un’altra, oppure al declino di una religione dovuto a una massiccia conversione
dei credenti. Se la diversità avesse valore intrinseco, i fenomeni appena citati sarebbero in ogni caso qualcosa di cui
preoccuparsi e a cui porre rimedio attraverso specifiche politiche. eppure, non si può non distinguere tra quanto accade
quando una lingua scompare perché chi la parla decide di
parlare la lingua del Paese in cui si trasferisce, e ciò che si verifica quando uno Stato uccide o imprigiona chi parla un idioma minoritario (levy 2000, p. 108). il primo caso non presenta particolari problemi. il secondo, invece, deve essere
evitato non tanto perché la diversità abbia valore intrinseco e quindi bisogna dolersi ogni volta che c’è una riduzione
di diversità, ma perché ci sono violenze inaccettabili che impediscono agli individui di vivere come desiderano.
date queste premesse, quale dovrebbe essere l’atteggiamento che il liberalismo dovrebbe assumere nei confronti della diversità culturale? lo Stato liberale è tenuto a
riconoscere la diversità di gruppi, comunità e associazioni?
cosa deve fare uno Stato liberale nel caso in cui gruppi culturali avanzino richieste di riconoscimento, ad esempio attraverso diritti differenziati e politiche specifiche? la risposta di Kukathas a questi quesiti è molto semplice. egli sostiene che «il liberalismo è indifferente ai gruppi ai quali gli
individui appartengono» (Kukathas 1997, p. 135; Kukathas
1998, p. 691). lo Stato liberale deve riconoscere la libertà degli individui di far parte di qualsiasi gruppo ma non deve occuparsi di come gli individui si rapportino a questi gruppi
e delle ragioni che essi hanno per farne parte. dunque, dato
che lo Stato ha come unico scopo la garanzia della pace e
dell’ordine, ogni forma di riconoscimento dei gruppi si situa
al di là del suo ambito di azione legittima.
le ragioni per negare la desiderabilità del riconoscimento sono varie. innanzitutto ci sono questioni riguardanti
87
l’identificazione dei gruppi stessi. infatti i gruppi, dal punto di vista di Kukathas, sono «formazioni sociali mutevoli
che cambiano dimensione, forma e carattere al variare
della società e delle circostanze» (Kukathas 1998, p. 693).
considerando la fluidità dei gruppi, come si può fissare il
confine tra i membri e gli estranei? esistono criteri di definizione di un gruppo che siano sicuri oltre ogni ragionevole
dubbio? inoltre, ogniqualvolta uno Stato crea un gruppo attraverso appropriate forme di riconoscimento politico, c’è
la possibilità che gli individui abbiano incentivi a identificarsi col gruppo stesso. Per esempio, quando uno Stato riconosce una categoria di persone come particolarmente
svantaggiate, è possibile che molte persone trovino vantaggioso identidicarsi con il gruppo svantaggiato per poterne
ricevere benefici (Kukathas 1998, p. 693).
tuttavia, i problemi maggiori legati al riconoscimento
sono di tipo consequenzialista, in quanto hanno a che fare
soprattutto con il timore di possibili «conseguenze dannose»
(Festenstein 2000, p. 74). il riconoscimento, sostiene Kukathas, è preoccupante perché sposta il conflitto tra gruppi da questioni distributive (cioè legate ai possessi di risorse
materiali) a questioni di identità. le prime questioni possono
creare problemi ma, essendo relative a interessi concreti,
possono essere risolti tramite compromessi. invece, i conflitti identitari riguardano «identità eteree» (Joppke 2010,
p. 100) che sono più difficili da ricondurre a un compromesso.
inoltre, affermare che il riconoscimento sia un’aspirazione universale di tutti i gruppi è piuttosto discutibile. infatti, non tutti i gruppi aspirano ad essere oggetto di riconoscimento. Ad esempio, alcune comunità di conservatori religiosi come gli Amish e gli utteriti, piuttosto che aspirare a partecipare alla vita pubblica, vogliono vivere in isolamento pressoché totale rispetto alla modernità.
oltre allo scetticismo verso il riconoscimento, l’attribuzione di grande valore alla libertà di associazione è un
aspetto centrale della teoria di Kukathas. Gli individui
sono liberi di far parte di qualsiasi gruppo o comunità. la li88
bertà di associazione è così ampia da permettere agli individui di far parte anche di comunità illiberali. infatti, secondo
Kukathas, una società liberale non deve essere composta
esclusivamente da comunità liberali (Kukathas 1995, p.
249). come si è detto, il liberalismo non è una teoria della giustizia, ma una teoria che si occupa di come assicurare pace
e ordine. dunque, un gruppo illiberale può essere tollerato
fino a quando non costituisce un pericolo per la sicurezza
della società nel suo complesso e non impone la propria autorità a coloro che vogliono sottrarsi al suo dominio.
infatti, la libertà di associazione non è senza limiti. Gli
individui hanno libertà di associarsi come e con chi preferiscono, ma dispongono anche di «sostantivo diritto di dissociarsi» (Kukathas 1995, p. 246), cioè hanno libertà di lasciare il gruppo al quale appartengono e, qualora lo vogliano,
di unirsi a un altro gruppo. il diritto di dissociarsi, secondo
Kukathas, equivale al diritto di ripudiare l’autorità. Quest’ultima, sostiene Kukathas, è valida fino a quando c’è
consenso tacito (acquiescence) da parte di coloro che appartengono al gruppo. È infatti il consenso tacito, piuttosto
che la giustizia, a fondare l’autorità dei gruppi che compongono l’arcipelago liberale (Kukathas 2011, p. 55).
tuttavia, per quanto rilevante, il diritto di dissociarsi
non è un valore ultimo. esso, infatti, si basa sulla libertà di
coscienza (Kukathas 2006, p. 115). infatti, rispettare la libertà
di un individuo di dissociarsi dal gruppo al quale appartiene
vuol dire onorare la sua coscienza. Quest’ultima, come
possiamo dedurre dalla complessa trattazione degli interessi
umani che Kukathas conduce in Arcipelago liberale, è un senso morale che dirige le vite degli individui. l’interesse a vivere secondo le prescrizioni della propria coscienza è visto
come un interesse umano fondamentale su cui c’è una
convergenza pressoché universale. indipendentemente
dai contesti storici e geografici, gli esseri umani vogliono vivere seguendo la loro coscienza (Kukathas 2011, p. 107).
la libertà di coscienza deve essere vista come «libertà interiore» (Kukathas 2011, p. 197). Questa libertà, per
come Kukathas la intende, cattura tre importanti idee li89
berali. in primo luogo, rende conto della capacità umana di
distinguere il giusto dall’ingiusto e dell’importanza di non
costringere gli individui ad agire in modi che essi reputano
sbagliati. in secondo luogo, la libertà di coscienza riconosce
che non esiste un’unica idea di giusto e sbagliato che sia valida per tutti (Kukathas 2006, p. 115). infine, la libertà di coscienza rende conto della convinzione liberale secondo la
quale le credenze su come comportarsi o su cosa credere
non devono essere imposte coercitivamente. Si tratta,
come è facile intuire, di una concezione minimale di libertà di coscienza. essa non coincide né con l’autonomia né con
la capacità di essere indipendenti e razionali. infatti, secondo
Kukathas, anche persone non autonome possono avere una
coscienza libera, nel senso di essere libere interiormente.
Per esempio, una donna musulmana che conduce la propria
vita di madre e moglie secondo i precetti della propria religione e secondo le norme conservatrici che dominano la
vita quotidiana del proprio villaggio, è libera anche se non
ha riflettuto razionalmente sulla propria vita e ha accettato passivamente i valori che la orientano. Questa donna, scrive Kukathas, «è libera perché può vivere una vita che non
ha rifiutato e perché non è costretta a viverne una che non
può accettare» (Kukathas 2011, p. 197). ciò che conta, ancora
una volta, non è la scelta di un soggetto razionale e autonomo, ma l’acquiescenza nei confronti dell’autorità e la possibilità di dissociarsi dal gruppo al quale si appartiene.
4.4
Oltre l’arcipelago liberale
come si evince dal discorso fatto finora, la società buona secondo Kukathas è composta da un insieme di gruppi che
hanno poche relazioni tra essi. i gruppi, concepiti come isole di un arcipelago in cui vige la tolleranza, godono di un ampio livello di indipendenza reciproca e sono pressoché totalmente liberi. come ha scritto George crowder, per Kukathas «la società buona è quella in cui i gruppi si lasciano
semplicemente l’un l’altro da soli» (crowder 2010) a con90
dizione che gli individui siano liberi di dissociarsi e che la
condotta di un gruppo non rappresenti una minaccia per la
stabilità e la pace della società complessivamente intesa.
Questo modo di rappresentare la società è piuttosto comune tra i teorici contemporanei che hanno discusso di
multiculturalismo e diritti delle minoranze. Kukathas è
probabilmente colui che ha difeso la concezione della società
come un arcipelago (Weinstock 2007) nella forma più estrema, ma esistono altri autori come Jeff Spinner-Halev (2001)
e John Gray (2000) che hanno elaborato modelli teorici simili, sebbene in forme più moderate. tutti questi studiosi
considerano la società liberale come «costituita da comunità separate e insulari» (Weinstock 2007, p. 257) che godono
di un’estesa autonomia. tuttavia, nolenti o volenti, queste
comunità condividono uno spazio comune che, in qualche
modo, hanno responsabilità di governare. lo spazio comune,
volendo utilizzare la metafora dell’arcipelago, è rappresentato dalle acque che separano un’isola dall’altra. Fuor di
metafora, invece, lo spazio comune è costituito da quella che
si potrebbe chiamare comunità politica, vale a dire lo spazio pubblico che ciascun individuo abita in qualità di cittadino, e non di membro di un gruppo o associazione. in questo senso, la comunità politica è differente dallo Stato, che
si caratterizza in senso istituzionale. lo Stato è infatti composto da tutti quei meccanismi istituzionali necessari a produrre leggi, eseguire politiche pubbliche, ecc.
il problema fondamentale della concezione della società
come un arcipelago consiste nel sottovalutare il ruolo e il significato sia della comunità politica sia dello Stato. in questa sezione mi occuperò dell’assenza di una adeguata nozione di comunità politica in Arcipelago liberale, mentre nella prossima sosterrò che uno Stato unitario più forte di quello riconosciuto da Kukathas è una condizione necessaria per
la pace e l’ordine di una società multiculturale. Prima di procedere alla discussione di queste considerazioni critiche
considero opportuno soffermarmi ancora un po’ sulla società-arcipelago e su una possibile obiezione che a essa si
può muovere.
91
Alla base della concezione della società come un arcipelago ci sono due assunzioni: l’assunzione dell’indipendenza e quella della completezza (Weinstock 2007). Secondo la prima, i processi attraverso i quali gli individui plasmano la propria identità hanno luogo esclusivamente all’interno dei gruppi ai quali essi appartengono. dunque, il
processo di formazione dell’identità sarebbe indipendente da quel che succede al di fuori del gruppo, per esempio
nella società politica. l’assunzione della completezza sostiene invece che il legame tra individuo e gruppo è talmente
stretto che il secondo, da solo, può rendere conto in maniera
completa dell’identità dei suoi membri.
Se si accettano queste assunzioni, si deve accettare che
gli individui si rapportino alla sfera pubblica e alle altre comunità esclusivamente come membri di un gruppo, e non
come individui a sé stanti. inoltre, bisognerebbe concludere
che tutto quel che accade all’esterno del gruppo sia (quasi)
completamente irrilevante per quel che riguarda la formazione dell’identità degli individui (Weinstock 2007, p.
258). eppure, queste assunzioni sono implausibili.
innanzitutto l’assunzione dell’indipendenza implica
che i gruppi nelle società liberali siano in genere isolati gli
uni dagli altri. invece, è un dato di fatto che, a eccezione di
pochi gruppi come gli Amish e gli utteriri, in una società liberale i gruppi e le loro culture interagiscono continuamente
e si evolvono in un processo comune. Anche l’assunzione
della completezza va rifiutata, dal momento che gli individui appartengono a diversi gruppi, e nessuno di essi, da solo,
può rendere conto dell’identità di uno specifico individuo. il punto è che la società-arcipelago assume come normale quelli che in realtà sono delle eccezioni e dei casi estremi. in una società liberale, la norma è rappresentata da comunità fluide e interagenti piuttosto che da gruppi conservatori isolati come gli Amish.
Se queste osservazioni critiche sono plausibili, la società
arcipelago deve essere criticata in quanto inadeguata dal
punto di vista descrittivo. in altri termini, questa concezione
non renderebbe conto di come le società sono effettiva92
mente (Spinner-Halev 2000, p. 83). tuttavia, nel caso di Kukathas, queste obiezioni appaiono un po’ esagerate. infatti,
in Arcipelago liberale è presente un esplicito riconoscimento della fluidità dei gruppi e delle loro interazioni (Kukathas 2011, p. 408). Sempre nella stessa opera si trova
chiaramente enunciato che nessun gruppo può pretendere di essere l’unico fattore che influisce sulla costituzione
dell’identità di un individuo (Kukathas 2011, p. 289). inoltre,
se si va indietro nel tempo, già in Are There any Cultural
Rights?, Kukathas sostiene che, sebbene ogni gruppo culturale sia libero di organizzare la propria vita collettiva secondo i propri principi, nessuna comunità è totalmente immune da relazioni con la società nel complesso e con le altre comunità (Kukathas 1995, p. 249).
eppure, nonostante queste considerazioni riducano la
validità dell’obiezione appena considerata, c’è un problema
di fondo che indebolisce il modello di Kukathas nel complesso. la comunità politica, come ho già accennato, non è
adeguatamente riconosciuta. dunque, tornando all’immagine della società arcipelago, le acque comuni che separano le isole non sono oggetto di un’analisi approfondita.
eppure, una riflessione a riguardo è necessaria per difendere
la tenuta teorica complessiva dell’approccio di Kukathas.
infatti, c’è bisogno di una comunità politica sufficientemente robusta affinché il diritto di dissociarsi da un
gruppo, sulla cui rilevanza ho insistito nelle pagine precedenti, abbia realmente significato. Quando un individuo si
dissocia dalla sua comunità deve avere la possibilità di andare da qualche parte, altrimenti il suo diritto a dissociarsi sarebbe solo puramente formale. cosa succede se l’individuo dissenziente non trova alcun gruppo disposto ad accoglierlo tra i suoi membri? A ben vedere, ipotizzare che l’individuo in questione abbia diritto ad essere ammesso in una
nuova comunità è piuttosto problematico e difficile da
mettere in pratica. tra i tanti gruppi presenti in una società pluralista, quale dovrebbe essere obbligato ad accogliere i dissenzienti? un’altra difficolta consiste nel fatto che imporre a un gruppo di accogliere al suo interno i dissenzienti
93
potrebbe violare l’integrità del gruppo stesso. Quest’ultimo,
infatti, si vedrebbe costretto ad accettare dei membri che
potrebbero non condividere i suoi valori e quindi minacciare l’omogeneità preesistente. infine, cosa bisogna fare
quando ci sono individui che, dopo essersi sottratti all’autorità del gruppo al quale appartengono, desiderano vivere fuori da qualsiasi altro gruppo?
una soluzione interessante (e, come chiarirò, solo parzialmente accettabile) a questo tipo di problemi è stata avanzata da Jeff Spinner-Halev. A lui si deve una chiara formulazione dell’idea che c’è bisogno della comunità politica per
dare concretezza al diritto di dissociarsi. Spinner-Halev sostiene che gli individui che si dissociano da un gruppo dovrebbero avere l’opportunità di accedere a una comunità
politica robusta e accogliente per tutti gli individui. una teoria come quella di Kukathas, con la sua enfasi sui gruppi e
sullo Stato come arbitro chiamato a risolvere le controversie
tra i gruppi, non sembra capace di trovare spazio per una comunità politica capace di accogliere chi si dissocia da un
gruppo. Sembrerebbe che, nonostante i fondamenti individualistici (Kukathas 1995, p. 231), la teoria di Kukathas privilegi la tolleranza per i gruppi rispetto a quella per gli individui (Spinner-Halev 2000, p. 84).
Accettare l’idea che una comunità politica serva a rendere efficace il diritto di dissociarsi non dice molto su come
questo spazio comune tra i gruppi dovrebbe essere inteso.
Spinner-Halev sostiene che la comunità politica deve essere
facilmente accessibile da parte di tutti gli individui, nel
senso che i requisiti per essere inclusi devono essere ridotti
al minimo. Poi, e qui io smetto di essere in accordo con la sua
soluzione, egli aggiunge che, essendo l’autonomia il valore
principale del liberalismo, la comunità politica deve «promuovere l’autonomia» (Spinner-Halev 2000, p. 87).
i problemi teorici cui va incontro una teoria che vuole
discutere di diversità culturale basandosi sull’autonomia
sono già stati esposti nel secondo capitolo di questo volume.
Qui si devono considerare i rischi derivanti dall’assumere
l’autonomia come valore fondamentale della comunità po94
litica. Quest’ultima, oltre ad accogliere i dissenzienti, è il luogo in cui convivono individui con diverse appartenenze culturali. È infatti nella comunità politica che gli individui trascorrono una parte sostanziale della loro esistenza di cittadini, indipendentemente dal loro ruolo di membri di un
gruppo culturale. dunque, se la comunità politica privilegiasse l’autonomia e gli stili di vita che a essa si ispirano, essa
non sarebbe egualmente accogliente nei confronti di tutti.
Per evitare questo esito, la tolleranza, piuttosto che l’autonomia, dovrebbe essere il valore guida della comunità politica. Piuttosto che promuovere o favorire uno stile di vita
rispetto agli altri, la comunità politica dovrebbe consentire
che individui con appartenenze culturali diverse convivano non compromettendo la pace e l’ordine sociale.
A questo punto, per così dire, rientra in scena lo Stato.
in questa stessa sezione, si è visto che lo Stato è definito in
termini di istituzioni, quindi è a esso che spetta la messa in
pratica di quelle azioni finalizzate a realizzare la pace e l’ordine sociale. il ruolo dello Stato, viste le simpatie anarchiche del multiculturalismo dell’indifferenza (Kukathas 2011,
p. 53) è alquanto ridotto. come si è visto, lo Stato è soltanto
uno degli arbitri che, in una società pluralista, devono risolvere i conflitti tra individui e gruppi. nella sezione successiva farò delle considerazioni sul ruolo dello Stato in un
contesto multiculturale. in particolare, mostrerò come
esso sia in un certo senso necessario al mantenimento di
una società multiculturale.
4.5
Perché uno Stato è necessario
per il multiculturalismo?
il multiculturalismo elaborato da Kukathas, come si è visto
nelle sezioni precedenti di questo capitolo, raccomanda un
mondo sociale caratterizzato da una tolleranza molto estesa per gli individui ma soprattutto per i gruppi culturali. Si
tratta, infatti, di una teoria che, a partire da premesse liberali, accetta anche l’esistenza di gruppi i cui valori e prati95
che si differenziano in maniera più o meno netta dal liberalismo. infatti, nell’arcipelago liberale c’è posto anche per
comunità tradizionaliste i cui comportamenti possono essere molto difformi rispetto ai principi fondamentali del liberalismo. Ad esempio, nell’arcipelago liberale possono
trovare posto anche gruppi culturali che operano discriminazioni basate sul genere, che impediscono ai bambini
di andare a scuola oppure che praticano mutilazioni genitali femminili.
in casi come quelli appena citati, il multiculturalismo
dell’indifferenza non riconosce la legittimità di un intervento
esterno per far cessare le pratiche illiberali. l’unico limite
alla libertà d’azione dei gruppi è che agli individui sia riconosciuta la libertà di dissociarsi. tuttavia, come è stato
scritto, c’è il rischio che l’arcipelago liberale immaginato da
Kukathas si trasformi in un «mosaico di tirannie» (Green
1995, p. 270). Sembrerebbe che, con lo scopo di sottrarre gli
individui dall’oppressione esercitata dallo Stato, Kukathas
consegni gli individui nelle mani di comunità culturali che
sono, almeno potenzialmente, altrettanto oppressive.
Questo modo di procedere, però, è in evidente contrasto
con il carattere individualistico del liberalismo in generale e con quello di Kukathas in particolare. infatti, egli sostiene
che i valori fondamentali del liberalismo sono universalismo, egualitarismo e individualismo. Quest’ultimo impone
il riconoscimento del «primato morale della persona contro le rivendicazioni di ogni collettività» (Kukathas 1995, p.
231), dunque, dal punto di vista liberale, gli individui hanno
sempre priorità rispetto ai gruppi, e questi hanno valore solo
quando e se promuovono il benessere degli individui.
lo Stato, come è noto, è stato spesso causa di odiose forme di oppressione per gli individui. lo scetticismo di Kukathas nasce proprio dal timore che gravi forme di violenza statale possano essere perpetrate ai danni degli individui. tuttavia, considerato che sia lo Stato sia i gruppi possono essere strumenti di oppressione (levy 2015, p. 28), un
atteggiamento scettico che si concentra esclusivamente sullo Stato non è sempre il miglior modo di tutelare gli interessi
96
degli individui e impedire che essi siano oppressi. una
strategia più adeguata potrebbe consistere nel ripensare il
ruolo dello Stato coerentemente con i principi del liberalismo in un contesto multiculturale.
innanzitutto, dal fatto che nella storia umana lo Stato
si sia più volte dimostrato oppressore non si può concludere
che esso sia, sempre e comunque, uno strumento di dominio. come ogni istituzione umana, lo Stato può essere riformato. come ha scritto Spinner-Halev, per evitare che lo
Stato sia tirannico «non si deve eliminare il potere statale
[…] lo si può limitare» (Spinner-Halev 2005, p. 161). limitare
il potere dello Stato, dopotutto, è coerente sia con gli scopi
tradizionali del liberalismo (almeno a partire da John locke il liberalismo si è occupato di come limitare il potere e le
prerogative dello Stato) sia con quelli del liberalismo per
come lo si intende oggi.
Porre limiti al potere statale, comunque, non vuol dire
eliminarlo del tutto. Anziché essere qualcosa da rimuovere a causa del suo carattere oppressivo, il potere dello Stato può essere visto come in qualche modo necessario al
mantenimento pacifico di una società diversificata dal
punto di vista culturale come quelle di cui parla Kukathas. Questo modo di intendere il ruolo dello Stato in ambito multiculturale è stato difeso da craig carr (2010). Quest’ultimo, più esplicitamente di Kukathas (2011, p. 245), sostiene che, siccome i gruppi culturali hanno molte occasioni
di interazione e di conflitto, il mantenimento della pace e
della tolleranza è seriamente in pericolo se ci si affida
esclusivamente al fato. infatti, scrive carr, «per fare in
modo che i gruppi possano vivere come vogliono insieme
ad altri gruppi c’è bisogno che il fatto del pluralismo sia organizzato, gestito e coordinato» (carr 2010, p. 90).
che i gruppi possano entrare in conflitto è una circostanza prevedibile in un contesto in cui esiste una pluralità di gruppi culturali. una volta che si riconosce che gli individui e i gruppi non vivono in isolamento e hanno molte
occasioni di interazione, le asimmetrie di potere possono
turbare la pace sociale e la tolleranza. infatti, a creare pro97
blemi non è semplicemente il fatto che esistano gruppi culturali diversi, ma che questi stessi gruppi siano diversi anche per quanto riguarda la composizione numerica, le ricchezze e il potere. in condizioni come queste, la possibilità che i gruppi più deboli vengano oppressi non è puramente
speculativa. Possiamo pensare che un’unità amministrativa centralizzata, in altri termini uno Stato, si occupi di affrontare tali questioni.
Più nello specifico, è possibile distinguere tre compiti
dello Stato. in primo luogo, lo Stato dovrebbe evitare che i
gruppi più potenti sfruttino e opprimano quelli più deboli.
così facendo, lo Stato dovrebbe creare le condizioni per la
pace e la stabilità tra i gruppi. in secondo luogo, lo Stato dovrebbe agire affinché la comunità politica possa accogliere tutti gli individui, cioè fungere da spazio comune in cui
tutti possano sentirsi a loro agio quando vivono da cittadini
e non da membri di un gruppo. infine, coerentemente con
le premesse individualistiche del liberalismo, lo Stato dovrebbe garantire il rispetto dei diritti umani fondamentali
degli individui sia all’interno sia all’esterno dei gruppi.
Quando uno Stato svolge il ruolo che qui ho solo sommariamente esposto va oltre quanto richiesto dal modello
difeso da Kukathas. Si tratta, come è facile intuire, di uno Stato più interventista di un semplice arbitro che si limita a dirimere le controversie tra i gruppi. eppure, solo in questo
modo si evita la possibilità di oppressione all’interno dei
gruppi. inoltre, la concezione di Stato qui abbozzata rafforza
il ruolo della comunità politica come il luogo in cui convivono gli individui nelle vesti di cittadini piuttosto che di appartenenti a un gruppo. Questo rafforzamento, come si è visto, è fondamentale per proteggere il diritto a dissociarsi, che
è un aspetto essenziale di un multiculturalismo come quello di Kukathas, che attribuisce grande rilevanza alle libertà di coscienza e di associazione.
in conclusione, si può dire che le osservazioni critiche
qui formulate possono essere lette come un tentativo di correggere alcune debolezze del multiculturalismo dell’indifferenza al fine di renderlo sia più solido dal punto di vista
98
teorico sia più adatto al mondo reale. È Kukathas stesso ad
ammettere quanto sia difficile pensare al multiculturalismo
dell’indifferenza nelle attuali circostanze socio-politiche. da
un lato, questa teoria sembra richiedere uno standard quasi impossibile da soddisfare, vale a dire una tolleranza totale. dall’altro lato, non c’è alcuno standard da soddisfare,
visto che qualsiasi tipo di comunità (non importa se liberale
o illiberale) può essere accettata all’interno dell’arcipelago
liberale. il multiculturalismo dell’indifferenza, o anarcomulticulturalismo (Kukathas 2008, pp. 41-42) descrive un
mondo in cui non esiste alcun regime politico. Questo
mondo, come Kukathas stesso scrive, «è non solo altamente improbabile, ma è anche decisamente diverso dal
mondo in cui viviamo» (Kukathas 2008, p. 42). in questo
mondo i regimi politici (in altri termini gli Stati) esistono, ed
è a partire da essi che si deve discutere come affrontare i
problemi posti dalla diversità culturale.
99
5. Conclusioni
5.1
Il discorso sulla crisi del multiculturalismo
europeo e il liberalismo muscolare
Sembrano passati molti anni, e in realtà era solo il 1997, da
quando si discutevano le tesi di un sociologo americano che
aveva scritto un libro in cui sosteneva che tutti erano oramai
a favore del multiculturalismo, soprattutto nell’ambito delle politiche educative (Glazer 1997). nello stesso periodo, precisamente nel 1999, Will Kymlicka scriveva con convinzione che il multiculturalismo aveva trionfato nelle democrazie occidentali (Kymlicka 1999a, p. 113; 2001, p. 33). non
c’erano dubbi sul fatto che le politiche multiculturali stessero
attraversando un periodo di espansione e che l’opinione pubblica avesse un atteggiamento generalmente positivo nei
confronti delle politiche di accomodamento della diversità
culturale. inoltre, ad avviso del filosofo canadese, i fautori
del multiculturalismo erano riusciti a ridefinire i termini del
dibattito pubblico fino al punto che nessuno poteva ragionevolmente assumere come un dato immodificabile che la
giustizia dovesse essere cieca alle differenze culturali.
tuttavia, nel nostro continente il trionfo del multiculturalismo ha avuto vita effimera (triandafyllidou, modood
e meer 2012). come già accennato nel primo capitolo, di recente si sono registrate autorevoli prese di posizione contro
il multiculturalismo da parte di autorevoli leader politici europei. Per esempio, Angela merkel nel 2010 ha denunciato
il fallimento delle politiche multiculturali in Germania. merkel si riferiva esplicitamente al fatto che le politiche in favore
degli immigrati turchi e arabi hanno prodotto segregazione
101
e isolamento piuttosto che integrazione. Simili idee sono state espresse nel 2011 da nicolas Sarkozy e david cameron. il
primo, convinto del fallimento del multiculturalismo, lamentava che le democrazie occidentali, nel tentativo di
accomodare le identità delle minoranze, avessero messo in
secondo piano la difesa e la salvaguardia delle proprie
identità. il premier britannico esprimeva disappunto perché
il cosiddetto ‘multiculturalismo di Stato’ aveva finito per incoraggiare le culture differenti a vivere separate piuttosto
che a integrarsi e a creare un’identità collettiva.
una preoccupazione comune, sia per i leader dei quali ho
riportato le opinioni sia per l’opinione pubblica più in generale, è che la crisi del multiculturalismo sarebbe dovuta alla
presenza di immigrati musulmani (Allievi 2005). Al centro dei
timori dei critici del multiculturalismo c’è proprio questa minoranza, spesso già vittima di stereotipi ed esclusione sociale.
Alcuni si sono addirittura spinti fino a connettere causalmente
il fallimento delle politiche multiculturali (dal quale risultano segregazione e isolamento delle minoranze musulmane)
e il proliferare del terrorismo di matrice islamica (Phillips
2006). in altri termini, le minoranze isolate rappresenterebbero il terreno di cultura ideale per i gruppi terroristici.
Bisogna anche considerare che la drammatica crisi
economica degli ultimi anni, con il conseguente incremento della disoccupazione e dell’insicurezza sociale, non
ha certamente consentito di instaurare un dibattito pubblico
sereno in materia di immigrazione e accomodamento delle minoranze culturali. in tempi di ristrettezze economiche,
le minoranze sono inevitabilmente gli altri, i responsabili della disintegrazione sociale e del tracollo dei tradizionali modelli di welfare state (Kymlicka e Banting 2006). eppure, i dati
economici dicono il contrario. Ad esempio, nei Paesi ocSe,
i servizi di welfare pagati agli immigrati sono poco rilevanti dal punto di vista statistico. Anzi, in alcuni Paesi (e tra questi troviamo l’italia) il contributo degli immigrati al welfare
state è maggiore di quanto essi ricevono (miraglia 2013).
la crisi del multiculturalismo è stata anche al centro del
dibattito accademico internazionale. È opportuno specifi102
care che quando si parla di crisi del multiculturalismo, ci si
riferisce quasi esclusivamente agli immigrati, in particolar
modo di religione islamica, e non alle minoranze nazionali (Kymlicka 2007, pp. 49-59; maffettone 2012). da più parti
si è parlato di ritirata (Joppke 2004), fallimento, morte (levey 2009) o backlash (Vertovec e Wessendorf 2010) del multiculturalismo. Secondo Steven Vertovec e Susanne Wessendorf (Vertovec e Wessendorf 2010, pp. 6-13) il discorso
sulla crisi del multiculturalismo si articola in sette punti distinti che però sono spesso usati congiuntamente oppure
in modo che uno dipenda dall’altro:
1)
2)
3)
4)
5)
6)
7)
il multiculturalismo è un’ideologia immutabile, addirittura un dogma che impone alle minoranze di non integrarsi;
il multiculturalismo inteso come ideologia di Stato
soffoca il dibattito poiché impone un atteggiamento di
political correctness che impedisce di discutere di questioni come l’immigrazione in termini concreti;
il multiculturalismo ha alimentato la separazione tra
maggioranza e minoranze etniche, consentendo a queste ultime di vivere vite parallele (Grillo 2010) anziché
integrarsi;
il multiculturalismo impedisce alle minoranze di avere una vita in comune con gli altri gruppi e, anzi, alimenta i conflitti etnici;
l’ideologia multiculturale impedisce di venire a conoscenze dei problemi vissuti dalle minoranze etniche;
il multiculturalismo equivale al relativismo culturale
e, dunque, non ha gli strumenti per opporsi ad alcune
pratiche tipiche dei gruppi culturali tradizionalisti (matrimoni combinati, diseguaglianze di genere, mutilazioni
genitali femminili, ecc.);
il multiculturalismo alimenta il fenomeno del terrorismo.
i sette punti appena esposti riassumono correttamente gli
aspetti principali del dibattito sulla fine del multiculturalismo. la mia impressione è che alcuni siano poco precisi. Ad
103
esempio, contrariamente a quanto sostenuto nel punto 1),
esistono diverse teorie multiculturali e, come ho cercato di
mostrare nei capitoli precedenti, alcune sono anche molto
differenti e hanno prodotto un dibattito vivace. Proseguendo, non si può non osservare come il punto 6) non corrisponda alla realtà. le teorie di cui si è parlato in questo volume non sono relativiste. Per esempio, il multiculturalismo
di Kymlicka che ho analizzato nel secondo capitolo si sviluppa proprio a partire da una tesi non-relativista sulla natura degli interessi degli esseri umani. infine, non è chiaro
se le osservazioni dei critici del multiculturalismo abbiano
come oggetto le politiche multiculturali o le teorie.
A proposito della crisi delle politiche pubbliche ispirate
al multiculturalismo, la riflessione teorica si è polarizzata attorno a due possibili posizioni. da un lato c’è chi, come Will
Kymlicka (2012) o tariq modood (20132), ritiene che tutto il parlare di multiculturalismo in crisi sia più un esercizio retorico
che una descrizione della realtà. insieme a Keith Banting, Kymlicka ha elaborato un Indice delle politiche multiculturali
(Banting e Kymlicka 2006, 2013) che rappresenta un tentativo di misurare l’evoluzione delle politiche multiculturali in
modo comparativo. Questo indice (iPm) assume che esistano otto fondamentali tipi di politiche in favore degli immigrati:
affermazione del multiculturalismo a livello costituzionale,
legislativo o parlamentare; adozione di curricula multiculturali; pluralizzazione dei media dal punto di vista culturale,
in modo da rappresentare anche la realtà dei gruppi etnici minoritari; esenzioni da alcune leggi o regolamenti; concessione della doppia cittadinanza; sostegno economico alle iniziative culturali delle minoranze; finanziamento di programmi educativi bilingue; programmi di affirmative action in
favore delle minoranze svantaggiate (Kymlicka 2012, p. 7).
la conclusione raggiunta da Kymlicka è che, se si
prende in considerazione l’iPm dei Paesi europei, il multiculturalismo è tutt’altro che in crisi. Si è passati da un iPm
medio di 0,7 registrato nel 1980 a uno di 2,1 nel 2000 (Kymlicka 2012, p. 14). l’iPm medio ha continuato a crescere anche nel decennio 2000-2010, che, secondo l’opinione co104
mune, dovrebbe essere il periodo di crisi più intensa. infatti,
l’iPm medio nel 2010 è stato 3,1. una significativa riduzione
delle politiche multiculturali si è registrata solo in olanda.
Paesi come italia e danimarca, invece, hanno assistito a una
modesta riduzione delle politiche multiculturali. tuttavia,
in Belgio, Finlandia, Grecia, irlanda, norvegia, Portogallo, Spagna e Svezia nel decennio 2000-2010 c’è stata una crescita significativa delle politiche multiculturali. negli altri
Paesi europei non elencati l’iPm è sostanzialmente stabile
oppure è cresciuto in maniera trascurabile.
un quadro diverso è quello che emerge dagli scritti di
christian Joppke (2004, 2014). egli registra una ritirata del
multiculturalismo in diversi Paesi europei (e non solo) che
avevano ufficialmente adottato politiche multiculturali.
in molti Paesi come la Gran Bretagna e l’olanda, per contrastare gli effetti disgreganti delle politiche multiculturali sulla società, sono state messe in azione delle politiche che
mirano esplicitamente all’integrazione civica. la svolta
verso l’integrazione civica, sostiene Joppke, «è guidata dal
tentativo di legare i nuovi arrivati alla particolare società che
li riceve» (Joppke 2004, p. 253), cioè ai valori morali, politici
e culturali che contraddistinguono il Paese in cui gli immigrati si trasferiscono.
in molti Paesi c’è stato un significativo cambiamento riguardante le politiche di integrazione degli immigrati. l’integrazione delle minoranze etniche, secondo gran parte dei
liberali sensibili al multiculturalismo (Kymlicka 1999), deve
essere una ‘strada a doppio senso’. con questa espressione
si vuole sostenere che l’integrazione delle minoranze deve
coinvolgere sia maggioranza sia minoranze in un processo
in cui sia la prima sia le seconde entrano in contatto e si adattano reciprocamente secondo principi di equità. Questa concezione di integrazione delle minoranze è stata messa seriamente in discussione, per esempio in olanda. la maggioranza è passata, come sostengono i critici del multiculturalismo, «dall’abbandono all’affermazione delle propria
cultura» (Joppke 2004, p. 249). ciò ha determinato l’incremento degli oneri che le minoranze devono sostenere per
105
integrarsi. Ad esempio, i test di cittadinanza entrati in vigore
in olanda nel 2003 vanno oltre la dimensione puramente
cognitiva (Joppke 2014, p. 290). Agli immigrati che decidono di vivere in olanda, oltre a domande sui principi liberaldemocratici e sulle istituzioni fondamentali, vengono poste anche domande sulle norme sociali e sulla moralità pubblica. i test di cittadinanza prevedono infatti anche domande sulla sessualità e sulla parità di genere. Agli immigrati non si chiede soltanto di conformarsi ai comportamenti
sanciti dalla legge del Paese in cui vivono, ma anche di avere determinate credenze su questioni che riguardano la sfera privata.
come Joppke ha osservato, test di cittadinanza così invasivi (anche lo Stato tedesco Baden-Württemberg nel 2005
ne ha adottato uno analogo a quello olandese) sono particolarmente problematici da un punto di vista liberale perché violano la tradizionale distinzione kantiana tra moralità
e legalità. È come se lo Stato pretendesse di entrare nella coscienze degli individui per verificare le loro credenze anziché
limitarsi alla conformità dei comportamenti esterni rispetto alle leggi (Joppke 2014, p. 290). uno Stato liberale, secondo
Joppke, dovrebbe interessarsi soltanto alla condotta dei cittadini, non a cosa essi credono. Ad esempio, un cittadino dovrebbe poter avere delle credenze omofobe che fanno parte di una concezione della vita religiosa a condizione di non
commettere azioni illegali nei confronti degli omosessuali.
non andrò oltre nella discussione sulla crisi delle politiche multiculturali in europa. Si tratta in gran parte di una
questione empirica e, quindi, difficile da affrontare compiutamente in questa sede. in ciò che segue mi occuperò di
una questione maggiormente teorica, e cioè dell’alternativa proposta dai critici del multiculturalismo.
Per comprendere alcuni aspetti importanti del dibattito
pubblico sulla fine del multiculturalismo in europa, compresa l’alternativa che i critici propongono, si può fare riferimento a un recente studio di marinus ossewaarde
(2014). egli ha analizzato il discorso sulla fine del multiculturalismo in olanda, Germania e Gran Bretagna nel perio106
do compreso tra Giugno 2010 e marzo 2011. in particolare,
ossewaarde ha considerato settantacinque articoli pubblicati su sette giornali nazionali diffusi nei tre Paese appena
elencati. i giornali che hanno pubblicato gli articoli analizzati sono di orientamento politico liberal-conservatore e
sono dei tabloid, quindi sono un punto di osservazione particolarmente appropriato per comprendere gli aspetti tipici
della critica al multiculturalismo che fanno presa presso
l’opinione pubblica.
ossewaarde sostiene che gli articoli considerati lasciano emergere tre caratteristiche essenziali. in primo
luogo, vi è uno stereotipo nei confronti dei musulmani, che
vengono rappresentati come culturalmente arretrati se
paragonati ai popoli dei Paesi in cui vivono. la differenza
sostanziale tra europei e musulmani è che solo i primi
avrebbero vissuto l’illuminismo, con tutto ciò che ne risulta
in termini di progresso politico, scientifico e morale. (ossewaarde 2014 p. 178). in secondo luogo, gli articoli analizzati da ossewaarde lasciano trasparire un timore molto netto per l’islamizzazione dell’europa. oltre ad essere culturalmente arretrati, i musulmani mirerebbero ad estendere
il loro stile di vita, diffondendo pratiche che gli europei tradizionalmente hanno rifiutato. in questo senso, la tolleranza
per le mutilazioni genitali femminili in Gran Bretagna è vista come un segno evidente del processo di islamizzazione. infine, le politiche multiculturali sono criticate per aver
reso possibile e rafforzato l’islam politico, che viene temuto come un nuovo totalitarismo che minaccia l’europa
con la sua storia di libertà e democrazia.
dunque, al centro delle argomentazioni di quanti fanno notare il fallimento del multiculturalismo ci sono, come
già osservato, le minoranze islamiche. A questo punto ci si
potrebbe chiedere come risolvere i problemi sollevati dai
critici del multiculturalismo. la proposta dei critici è un liberalismo muscolare. la formula, utilizzata anche da cameron nella sua dichiarazione sulla fine del multiculturalismo, indica il bisogno di un’azione politica forte che ponga al centro l’identità della maggioranza sempre più mi107
nacciata dagli immigrati. Secondo cameron, la tolleranza
passiva tipica del multiculturalismo e la neutralità dello Stato tra diverse concezioni del bene e opzioni etiche devono
essere abbandonate in favore di un atteggiamento che ribadisca la centralità dei valori della maggioranza. Gli immigrati devono parlare la lingua del Paese in cui vivono e
devono essere educati secondo la cultura e i valori della
maggioranza (Joppke 2014, p. 289).
la mia impressione è che liberalismo muscolare non sia
una risposta adeguata. Ai presunti problemi creati dal multiculturalismo, il liberalismo muscolare oppone il «tentativo di rinforzare una particolare visione monoculturale
dell’identità nazionale» (ossewaarde 2014, p. 174). tuttavia,
siamo sicuri che, nelle condizioni attuali, sia possibile avere una nozione monoculturale dell’identità nazionale? È possibile, in altri termini, negare il fatto della diversità culturale
che caratterizza, indipendentemente dall’immigrazione,
le democrazie occidentali?
inoltre, il liberalismo muscolare sembra richiedere una
visione essenzialista della cultura e dell’identità nazionale. i critici del multiculturalismo oppongono al proliferare
del pluralismo un ritorno a una tradizione unitaria e condivisa. ma, si potrebbe replicare, esiste una nozione unitaria di cultura e identità nazionale tale da poter essere condivisa da tutti, immigrati e non, senza contestazioni e dissensi? chi la ritiene possibile ha necessariamente una concezione essenzialista della cultura, nel senso specificato nel
primo capitolo. il fatto che l’essenzialismo riguardi la cultura
della maggioranza, e non come di solito accade quella di una
minoranza, non risolve le difficoltà.
Per concludere, si deve affermare che la diversità culturale non deve essere elusa postulando l’esistenza di
un’improbabile cultura nazionale unitaria. il pluralismo culturale va affrontato, e questo libro avrà avuto un senso se
è servito quantomeno a chiarire le nozioni che utilizziamo
quando parliamo di multiculturalismo e diversità culturale.
108
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2. l’economiA dellA nAzione, Antonella crescenzi
3. ScAmBi, mercAti, concorrenzA, luca Arnaudo
4. democrAziA diGitAle, emiliana de Blasio
5. FiloSoFiA PoliticA, Sebastiano maffettone
6. moVimenti di PoPolAzione, Alfonso Giordano
7. eticA PuBBlicA, Gianfranco Pellegrino
8. cAmBiAmento climAtico, marcello di Paola
9. multiculturAliSmo, domenico melidoro