Il concetto di multiculturalismo: le prospettive del dibattito
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Il concetto di multiculturalismo: le prospettive del dibattito
Il concetto di multiculturalismo: le prospettive del dibattito contemporaneo Silvia Vida 1. Le questioni sul tappeto Prima di definire il concetto, per nulla univoco, di “multiculturalismo”, e di tracciare un quadro delle teorie che si fregiano del titolo di “teorie multiculturaliste” — e delle politiche che ne rappresentano le loro possibili attualizzazioni —, si è pensato di delineare brevemente un altro quadro: quello delle “questioni sul tappeto” cui si rivolgono tali teorie e tali politiche. Solo in un secondo momento, grazie alle premesse fatte, ci occuperemo delle questioni terminologiche e delle classificazioni dei diversi orientamenti del multiculturalismo. 1.1 I fatti Oggi la maggior parte dei paesi è caratterizzata da diversità culturale: secondo stime risalenti alla metà degli anni Novanta, nei 184 stati indipendenti del mondo si trovano oltre 600 gruppi linguistici e 5000 gruppi etnici. Ben pochi sono i paesi in cui tutti i cittadini condividono la stessa lingua o appartengono allo stesso gruppo etnonazionale: l’Islanda e le due Coree vengono spesso indicate come alcuni tra i pochi paesi a elevata omogeneità culturale1. Questa diversità, questa varietà di lingue e culture, è ciò che caratterizza il pluralismo culturale delle società moderne, ed è ciò che dà origine a un insieme di questioni importanti, perché costituisce una fonte di potenziali divisioni e conflitti. All’interno di ogni unità linguistico-territoriale, infatti, esistono gruppi che in virtù del numero o della superiorità politica rappresentano una maggioranza rispetto alle minoranze culturali e linguistiche che convivono con essa. Inevitabilmente, le minoranze si trovano a chiedere riconoscimento politico, combattono cioè per il riconoscimento della propria identità politica, e quindi si scontrano con le maggioranze su questioni che ineriscono il diritto e la politica di uno stato: si scontrano su tematiche quali i diritti linguistici, l’autonomia regionale, la rappresentanza politica, i programmi educativi, le rivendicazioni 1 territoriali, le politiche per l’immigrazione e la naturalizzazione (ma anche per i simboli nazionali, come la scelta dell’inno e le festività pubbliche, questioni simboliche, se si vuole, ma non per questo secondarie per la vita politica di ogni gruppo). Di fatto, in Occidente gli assunti che hanno guidato la vita politica per decenni, cioè i principi democratico-liberali, sono messi in pericolo, e in discussione, da scontri sui diritti degli immigrati, sui popoli indigeni e le altre minoranze culturali: sappiamo, per esempio, che nell’Europa dell’Est e nei paesi del terzo mondo i conflitti etnonazionali sono diventati la più diffusa fonte di violenza politica del mondo; tali conflitti, del resto, appaiono inevitabili in quanto motivati da un senso di ingiustizia e tolleranza. Inoltre, sebbene ogni conflitto abbia una propria storia e si svolga entro un quadro politico-culturale di per sé unico, che deve essere tenuto presente per un’equa ed efficace soluzione di ogni conflitto, i teorici del multiculturalismo si sono per lo più proposti di identificare alcuni concetti e principi generali di cui occorre tener conto, cercando di chiarire alcuni punti fermi dell’approccio liberale ai diritti delle minoranze. Il fatto è che dopo la seconda guerra mondiale molti liberali pensavano che la nuova importanza attribuita ai “diritti umani” avrebbe risolto i conflitti sorti intorno alle minoranze, pensavano cioè che i conflitti si sarebbero risolti non mediante una tutela diretta dei gruppi vulnerabili — mediante, per esempio, il conferimento di diritti speciali ai loro membri —, bensì mediante tutela indiretta delle minoranze culturali: in altre parole, si confidava sulla garanzia dei diritti civili e politici fondamentali a ogni individuo, a prescindere dalle sue appartenenze di gruppo. La tendenza generale dei movimenti postbellici aveva quindi come presupposto che le minoranze, i cui membri godono di un’eguaglianza di trattamento sul piano individuale, non possono legittimamente chiedere strumenti per mantenere la loro particolarità etnica. L’universalismo dei diritti umani, la tutela dei diritti soggettivi fondamentali, avrebbe garantito anche la tutela dei singoli individui appartenenti ai diversi gruppi o minoranze, senza che sorgesse la necessità di concepire diritti particolari per le minoranze in quanto tali, da affiancare ai diritti soggettivi universali. È significativo, in tal senso, il fatto che le Nazioni Unite abbiano escluso ogni riferimento ai diritti delle minoranza etniche e nazionali dalla Dichiarazione universale dei diritti umani. 1 Questi dati sono riferiti da Will Kymlicka, La cittadinanza multiculturale, il Mulino, Bologna 1999 (ed. originale 1995), in particolare pagg. 7-20. 2 Sempre in periodo post-bellico, i liberali hanno creduto che la tolleranza religiosa fondata sulla separazione tra stato e chiesa potesse rappresentare un modello per affrontare anche le differenze culturali: in altri termini, l’identità etnica, come la religione, è qualcosa che gli individui dovrebbero essere liberi di esprimere nella vita privata e che non deve interessare lo stato né interferire sul suo funzionamento. Lo stato non si oppone alla libertà degli individui di esprimere le loro caratteristiche culturali, ma non promuove neppure queste manifestazioni. Si tratta dell’atteggiamento dello stato noto, nella letteratura sul multiculturalismo, come “benigna noncuranza” (secondo un’efficace espressione di Nathan Glazer). Quindi i membri di gruppi etnici e nazionali sono tutelati dalla discriminazione e dai pregiudizi, e sono liberi di conservare qualsiasi elemento del loro retaggio o identità etnica, purché vengano rispettati i diritti degli altri. I loro sforzi hanno carattere privato e non è compito degli enti pubblici conferire identità, o frapporre ostacoli di natura giuridica, a forme di appartenenza culturale o di identità etnica. Questa separazione tra stato ed etnia (o, in altri termini, il “principio della neutralità dello stato”, nel linguaggio liberale) precluderebbe ogni riconoscimento pubblico dei gruppi etnici e ogni ricorso a criteri etnici per la distribuzione di diritti, risorse, doveri. È anche vero, però, che molti liberali (soprattutto di sinistra) hanno fatto un’eccezione a questo principio quando hanno sostenuto o promosso particolari interventi a favore di gruppi razziali svantaggiati: soprattutto negli Stati Uniti, si sono succeduti diversi provvedimenti che hanno imposto di privilegiare, nelle assunzioni di lavoro, nell’assegnazione di appalti pubblici o nell’ammissione a corsi d’istruzione (e così via), i membri di determinati gruppi razziali o etnici svantaggiati. Si tratta dei cosiddetti interventi di affirmative action (cioè “azione positiva”, come si trova nei testi di lingua italiana), che sono per lo più giustificati come misure temporanee che intendono rimediare a lunghi periodi di discriminazione: l’affirmative action si propone quindi non come profanazione del principio di separazione tra stato ed etnia (o principio di neutralità) ma come tentativo di realizzarlo. Ci sono tuttavia altri liberali (di destra) che ritengono i provvedimenti di affirmative action come qualcosa che inasprisce il problema che dovrebbe risolvere, in quanto rende le persone più consapevoli delle differenze di gruppo, producendo, per così dire, una discriminazione a contrario, accrescendo così il risentimento e la competizione tra i gruppi. Di fatto, quasi ogni democrazia liberale ha visto la disputa sulla necessità o indesiderabilità dei programmi di affirmative action. 3 In ogni caso, che siano di destra o di sinistra, i liberali del periodo postbellico rifiutano l’idea di una differenziazione permanente dei gruppi e dello status di membri di determinati gruppi. In particolare, essi rifiutano l’idea secondo la quale la concessione di diritti a gruppi specifici sarebbe necessaria per accogliere differenze culturali di fondo, anziché per rimediare a discriminazioni storiche. I liberali si sono quindi battuti contro la proposta di accordare un’identità politica o uno status costituzionale permanente a specifici gruppi etnici o nazionali. Al tempo stesso, è diventato evidente che i diritti delle minoranze non sono riconducibili alla categoria dei diritti umani: i diritti umani tradizionali non sono in grado di risolvere alcuni dei problemi più importanti e controversi in merito alle minoranze culturali, come dire che l’universalismo cui sono improntati i diritti umani non si concilia col particolarismo, o relativismo, degli (eventuali) diritti delle minoranze: quali lingue devono essere riconosciute nei parlamenti, negli uffici pubblici, nei tribunali? Ogni gruppo etnico e nazionale deve poter accedere a forme di istruzione a finanziamento pubblico svolte nella propria lingua madre? Gli incarichi politici vanno distribuiti secondo criteri di proporzionalismo nazionale o etnico? Le minoranze hanno il dovere di integrarsi? Quale grado di integrazione culturale va richiesto agli immigrati e ai rifugiati prima di concedere loro la cittadinanza? Di fatto, si tratta di questioni che si discutono contestualmente, non universalmente: cioè in riferimento al preciso contesto giuridico-politico-culturale in cui sorgono. Questi sono solo alcuni esempi delle questioni che corrispondono alle richieste identitarie dei gruppi o minoranze che si trovano a competere dentro uno stesso stato. E queste richieste sono diventate tanto più pressanti quanto più è cresciuta la consapevolezza, per molti liberali, che il problema non sta nel fatto che le tradizioni dottrinali dei diritti umani forniscono una risposta sbagliata a queste domande, ma piuttosto risiede nel fatto che spesso esse non forniscono alcuna risposta. Il diritto alla libertà di parola, per esempio, non dice quale sia la politica linguistica più adeguata; il diritto di voto non ci dice come tracciare i confini dei collegi elettorali; il diritto alla mobilità non dice quali politiche dell’immigrazione e della naturalizzazione adottare dentro uno stato. Di conseguenza, è opinione comune tra gli studiosi del multiculturalismo che le minoranze culturali sono state sottoposte a significative forme di ingiustizia da parte della maggioranza, e i conflitti etnoculturali si sono acuiti. 4 Vi sono molti studiosi, attualmente, anche tra i liberali, che si dicono convinti che per risolvere i problemi in maniera equa occorre affiancare, accanto ai tradizionali principi dei diritti umani, una vera e propria teoria dei diritti delle minoranze: un liberale che sostiene con forza questa posizione è ad esempio Will Kymlicka2, ma anche il filosofo Joseph Raz3; accanto a questi pensatori liberali, a sostenere la necessità di un teorizzazione di diritti culturali e delle minoranze, affiancata alle tradizionali categorie dei diritti, sono per lo più gli studiosi che si oppongono all’universalità e astrattezza dei principi liberali, cioè i cosiddetti communitarians — si veda in proposito § 2, punto d)—, i quali, invece di vedere il riferimento fondamentale delle politiche pluraliste nell’individuo, lo vedono nella comunità di appartenenza dell’individuo: prima dell’individuo viene la comunità, e su questa si costruisce e si determina l’identità dell’individuo, anche dal punto di vista politico. Kymlicka si dice convinto, per esempio, della inevitabilità di affiancare e integrare i diritti umani tradizionali coi diritti delle minoranze, poiché una teoria completa della giustizia negli stati multiculturali deve includere sia i diritti universali, accordati agli individui, a prescindere dalle loro appartenenze di gruppo, sia alcuni diritti differenziati per gruppo, o a “statuto speciale” per le culture minoritarie. È evidente che il riconoscimento di diritti delle minoranze comporta alcuni rischi: il linguaggio dei diritti delle minoranze è stato usato ad esempio dai nazisti, dai difensori delle politiche della segregazione e dell’apartheid, dai nazionalisti e dagli integralisti intolleranti per giustificare l’oppressione di un popolo non appartenente al loro gruppo e per giustificare la soppressione di dissenzienti. Questo è sostanzialmente la ragione che fa dire, ad alcuni liberali “intransigenti” che, non solo non v’è alcun bisogno di diritti delle minoranze, ma anche che la loro teorizzazione contrasta fortemente coi principi (liberali) che essi vorrebbero rendere compatibili con le richieste identitarie delle minoranze. Tutto ciò lo vedremo in dettaglio nel prossimo paragrafo. Ma è già chiaro, a questo punto, che quando si affronta la questione multiculturale secondo un approccio liberale, una teoria liberale dei diritti delle minoranze deve spiegare come essi possano coesistere con i diritti umani e incontrare vincoli nei principi di LIBERTÀ individuale, e quindi AUTONOMIA), DEMOCRAZIA e 2 Will Kymlicka, canadese, è uno dei maggiori esponenti del dibattito multiculturalista: la sua opera principale per l'argomento che stiamo trattando è certamente Multicultural Citizenship, Oxford University press, del 1995, di cui esiste la traduzione segnalata nella nota n. 1. 3 Le teorie multiculturaliste del filosofo del diritto J. Raz sono per lo più esposte in Ethics in the Public Domain, Clarendon, Oxford 1996, e in "Multiculturalism", in Ratio Juris 11(1998): pagg. 193-205. 5 GIUSTIZIA SOCIALE, UGUAGLIANZA, che sono appunto i tradizionali principi liberali fondamentali. 1.2. Richieste identitarie e reazioni teorico-politiche Tuttavia, a titolo di cronaca, devo dirvi che non tutti i pensatori hanno cercato di conciliare le istanze del pluralismo e del multiculturalismo con quelle del liberalismo. Di fronte ai conflitti e ai problemi avanzati dalle minoranze si sono avuti sostanzialmente quattro tipi di reazioni. 1) La prima reazione — prima anche in senso temporale — è stata una rigida autodifesa dei valori liberali e democratici dell’universalismo ed egualitarismo contro ciò che viene dipinto come tribalismo o fondamentalismo intollerante di un gruppo contro gli altri. È la posizione di autodifesa intransigente dell’ordine liberale che paventa nel multiculturalismo la potenziale distruzione dei valori liberali e democratici, nonché la fonte delle guerre di religione. Tutto ciò è sostenuto dall’argomento secondo cui la democrazia liberale offre già inclusione a chiunque, indipendentemente da origine etnica, fede, cultura, sesso (lo offre al singolo individuo, indipendentemente dal gruppo cui appartiene). L’inclusione avviene estendendo i diritti a tutte le minoranze presenti in una società, garantendo pari dignità, rispetto e non discriminazione, lasciando liberi i singoli di associarsi privatamente, previo il rispetto dei diritti di tutti, membri e non membri. In Italia, questa posizione è stata difesa, per esempio, Mario G. Losano. 2) La seconda reazione è di chi non respinge le richieste del multiculturalismo come illegittime, come eticamente inaccettabili da parte delle democrazie liberali, e riconosce che l’inclusione di membri di gruppi diversi attraverso l’estensione dei diritti non produce accesso pieno alla cittadinanza, ma solo una “cittadinanza di seconda classe”. Ciò non porta a concepire diritti dei gruppi, ma comporta comunque la convinzione che proprio per ragioni di giustizia le domande identitarie vanno considerate come strumento di una equa inclusione. È questa una posizione che incoraggia, e implica, una revisione del liberalismo e della democrazia, ma che pure ne salva il nucleo costitutivo. In Italia è la 6 posizione difesa da Anna E. Galeotti4, e fuori dall’Italia da Jürgen Habermas, Karl-Otto Apel, Michael Walzer, Jeremy Waldron5. 3) La terza posizione ritiene che diritti soggettivi e neutralità liberale (cioè, lo ripetiamo, la separazione di etnia e stato) siano insufficienti a garantire pari dignità e rispetto ai singoli gruppi. Quindi si ritiene favorevole ai diritti culturali, specifici ai gruppi (cioè collettivi) come garanzia e sostegno per le identità minoritarie, contro le pretese assimilazionistiche della maggioranza. Questa posizione in sostanza avvalora la felice distinzione di Ronald Dworkin tra “uguale trattamento” o “trattamento da eguali”. Nel caso dei diritti indirizzati a gruppi si ammette, in sostanza, che un uguale trattamento sarebbe discriminante in quanto non comprensivo né rispettoso delle differenze incarnate da un gruppo o da un suo membro rispetto alla maggioranza della società. Per fare un esempio concreto: nel momento in cui si attuano programmi di affirmative action si realizza il principio del trattamento da eguali, poiché si ritiene che un trattamento uguale (cioè indipendente da considerazioni di carattere “etnico”, ad esempio) sarebbe discriminante rispetto alle differenze incarnate da un gruppo rispetto ad altri6. Questa posizione, pur essendo molto sensibile alle differenze, come la seconda, se ne distanzia molto (ma questo sarà evidente soprattutto nella terza lezione del seminario, dedicata al tema diritti individuali vs. diritti collettivi o culturali). La posizione a favore dei diritti culturali, infatti, pur rimanendo ancorata al quadro politico ed etico della democrazia liberale, ne presuppone una reinterpretazione ancora più profonda della seconda. È la posizione che viene sostenuta, come abbiamo visto, da Will Kymlicka e da Joseph Raz tra gli altri. 4) La quarta reazione condivide con la prima l’inconciliabilità fra multiculturalismo e teoria liberal-democratica. Ma mentre nella prima abbiamo il rigetto delle istanze del multiculturalismo a favore dei principi del liberalismo, difesi ad oltranza, in questo tipo di reazione l’incompatibilità tra multiculturalismo e teoria liberale-democratica diventa 4 Si veda soprattutto il fondamentale volume di Galeotti, Multiculturalismo. Filosofia politica e conflitto identitario, Liguori, Napoli 1999. A Galeotti dobbiamo l’utile schematizzazione delle quattro reazioni al multiculturalismo che stiamo tracciando. Si vedano in particolare, pagg. 7-10 del volume appena citato. 5 Waldron si colloca in questa schiera anche se ha proposto una particolare teoria fondata sul tradizionale cosmopolitan right, cioè il diritto cosmopolitico, che salvaguarda il principio della mescolanza di culture senza la necessità di concepire diritti diversi da quelli individuali, universali, cioè liberali in senso classico. Si veda soprattutto l’articolo Minority Cultures and the Cosmopolitan Alternative, in “University of Michigan Law Reform”, 25, 1992; e l’articolo What is Cosmopolitan?, in “Journal of Political Philosophy”, 8, 2000. 6 Trattare da eguali Mario Rossi, cittadino italiano, e una donna di colore, immigrata, in virtù del principio di eguaglianza di fronte alla legge diventa paradossalmente discriminate, cioè porta alla violazione del principio stesso che vorrebbe realizzare, poiché trattare da eguali Mario Rossi e la donna di colore comporta un annullamento delle differenze non formali, ma sostanziali, di cui sono portatori i due soggetti di fronte alla 7 occasione per accantonare la seconda, coi suoi ideali di eguaglianza, neutralità, universalità, che vengono definiti come utopie, mistificazioni, ideologie, nonché strumenti di dominio e oppressione culturale. Questa posizione radicale è condivisa da frange di femministe, dai decostruzionisti, dal cosiddetto pensiero post-moderno, posizioni tutte generalmente criticate in quanto presentano gravi carenze nel delineare società alternative al liberalismo oppressivo e strumento di dominio. Questi movimenti si propongono infatti, in modo non ben ordinato né sistematico, di valorizzare le differenze, di richiamarsi all’ideale della democrazia partecipativa (la democrazia rappresentativa infatti è carente sotto il profilo politico: non rappresenta, né salva, né valorizza le differenze dei gruppi che compongono la società), e puntano a modelli di società analoghi al sogno di una “società arcobaleno”, non ulteriormente precisata, teorizzata da Iris M. Young7. Accanto a Young abbiamo Boaventura De Sousa Santos8, ma anche il movimento Multikulti tedesco, il quale, nella lotta all’imperialismo culturale occidentale, adotta la parola d’ordine “straniero è bello”, mostrandosi unilateralmente a favore dell’altro, a patto che l’“altro” non sia un “noi stessi”, e sia configurabile come “minoranza”. Il quadro brevemente delineato ha mostrato che il multiculturalismo, come teoria e come politica, è sorto dalle richieste di riconoscimento dell’identità e della pari dignità delle espressioni culturali dei gruppi e delle comunità che convivono in una società democratica. Ma a questo punto, chiariti quali sono i problemi sul tappeto, e quali i possibili approcci, possiamo procedere con alcuni chiarimenti terminologici. 2. Chiarimenti terminologici legge. Cfr. Gf. Zanetti, "Eguaglianza", in Seminari di filosofia del diritto, a cura di M. La Torre e Gf. Zanetti, Rubettino, Soveria Mannelli 2000. 7 Si veda soprattutto il volume Justice and the Politics of Difference (1990), trad. it. Le politiche della differenza, Feltrinelli, Milano 1996, ma anche, per esempio, "Communication and the Other: Beyond deliberative Democracy", in S. Benhabib (a cura di), Democracy and the Difference: Changing Boundaries of the Political, Princeton University Press. 8 Si vedano soprattutto il volume B. De Sousa Santos, Toward a New Common Sense. Law, Science and Politics in the Paradigmatic Transition, Routledge, London 1995, e il saggio dello stesso autore, "Toward a Multicultural Conception of Human Rights", in Sociologia del diritto 24 (1997), pagg. 27-45. 8 Più che chiarimenti, si tratta di cautele terminologiche. Innanzi tutto bisogna chiarire cos’è il multiculturalismo rispetto al pluralismo culturale. Tali concetti sono infatti correlati, ma non coincidono. a) Multiculturalismo e pluralismo culturale vengono spesso usati come sinonimi per indicare appunto la caratteristica degli stati indipendenti attuali in cui sono compresenti razze, etnie, lingue, culture, stili di vita differenti e in competizione tra loro: maggioranze e minoranze. In realtà, è bene chiarire che nel dibattito sul multiculturalismo “pluralismo” assurge a categoria descrittiva (di uno stato di fatto), mentre “multiculturalismo” assurge a categoria che ha una forte componente prescrittiva o normativa. Multiculturalismo si riferisce infatti a un tipo di politica o di politiche che riconosce e quindi intende valorizzare uno stato di pluralismo. O per lo meno, intende far sì che negli stati a forte componente pluralista i principi prima enunciati (libertà individuale, democrazia, giustizia sociale, ecc.; si veda § 1.1 ) siano realizzati mediante adeguati strumenti giuridico-politici. b) Chi può costituire una minoranza? Abbiamo parlato di minoranze, cioè di gruppi in competizione col gruppo che costituisce la maggioranza entro la medesima società, ma non abbiamo ancora definito la nozione di “minoranza”. Un’ottima categorizzazione dei tipi di minoranze ci è data da W. Kymlicka (in Cittadinanza Multiculturale, 1999) che distingue tra: i) Minoranze nazionali e coloni: sono le minoranze esistenti su un territorio prima del costituirsi dell’identità statuale; ii) immigrati, giunti dopo la formazione dello stato; iii) movimenti societali, cioè quelli che si sviluppano durante la vita sociale dello stato; iv) gruppi religiosi. Kymlicka avverte che questa tipologia è decisamente esemplificativa, non esaurisce l’effettiva pluralità dei gruppi che possono coesistere entro un medesimo stato, ma definisce solo paradigmaticamente i principali tipi di gruppi. Come vedremo in seguito, infatti, questa tipologia realizza una sistematizzazione delle minoranze secondo il multiculturalismo inteso “in senso stretto”, cioè quello che si rivolge all’analisi delle società multinazionali e polietniche (nel senso in cui le intende, appunto, Kymlicka; cfr. punto c), seguente). c) Stati multinazionali e polietnici. La forma di diversità culturale che si presenta più rilevante dal punto di vista politico è infatti, secondo Kymlicka, la coesistenza all’interno di un determinato stato di più nazioni, dove nazione significa comunità storica, più o meno 9 compiuta dal punto di vista delle istituzioni, che occupa un determinato territorio e possiede una lingua e una cultura distinte. In questa accezione sociologica, la nazione si avvicina alle idee di popolo e cultura. Un paese che contiene più di una nazione è uno stato multinazionale, e le culture più piccole che vi appartengono sono minoranze culturali. Uno stato può diventare multinazionale in virtù di un atto volontario, quando, per esempio, si decide di formare una federazione; oppure lo diventa come esito di un processo storico, quando una comunità culturale viene invasa o conquistata da un’altra, o quando nel suo territorio si riversano coloni. Molte democrazie occidentali sono multinazionali (Stati Uniti, Russia ne sono esempio immediatamente significativi). Un’altra realtà politica dove è massiccia la presenza di minoranze nazionali è il Canada (dove coabitano inglesi, francesi, indigeni). La seconda significativa fonte del pluralismo culturale è, ovviamente, l’immigrazione: un paese è caratterizzato da pluralismo culturale se accoglie come immigrati grandi numeri di individui e famiglie da altre culture, e se permette loro di mantenere una parte della loro specificità etnica, senza pretendere l’assimilazione. Australia, Stati Uniti e Canada hanno i più alti tassi di immigrazione pro capite al mondo: oltre la metà di tutta l’immigrazione legale è diretta verso uno di questi tre paesi. Questi stati sono quindi esempio di stati polietnici. Un paese può quindi essere sia multinazionale (in seguito a colonizzazioni, conquiste, confederazioni), sia polietnico (a causa dell’immigrazione individuale o familiare). Come sostiene Kymlicka, queste due etichette sono meno famose di quella di multiculturalismo; inoltre, usare l’etichetta “multiculturalismo” può essere fuorviante proprio perché non distingue tra stato multinazionale e polietnico, ma anche perché molto spesso “multiculturalismo” assume un’accezione molto più ampia: vi è infatti tutta una parte del pensiero multiculturalista che con questo termine fa riferimento a un ampio ventaglio di gruppi sociali non ben definiti secondo criteri etnici, ma che per varie ragioni sono stati emarginati o esclusi dalle società, e quindi costituiscono minoranze cui il pensiero multiculturalista deve dedicare la propria attenzione. Si tratta del multiculturalismo inteso “in senso lato”, che ha una propria diffusione soprattutto negli stati Uniti. Qui, i fautori del multiculturalismo fanno riferimento ai tentativi di rimediare all’esclusione storica di gruppi diversi da quelli definiti secondo criteri etnici, quali donne, omosessuali, lesbiche, comunisti, atei, e così via. Questo è un pensiero che ha di mira per lo più l’attuazione di speciali politiche della 10 “cittadinanza differenziata”. Un’autrice importantissima a questo riguardo è I. Marion Young (cfr. § 3). Autori del multiculturalismo (è il caso, ancora una volta, di Kymlicka) non ritengono che questi ultimi gruppi siano da intendere alla stregua delle minoranze nazionali, etniche e linguistiche, quindi tendono a escludere dalle politiche del multiculturalismo le politiche volte a promuovere le differenze culturali di altro tipo. Come abbiamo visto, ad esempio, per Kymlicka “cultura” è sinonimo di “nazione” o “popolo”, e uno stato è multiculturale se i suoi membri appartengono a diverse nazioni (stato multinazionale) o sono emigrati da diverse nazioni (stato polietnico), ed è multiculturale se tutto questo costituisce un elemento importante dell’identità personale e della vita politica di questo stesso stato. Vi sono invece molti altri autori che usano “multiculturalismo” come una categoria molto ampia. (Non a caso una lezione del seminario è dedicata al femminismo e ai diritti delle donne). Comunque, in generale, possiamo dire che nelle tre aree in cui si è sviluppato il dibattito sul multiculturalismo (cioè Stati Uniti, Canada, Europa), vi è una varietà delle accezioni di “cultura” che si rispecchia appunto nella varietà di significati attribuiti al termine “multiculturalismo”. In Canada si riferisce di solito al diritto degli immigrati di esprimere la loro identità etnica senza temere il pregiudizio o la discriminazione. In Europa denota per lo più la condivisione di poteri da parte di più comunità nazionali. Negli Stati Uniti lo si usa spesso per accogliere le richieste di gruppi sociali emarginati (gay, donne, ecc). Quindi, quando si parla di minoranze si possono intendere molte cose, e le categorie possono sovrapporsi e interpenetrarsi: esempio emblematico in tal senso è il caso di una donna immigrata, di colore, e di differente religione e lingua rispetto al paese d’accoglienza. d) Il pluralismo delle dottrine. Finora abbiamo parlato del dibattito sul multiculturalismo come un dibattito che si svolge per lo più tra pensatori liberali. Abbiamo anche accennato alla distinzione tra liberals e communitarians (cfr. § 1.1). È bene precisare che i due dibattiti non coincidono, anche se si legano reciprocamente. Pertanto occorre chiarirne distanze e punti di contatto. La controversia liberals-communitarians è essenzialmente una controversia filosofico-politica anglosassone e americana risalente agli anni Ottanta, entro la quale si 11 sono contrapposte due visioni del rapporto tra individuo e comunità politica di appartenenza. Mentre il punto di riferimento, il fondamento teorico del pensiero liberals è l’individuo, cui corrisponde la priorità politica e teorica del concetto di diritto individuale, i comunitaristi sottolineano la supremazia del concetto di comunità in cui il soggetto è radicato, tramite cui il soggetto costruisce la propria identità culturale e politica. A quest’idea, i pensatori liberals ribattono che la comunità è una forma sociale oppressiva, lesiva dei diritti individuali e della realizzazione dell’individuo. Su quest’ultimo punto si inserisce, evidentemente, il dibattito multiculturalista, che è successivo, in quanto si può far risalire agli anni Novanta situandolo nello stesso ambiente. Come ormai dovrebbe essere chiaro, questo è un dibattito che si misura tra pensatori che hanno messo in risalto i, e mosso critiche precise ai, capisaldi della tradizione liberale. Possiamo ridurre questi capisaldi ai seguenti quattro punti: i) la concezione del sé e l’identità personale. Se il liberalismo esalta i principi dell’autonomia, della libertà individuale, dell’autoaffermazione, il pluralismo culturale ha portato in primo piano la realtà del gruppo di appartenenza, cioè il rapporto complesso tra individuo e comunità. Si tratta quindi di capire se l’individualismo/universalismo del pensiero liberale (quindi la supremazia teorica dei diritti soggettivi/universali) può far fronte ai problemi politici derivati dalle richieste di riconoscimento da parte dei gruppi (o minoranze) che dentro la società subiscono la superiorità politica di altri gruppi o maggioranze; ii) il ruolo della cultura nell’affermazione dell’identità personale. Questo punto riceverà molta attenzione in seguito. Ma è chiaro fin d’ora che la richiesta di riconoscimento dell’identità politico-culturale del gruppo o dell’individuo può ricevere una diversa risposta a seconda del “peso” che si è disposti a dare alla cultura di appartenenza rispetto all’affermazione dell’identità personale. Infatti qui è in gioco la priorità logica, o meno, del concetto di “appartenenza culturale”: da un lato, secondo un’ottica comunitarista, la cultura del gruppo di appartenenza è fondamentale per il costituirsi dell’identità del singolo (per cui un singolo individuo è nulla senza i vincoli che lo legano al proprio gruppo e alla propria cultura); dall’altro, in un’ottica prettamente liberale e liberals, ciò che bisogna salvaguardare più di ogni altra cosa sono i diritti dell’individuo di scegliere i valori in cui credere, quindi la cultura di cui nutrirsi, pena il chiudersi in se stesse delle diverse comunità, le une rispetto alle altre; 12 iii) la concezione dei diritti individuali e universali. Come conseguenza diretta dei punti i) e ii), tali diritti (sia che si voglia difenderli dagli “attacchi” multiculturalisti”, sia che li si voglia reinterpretare seguendo le suggestioni multiculturaliste) devono competere con la nuova categoria dei diritti culturali o di gruppo. Infine, iv) la neutralità dello stato rispetto alle differenze nell’applicazione della legge. Abbiamo visto che il principio di separazione tra etnia e stato e l’egalitarismo rischiano di trasformarsi, nel peggiore dei casi, in oppressione culturale (in quanto comportano l’annullamento delle differenze culturali-politiche dei gruppi, soprattutto nella fase applicativa della legge), e nel migliore dei casi si manifestano come “benigna noncuranza”, cioè come indifferenza politica nel trattare le diverse minoranze, costrette ad affermare la propria identità solo privatamente. Riassumendo, il ripensamento di questi quattro capisaldi, o la loro messa in questione da parte delle istanze multiculturaliste, evidenziano tutti la stessa tendenza: dal punto di vista giuridico-politico è in questione la supremazia dei diritti di gruppo e culturali su quelli individuali, o, viceversa, la supremazia di quelli individuali sui collettivi. Il dibattito sul multiculturalismo nasce proprio dalla consapevolezza che, ove ci sia pluralità di culture, etnie, razze emerge la dimensione conflittuale insita in tutte le forme di pluralismo. Il multiculturalismo è un problema di filosofia politica perché affronta la valutazione delle contrapposte politiche di gestione del pluralismo, che possono andare dall’estremo rappresentato dall’assimilazione delle diverse identità in un’unica identità statale, all’estremo rappresentato dal differenzialismo più radicale, caratterizzato dalle chiusure delle diverse comunità le une rispetto alle altre. Elaborare nuove politiche che sappiano mediare tra i due estremi, salvando i principi della libertà, della democrazia, della giustizia sociale, dell'autonomia e dell'uguaglianza è certamente la sfida del multiculturalismo contemporaneo. In effetti, la più grande sfida per le democrazie contemporanee consiste nel trovare soluzioni moralmente accettabili e politicamente praticabili di tutti i problemi cui abbiamo accennato. 3. I diritti differenziati in funzione dell’appartenenza di gruppo. La posizione di Will Kymlicka 13 Poiché, come abbiamo visto, le fonti del pluralismo culturale sono molteplici, e molteplici, quindi, sono le forme di pluralismo, quelle che interessano il multiculturalismo inteso in senso stretto sono le forme di pluralismo culturale che caratterizzano gli stati multinazionali e polietnici. Infatti, tutte le democrazie liberali sono o multinazionali o polietniche, oppure entrambe le cose. La sfida del multiculturalismo è dare a queste differenze nazionali ed etniche un assetto stabile e moralmente giustificabile. In ogni democrazia liberale la salvaguardia dei diritti civili e politici rappresenta uno dei meccanismi fondamentali per conciliare le differenze culturali. Proprio a questo proposito emerge la categoria dei diritti delle minoranze, cioè dei diritti differenziati in funzione dell’appartenenza di gruppo. Tale categoria, lo ripetiamo, emerge proprio in considerazione del dubbio che i diritti della tradizione liberale classica — ad esempio: la libertà di associazione, religione, parola, mobilità, organizzazione — siamo effettivamente adeguati a tutelare le differenze di gruppo. Si tratta della consapevolezza, che si fa strada, che i normali diritti di cittadinanza possano non essere così duttili, e quindi idonei a trattare tutte le forme di diversità. Vi sono stati molti critici del liberalismo (ad esempio marxisti, comunitaristi, femministe, e postmoderni) che hanno affermato che l’importanza attribuita dai liberali ai diritti individuali rispecchia una concezione atomista, materialista, strumentale o conflittuale dei rapporti umani9 (non a caso, le femministe hanno spesso sostenuto che il liberalismo ha danneggiato le donne). Molti liberali, tra i quali anche Kymlicka10, ritiene che questa critica sia infondata, perché i diritti individuali possono essere usati (e lo sono effettivamente) per sostenere un ampio ventaglio di rapporti sociali. Tuttavia, c’è chi sostiene che certe forme di differenza di gruppo possono sopravvivere solo se ai loro membri vengono concessi determinati diritti in ragione della loro appartenenza di gruppo: è I.M. Young che, ad esempio, parla di “cittadinanza differenziata”; ma anche Kymlicka pensa che occorre prendere alcune misure speciali per salvare le società multinazionali e polietniche (essenzialmente: i diritti di autogoverno, i diritti polietnici e i diritti di rappresentanza speciale; ma quest’ultimo punto verrà chiarito all’interno della lezione su diritti individuali/collettivi), misure che tentano di articolare un approccio liberale ai diritti 9 Questa analisi si giustifica col seguente argomento: poiché il pensiero liberale ha come proprio caposaldo fondamentale il principio di libertà e autonomia personale (l’autoaffermazione dell’individuo), esso tende a considerare gli individui come isolati gli uni dagli altri e come staccati dal tessuto connettivo della società (gli individui sono appunto “atomici”). Ciò ha ovviamente incoraggiato e favorito lo sviluppo del capitalismo, che ha inteso i rapporti tra individui secondo un’ottica materialista, strumentale e quindi conflittuale. 14 delle minoranze. Ma qual è il significato di questa posizione? E come è possibile renderla compatibile con gli assunti del liberalismo che questo autore professa11? Di fatto, il seguito di questo nostro discorso sarà inteso a spiegare come le posizioni dell’orientamento liberale possano articolarsi integrandosi coi paradigmi del pensiero multiculturalista. Vi sono infatti molti liberali che considerano la categoria dei diritti delle minoranze come antitetica alla democrazia liberale: questa è infatti sorta come reazione al modo in cui il feudalesimo determinava i diritti politici e le opportunità economiche degli individui in funzione della loro appartenenza di gruppo. Reintrodurre i diritti di gruppo significa quindi ritornare a un’idea illiberale della cittadinanza. Occorre perciò interrogarsi sull’opportunità teorica e politica dei diritti di gruppo. Perché — alcuni liberali si chiedono — i membri di alcuni gruppi dovrebbero avere diritti relativi al territorio, alla lingua, alla rappresentanza, e così via? La differenziazione dei diritti secondo l’appartenenza di gruppo sembra infatti riflettere una concezione collettivista o comunitaria, piuttosto che i principi liberali della libertà individuale e dell’eguaglianza. Senza contare che, per molti liberali, l’esistenza stessa del concetto di diritto collettivo sembra preludere a un diritto che, anziché neutrale, si propone come misura protettiva di una certa razza, di una certa cultura, garantendone la sopravvivenza e il benessere, magari a discapito di altri gruppi12. Del resto, sulla controversia tra liberals e communitarians, relativa ai modi di trattare le differenze e le richieste di riconoscimento delle identità di gruppi o minoranze, si misura un’altra questione filosofica fondamentale: cioè la maggiore adeguatezza dell’universalismo o del relativismo culturale. Vi spiego meglio: tutte le principali tradizioni di pensiero politico che a vario titolo si riconoscono nei capisaldi della democrazia liberale (il liberalismo di John Rawls e Ronald Dworkin, il libertarismo di von Hayek e Robert Nozick, la teoria critica della democrazia di J. Habermas, ecc.) condividono “universalismo” e principio di uguaglianza in una qualche interpretazione. Nella teoria politica contemporanea l’universalismo è stato messo in questione dai comunitaristi, che invece propendono per il contestualismo delle culture e delle tradizioni, quindi per una visione relativistica dei diritti. Quindi nasce una prima questione: le 10 Kymlicka, come abbiamo già visto, propende per i diritti differenziati, nonostante sia liberale. Cfr. § 1.2. Evidentemente, questa posizione sta in mezzo alla controversia tra diritti individuali e diritti collettivi, e si misura sui seguenti assunti: da un lato vi è l’impegno di ogni democrazia liberale di assicurare libertà ed eguaglianza ai suoi cittadini: questo impegno si rispecchia nei diritti costituzionali che garantiscono i fondamentali diritti civili e politici di ogni individuo, a prescindere dalle sua appartenenze di gruppo. 11 15 differenze sono alternative al principio di uguaglianza, o possono essere rese compatibili13? In altre parole, la coesistenza pacifica e ordinata delle differenze richiede valori universali, trasversali rispetto a gruppi differenti (questo è appunto l’universalismo), oppure richiede una visione della società per così dire a mosaico, plurale più che pluralista, avente equilibrio instabile, e quindi non leggibile attraverso categorie universali e astratte (questo è invece il relativismo culturale)14? Occorre chiarire, innanzi tutto, che il riconoscimento pubblico delle identità di gruppo, o collettive, è inteso sia come tolleranza pubblica delle differenze identitarie, sia come richiesta di sostegno delle identità collettive delle minoranze escluse dalla vita pubblica (mediante la concessione di diritti alla cultura o culturali: diritti alla lingua15, a programmi educativi specifici, alla celebrazione pubblica di festività dei gruppi di minoranza). Cosa giustifica una richiesta del genere16? Concedere trattamenti differenziati sembra infatti una patente violazione dei principi di neutralità e imparzialità della legge. Di conseguenza, le richieste provenienti dai gruppi di minoranza impongono un ripensamento e un superamento dell’idea di tolleranza politica. Con il concetto di tolleranza si presuppone infatti il punto di vista liberal per giudicare le diverse visioni del mondo e le diverse concezioni politiche: cioè, in pratica, si intende la tolleranza come qualcosa per cui 12 Questo tema così travagliato sarà oggetto di un’altra lezione del seminario, la terza, dedicata ai diritti collettivi, dove si esamineranno, tra le altre, le posizioni di Ch. Taylor, comunitarista, e di J. Habermas. 13 Insomma, si tratta sempre della stessa domanda: se è possibile rendere compatibili le richieste del multiculturalismo coi principi e le istituzioni fondamentali della democrazia liberale, cioè gli ideali di neutralità, uguaglianza, imparzialità, libertà personale, giustizia politica e sociale, garantita da diritti universali, civili, politici e sociali, i cui titolari siano individui e non gruppi. 14 Un autore importante del dibattito multiculturalista che ha messo particolarmente in risalto la crisi dell’universalismo liberale, mettendo l’accento sulla nozione di "cultura" come qualcosa di non omogeneo, mai costante né stabile, quindi incompatibile con qualsiasi tentativo universalista è il canadese James Tully, in Strange Multiplicity. Constitutionalism in an Age of Diversity, Cambridge, Cambridge University Press 1995. Egli sostiene che una corretta visione della cultura ha profonde ripercussioni in ambito di filosofia costituzionale: la crisi di universalismo ed egualitarismo si manifesta proprio nella debolezza dei principi costituzionali, improntati su valori individualistici/universalistici. Si veda sull'argomento Francesco Belvisi, "Società multiculturale e costituzione", in Giorgio Bongiovanni (a cura di), La filosofia del diritto costituzionale e i problemi del liberalismo contemporaneo, CLUEB, Bologna 1998, pagg. 79-104. 15 A titolo di cronaca, l’Italia è uno dei pochi stati europei che tutela esplicitamente, a livello costituzionale, le minoranze linguistiche. L’art. 6 dice “La Repubblica italiana tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”. La legge 482/99 recante norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche prende atto della esistenza anche di altre minoranze linguistiche. L’art. 2 di questa legge dice: “La Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate, e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo”. 16 Ribadiamo, se fosse necessario, che tali richieste si giustificano mediante un argomento di giustizia che rileva le disparità di trattamento e considerazione pubblica subita dai gruppi minoritari, i cui membri subiscono sistematicamente la violazione dei diritti all’uguaglianza di trattamento di fronte alla legge, visto che i principi di imparzialità e neutralità della legge, e di non discriminazione nell’estensione dei diritti sono considerati fondamentali nella teoria liberale. 16 si accorda passivamente rispetto a una cultura a patto che essa non provochi danno a terzi (si tratta, evidentemente, di una applicazione del principio milliano del danno, corrispondente a quella che prima abbiamo definito politica della “benigna noncuranza”). Il dibattito multiculturalista ha mostrato i limiti di un tale concetto di tolleranza. La neutralità e il principio del danno a terzi cadono di fronte alla richiesta di riconoscimento della pari dignità culturale e morale delle espressioni culturali. Pertanto sorge il seguente problema, comune a molti teorici di impronta liberale partecipi del dibattito multiculturale: è possibile soddisfare le richieste emerse dal dibattito multiculturalista rimanendo fedeli alla prospettiva liberale? Come è possibile essere liberali, rispondere alle istanze identitarie, rinunciando al tempo stesso ai capisaldi della democrazia liberale, cioè universalismo e uguaglianza di fronte alla legge? È possibile rispondere alle domande identitarie quando si sa che rispondere a esse significa sottolineare le differenze, contro il principio dell’uguale trattamento? Di fatto, secondo Kymlicka è possibile salvare i principi basilari del liberalismo in modo che essi abbiano rilevanza per le rivendicazioni delle minoranze etniche e nazionali. Il senso di quanto segue è la ricostruzione della sua posizione e del suo argomento a favore della conciliazione tra presupposti liberali e istanze multiculturaliste. Naturalmente, sostiene Kymlicka, i principi basilari del liberalismo sono quelli della libertà individuale: i diritti delle minoranze sono accettabili nella misura in cui sono conformi al rispetto della libertà e dell’autonomia degli individui. Sappiamo tutti che esistono gruppi etnici e nazionali profondamente illiberali che cercano di sopprimere, anziché incoraggiare, la libertà dei loro membri. Di contro, il liberalismo si contraddistingue per il fatto di ascrivere alle persone una libertà di scelta molto ampia per quanto riguarda come vivere. Consente di scegliere una concezione del retto vivere e di riesaminare quella decisione, ed eventualmente adottare un nuovo e migliore progetto di vita. Ma qui sorge una domanda importante, che ha a che fare, ancora, col concetto di tolleranza come indifferenza, o neutralità: Per quale motivo lasciare all’individuo la libertà di scegliere, quando si sa che alcuni prenderanno decisioni imprudenti o sprecheranno il loro tempo dietro progetti impossibili o, peggio, banali? E per converso, per quale motivo il governo dovrebbe astenersi dall’intervenire impedendoci di sbagliare, e costringendoci a condurre una vita davvero gratificante? Questo secondo passaggio del ragionamento di Kymlicka ci pone di fronte all’alternativa teorica rappresentata da un altro dibattito contemporaneo che integra sia il dibattito multiculturalista, sia la controversia 17 liberals/communitarians. Questo ulteriore dibattito filosofico è quello che oppone le nozioni di “perfezionismo” e di “antiperfezionismo”. Anche tale controversia inerisce al problema (ai problemi) del pluralismo, mettendo però un particolare accento non tanto sui fondamenti (universalismo/relativismo; diritti individuali/diritti collettivi), quanto piuttosto sugli orientamenti. Da un lato vi sono i perfezionisti, dall’altro i non perfezionisti. Chi si chiede perché le persone devono essere libere di scegliere il proprio progetto di vita, anche quando corrono il rischio di sprecarla, è un perfezionista, perché pensa che potendo identificare un modello oggettivo di well-being (benessere), di flourishing (fioritura), di vita buona o di felicità, crede che esistano soluzioni politico-giuridiche oggettivamente buone per risolvere i problemi del pluralismo. Per il perfezionista si tratta quindi di imporre scelte e soluzioni mediante lo strumento giuridico. Perfezionisti sono solitamente i comunitaristi17 (ad esempio M. Sandel, A. MacIntyre); mentre i liberali sono essenzialmente antiperfezionisti. Infatti, la tradizione liberale (da J. S. Mill a J. Rawls, a R. Dworkin) si oppone all’idea che esistano concezioni del bene e della vita buona che possono essere imposte in quanto oggettivamente valide. Tuttavia, esiste un pensatore liberale come J. Raz, che nonostante sia liberale professa una forma di perfezionismo (per Raz, infatti, la libertà è un bene strumentale al conseguimento del well-being umano18); ed esiste un pensatore comunitarista, come Ch. Taylor, che pur non essendo individualista si mostra meno orientato in senso perfezionista. Il punto è che, secondo i presupposti del liberalismo, un individuo deve poter disporre di condizioni tali da acquisire la consapevolezza delle diverse concezioni del vivere bene, e deve altresì disporre della capacità di esaminare queste concezioni in maniera intelligente. Da qui nasce un’altra preoccupazione liberale: quella per l’istruzione e per la libertà di espressione e associazione. La libertà ci permette di valutare cosa abbia valore e di apprendere qualcosa sugli altri modi di vivere. Una società davvero liberale deve preoccuparsi di entrambe le cose, perché è troppo facile ridurre la libertà individuale alla libertà di realizzare la propria concezione del bene. Ciò che caratterizza 17 I comunitaristi cercano gruppi caratterizzati dalla condivisione di una concezione del bene e tentano di promuovere una politica perfezionista e del “bene comune”, in cui i gruppi possano coltivare una concezione comune del bene anche se ciò limita la capacità dei singoli di ridefinire i loro scopi esistenziali. Essi credono (soprattutto Sandel) che i singoli membri abbiano un legame “costitutivo” con i valori del gruppo, e quindi non si provoca alcun danno se si limitano i diritti individuali al fine di promuovere valori comuni. 18 Il liberalismo perfezionista di J. Raz è teorizzato per lo più nel volume The Morality of Freedom, Clarendon, Oxford 1986. Si veda sull'argomento anche il saggio di Gf. Zanetti, "Aspetti problematici della nozione di 'opzioni incompatibili' nel multiculturalismo liberale di Joseph Raz", in Giorgio Bongiovanni (a cura di), La filosofia del diritto costituzionale e i problemi del liberalismo costituzionale, CLUEB, Bologna 1998, pagg. 105-120. 18 uno stato davvero liberale, dice Kymlicka, è la formazione e la revisione delle concezioni del bene (e non il tentativo di attuare queste concezioni una volta che sono state adottate: questa è infatti la posizione perfezionista). Si consideri l’esempio della religione: mentre una società liberale concede ai suoi membri la libertà di praticare la loro fede, di cercare nuovi adepti (proselitismo), di mettere in discussione la dottrina (eresia), di respingere la fede e abbracciarne un’altra (apostasia), una cultura illiberale come quella dell’Islam concede all’individuo la libertà di praticare la propria fede, ma non ha tutte le altre libertà. In una società liberale gli individui possono invece condurre le loro vite come vogliono e, al tempo stesso, possono accedere ad informazioni circa altri modi di vivere. Gli individui possono quindi rivedere, anche in modo radicale, i loro scopi (ne è esempio l’apostasia) senza incorrere in alcuna sanzione giuridica, e per poter conoscere le altre opzioni di scelta a sua disposizione, ogni singolo individuo deve poter usufruire di un buon sistema di istruzione che gli consenta di conoscere altri valori e di valutarli come buoni o meno buoni per sé. Tutto ciò acquista sensatezza solo se si accetta l’assunto che la revisione degli scopi da parte di un individuo sia non solo possibile ma persino desiderabile. Una società liberale non costringe a diffidare dei propri obiettivi di vita, né a rivederli, ma rende possibile farlo. Tutto ciò ha rilevanza per l’appartenenza a una cultura sociale perché la libertà implica la scelta tra più alternative, e la nostra cultura sociale non solo ci fornisce queste alternative, ma conferisce loro significato. Le culture sono preziose non in quanto tali, dice Kymlicka, bensì perché avere accesso a una cultura sociale significa avere accesso a un ventaglio di opzioni dotate di senso: la nostra cultura ci offre alternative e, al tempo stesso, ci dà “gli occhiali” attraverso i quali guardare le esperienze come esperienze dotate di valore19. Questa tesi indica, secondo Kymlicka, il nesso fondamentale tra scelta individuale e cultura, e quindi costituisce un primo elemento di una difesa prettamente liberale di determinate forme di differenziazione dei diritti in funzione dell’appartenenza di un gruppo. La capacità degli individui di compiere scelte dotate di senso dipende dall’avere accesso a una struttura culturale: i provvedimenti differenziati per gruppo che assicurano e promuovono questo 19 Questa espressione si deve a R. Dworkin, A Matter of Principle, Harvard University Press, London 1985; trad. it. Questioni di Principio, Saggiatore, Milano 1990. Del resto, anche il liberale J. Rawls parla della cultura come di un "bene primario" per l'individuo. Il che significa, come cerca di argomentare Kymlicka, che il concetto di cultura e di appartenenza culturale non è proprio solo del contestualismo non liberale, ma, al contrario, appartiene anche alle teorie liberali che possono appoggiarsi a tale concetto per farne il fondamento di una possibile conciliazione tra liberalismo e multiculturalismo. 19 accesso possono, dunque, svolgere una funzione legittima nel quadro di una teoria liberale della giustizia. Quindi, riassumendo: la tesi liberale insiste sul fatto che le persone possono prendere le distanze dalla propria cultura e valutare altri modi di vivere e altri valori proprio perché, come sostiene Kymlicka, è l’appartenenza a una cultura liberale a consentire questo tipo di sguardo sulla realtà. Pertanto, agli individui dovrebbero essere accordati non solo il diritto giuridico di farlo, ma anche le condizioni sociali che accrescono questa capacità (ad esempio incoraggiando e incentivando una cultura umanista). Ciò significa contribuire all’autonomia degli individui. Accordare diritti in funzione dell’appartenenza a gruppi, tuttavia, non significa per Kymlicka ammettere che sia giustificato ogni provvedimento che contribuisce alla stabilità delle culture minoritarie, e non significa nemmeno ritenere plausibile una qualche versione del perfezionismo. Anzi, se i provvedimenti speciali non sono necessari o sono troppo onerosi, allora anche la politica di “benigna noncuranza” può essere giustificata. Tuttavia non è né giusto né possibile insistere su questa politica, proprio perché si è mostrato che questi speciali diritti sono necessari alla luce dei principi della giustizia liberale, e per di più si rivelano compatibili con i fondamentali principi liberali della libertà individuale e della giustizia sociale. Ma ciò è vero, dice Kymlicka, a condizione che i diritti delle minoranze non permettano a un gruppo di dominarne altri, e non permettano a un gruppo di opprimere i suoi membri: in sostanza ciò è vero a condizione che vengano garantite eguaglianza fra gruppi ed entro gruppi. Così intesi, i diritti delle minoranze svolgono un ruolo fondamentale e non finiscono per condannare il liberalismo a essere irrilevante in molti paesi del mondo. Per chiudere il discorso, possiamo ritornare brevemente al concetto di tolleranza. Un altro dei limiti del concetto liberale-classico di tolleranza si rivela quando si consideri che le democrazie liberali possono accogliere e abbracciare molte forme di diversità culturale, ma non ogni forma. I limiti della tolleranza liberale si rivelano infatti nei confronti dell’analisi del modo in cui gli stati liberali dovrebbero comportarsi quando i limiti della tolleranza (in sostanza, il principio del danno a terzi) vengono superati. Per di più, se la tolleranza è un valore liberale fondamentale, la libertà individuale e l’autonomia personale sembrano richiedere l’intolleranza verso gruppi illiberali. È vero che, tradizionalmente, i liberali hanno percepito l’autonomia e la tolleranza come due facce 20 della stessa medaglia: ciò che contraddistingue la tolleranza liberale è appunto la sua valorizzazione dell’autonomia, cioè la convinzione che gli individui debbano essere liberi di valutare ed eventualmente modificare i loro fini, i loro progetti esistenziali. Quindi ci si chiede: l’importanza data dal liberalismo all’autonomia è una base adeguata per la gestione di una moderna società pluralistica, se si considera che alcuni gruppi non conferiscono alcun valore all’autonomia? Da questo discende una domanda fondamentale: come dovrebbero comportarsi le culture liberali di fronte a quelle illiberali? Mi limiterò però solo a proporre la questione, ampiamente dibattuta, che in questa lezione rimarrà solo una domanda. 21