Il concetto di multiculturalismo: le prospettive del dibattito

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Il concetto di multiculturalismo: le prospettive del dibattito
Il concetto di multiculturalismo: le prospettive
del dibattito
contemporaneo
Silvia Vida
1. Le questioni sul tappeto
Prima di definire il concetto, per nulla univoco, di “multiculturalismo”, e di tracciare un
quadro delle teorie che si fregiano del titolo di “teorie multiculturaliste” — e delle politiche
che ne rappresentano le loro possibili attualizzazioni —, si è pensato di delineare
brevemente un altro quadro: quello delle “questioni sul tappeto” cui si rivolgono tali teorie
e tali politiche. Solo in un secondo momento, grazie alle premesse fatte, ci occuperemo
delle questioni terminologiche e delle classificazioni dei diversi orientamenti del
multiculturalismo.
1.1 I fatti
Oggi la maggior parte dei paesi è caratterizzata da diversità culturale: secondo stime
risalenti alla metà degli anni Novanta, nei 184 stati indipendenti del mondo si trovano oltre
600 gruppi linguistici e 5000 gruppi etnici. Ben pochi sono i paesi in cui tutti i cittadini
condividono la stessa lingua o appartengono allo stesso gruppo etnonazionale: l’Islanda e
le due Coree vengono spesso indicate come alcuni tra i pochi paesi a elevata omogeneità
culturale1.
Questa diversità, questa varietà di lingue e culture, è ciò che caratterizza il
pluralismo culturale delle società moderne, ed è ciò che dà origine a un insieme di
questioni importanti, perché costituisce una fonte di potenziali divisioni e conflitti.
All’interno di ogni unità linguistico-territoriale, infatti, esistono gruppi che in virtù del
numero o della superiorità politica rappresentano una maggioranza rispetto alle minoranze
culturali e linguistiche che convivono con essa. Inevitabilmente, le minoranze si trovano a
chiedere riconoscimento politico, combattono cioè per il riconoscimento della propria
identità politica, e quindi si scontrano con le maggioranze su questioni che ineriscono il
diritto e la politica di uno stato: si scontrano su tematiche quali i diritti linguistici,
l’autonomia regionale, la rappresentanza politica, i programmi educativi, le rivendicazioni
1
territoriali, le politiche per l’immigrazione e la naturalizzazione (ma anche per i simboli
nazionali, come la scelta dell’inno e le festività pubbliche, questioni simboliche, se si
vuole, ma non per questo secondarie per la vita politica di ogni gruppo).
Di fatto, in Occidente gli assunti che hanno guidato la vita politica per decenni, cioè
i principi democratico-liberali, sono messi in pericolo, e in discussione, da scontri sui diritti
degli immigrati, sui popoli indigeni e le altre minoranze culturali: sappiamo, per esempio,
che nell’Europa dell’Est e nei paesi del terzo mondo i conflitti etnonazionali sono diventati
la più diffusa fonte di violenza politica del mondo; tali conflitti, del resto, appaiono
inevitabili in quanto motivati da un senso di ingiustizia e tolleranza. Inoltre, sebbene ogni
conflitto abbia una propria storia e si svolga entro un quadro politico-culturale di per sé
unico, che deve essere tenuto presente per un’equa ed efficace soluzione di ogni conflitto, i
teorici del multiculturalismo si sono per lo più proposti di identificare alcuni concetti e
principi generali di cui occorre tener conto, cercando di chiarire alcuni punti fermi
dell’approccio liberale ai diritti delle minoranze.
Il fatto è che dopo la seconda guerra mondiale molti liberali pensavano che la
nuova importanza attribuita ai “diritti umani” avrebbe risolto i conflitti sorti intorno alle
minoranze, pensavano cioè che i conflitti si sarebbero risolti non mediante una tutela
diretta dei gruppi vulnerabili — mediante, per esempio, il conferimento di diritti speciali ai
loro membri —, bensì mediante tutela indiretta delle minoranze culturali: in altre parole, si
confidava sulla garanzia dei diritti civili e politici fondamentali a ogni individuo, a
prescindere dalle sue appartenenze di gruppo. La tendenza generale dei movimenti
postbellici aveva quindi come presupposto che le minoranze, i cui membri godono di
un’eguaglianza di trattamento sul piano individuale, non possono legittimamente chiedere
strumenti per mantenere la loro particolarità etnica. L’universalismo dei diritti umani, la
tutela dei diritti soggettivi fondamentali, avrebbe garantito anche la tutela dei singoli
individui appartenenti ai diversi gruppi o minoranze, senza che sorgesse la necessità di
concepire diritti particolari per le minoranze in quanto tali, da affiancare ai diritti soggettivi
universali. È significativo, in tal senso, il fatto che le Nazioni Unite abbiano escluso ogni
riferimento ai diritti delle minoranza etniche e nazionali dalla Dichiarazione universale
dei diritti umani.
1
Questi dati sono riferiti da Will Kymlicka, La cittadinanza multiculturale, il Mulino, Bologna 1999 (ed.
originale 1995), in particolare pagg. 7-20.
2
Sempre in periodo post-bellico, i liberali hanno creduto che la tolleranza religiosa
fondata sulla separazione tra stato e chiesa potesse rappresentare un modello per affrontare
anche le differenze culturali: in altri termini, l’identità etnica, come la religione, è qualcosa
che gli individui dovrebbero essere liberi di esprimere nella vita privata e che non deve
interessare lo stato né interferire sul suo funzionamento. Lo stato non si oppone alla libertà
degli individui di esprimere le loro caratteristiche culturali, ma non promuove neppure
queste manifestazioni. Si tratta dell’atteggiamento dello stato noto, nella letteratura sul
multiculturalismo, come “benigna noncuranza” (secondo un’efficace espressione di Nathan
Glazer). Quindi i membri di gruppi etnici e nazionali sono tutelati dalla discriminazione e
dai pregiudizi, e sono liberi di conservare qualsiasi elemento del loro retaggio o identità
etnica, purché vengano rispettati i diritti degli altri. I loro sforzi hanno carattere privato e
non è compito degli enti pubblici conferire identità, o frapporre ostacoli di natura giuridica,
a forme di appartenenza culturale o di identità etnica. Questa separazione tra stato ed etnia
(o, in altri termini, il “principio della neutralità dello stato”, nel linguaggio liberale)
precluderebbe ogni riconoscimento pubblico dei gruppi etnici e ogni ricorso a criteri etnici
per la distribuzione di diritti, risorse, doveri.
È anche vero, però, che molti liberali (soprattutto di sinistra) hanno fatto
un’eccezione a questo principio quando hanno sostenuto o promosso particolari interventi
a favore di gruppi razziali svantaggiati: soprattutto negli Stati Uniti, si sono succeduti
diversi provvedimenti che hanno imposto di privilegiare, nelle assunzioni di lavoro,
nell’assegnazione di appalti pubblici o nell’ammissione a corsi d’istruzione (e così via), i
membri di determinati gruppi razziali o etnici svantaggiati. Si tratta dei cosiddetti
interventi di affirmative action (cioè “azione positiva”, come si trova nei testi di lingua
italiana), che sono per lo più giustificati come misure temporanee che intendono rimediare
a lunghi periodi di discriminazione: l’affirmative action si propone quindi non come
profanazione del principio di separazione tra stato ed etnia (o principio di neutralità) ma
come tentativo di realizzarlo.
Ci sono tuttavia altri liberali (di destra) che ritengono i provvedimenti di affirmative
action come qualcosa che inasprisce il problema che dovrebbe risolvere, in quanto rende le
persone più consapevoli delle differenze di gruppo, producendo, per così dire, una
discriminazione a contrario, accrescendo così il risentimento e la competizione tra i gruppi.
Di fatto, quasi ogni democrazia liberale ha visto la disputa sulla necessità o indesiderabilità
dei programmi di affirmative action.
3
In ogni caso, che siano di destra o di sinistra, i liberali del periodo postbellico
rifiutano l’idea di una differenziazione permanente dei gruppi e dello status di membri di
determinati gruppi. In particolare, essi rifiutano l’idea secondo la quale la concessione di
diritti a gruppi specifici sarebbe necessaria per accogliere differenze culturali di fondo,
anziché per rimediare a discriminazioni storiche. I liberali si sono quindi battuti contro la
proposta di accordare un’identità politica o uno status costituzionale permanente a
specifici gruppi etnici o nazionali.
Al tempo stesso, è diventato evidente che i diritti delle minoranze non sono
riconducibili alla categoria dei diritti umani: i diritti umani tradizionali non sono in grado
di risolvere alcuni dei problemi più importanti e controversi in merito alle minoranze
culturali, come dire che l’universalismo cui sono improntati i diritti umani non si concilia
col particolarismo, o relativismo, degli (eventuali) diritti delle minoranze: quali lingue
devono essere riconosciute nei parlamenti, negli uffici pubblici, nei tribunali? Ogni gruppo
etnico e nazionale deve poter accedere a forme di istruzione a finanziamento pubblico
svolte nella propria lingua madre? Gli incarichi politici vanno distribuiti secondo criteri di
proporzionalismo nazionale o etnico? Le minoranze hanno il dovere di integrarsi? Quale
grado di integrazione culturale va richiesto agli immigrati e ai rifugiati prima di concedere
loro la cittadinanza? Di fatto, si tratta di questioni che si discutono contestualmente, non
universalmente: cioè in riferimento al preciso contesto giuridico-politico-culturale in cui
sorgono.
Questi sono solo alcuni esempi delle questioni che corrispondono alle richieste
identitarie dei gruppi o minoranze che si trovano a competere dentro uno stesso stato. E
queste richieste sono diventate tanto più pressanti quanto più è cresciuta la consapevolezza,
per molti liberali, che il problema non sta nel fatto che le tradizioni dottrinali dei diritti
umani forniscono una risposta sbagliata a queste domande, ma piuttosto risiede nel fatto
che spesso esse non forniscono alcuna risposta. Il diritto alla libertà di parola, per esempio,
non dice quale sia la politica linguistica più adeguata; il diritto di voto non ci dice come
tracciare i confini dei collegi elettorali; il diritto alla mobilità non dice quali politiche
dell’immigrazione e della naturalizzazione adottare dentro uno stato. Di conseguenza, è
opinione comune tra gli studiosi del multiculturalismo che le minoranze culturali sono state
sottoposte a significative forme di ingiustizia da parte della maggioranza, e i conflitti
etnoculturali si sono acuiti.
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Vi sono molti studiosi, attualmente, anche tra i liberali, che si dicono convinti che
per risolvere i problemi in maniera equa occorre affiancare, accanto ai tradizionali principi
dei diritti umani, una vera e propria teoria dei diritti delle minoranze: un liberale che
sostiene con forza questa posizione è ad esempio Will Kymlicka2, ma anche il filosofo
Joseph Raz3; accanto a questi pensatori liberali, a sostenere la necessità di un teorizzazione
di diritti culturali e delle minoranze, affiancata alle tradizionali categorie dei diritti, sono
per lo più gli studiosi che si oppongono all’universalità e astrattezza dei principi liberali,
cioè i cosiddetti communitarians — si veda in proposito § 2, punto d)—, i quali, invece di
vedere il riferimento fondamentale delle politiche pluraliste nell’individuo, lo vedono nella
comunità di appartenenza dell’individuo: prima dell’individuo viene la comunità, e su
questa si costruisce e si determina l’identità dell’individuo, anche dal punto di vista
politico.
Kymlicka si dice convinto, per esempio, della inevitabilità di affiancare e integrare i
diritti umani tradizionali coi diritti delle minoranze, poiché una teoria completa della
giustizia negli stati multiculturali deve includere sia i diritti universali, accordati agli
individui, a prescindere dalle loro appartenenze di gruppo, sia alcuni diritti differenziati per
gruppo, o a “statuto speciale” per le culture minoritarie. È evidente che il riconoscimento
di diritti delle minoranze comporta alcuni rischi: il linguaggio dei diritti delle minoranze è
stato usato ad esempio dai nazisti, dai difensori delle politiche della segregazione e
dell’apartheid, dai nazionalisti e dagli integralisti intolleranti per giustificare l’oppressione
di un popolo non appartenente al loro gruppo e per giustificare la soppressione di
dissenzienti. Questo è sostanzialmente la ragione che fa dire, ad alcuni liberali
“intransigenti” che, non solo non v’è alcun bisogno di diritti delle minoranze, ma anche
che la loro teorizzazione contrasta fortemente coi principi (liberali) che essi vorrebbero
rendere compatibili con le richieste identitarie delle minoranze. Tutto ciò lo vedremo in
dettaglio nel prossimo paragrafo. Ma è già chiaro, a questo punto, che quando si affronta la
questione multiculturale secondo un approccio liberale, una teoria liberale dei diritti delle
minoranze deve spiegare come essi possano coesistere con i diritti umani e incontrare
vincoli nei principi di LIBERTÀ individuale, e quindi AUTONOMIA), DEMOCRAZIA e
2
Will Kymlicka, canadese, è uno dei maggiori esponenti del dibattito multiculturalista: la sua opera
principale per l'argomento che stiamo trattando è certamente Multicultural Citizenship, Oxford University
press, del 1995, di cui esiste la traduzione segnalata nella nota n. 1.
3
Le teorie multiculturaliste del filosofo del diritto J. Raz sono per lo più esposte in Ethics in the Public
Domain, Clarendon, Oxford 1996, e in "Multiculturalism", in Ratio Juris 11(1998): pagg. 193-205.
5
GIUSTIZIA SOCIALE, UGUAGLIANZA, che sono appunto i tradizionali principi liberali
fondamentali.
1.2. Richieste identitarie e reazioni teorico-politiche
Tuttavia, a titolo di cronaca, devo dirvi che non tutti i pensatori hanno cercato di conciliare
le istanze del pluralismo e del multiculturalismo con quelle del liberalismo. Di fronte ai
conflitti e ai problemi avanzati dalle minoranze si sono avuti sostanzialmente quattro tipi di
reazioni.
1) La prima reazione — prima anche in senso temporale — è stata una rigida
autodifesa dei valori liberali e democratici dell’universalismo ed egualitarismo contro ciò
che viene dipinto come tribalismo o fondamentalismo intollerante di un gruppo contro gli
altri. È la posizione di autodifesa intransigente dell’ordine liberale che paventa nel
multiculturalismo la potenziale distruzione dei valori liberali e democratici, nonché la fonte
delle guerre di religione. Tutto ciò è sostenuto dall’argomento secondo cui la democrazia
liberale offre già inclusione a chiunque, indipendentemente da origine etnica, fede, cultura,
sesso (lo offre al singolo individuo, indipendentemente dal gruppo cui appartiene).
L’inclusione avviene estendendo i diritti a tutte le minoranze presenti in una società,
garantendo pari dignità, rispetto e non discriminazione, lasciando liberi i singoli di
associarsi privatamente, previo il rispetto dei diritti di tutti, membri e non membri. In Italia,
questa posizione è stata difesa, per esempio, Mario G. Losano.
2) La seconda reazione è di chi non respinge le richieste del multiculturalismo
come illegittime, come eticamente inaccettabili da parte delle democrazie liberali, e
riconosce che l’inclusione di membri di gruppi diversi attraverso l’estensione dei diritti non
produce accesso pieno alla cittadinanza, ma solo una “cittadinanza di seconda classe”. Ciò
non porta a concepire diritti dei gruppi, ma comporta comunque la convinzione che proprio
per ragioni di giustizia le domande identitarie vanno considerate come strumento di una
equa inclusione. È questa una posizione che incoraggia, e implica, una revisione del
liberalismo e della democrazia, ma che pure ne salva il nucleo costitutivo. In Italia è la
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posizione difesa da Anna E. Galeotti4, e fuori dall’Italia da Jürgen Habermas, Karl-Otto
Apel, Michael Walzer, Jeremy Waldron5.
3) La terza posizione ritiene che diritti soggettivi e neutralità liberale (cioè, lo
ripetiamo, la separazione di etnia e stato) siano insufficienti a garantire pari dignità e
rispetto ai singoli gruppi. Quindi si ritiene favorevole ai diritti culturali, specifici ai gruppi
(cioè collettivi) come garanzia e sostegno per le identità minoritarie, contro le pretese
assimilazionistiche della maggioranza. Questa posizione in sostanza avvalora la felice
distinzione di Ronald Dworkin tra “uguale trattamento” o “trattamento da eguali”. Nel caso
dei diritti indirizzati a gruppi si ammette, in sostanza, che un uguale trattamento sarebbe
discriminante in quanto non comprensivo né rispettoso delle differenze incarnate da un
gruppo o da un suo membro rispetto alla maggioranza della società. Per fare un esempio
concreto: nel momento in cui si attuano programmi di affirmative action si realizza il
principio del trattamento da eguali, poiché si ritiene che un trattamento uguale (cioè
indipendente da considerazioni di carattere “etnico”, ad esempio) sarebbe discriminante
rispetto alle differenze incarnate da un gruppo rispetto ad altri6. Questa posizione, pur
essendo molto sensibile alle differenze, come la seconda, se ne distanzia molto (ma questo
sarà evidente soprattutto nella terza lezione del seminario, dedicata al tema diritti
individuali vs. diritti collettivi o culturali). La posizione a favore dei diritti culturali, infatti,
pur rimanendo ancorata al quadro politico ed etico della democrazia liberale, ne
presuppone una reinterpretazione ancora più profonda della seconda. È la posizione che
viene sostenuta, come abbiamo visto, da Will Kymlicka e da Joseph Raz tra gli altri.
4) La quarta reazione condivide con la prima l’inconciliabilità fra multiculturalismo
e teoria liberal-democratica. Ma mentre nella prima abbiamo il rigetto delle istanze del
multiculturalismo a favore dei principi del liberalismo, difesi ad oltranza, in questo tipo di
reazione l’incompatibilità tra multiculturalismo e teoria liberale-democratica diventa
4
Si veda soprattutto il fondamentale volume di Galeotti, Multiculturalismo. Filosofia politica e conflitto
identitario, Liguori, Napoli 1999. A Galeotti dobbiamo l’utile schematizzazione delle quattro reazioni al
multiculturalismo che stiamo tracciando. Si vedano in particolare, pagg. 7-10 del volume appena citato.
5
Waldron si colloca in questa schiera anche se ha proposto una particolare teoria fondata sul tradizionale
cosmopolitan right, cioè il diritto cosmopolitico, che salvaguarda il principio della mescolanza di culture
senza la necessità di concepire diritti diversi da quelli individuali, universali, cioè liberali in senso classico. Si
veda soprattutto l’articolo Minority Cultures and the Cosmopolitan Alternative, in “University of Michigan
Law Reform”, 25, 1992; e l’articolo What is Cosmopolitan?, in “Journal of Political Philosophy”, 8, 2000.
6
Trattare da eguali Mario Rossi, cittadino italiano, e una donna di colore, immigrata, in virtù del principio di
eguaglianza di fronte alla legge diventa paradossalmente discriminate, cioè porta alla violazione del principio
stesso che vorrebbe realizzare, poiché trattare da eguali Mario Rossi e la donna di colore comporta un
annullamento delle differenze non formali, ma sostanziali, di cui sono portatori i due soggetti di fronte alla
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occasione per accantonare la seconda, coi suoi ideali di eguaglianza, neutralità,
universalità, che vengono definiti come utopie, mistificazioni, ideologie, nonché strumenti
di dominio e oppressione culturale. Questa posizione radicale è condivisa da frange di
femministe, dai decostruzionisti, dal cosiddetto pensiero post-moderno, posizioni tutte
generalmente criticate in quanto presentano gravi carenze nel delineare società alternative
al liberalismo oppressivo e strumento di dominio. Questi movimenti si propongono infatti,
in modo non ben ordinato né sistematico, di valorizzare le differenze, di richiamarsi
all’ideale della democrazia partecipativa (la democrazia rappresentativa infatti è carente
sotto il profilo politico: non rappresenta, né salva, né valorizza le differenze dei gruppi che
compongono la società), e puntano a modelli di società analoghi al sogno di una “società
arcobaleno”, non ulteriormente precisata, teorizzata da Iris M. Young7. Accanto a Young
abbiamo Boaventura De Sousa Santos8, ma anche il movimento Multikulti tedesco, il
quale, nella lotta all’imperialismo culturale occidentale, adotta la parola d’ordine “straniero
è bello”, mostrandosi unilateralmente a favore dell’altro, a patto che l’“altro” non sia un
“noi stessi”, e sia configurabile come “minoranza”.
Il quadro brevemente delineato ha mostrato che il multiculturalismo, come teoria e
come politica, è sorto dalle richieste di riconoscimento dell’identità e della pari dignità
delle espressioni culturali dei gruppi e delle comunità che convivono in una società
democratica. Ma a questo punto, chiariti quali sono i problemi sul tappeto, e quali i
possibili approcci, possiamo procedere con alcuni chiarimenti terminologici.
2. Chiarimenti terminologici
legge. Cfr. Gf. Zanetti, "Eguaglianza", in Seminari di filosofia del diritto, a cura di M. La Torre e Gf. Zanetti,
Rubettino, Soveria Mannelli 2000.
7
Si veda soprattutto il volume Justice and the Politics of Difference (1990), trad. it. Le politiche della
differenza, Feltrinelli, Milano 1996, ma anche, per esempio, "Communication and the Other: Beyond
deliberative Democracy", in S. Benhabib (a cura di), Democracy and the Difference: Changing Boundaries
of the Political, Princeton University Press.
8
Si vedano soprattutto il volume B. De Sousa Santos, Toward a New Common Sense. Law, Science and
Politics in the Paradigmatic Transition, Routledge, London 1995, e il saggio dello stesso autore, "Toward a
Multicultural Conception of Human Rights", in Sociologia del diritto 24 (1997), pagg. 27-45.
8
Più che chiarimenti, si tratta di cautele terminologiche. Innanzi tutto bisogna chiarire cos’è
il multiculturalismo rispetto al pluralismo culturale. Tali concetti sono infatti correlati, ma
non coincidono.
a) Multiculturalismo e pluralismo culturale vengono spesso usati come sinonimi per
indicare appunto la caratteristica degli stati indipendenti attuali in cui sono compresenti
razze, etnie, lingue, culture, stili di vita differenti e in competizione tra loro: maggioranze e
minoranze. In realtà, è bene chiarire che nel dibattito sul multiculturalismo “pluralismo”
assurge a categoria descrittiva (di uno stato di fatto), mentre “multiculturalismo” assurge a
categoria che ha una forte componente prescrittiva o normativa. Multiculturalismo si
riferisce infatti a un tipo di politica o di politiche che riconosce e quindi intende
valorizzare uno stato di pluralismo. O per lo meno, intende far sì che negli stati a forte
componente pluralista i principi prima enunciati (libertà individuale, democrazia, giustizia
sociale, ecc.; si veda § 1.1 ) siano realizzati mediante adeguati strumenti giuridico-politici.
b) Chi può costituire una minoranza? Abbiamo parlato di minoranze, cioè di gruppi in
competizione col gruppo che costituisce la maggioranza entro la medesima società, ma non
abbiamo ancora definito la nozione di “minoranza”. Un’ottima categorizzazione dei tipi di
minoranze ci è data da W. Kymlicka (in Cittadinanza Multiculturale, 1999) che distingue
tra: i) Minoranze nazionali e coloni: sono le minoranze esistenti su un territorio prima del
costituirsi dell’identità statuale; ii) immigrati, giunti dopo la formazione dello stato; iii)
movimenti societali, cioè quelli che si sviluppano durante la vita sociale dello stato; iv)
gruppi religiosi. Kymlicka avverte che questa tipologia è decisamente esemplificativa, non
esaurisce l’effettiva pluralità dei gruppi che possono coesistere entro un medesimo stato,
ma definisce solo paradigmaticamente i principali tipi di gruppi. Come vedremo in seguito,
infatti, questa tipologia realizza una sistematizzazione delle minoranze secondo il
multiculturalismo inteso “in senso stretto”, cioè quello che si rivolge all’analisi delle
società multinazionali e polietniche (nel senso in cui le intende, appunto, Kymlicka; cfr.
punto c), seguente).
c) Stati multinazionali e polietnici. La forma di diversità culturale che si presenta più
rilevante dal punto di vista politico è infatti, secondo Kymlicka, la coesistenza all’interno
di un determinato stato di più nazioni, dove nazione significa comunità storica, più o meno
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compiuta dal punto di vista delle istituzioni, che occupa un determinato territorio e
possiede una lingua e una cultura distinte. In questa accezione sociologica, la nazione si
avvicina alle idee di popolo e cultura. Un paese che contiene più di una nazione è uno stato
multinazionale, e le culture più piccole che vi appartengono sono minoranze culturali. Uno
stato può diventare multinazionale in virtù di un atto volontario, quando, per esempio, si
decide di formare una federazione; oppure lo diventa come esito di un processo storico,
quando una comunità culturale viene invasa o conquistata da un’altra, o quando nel suo
territorio si riversano coloni. Molte democrazie occidentali sono multinazionali (Stati
Uniti, Russia ne sono esempio immediatamente significativi). Un’altra realtà politica dove
è massiccia la presenza di minoranze nazionali è il Canada (dove coabitano inglesi,
francesi, indigeni).
La seconda significativa fonte del pluralismo culturale è, ovviamente,
l’immigrazione: un paese è caratterizzato da pluralismo culturale se accoglie come
immigrati grandi numeri di individui e famiglie da altre culture, e se permette loro di
mantenere una parte della loro specificità etnica, senza pretendere l’assimilazione.
Australia, Stati Uniti e Canada hanno i più alti tassi di immigrazione pro capite al mondo:
oltre la metà di tutta l’immigrazione legale è diretta verso uno di questi tre paesi. Questi
stati sono quindi esempio di stati polietnici. Un paese può quindi essere sia multinazionale
(in seguito a colonizzazioni, conquiste, confederazioni), sia polietnico (a causa
dell’immigrazione individuale o familiare). Come sostiene Kymlicka, queste due etichette
sono
meno
famose
di
quella
di
multiculturalismo;
inoltre,
usare
l’etichetta
“multiculturalismo” può essere fuorviante proprio perché non distingue tra stato
multinazionale e polietnico, ma anche perché molto spesso “multiculturalismo” assume
un’accezione molto più ampia: vi è infatti tutta una parte del pensiero multiculturalista che
con questo termine fa riferimento a un ampio ventaglio di gruppi sociali non ben definiti
secondo criteri etnici, ma che per varie ragioni sono stati emarginati o esclusi dalle società,
e quindi costituiscono minoranze cui il pensiero multiculturalista deve dedicare la propria
attenzione. Si tratta del multiculturalismo inteso “in senso lato”, che ha una propria
diffusione soprattutto negli stati Uniti. Qui, i fautori del multiculturalismo fanno
riferimento ai tentativi di rimediare all’esclusione storica di gruppi diversi da quelli definiti
secondo criteri etnici, quali donne, omosessuali, lesbiche, comunisti, atei, e così via.
Questo è un pensiero che ha di mira per lo più l’attuazione di speciali politiche della
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“cittadinanza differenziata”. Un’autrice importantissima a questo riguardo è I. Marion
Young (cfr. § 3).
Autori del multiculturalismo (è il caso, ancora una volta, di Kymlicka) non
ritengono che questi ultimi gruppi siano da intendere alla stregua delle minoranze
nazionali, etniche e linguistiche, quindi tendono a escludere dalle politiche del
multiculturalismo le politiche volte a promuovere le differenze culturali di altro tipo. Come
abbiamo visto, ad esempio, per Kymlicka “cultura” è sinonimo di “nazione” o “popolo”, e
uno stato è multiculturale se i suoi membri appartengono a diverse nazioni (stato
multinazionale) o sono emigrati da diverse nazioni (stato polietnico), ed è multiculturale se
tutto questo costituisce un elemento importante dell’identità personale e della vita politica
di questo stesso stato. Vi sono invece molti altri autori che usano “multiculturalismo” come
una categoria molto ampia. (Non a caso una lezione del seminario è dedicata al
femminismo e ai diritti delle donne).
Comunque, in generale, possiamo dire che nelle tre aree in cui si è sviluppato il
dibattito sul multiculturalismo (cioè Stati Uniti, Canada, Europa), vi è una varietà delle
accezioni di “cultura” che si rispecchia appunto nella varietà di significati attribuiti al
termine “multiculturalismo”. In Canada si riferisce di solito al diritto degli immigrati di
esprimere la loro identità etnica senza temere il pregiudizio o la discriminazione. In Europa
denota per lo più la condivisione di poteri da parte di più comunità nazionali. Negli Stati
Uniti lo si usa spesso per accogliere le richieste di gruppi sociali emarginati (gay, donne,
ecc).
Quindi, quando si parla di minoranze si possono intendere molte cose, e le
categorie possono sovrapporsi e interpenetrarsi: esempio emblematico in tal senso è il caso
di una donna immigrata, di colore, e di differente religione e lingua rispetto al paese
d’accoglienza.
d) Il pluralismo delle dottrine. Finora abbiamo parlato del dibattito sul multiculturalismo
come un dibattito che si svolge per lo più tra pensatori liberali. Abbiamo anche accennato
alla distinzione tra liberals e communitarians (cfr. § 1.1). È bene precisare che i due
dibattiti non coincidono, anche se si legano reciprocamente. Pertanto occorre chiarirne
distanze e punti di contatto.
La controversia liberals-communitarians è essenzialmente una controversia
filosofico-politica anglosassone e americana risalente agli anni Ottanta, entro la quale si
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sono contrapposte due visioni del rapporto tra individuo e comunità politica di
appartenenza. Mentre il punto di riferimento, il fondamento teorico del pensiero liberals è
l’individuo, cui corrisponde la priorità politica e teorica del concetto di diritto individuale, i
comunitaristi sottolineano la supremazia del concetto di comunità in cui il soggetto è
radicato, tramite cui il soggetto costruisce la propria identità culturale e politica. A
quest’idea, i pensatori liberals ribattono che la comunità è una forma sociale oppressiva,
lesiva dei diritti individuali e della realizzazione dell’individuo.
Su quest’ultimo punto si inserisce, evidentemente, il dibattito multiculturalista, che
è successivo, in quanto si può far risalire agli anni Novanta situandolo nello stesso
ambiente. Come ormai dovrebbe essere chiaro, questo è un dibattito che si misura tra
pensatori che hanno messo in risalto i, e mosso critiche precise ai, capisaldi della tradizione
liberale. Possiamo ridurre questi capisaldi ai seguenti quattro punti:
i) la concezione del sé e l’identità personale. Se il liberalismo esalta i principi
dell’autonomia, della libertà individuale, dell’autoaffermazione, il pluralismo culturale ha
portato in primo piano la realtà del gruppo di appartenenza, cioè il rapporto complesso tra
individuo e comunità. Si tratta quindi di capire se l’individualismo/universalismo del
pensiero liberale (quindi la supremazia teorica dei diritti soggettivi/universali) può far
fronte ai problemi politici derivati dalle richieste di riconoscimento da parte dei gruppi (o
minoranze) che dentro la società subiscono la superiorità politica di altri gruppi o
maggioranze;
ii) il ruolo della cultura nell’affermazione dell’identità personale. Questo punto
riceverà molta attenzione in seguito. Ma è chiaro fin d’ora che la richiesta di
riconoscimento dell’identità politico-culturale del gruppo o dell’individuo può ricevere una
diversa risposta a seconda del “peso” che si è disposti a dare alla cultura di appartenenza
rispetto all’affermazione dell’identità personale. Infatti qui è in gioco la priorità logica, o
meno, del concetto di “appartenenza culturale”: da un lato, secondo un’ottica
comunitarista, la cultura del gruppo di appartenenza è fondamentale per il costituirsi
dell’identità del singolo (per cui un singolo individuo è nulla senza i vincoli che lo legano
al proprio gruppo e alla propria cultura); dall’altro, in un’ottica prettamente liberale e
liberals, ciò che bisogna salvaguardare più di ogni altra cosa sono i diritti dell’individuo di
scegliere i valori in cui credere, quindi la cultura di cui nutrirsi, pena il chiudersi in se
stesse delle diverse comunità, le une rispetto alle altre;
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iii) la concezione dei diritti individuali e universali. Come conseguenza diretta dei
punti i) e ii), tali diritti (sia che si voglia difenderli dagli “attacchi” multiculturalisti”, sia
che li si voglia reinterpretare seguendo le suggestioni multiculturaliste) devono competere
con la nuova categoria dei diritti culturali o di gruppo. Infine,
iv) la neutralità dello stato rispetto alle differenze nell’applicazione della legge.
Abbiamo visto che il principio di separazione tra etnia e stato e l’egalitarismo rischiano di
trasformarsi, nel peggiore dei casi, in oppressione culturale (in quanto comportano
l’annullamento delle differenze culturali-politiche dei gruppi, soprattutto nella fase
applicativa della legge), e nel migliore dei casi si manifestano come “benigna noncuranza”,
cioè come indifferenza politica nel trattare le diverse minoranze, costrette ad affermare la
propria identità solo privatamente.
Riassumendo, il ripensamento di questi quattro capisaldi, o la loro messa in
questione da parte delle istanze multiculturaliste, evidenziano tutti la stessa tendenza: dal
punto di vista giuridico-politico è in questione la supremazia dei diritti di gruppo e culturali
su quelli individuali, o, viceversa, la supremazia di quelli individuali sui collettivi.
Il dibattito sul multiculturalismo nasce proprio dalla consapevolezza che, ove ci sia
pluralità di culture, etnie, razze emerge la dimensione conflittuale insita in tutte le forme di
pluralismo. Il multiculturalismo è un problema di filosofia politica perché affronta la
valutazione delle contrapposte politiche di gestione del pluralismo, che possono andare
dall’estremo rappresentato dall’assimilazione delle diverse identità in un’unica identità
statale, all’estremo rappresentato dal differenzialismo più radicale, caratterizzato dalle
chiusure delle diverse comunità le une rispetto alle altre. Elaborare nuove politiche che
sappiano mediare tra i due estremi, salvando i principi della libertà, della democrazia, della
giustizia sociale, dell'autonomia e dell'uguaglianza è certamente la sfida del
multiculturalismo contemporaneo. In effetti, la più grande sfida per le democrazie
contemporanee consiste nel trovare soluzioni moralmente accettabili e politicamente
praticabili di tutti i problemi cui abbiamo accennato.
3. I diritti differenziati in funzione dell’appartenenza di gruppo. La posizione di Will
Kymlicka
13
Poiché, come abbiamo visto, le fonti del pluralismo culturale sono molteplici, e molteplici,
quindi, sono le forme di pluralismo, quelle che interessano il multiculturalismo inteso in
senso stretto sono le forme di pluralismo culturale che caratterizzano gli stati
multinazionali e polietnici. Infatti, tutte le democrazie liberali sono o multinazionali o
polietniche, oppure entrambe le cose. La sfida del multiculturalismo è dare a queste
differenze nazionali ed etniche un assetto stabile e moralmente giustificabile.
In ogni democrazia liberale la salvaguardia dei diritti civili e politici rappresenta
uno dei meccanismi fondamentali per conciliare le differenze culturali. Proprio a questo
proposito emerge la categoria dei diritti delle minoranze, cioè dei diritti differenziati in
funzione dell’appartenenza di gruppo. Tale categoria, lo ripetiamo, emerge proprio in
considerazione del dubbio che i diritti della tradizione liberale classica — ad esempio: la
libertà di associazione, religione, parola, mobilità, organizzazione — siamo effettivamente
adeguati a tutelare le differenze di gruppo. Si tratta della consapevolezza, che si fa strada,
che i normali diritti di cittadinanza possano non essere così duttili, e quindi idonei a trattare
tutte le forme di diversità.
Vi sono stati molti critici del liberalismo (ad esempio marxisti, comunitaristi,
femministe, e postmoderni) che hanno affermato che l’importanza attribuita dai liberali ai
diritti individuali rispecchia una concezione atomista, materialista, strumentale o
conflittuale dei rapporti umani9 (non a caso, le femministe hanno spesso sostenuto che il
liberalismo ha danneggiato le donne). Molti liberali, tra i quali anche Kymlicka10, ritiene
che questa critica sia infondata, perché i diritti individuali possono essere usati (e lo sono
effettivamente) per sostenere un ampio ventaglio di rapporti sociali. Tuttavia, c’è chi
sostiene che certe forme di differenza di gruppo possono sopravvivere solo se ai loro
membri vengono concessi determinati diritti in ragione della loro appartenenza di gruppo:
è I.M. Young che, ad esempio, parla di “cittadinanza differenziata”; ma anche Kymlicka
pensa che occorre prendere alcune misure speciali per salvare le società multinazionali e
polietniche (essenzialmente: i diritti di autogoverno, i diritti polietnici e i diritti di
rappresentanza speciale; ma quest’ultimo punto verrà chiarito all’interno della lezione su
diritti individuali/collettivi), misure che tentano di articolare un approccio liberale ai diritti
9
Questa analisi si giustifica col seguente argomento: poiché il pensiero liberale ha come proprio caposaldo
fondamentale il principio di libertà e autonomia personale (l’autoaffermazione dell’individuo), esso tende a
considerare gli individui come isolati gli uni dagli altri e come staccati dal tessuto connettivo della società
(gli individui sono appunto “atomici”). Ciò ha ovviamente incoraggiato e favorito lo sviluppo del
capitalismo, che ha inteso i rapporti tra individui secondo un’ottica materialista, strumentale e quindi
conflittuale.
14
delle minoranze. Ma qual è il significato di questa posizione? E come è possibile renderla
compatibile con gli assunti del liberalismo che questo autore professa11? Di fatto, il seguito
di questo nostro discorso sarà inteso a spiegare come le posizioni dell’orientamento
liberale possano articolarsi integrandosi coi paradigmi del pensiero multiculturalista.
Vi sono infatti molti liberali che considerano la categoria dei diritti delle minoranze
come antitetica alla democrazia liberale: questa è infatti sorta come reazione al modo in cui
il feudalesimo determinava i diritti politici e le opportunità economiche degli individui in
funzione della loro appartenenza di gruppo. Reintrodurre i diritti di gruppo significa quindi
ritornare a un’idea illiberale della cittadinanza. Occorre perciò interrogarsi sull’opportunità
teorica e politica dei diritti di gruppo.
Perché — alcuni liberali si chiedono — i membri di alcuni gruppi dovrebbero avere
diritti relativi al territorio, alla lingua, alla rappresentanza, e così via? La differenziazione
dei diritti secondo l’appartenenza di gruppo sembra infatti riflettere una concezione
collettivista o comunitaria, piuttosto che i principi liberali della libertà individuale e
dell’eguaglianza. Senza contare che, per molti liberali, l’esistenza stessa del concetto di
diritto collettivo sembra preludere a un diritto che, anziché neutrale, si propone come
misura protettiva di una certa razza, di una certa cultura, garantendone la sopravvivenza e
il benessere, magari a discapito di altri gruppi12.
Del resto, sulla controversia tra liberals e communitarians, relativa ai modi di
trattare le differenze e le richieste di riconoscimento delle identità di gruppi o minoranze, si
misura un’altra questione filosofica fondamentale: cioè la maggiore adeguatezza
dell’universalismo o del relativismo culturale. Vi spiego meglio: tutte le principali
tradizioni di pensiero politico che a vario titolo si riconoscono nei capisaldi della
democrazia liberale (il liberalismo di John Rawls e Ronald Dworkin, il libertarismo di von
Hayek e Robert Nozick, la teoria critica della democrazia di J. Habermas, ecc.)
condividono “universalismo” e principio di uguaglianza in una qualche interpretazione.
Nella teoria politica contemporanea l’universalismo è stato messo in questione dai
comunitaristi, che invece propendono per il contestualismo delle culture e delle tradizioni,
quindi per una visione relativistica dei diritti. Quindi nasce una prima questione: le
10
Kymlicka, come abbiamo già visto, propende per i diritti differenziati, nonostante sia liberale. Cfr. § 1.2.
Evidentemente, questa posizione sta in mezzo alla controversia tra diritti individuali e diritti collettivi, e si
misura sui seguenti assunti: da un lato vi è l’impegno di ogni democrazia liberale di assicurare libertà ed
eguaglianza ai suoi cittadini: questo impegno si rispecchia nei diritti costituzionali che garantiscono i
fondamentali diritti civili e politici di ogni individuo, a prescindere dalle sua appartenenze di gruppo.
11
15
differenze sono alternative al principio di uguaglianza, o possono essere rese compatibili13?
In altre parole, la coesistenza pacifica e ordinata delle differenze richiede valori universali,
trasversali rispetto a gruppi differenti (questo è appunto l’universalismo), oppure richiede
una visione della società per così dire a mosaico, plurale più che pluralista, avente
equilibrio instabile, e quindi non leggibile attraverso categorie universali e astratte (questo
è invece il relativismo culturale)14?
Occorre chiarire, innanzi tutto, che il riconoscimento pubblico delle identità di
gruppo, o collettive, è inteso sia come tolleranza pubblica delle differenze identitarie, sia
come richiesta di sostegno delle identità collettive delle minoranze escluse dalla vita
pubblica (mediante la concessione di diritti alla cultura o culturali: diritti alla lingua15, a
programmi educativi specifici, alla celebrazione pubblica di festività dei gruppi di
minoranza).
Cosa giustifica una richiesta del genere16? Concedere trattamenti differenziati
sembra infatti una patente violazione dei principi di neutralità e imparzialità della legge. Di
conseguenza, le richieste provenienti dai gruppi di minoranza impongono un ripensamento
e un superamento dell’idea di tolleranza politica. Con il concetto di tolleranza si
presuppone infatti il punto di vista liberal per giudicare le diverse visioni del mondo e le
diverse concezioni politiche: cioè, in pratica, si intende la tolleranza come qualcosa per cui
12
Questo tema così travagliato sarà oggetto di un’altra lezione del seminario, la terza, dedicata ai diritti
collettivi, dove si esamineranno, tra le altre, le posizioni di Ch. Taylor, comunitarista, e di J. Habermas.
13
Insomma, si tratta sempre della stessa domanda: se è possibile rendere compatibili le richieste del
multiculturalismo coi principi e le istituzioni fondamentali della democrazia liberale, cioè gli ideali di
neutralità, uguaglianza, imparzialità, libertà personale, giustizia politica e sociale, garantita da diritti
universali, civili, politici e sociali, i cui titolari siano individui e non gruppi.
14
Un autore importante del dibattito multiculturalista che ha messo particolarmente in risalto la crisi
dell’universalismo liberale, mettendo l’accento sulla nozione di "cultura" come qualcosa di non omogeneo,
mai costante né stabile, quindi incompatibile con qualsiasi tentativo universalista è il canadese James Tully,
in Strange Multiplicity. Constitutionalism in an Age of Diversity, Cambridge, Cambridge University Press
1995. Egli sostiene che una corretta visione della cultura ha profonde ripercussioni in ambito di filosofia
costituzionale: la crisi di universalismo ed egualitarismo si manifesta proprio nella debolezza dei principi
costituzionali, improntati su valori individualistici/universalistici. Si veda sull'argomento Francesco Belvisi,
"Società multiculturale e costituzione", in Giorgio Bongiovanni (a cura di), La filosofia del diritto
costituzionale e i problemi del liberalismo contemporaneo, CLUEB, Bologna 1998, pagg. 79-104.
15
A titolo di cronaca, l’Italia è uno dei pochi stati europei che tutela esplicitamente, a livello costituzionale,
le minoranze linguistiche. L’art. 6 dice “La Repubblica italiana tutela con apposite norme le minoranze
linguistiche”. La legge 482/99 recante norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche prende
atto della esistenza anche di altre minoranze linguistiche. L’art. 2 di questa legge dice: “La Repubblica tutela
la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate, e di quelle
parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo”.
16
Ribadiamo, se fosse necessario, che tali richieste si giustificano mediante un argomento di giustizia che
rileva le disparità di trattamento e considerazione pubblica subita dai gruppi minoritari, i cui membri
subiscono sistematicamente la violazione dei diritti all’uguaglianza di trattamento di fronte alla legge, visto
che i principi di imparzialità e neutralità della legge, e di non discriminazione nell’estensione dei diritti sono
considerati fondamentali nella teoria liberale.
16
si accorda passivamente rispetto a una cultura a patto che essa non provochi danno a terzi
(si tratta, evidentemente, di una applicazione del principio milliano del danno,
corrispondente a quella che prima abbiamo definito politica della “benigna noncuranza”).
Il dibattito multiculturalista ha mostrato i limiti di un tale concetto di tolleranza. La
neutralità e il principio del danno a terzi cadono di fronte alla richiesta di riconoscimento
della pari dignità culturale e morale delle espressioni culturali. Pertanto sorge il seguente
problema, comune a molti teorici di impronta liberale partecipi del dibattito multiculturale:
è possibile soddisfare le richieste emerse dal dibattito multiculturalista rimanendo fedeli
alla prospettiva liberale? Come è possibile essere liberali, rispondere alle istanze
identitarie, rinunciando al tempo stesso ai capisaldi della democrazia liberale, cioè
universalismo e uguaglianza di fronte alla legge? È possibile rispondere alle domande
identitarie quando si sa che rispondere a esse significa sottolineare le differenze, contro il
principio dell’uguale trattamento?
Di fatto, secondo Kymlicka è possibile salvare i principi basilari del liberalismo in
modo che essi abbiano rilevanza per le rivendicazioni delle minoranze etniche e nazionali.
Il senso di quanto segue è la ricostruzione della sua posizione e del suo argomento a favore
della conciliazione tra presupposti liberali e istanze multiculturaliste.
Naturalmente, sostiene Kymlicka, i principi basilari del liberalismo sono quelli
della libertà individuale: i diritti delle minoranze sono accettabili nella misura in cui sono
conformi al rispetto della libertà e dell’autonomia degli individui. Sappiamo tutti che
esistono gruppi etnici e nazionali profondamente illiberali che cercano di sopprimere,
anziché incoraggiare, la libertà dei loro membri. Di contro, il liberalismo si
contraddistingue per il fatto di ascrivere alle persone una libertà di scelta molto ampia per
quanto riguarda come vivere. Consente di scegliere una concezione del retto vivere e di
riesaminare quella decisione, ed eventualmente adottare un nuovo e migliore progetto di
vita. Ma qui sorge una domanda importante, che ha a che fare, ancora, col concetto di
tolleranza come indifferenza, o neutralità: Per quale motivo lasciare all’individuo la libertà
di scegliere, quando si sa che alcuni prenderanno decisioni imprudenti o sprecheranno il
loro tempo dietro progetti impossibili o, peggio, banali? E per converso, per quale motivo
il governo dovrebbe astenersi dall’intervenire impedendoci di sbagliare, e costringendoci a
condurre una vita davvero gratificante? Questo secondo passaggio del ragionamento di
Kymlicka ci pone di fronte all’alternativa teorica rappresentata da un altro dibattito
contemporaneo che integra sia il dibattito multiculturalista, sia la controversia
17
liberals/communitarians. Questo ulteriore dibattito filosofico è quello che oppone le
nozioni di “perfezionismo” e di “antiperfezionismo”. Anche tale controversia inerisce al
problema (ai problemi) del pluralismo, mettendo però un particolare accento non tanto sui
fondamenti (universalismo/relativismo; diritti individuali/diritti collettivi), quanto piuttosto
sugli orientamenti. Da un lato vi sono i perfezionisti, dall’altro i non perfezionisti. Chi si
chiede perché le persone devono essere libere di scegliere il proprio progetto di vita, anche
quando corrono il rischio di sprecarla, è un perfezionista, perché pensa che potendo
identificare un modello oggettivo di well-being (benessere), di flourishing (fioritura), di
vita buona o di felicità, crede che esistano soluzioni politico-giuridiche oggettivamente
buone per risolvere i problemi del pluralismo. Per il perfezionista si tratta quindi di
imporre scelte e soluzioni mediante lo strumento giuridico. Perfezionisti sono solitamente i
comunitaristi17 (ad esempio M. Sandel, A. MacIntyre); mentre i liberali sono
essenzialmente antiperfezionisti. Infatti, la tradizione liberale (da J. S. Mill a J. Rawls, a R.
Dworkin) si oppone all’idea che esistano concezioni del bene e della vita buona che
possono essere imposte in quanto oggettivamente valide. Tuttavia, esiste un pensatore
liberale come J. Raz, che nonostante sia liberale professa una forma di perfezionismo (per
Raz, infatti, la libertà è un bene strumentale al conseguimento del well-being umano18); ed
esiste un pensatore comunitarista, come Ch. Taylor, che pur non essendo individualista si
mostra meno orientato in senso perfezionista.
Il punto è che, secondo i presupposti del liberalismo, un individuo deve poter
disporre di condizioni tali da acquisire la consapevolezza delle diverse concezioni del
vivere bene, e deve altresì disporre della capacità di esaminare queste concezioni in
maniera intelligente. Da qui nasce un’altra preoccupazione liberale: quella per
l’istruzione e per la libertà di espressione e associazione. La libertà ci permette di valutare
cosa abbia valore e di apprendere qualcosa sugli altri modi di vivere. Una società davvero
liberale deve preoccuparsi di entrambe le cose, perché è troppo facile ridurre la libertà
individuale alla libertà di realizzare la propria concezione del bene. Ciò che caratterizza
17
I comunitaristi cercano gruppi caratterizzati dalla condivisione di una concezione del bene e tentano di
promuovere una politica perfezionista e del “bene comune”, in cui i gruppi possano coltivare una concezione
comune del bene anche se ciò limita la capacità dei singoli di ridefinire i loro scopi esistenziali. Essi credono
(soprattutto Sandel) che i singoli membri abbiano un legame “costitutivo” con i valori del gruppo, e quindi
non si provoca alcun danno se si limitano i diritti individuali al fine di promuovere valori comuni.
18
Il liberalismo perfezionista di J. Raz è teorizzato per lo più nel volume The Morality of Freedom,
Clarendon, Oxford 1986. Si veda sull'argomento anche il saggio di Gf. Zanetti, "Aspetti problematici della
nozione di 'opzioni incompatibili' nel multiculturalismo liberale di Joseph Raz", in Giorgio Bongiovanni (a
cura di), La filosofia del diritto costituzionale e i problemi del liberalismo costituzionale, CLUEB, Bologna
1998, pagg. 105-120.
18
uno stato davvero liberale, dice Kymlicka, è la formazione e la revisione delle concezioni
del bene (e non il tentativo di attuare queste concezioni una volta che sono state adottate:
questa è infatti la posizione perfezionista).
Si consideri l’esempio della religione: mentre una società liberale concede ai suoi
membri la libertà di praticare la loro fede, di cercare nuovi adepti (proselitismo), di mettere
in discussione la dottrina (eresia), di respingere la fede e abbracciarne un’altra (apostasia),
una cultura illiberale come quella dell’Islam concede all’individuo la libertà di praticare la
propria fede, ma non ha tutte le altre libertà. In una società liberale gli individui possono
invece condurre le loro vite come vogliono e, al tempo stesso, possono accedere ad
informazioni circa altri modi di vivere.
Gli individui possono quindi rivedere, anche in modo radicale, i loro scopi (ne è
esempio l’apostasia) senza incorrere in alcuna sanzione giuridica, e per poter conoscere le
altre opzioni di scelta a sua disposizione, ogni singolo individuo deve poter usufruire di un
buon sistema di istruzione che gli consenta di conoscere altri valori e di valutarli come
buoni o meno buoni per sé. Tutto ciò acquista sensatezza solo se si accetta l’assunto che la
revisione degli scopi da parte di un individuo sia non solo possibile ma persino
desiderabile. Una società liberale non costringe a diffidare dei propri obiettivi di vita, né a
rivederli, ma rende possibile farlo. Tutto ciò ha rilevanza per l’appartenenza a una cultura
sociale perché la libertà implica la scelta tra più alternative, e la nostra cultura sociale non
solo ci fornisce queste alternative, ma conferisce loro significato.
Le culture sono preziose non in quanto tali, dice Kymlicka, bensì perché avere
accesso a una cultura sociale significa avere accesso a un ventaglio di opzioni dotate di
senso: la nostra cultura ci offre alternative e, al tempo stesso, ci dà “gli occhiali” attraverso
i quali guardare le esperienze come esperienze dotate di valore19. Questa tesi indica,
secondo Kymlicka, il nesso fondamentale tra scelta individuale e cultura, e quindi
costituisce un primo elemento di una difesa prettamente liberale di determinate forme di
differenziazione dei diritti in funzione dell’appartenenza di un gruppo. La capacità degli
individui di compiere scelte dotate di senso dipende dall’avere accesso a una struttura
culturale: i provvedimenti differenziati per gruppo che assicurano e promuovono questo
19
Questa espressione si deve a R. Dworkin, A Matter of Principle, Harvard University Press, London 1985;
trad. it. Questioni di Principio, Saggiatore, Milano 1990. Del resto, anche il liberale J. Rawls parla della
cultura come di un "bene primario" per l'individuo. Il che significa, come cerca di argomentare Kymlicka,
che il concetto di cultura e di appartenenza culturale non è proprio solo del contestualismo non liberale, ma,
al contrario, appartiene anche alle teorie liberali che possono appoggiarsi a tale concetto per farne il
fondamento di una possibile conciliazione tra liberalismo e multiculturalismo.
19
accesso possono, dunque, svolgere una funzione legittima nel quadro di una teoria liberale
della giustizia.
Quindi, riassumendo: la tesi liberale insiste sul fatto che le persone possono prendere le
distanze dalla propria cultura e valutare altri modi di vivere e altri valori proprio perché,
come sostiene Kymlicka, è l’appartenenza a una cultura liberale a consentire questo tipo di
sguardo sulla realtà. Pertanto, agli individui dovrebbero essere accordati non solo il diritto
giuridico di farlo, ma anche le condizioni sociali che accrescono questa capacità (ad
esempio incoraggiando e incentivando una cultura umanista). Ciò significa contribuire
all’autonomia degli individui.
Accordare diritti in funzione dell’appartenenza a gruppi, tuttavia, non significa per
Kymlicka ammettere che sia giustificato ogni provvedimento che contribuisce alla stabilità
delle culture minoritarie, e non significa nemmeno ritenere plausibile una qualche versione
del perfezionismo. Anzi, se i provvedimenti speciali non sono necessari o sono troppo
onerosi, allora anche la politica di “benigna noncuranza” può essere giustificata. Tuttavia
non è né giusto né possibile insistere su questa politica, proprio perché si è mostrato che
questi speciali diritti sono necessari alla luce dei principi della giustizia liberale, e per di
più si rivelano compatibili con i fondamentali principi liberali della libertà individuale e
della giustizia sociale. Ma ciò è vero, dice Kymlicka, a condizione che i diritti delle
minoranze non permettano a un gruppo di dominarne altri, e non permettano a un gruppo
di opprimere i suoi membri: in sostanza ciò è vero a condizione che vengano garantite
eguaglianza fra gruppi ed entro gruppi. Così intesi, i diritti delle minoranze svolgono un
ruolo fondamentale e non finiscono per condannare il liberalismo a essere irrilevante in
molti paesi del mondo.
Per chiudere il discorso, possiamo ritornare brevemente al concetto di tolleranza.
Un altro dei limiti del concetto liberale-classico di tolleranza si rivela quando si consideri
che le democrazie liberali possono accogliere e abbracciare molte forme di diversità
culturale, ma non ogni forma. I limiti della tolleranza liberale si rivelano infatti nei
confronti dell’analisi del modo in cui gli stati liberali dovrebbero comportarsi quando i
limiti della tolleranza (in sostanza, il principio del danno a terzi) vengono superati. Per di
più, se la tolleranza è un valore liberale fondamentale, la libertà individuale e l’autonomia
personale sembrano richiedere l’intolleranza verso gruppi illiberali. È vero che,
tradizionalmente, i liberali hanno percepito l’autonomia e la tolleranza come due facce
20
della stessa medaglia: ciò che contraddistingue la tolleranza liberale è appunto la sua
valorizzazione dell’autonomia, cioè la convinzione che gli individui debbano essere liberi
di valutare ed eventualmente modificare i loro fini, i loro progetti esistenziali. Quindi ci si
chiede: l’importanza data dal liberalismo all’autonomia è una base adeguata per la gestione
di una moderna società pluralistica, se si considera che alcuni gruppi non conferiscono
alcun valore all’autonomia? Da questo discende una domanda fondamentale: come
dovrebbero comportarsi le culture liberali di fronte a quelle illiberali? Mi limiterò però solo
a proporre la questione, ampiamente dibattuta, che in questa lezione rimarrà solo una
domanda.
21