Mafie e criminalità a Roma

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Mafie e criminalità a Roma
1 | giugno 2012 | narcomafie
Il caso Scopelliti
Mafie e
criminalità a Roma
15 58
68
29
Narcotraffico e
disboscamento
a Cheran
La ricerca in Italia
dei figli dei desaparecidos
2 | giugno 2012 | narcomafie
numero 6 | giugno 2012
Il giornale è dedicato a Gian­carlo Siani
simbolo dei giornalisti uccisi dalle mafie
Fondatore Luigi Ciotti
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Redazione
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3 | giugno 2012 | narcomafie
La tecnica
non può
sostituire
la politica
Qualcuno – per interesse o per
pudore – continua a usare eufemismi. Ma ciò non basta a
nascondere che siamo ormai
alla povertà, a una povertà diffusa, che riguarda un terzo degli
italiani, cresce ulteriormente
nelle fasce giovanili e in certe
aree territoriali e sta ridisegnando le relazioni sociali e lo stesso sistema istituzionale (con
l’affacciarsi, tipico dei periodi
di crisi, di irrigidimenti autoritari e di derive populiste). È una
realtà sotto gli occhi di tutti che
ha le sue manifestazioni estreme
nei suicidi quotidiani di chi non
riesce più a sopravvivere, nella
crescita dei mendicanti e di chi
scava nelle pattumiere, nella
continua invenzione di mestieri (lavavetri, posteggiatori, guide
improvvisate, ambulanti senza
licenza, benzinai abusivi della
domenica, rinati lustrascarpe,
venditori di fiori o di fazzoletti,
ombrellai dei giorni di pioggia,
giocolieri agli incroci delle strade, finti gladiatori di fronte al
Colosseo, fotografi di strada e
via seguitando potenzialmente
all’infinito). Intanto, a fianco dei
negozi “compro oro” (mai così
diffusi nelle nostre città), spuntano quelli “compro argento”,
a riprova del fatto che la povertà sta raggiungendo la classe
media inducendola a privarsi
persino dei ricordi del battesimo
o della comunione…
Contemporaneamente scompaiono, dal dibattito pubblico, le
persone, con il loro carico di
risorse, di bisogni, di problemi,
di sentimenti, di speranze. La
concreta esistenza delle donne
e degli uomini lascia il posto ad
astrazioni: l’economia, la finanza, la globalizzazione… E le
astrazioni diventano sempre più
autoreferenziali e disinteressate
alla vita dei cittadini, ridotti a
numeri e dati statistici. Le scelte di politica economica e le
periodiche manovre finanziarie
sono operazioni le cui conseguenze sulle persone sono considerate, nella migliore delle
ipotesi, effetti collaterali. Economisti, politici, opinionisti parlano di pensioni, di flessibilità, di
spesa sanitaria, di migrazioni:
non di pensionati a 500 euro al
mese, di lavoratori intermittenti appesi a precarietà e incertezza, di malati che devono essere
di Livio Pepino
curati, di migranti che attraversano il mare rischiando la vita
su carrette inimmaginabili. Se
qualcuno prova a cambiare il
tavolo del discorso viene considerato un ingenuo o un marziano. E se le persone in carne e
ossa irrompono sulla scena, magari in modo poco urbano, esse
diventano, per l’establishment,
un problema di ordine pubblico.
Le categorie astratte – si dice –
sono gli strumenti per governare la complessità e per garantire
il bene comune, ma i fatti dimostrano che il loro trionfo tutela
di fatto gli interessi forti (e i
loro titolari) sottraendo le decisioni al controllo democratico.
Tutto questo non accade per
caso. È la sostituzione della politica (cioè della cura della città
e di chi vi abita) con la tecnica,
intesa come insieme di regole
astratte per governare l’esistente,
senza metterne in discussione i
fondamenti e, anzi, considerando quello attuale l’unico sistema
possibile. Stanno qui, invece,
l’errore e l’inganno.
In questa situazione non c’è nulla di ineluttabile ma solo il frutto, consapevole e perseguito, di
scelte economiche, culturali,
sociali. Certo, la crisi economica
è profonda e non contingente,
ma essa – lungi dall’essere una
sorta di “castigo di Dio” – è la
conseguenza (prevedibile e prevista) di opzioni politiche. E lo
stesso vale per i rimedi approntati: la piena occupazione e il
welfare sono oggi i bersagli principali delle politiche economiche
dominanti, ma sono stati, nel
1929, il volano che ha consentito l’uscita dalla “grande crisi”.
Il blocco dei salari (consistente
in realtà in un drastico abbassamento di fatto) e la continua
crescita del valore dei beni posseduti (immobili o titoli finanziari) non rispondono, dunque,
né a una necessità né a una legge naturale… Alla loro base c’è,
piuttosto, una visione del mondo in forza della quale la riduzione delle disuguaglianze non
è più un obiettivo condiviso e
si fa strada la concezione veicolata dai neocons americani secondo cui «è giusto che il più
capace e intraprendente sia premiato da Dio con la ricchezza».
La conseguenza è che la garanzia
dei diritti e della sicurezza dei
meritevoli passa necessariamente attraverso l’isolamento e
l’espulsione da quei diritti dei
non meritevoli ai quali si addice
la povertà. Si realizza così la
situazione descritta qualche anno fa da un protagonista della
nostra epoca non sospetto di
estremismo come Romano Prodi: «Venti anni fa una mia semplice osservazione che la differenza di remunerazione da uno
a quaranta tra il direttore e gli
operai di una stessa azienda era
eccessiva, aveva causato scandali e discussioni a non finire.
Oggi nessuno si stupisce del
fatto che questa differenza sia in
molti casi da uno a quattrocento».
Sta qui – nella difesa e nel perpetuarsi delle differenze – la
ragione profonda della crisi che
viviamo e della povertà che essa
porta con sé.
4 | giugno 2012 | narcomafie
Mafia e politica
Amministratori
sotto tiro
Nella foto il sindaco di Pollica
Angelo Vassallo, ucciso
il 5 settembre 2010.
Ad oggi le indagini non hanno
individuato i colpevoli
Sindaci, consiglieri, assessori di comuni grandi e piccoli. Sono
loro a essere nel mirino delle mafie quando oppongono trasparenza e rigore a corruzione e collusione. Dal 2010 ad oggi centinaia
di casi di minacce, intimidazioni e violenze sono rimasti avvolti
dal silenzio e vissuti in solitudine
di Matteo Zola
5 | giugno 2012 | narcomafie
Ottocento anime appena conta
Orsini, piccolo comune del
nuorese, arrampicato sulle
montagne. Nella notte del 2
gennaio 2010 alcuni colpi di
fucile vengono sparati contro
il municipio. Non si sa da chi,
ovviamente. Tre giorni dopo,
a Scopello, ottanta residenti
appena, in provincia di Trapani, brucia la villetta di Filippo
Grippi, dirigente dell’azienda
sanitaria provinciale. La sua
colpa, forse, è stata quella di
aver sostituito Lorenzo Iannì,
arrestato per aver favorito le
cosche. Un messaggio dai soliti
ignoti. Passano due giorni e,
questa volta a Caccamo, paese
nel palermitano di ottomila abitanti all’ombra dell’omonima
rocca, viene dato alle fiamme
il portone di casa di Andrea
Galbo, consigliere provinciale.
Trascorrono tre giorni e due
pallottole vengono fatte recapitare al sindaco di San Lorenzo
in Vallo, tremila residenti in
provincia di Cosenza. Insieme
ai proiettili una lettera recante
la frase: “Stai zitto o farai la fine
di Fortugno”. E poi ancora: auto
bruciate, scritte con minacce
di morte sui muri dei municipî, spari contro case e negozi.
Arriva ovunque, si snoda nei
vicoli dei paesi, per le vie delle
città, si insinua dentro le case,
entra nelle stanze del potere,
condiziona la vita pubblica:
è l’intimidazione mafiosa, la
minaccia che quotidianamente
attraversa lo stivale da sud a
nord, e ha un denominatore
comune: è sempre rivolta ai
danni di sindaci, amministratori e consiglieri scomodi. Scomodi alle mafie, s’intende. E
da Orsini, Scopello, Caccamo,
la lista si allunga e arriva fino
a Fondi, Follonica, Bordighe-
ra. Un elenco di fatti e date,
dal 2010 a oggi, recentemente
pubblicato da Avviso pubblico
e dal titolo “Amministratori
sotto tiro”, mette in fila queste
storie spesso sconosciute al
di fuori delle realtà in cui si
verificano, vicende che trovano appena lo spazio di un
quotidiano locale, diverse tra
loro ma che, unite, tracciano un
quadro inquietante sullo stato
di salute della politica italiana,
sempre tesa tra dovere alla legalità e spinte verso l’illegalità,
tra buon governo e corruzione,
tra infiltrazioni e trasparenza,
tra diritti e mafia.
I numeri della violenza. Nel
corso del 2010 sono stati censiti
ben 212 episodi di minacce e
intimidazioni di tipo mafioso
e criminale, la maggior parte
dei quali si concentra nelle
regioni del Mezzogiorno e in
particolare in Calabria (87 episodi), in Sicilia (49 episodi) e in
Campania (29 episodi). Si tratta
di regioni che conoscono bene
e patiscono la presenza mafiosa
sui loro territori ma che, come
dimostrano questi dati, si onorano anche della presenza di
persone che nell’ambito delle
istituzioni si impegnano contro le organizzazioni mafiose.
Episodi intimidatori si sono
registrati anche in Sardegna (25
episodi) e Puglia (11 episodi),
a sorprendere però è il Lazio
che, pur con soli cinque casi,
testimonia la capacità d’infiltrazione delle mafie in contesti
non tradizionalmente soggetti
al potere criminale. Si tratta
di episodi avvenuti a Ponza,
San Felice sul Circeo e Fondi,
quest’ultimo era stato oggetto
di una richiesta di scioglimento
per infiltrazione mafiosa da par-
te dell’ex ministro dell’Interno,
Roberto Maroni, ma il consiglio
dei ministri aveva infine dato
parere negativo. È un fatto che
il grande mercato ortofrutticolo,
uno dei più importanti d’Italia,
fosse oggetto dei desideri delle
mafie che arrivarono persino
a cooperare pur di spartirsi la
torta. Si annoverano poi tre casi
in Liguria, la prima ai danni del
sindaco di Albenga, il secondo
dell’amministrazione comunale
di Chiavari e il terzo contro
alcuni amministratori locali di
Bordighera, comune poi sciolto
per mafia. Sono fatti su cui
riflettere, perché dimostrano,
se ancora ce ne fosse bisogno,
che da molto tempo, ormai, le
mafie sono presenti su tutto il
territorio nazionale.
Alcuni dati in merito sono stati diffusi anche dal ministero
degli Interni, ma presentano
notevoli difformità rispetto a
quelli proposti da Avviso pubblico. Secondo il Viminale, tra
il 2009 e il 2010 sono stati 733
i casi in cui si sono registrati
atti intimidatori nei confronti
di amministratori locali. La
regione che detiene il triste
primato di questi atti criminali
è ancora una volta la Calabria,
con 209 casi, seguita dalla Sicilia con 195 e dalla Sardegna
con 171. Sulla Calabria c’è poi
un dato ulteriore, proposto da
Legautonomia Calabria che annovera addirittura 863 episodi
di intimidazione in regione.
Le finalità della minaccia.
Tornando ai dati di Avviso
pubblico sarebbero circa 60 le
occorrenze nel 2011. I dati sono
ancora in fase di elaborazione,
così come quelli del Viminale,
e c’è da attendersi dunque una
cifra più alta. Questi fatti, consi-
Gli atti di minaccia
e di intimidazione
mafiosa e criminale
hanno molteplici
finalità: servono
per incutere paura
a chi si oppone
all’illegalità oppure
servono per punire
o “richiamare
all’ordine”
chi è sceso a patti
con i mafiosi
6 | giugno 2012 | narcomafie
Il sindaco di Monasterace
Maria Carmela Lanzetta.
Nella pagina seguente, in basso,
Eleonora Baldi, sindaco di Follonica
Il vero problema
è cedere
al pensiero
che ci si possa
assuefare,
che con le mafie,
come disse in
passato un ministro
della Repubblica,
bisogna abituarsi
a convivere
derati a livello generale, danno
però conto dell’esistenza di un
problema urgente sul quale le
istituzioni competenti devono
attivarsi rapidamente: quello
della sicurezza, personale e
famigliare, di tanti amministratori locali e funzionari di pubblica amministrazione che sono
considerati un ostacolo per le
mafie, in quanto operano con
disciplina, onore e imparzialità,
secondo quanto previsto dalla
Costituzione. Gli atti di minaccia e di intimidazione mafiosa
e criminale hanno molteplici
finalità: servono per incutere
paura a chi si oppone all’illegalità oppure servono per punire
o “richiamare all’ordine” chi
è sceso a patti con i mafiosi.
Le minacce, le pallottole in
busta chiusa, gli spari diretti
al portone di casa, non sono
sempre rivolti ad amministratori “eroici”, talvolta anche i
sindaci al soldo della mafia
vengono minacciati al fine di
ricordare loro di rispettare i
patti, o se hanno compiuto
qualche “sgarro”.
Il rischio dell’assuefazione. Sul
report di Avviso pubblico scrive
Francesco Forgione, docente
all’Università dell’Aquila, già
presidente della Commissione
parlamentare antimafia, che
“per trovare una realtà simile
all’Italia, bisogna spostarsi nella
Colombia o nel Messico dei
nuovi narcos o nella Russia
di Putin e in alcuni paesi dei
Balcani, dove le macerie del
comunismo hanno lasciato in
eredità una criminalità radicata nella politica e nel sistema
economico imprenditoriale”.
Un paragone inquietante che
sconforta se si pensa alla nostra tradizione democratica.
Ma, ribatte Avviso pubblico,
le forze positive per cambiare
rotta ci sono e vengono proprio
dalla politica. A testimoniarlo
c’è proprio il numero di intimidazioni rivolte agli amministratori pubblici che hanno
scelto il rigore e la trasparenza
come partito. È dalla politica,
denuncia Avviso pubblico, che
deve partire una riflessione
sulla politica stessa: «Non può
esistere mafia senza rapporti
con la politica, ma deve esistere
una politica senza rapporti con
la mafia». Una riflessione che
da un lato denunci i limiti, l’inquinamento, le degenerazioni,
la corruzione, ma che dall’altro
rilanci il valore della scelta di
gestire la cosa pubblica con
rigore, trasparenza, spirito di
servizio anche se questo può richiedere coraggio. Un coraggio
che non è più necessario solo
nei territori tradizionalmente soggetti al potere mafioso.
«Che sarà mai una testa di cane
mozzata a un sindaco di provincia o una porta bruciata a un
assessore aspromontano o tre
proiettili inviati ad un segretario comunale dell’agrigentino?
– si domanda ancora Forgione
–. Tutto sommato si tratta di
territori dove chi sceglie l’impegno politico-amministrativo sa
di dover convivere con questa
realtà di violenza e di intimidazione. Eppure è proprio questo
il problema: pensare che ci
si possa assuefare, che con le
mafie, come disse in passato un
ministro della Repubblica, bisogna abituarsi a convivere».
Il caso Monasterace. Piuttosto
è necessario chiedersi cosa stia
succedendo nell’intero paese,
ben al di là delle regioni a tradizionale insediamento mafioso.
Ormai i consigli comunali non
si sciolgono solo in Calabria,
Sicilia, Campania, Puglia. L’infiltrazione è arrivata in Lombardia, Liguria, Piemonte, Lazio.
Non è più – se mai lo è stato
– un problema di repressione,
giudiziario, penale. Si tratta
di una più grande questione
democratica. Tornando ai dati
raccolti da Avviso pubblico,
sono già 22 le minacce a danni
di amministratori locali nel
2012, uomini e donne che sfidano la criminalità organizzata
senza le fanfare dell’antimafia,
senza eroismi mediatici, senza riflettori accesi. Riflettori
che si accendono se ci scappa
il morto ma spenti, ad aggravarne la buia solitudine, sulla
quotidiana prassi di legalità
dei sindaci “sotto tiro”. Come
Maria Carmela Lanzetta, sindaco di Monasterace, paese di
tremila abitanti in provincia
di Reggio Calabria, un locus
amoenus dove nulla di male
sembra poter accadere, e invece
accade. Accade che il sindaco,
eletto nel 2006 con l’appoggio
dei partiti della sinistra, dopo
cinque anni di intimidazioni
e un’auto bruciata, sia stata
rieletta presentandosi nel 2011
con una lista civica, senza l’appoggio di quei partiti che da
Monasterace sembrano troppo
lontani. Così lontani che quando, il primo aprile scorso, la sua
auto e il portone di casa sono
stati oggetto di colpi di pistola,
il sindaco Lanzetta rassegna le
dimissioni. Quei proiettili sono
stati l’ultima fase di una escalation di intimidazioni che hanno
visto, nella notte tra il 25 e il
26 giugno 2011, dopo neanche
un mese dalla sua rielezione,
andare in fiamme la farmacia
di famiglia dopo che già nei
7 | giugno 2012 | narcomafie
cinque anni precedenti il sindaco Lanzetta era stata oggetto
di attentati e lettere di minacce.
Ospite di un incontro, promosso proprio da Avviso pubblico,
il 22 giugno scorso a Torino
nell’ambito della manifestazione Biennale democrazia per la
legalità, la Lanzetta racconta la
sua storia: «Sono stata rieletta
in una lista civica che abbiamo
voluto chiamare “Indipendenza
e libertà”. Indipendenza dai poteri criminali che in ogni modo
cercano di influenzare la vita
pubblica, libertà dai potentati
politici che con troppo silenzio accompagnano la crescita
del potere mafioso. La nostra
campagna elettorale era fondata
su uno slogan che diceva “non
possiamo promettervi nulla”
perché non sapevamo che cosa
ci saremmo trovati ad affrontare, fino a che punto io e la mia
giunta saremmo potuti arrivare». È con voce tremante di
emozione che poi afferma: «Né
io né la mia giunta volevamo
combattere la ’ndrangheta, non
era quello il nostro programma
politico. Era invece cercare di
amministrare con trasparenza
la cosa pubblica, al servizio del
cittadino. E la ’ndrangheta, così
facendo, ti capita. Rompendo
col clientelismo, col favoritismo, scrivendo le regole dove
non ci sono, vigilando sul bene
comune, punendo gli abusi
edilizi, vai a dare fastidio a
qualcuno. Che poi ti presenta
il conto». Ed è un conto salato.
«Quando hanno sparato alla
mia macchina e al portone di
casa ho detto basta. Ho delle
responsabilità non solo nei
confronti delle istituzioni ma
anche di chi mi vuole bene. Ho
dei figli». Se è tornata sui suoi
passi, ritirando le dimissioni,
il sindaco Lanzetta lo ha fatto
perché ha avuto intorno il calore della gente e la vicinanza
delle istituzioni nazionali e dei
partiti. «Anche se ora vivo sotto
scorta», conclude.
La sua esperienza è simile a
quella di altre donne primo
cittadino, come Carolina Girasole, sindaco di Isola di Capo
Rizzuto, cui hanno incendiato
l’auto e il portone del municipio per avere dato in gestione
transitoria a Libera novanta
ettari di terreni confiscati alla
cosca Arena. E come quella di
Elisabetta Tripodi, sindaco di
un comune tristemente noto
alle cronache come Rosarno,
raggiunta da una lettera intimidatoria a firma del boss
Rocco Pesce. Senza dimenticare Eleonora Baldi, sindaco
di Follonica, in provincia di
Grosseto, luogo meno comune
ma egualmente feroce se si parla
di ’ndrangheta. «Credevo di
fare una cosa normale facendo
il sindaco – dice sorridendo,
anche lei ospite dell’incontro
organizzato da Avviso pubblico – ma la normalità ormai
è un’eccezione. Renzo Piano
definì Follonica un “esempio di
cattiva urbanistica” a causa di
alcuni edifici destinati ad attività produttive e invece utilizzati
a scopo abitativo, con connesse
speculazioni. Speculazioni di
cui è stata responsabile anche
la cattiva politica. Restituendo
quegli edifici alla loro destinazione iniziale abbiamo colpito
gli interessi di qualcuno». E
sono arrivate le minacce di
morte, due proiettili e una
scritta: “Una per te, una per
il tuo segretario”. A rendere
difficile il lavoro del sindaco
è stata più di tutto la solitudine. Come nel caso di Maria
Carmela Lanzetta, le istituzioni
sono state lontane, indifferenti,
fino alle nuove minacce, questa
volta con la stella a cinque
punte: «Un chiaro segno di
mitomania, di quelle non ho
paura», dice il sindaco, ma i
giornali – di quelle minacce –
ne hanno parlato eccome. «La
paura però c’è sempre, anche
adesso ho paura».
Sardegna libera. Tra i sindaci
sardi, recentemente riunitisi a
Cagliari per l’appuntamento
“Sardegna libera dalle mafie”
spicca il nome di uno che sindaco non lo è più ma che durante
il suo mandato ha pagato caro
il prezzo della legalità. E’ Pino
Tilocca, sindaco di Burgos dal
2000 al 2005, vittima di vari
attentati. «In uno di questi –
nel 2004 – mio padre ha perso
la vita». Era preside di scuola,
Tilocca, prima di fare il sindaco
di una piccola località come
Burgos. Eppure la criminalità
è arrivata anche lì: nel febbraio
2004 suo padre Bonifacio è
rimasto ucciso per una bomba
collocata dietro l’uscio di casa
e rivolta a lui. I colpevoli sono
rimasti impuniti. Da allora il
tempo sembra essere passato
inutilmente. Maddalena Calia,
sindaco di Lula dal 2002 al
2007: «Mi hanno incendiato
lo studio». Gianni Argiolas,
sindaco di Monserrato, racconta: «L’anno scorso mi hanno
mandato una pallottola». E un
mese fa «hanno incendiato la
macchina di mio figlio». Giampaolo Marras, sindaco di Ottana
dal 2010: «Una notte hanno
sparato a casa ferendo mia moglie e rischiando di uccidere i
miei due figli».
Ma la lista è ancora lunga.
Alessandro Cattaneo, sindaco
«Né io né la mia
giunta volevamo
combattere
la ’ndrangheta,
non era quello il
nostro programma
politico – dice
il sindaco di
Monasterace –. Era
invece cercare di
amministrare con
trasparenza la cosa
pubblica, al servizio
del cittadino. E la
’ndrangheta, così
facendo, ti capita»
8 | giugno 2012 | narcomafie
Condizionare
le istituzioni locali
vuol dire
controllare risorse
economiche,
appalti,
mercato del lavoro,
intervenendo
direttamente sulla
quantità
di consenso che
la cittadinanza
dà alla politica
di Pavia, Maurizio Zoccarato,
sindaco di Sanremo, e Gianni
Speranza, primo cittadino di
Lamezia Terme. Esperienze comuni, a sud e a nord, di resistenza all’infiltrazione mafiosa.
Cattaneo, trentun’anni, ha visto
la sua città travolta nel caos
dell’inchiesta Infinito che svelò
il radicamento della ’ndrangheta in Lombardia. Cattaneo reagì
facendo appello alla popolazione, dibattendo pubblicamente
il problema della mafia nella
sua città, costituendo fin da
subito il Comune parte civile
nel processo, cosa che la Regione Lombardia guidata dal
governatore Roberto Formigoni
ha atteso di fare fino al gennaio
2012 dopo molte incertezze. A
Sanremo invece c’è la mafia
del casinò «e ci sarebbe da
attendersi che la città abbia
i marciapiedi d’oro – ha dichiarato il sindaco Maurizio
Zoccarato –; invece le società
partecipate del Comune erano
tutte in perdita. E sì che il giro
d’affari del casinò era di 48
milioni di euro l’anno! Soldi
finti, poiché il credito di gioco
non è esigibile, anche se quei
soldi venivano messi a bilancio. Bilanci farlocchi» e punta
il dito contro quarant’anni
di amministrazioni lassiste
e conniventi «al punto che
a Sanremo mancava il piano
regolatore». All’incontro di
Torino il sindaco Zoccarato
ha ribadito che «la legalità
non ha colore politico». E
anzi, ha chiesto pubblicamente che il tribunale sanremese,
con relativa Procura della Repubblica, non venga spostato
a Imperia come previsto dal
governo: «Imperia non solo
è più piccola di Sanremo, ma
non c’è il casinò», ha dichia-
rato, affermando che Sanremo
«presenta peculiari criticità».
E che la mafia in Liguria sia un
problema vero lo testimoniano
lo scioglimento per mafia dei
comuni di Ventimiglia e Bordighera. Un problema con cui
i sindaci, minacciati o meno,
devono fare i conti anche, come
nel caso di Zoccarato, attraverso la prevenzione, poiché dal
governo locale passano tutte
le politiche di intervento sul
territorio. Condizionare queste
istituzioni vuol dire controllare
risorse economiche, appalti,
mercato del lavoro, intervenendo direttamente sulla quantità
di consenso che la cittadinanza
dà alla politica. Consenso che,
però, può essere comprato e
venduto da sindaci e cosche.
Poiché come l’amministrazione
locale è la prima linea della lotta alle mafie, è anche la
prima difesa a esser travolta
da comportamenti viziati da
collusione e corruzione. Questa
linea di confine tra legalità e
illegalità deve essere sostenuta
non solo dalle associazioni, che
hanno il meritorio compito di
rompere il cerchio del silenzio,
ma soprattutto dallo Stato.
La speranza di Lamezia. Un
richiamo in tal senso viene da
Giovanni Speranza, sindaco di
Lamezia Terme.
Anche lui, come l’omologo
sanremese, lamenta la decisione del governo di chiudere il
locale tribunale e relativa Procura: «È la terza città calabrese
per dimensioni, il Comune è
già stato sciolto due volte per
infiltrazioni mafiose. Ha senso
chiudere il tribunale in una città così?». Una città dove opera
anche don Giacomo Panizza,
impegnato in prima persona
contro la ’ndrangheta, più volte
minacciato dalle cosche che,
tra l’altro, non gli perdonano
di gestire i beni confiscati alle
’ndrine.
«Ci sono segni di reazione da
parte della cittadinanza che
noi, come amministrazione,
assecondiamo. Per la prima
volta a Lamezia c’è stata una
serrata di protesta dei commercianti contro le estorsioni.
Abbiamo deciso di rinnovare
a don Panizza fino al 2030 la
gestione dei beni confiscati e di
intitolare il lungomare a Falcone e Borsellino e una struttura
a Lea Garofalo, che sono esempi diversi della stessa lotta».
Una lotta quotidiana anche
quella del sindaco Speranza:
«Prima di fare il sindaco ero
professore. Il giorno del mio
insediamento volevo passare
a salutare i ragazzi ma non ho
potuto, ho dovuto correre in
Comune dove era stata bruciata
la porta dell’aula consigliare».
Non proprio un benvenuto.
«Dopo dieci giorni mi minacciarono ancora, da allora vivo
sotto scorta». Un chiaro segno
al nuovo sindaco di come il
vecchio potere non intendesse
cedere lo scettro.
Sono queste le storie di una
guerra a bassa intensità, sono
nomi e numeri che restituiscono i termini di una battaglia
che si combatte anche su fronti
apparentemente minoritari.
Ma l’infiltrazione mafiosa è
una goccia acida che s’insinua
anche nei più piccoli interstizi, scavando nelle intercapedini della nostra democrazia
fin dalle fondamenta, fin dal
più elementare senso di vita
civile e collettiva. Lì sta la prima guardia. Che non bisogna
lasciare sola.
9 | giugno 2012 | narcomafie
Il rilancio dei Cursoti catanesi
Il piano
del boss
Con la decapitazione del clan di via del Corso a Catania a finire in
manette lo scorso maggio è anche lo storico boss Giuseppe Garozzo.
Ma ad emergere è un quadro ben più ampio, tra politici malmenati
e decine di autocompattatori bruciati 24 ore dopo gli arresti
Foto di Giovanna D’Ascenzi
di Dario De Luca
10 | giugno 2012 | narcomafie
«Se mi va bene una certa cosa...
io dall’Italia sparisco». Giuseppe Garozzo, storico capo clan
dei Cursoti catanesi, aveva le
idee chiare: le rapine tra Piemonte e Sicilia sarebbero state
forse gli ultimi atti della sua
carriera dopo un rientro a pieno
titolo nella scena criminale
della Sicilia orientale.
Un piano che però il personale
della Sezione criminalità organizzata della Squadra mobile
di Catania ha stoppato lo scorso 8 maggio, arrestando sia lo
storico boss ma anche altre 19
persone ritenute di far parte
del riemerso clan.
In due anni via del Corso a
Catania (in dialetto “U Cursu”
nome da cui il clan prende il
nome) era tornata ad essere la
base operativa di Garozzo e dei
vari affiliati.
Una trattoria, riconducibile a
uno degli arrestati, era stata
trasformata in base logistica
e nel retro trovava addirittura
spazio da qualche anno, a dimostrazione della rinnovata
forza del clan, un’edicola votiva, segno indelebile tra sacro e
profano, raffigurante la patrona
di Catania Sant’Agata con sotto
una lapide in cui erano stati
incisi i nomi degli appartenenti
al gruppo, tutti accomunati
dall’essere vittime delle varie
faide di mafia.
L’area operativa dei Cursoti
era quella della fascia pedemontana-ionica nel territorio
che da Catania si snoda lungo
il litorale fino ai paesi di Fiumefreddo e Giarre.
Una fetta di territorio di grosse
dimensioni in cui gestire droga
ed estorsioni, in cui Garozzo
aveva diviso diversi gruppi
operativi.
Uno, facente riferimento allo
stesso capo, attivo nei territori
di Catania e Misterbianco, due
inseriti nella provincia etnea
affidati a Francesco Carmeci e
Antonino Arena (proprietario
della trattoria) ed infine un terzo
attivo nei territorio del litorale
guidato da Alfio Tancona.
Una ramificazione che s’inseriva
progressivamente in tutti i buchi
lasciati liberi dagli altri clan.
Un pizzino dal carcere. I primi
riferimenti al piano di Garozzo emergono però tramite una
missiva di morte intercettata
nel carcere di Udine, con un
messaggio talmente eclatante
da far passare quasi in secondo piano la programmata fuga
all’estero.
Era il 22 marzo quando Orazio
Finocchiaro, autore del biglietto, dal carcere friulano, in cui
è detenuto al 41bis, cercava
tramite un detenuto postino
di consegnare ad un uomo
prossimo alla scarcerazione
alcuni ordini per un’esecuzione
eccellente: «Buttagli 32 colpi
in testa, noi ti facciamo avere
tutto».
Mira del disegno criminoso per
scalare i vertici del gruppo d’appartenenza, il magistrato della
Procura di Catania, Pasquale
Pacifico, da anni impegnato in
numerose indagini sul clan dei
Cappello, di cui Finocchiaro fa
parte, ed accusatore di Sebastiano Lo Giudice “Iano Carateddu”, responsabile operativo,
arrestato nel 2010.
Nelle righe successive del pizzino il riferimento chiaro al
“maritatu” (Pippo Garozzo):
«È stata una cosa nostra ma ora
c’è una finta pace, deve andare
via». Una doppia chiave di lettura: da un lato un chiarimento
inequivocabile sul tentato omicidio del 2011 di cui Garozzo
rimase vittima, dall’altro la
consapevolezza dello stesso
boss, arrivata fino in carcere,
di rendersi protagonista di una
fuga all’estero.
Una raffica di incendi e alcune
verità scomode. La decapitazione dei Cursoti ha però
lasciato dietro di sé una serie
di incendi di chiara matrice
dolosa, che non escludono secondo gli inquirenti un collegamento con la figura di Roberto
Russo, arrestato 24 ore prima e
impegnato con la mansione di
custode nel parco mezzi di Giarre
11 | giugno 2012 | narcomafie
(Ct) della ditta Aimeri Ambiente
con sede a Rozzano (Mi) ma da
diversi anni impegnata nella
raccolta dei rifiuti nei comuni
della fascia ionica etnea.
La stessa che, sprovvista del
vecchio sorvegliante finito in manette, si è vista andare in fumo 31
autocompattatori per la raccolta
dei rifiuti, attraverso le modalità
tipiche delle intimidazioni mafiose. L’arresto di Russo potrebbe
aver lasciato vuoto, secondo gli
inquirenti, uno spazio, in cui
qualcuno ha immediatamente
cercato d’inserirsi.
Equilibri delicati e molte volte sommersi come quello che
avrebbe cercato di colmare in
maniera inquietante l’ex assessore del comune di Catania
Mario Indaco, responsabile di
un invito non gradito a Francesco Carmeci (arrestato nel
blitz contro i Cursoti), venditore
ambulante di panini intimato a
rispettare i regolamenti comunali sul suolo pubblico.
Richiesta improponibile, tant’è
che Carmeci schiaffeggiò l’ex
assessore. Secondo le testimonianze del pentito Vincenzo
Pettinati, il politico evitò però
di denunciare l’accaduto, e per
tutta risposta contattò Giovanni Colombrita, boss del clan
Cappello che difese l’amico
picchiando l’affiliato dei Cursoti e intimandogli di non dare
più fastidio all’assessore.
Una versione questa che Indaco
non conferma completamente
escludendo la richiesta d’aiuto
al boss: «Non so chi mi abbia
aggredito, per questo non ho
denunciato, io quell’episodio
volevo mettermelo alle spalle.
L’ho vissuto come un incubo».
Un curriculum criminale di
sangue e morte. Garozzo non è
certamente l’ultimo arrivato tra
i boss, erano gli anni 80 quando
a Catania ai piedi dell’Etna,
si combatteva una delle più
cruente guerre di mafia che la
città abbia conosciuto, la stessa
che contò alla fine centinaia di
morti ammazzati.
Il selciato inondato di sangue
era il prezzo dei conflitti tra i
gruppi mafiosi per il controllo
del territorio, in cui a spiccare
era la faida interna proprio per il
controllo del clan dei Cursoti.
Frange opposte dove a farsi
spazio era la figura di Garozzo
conosciuto già all’epoca come
“Pippu u maritatu” (lo sposato),
scarcerato per decorrenza dei
termini e pendolare tra Sicilia
e nord Italia, dopo essere stato
per anni di base pure a Torino
a capo del clan dei Catanesi
anch’essi impegnati in una
guerra criminale, opposti ai
“Cursoti milanesi” capeggiati
da Jimmy Miano.
Garozzo, resosi latitante in Germania nel 1990, mentre a Torino
la Corte d’Assise celebrava il
processo nei confronti di 242
imputati per la guerra di mafia,
veniva estradato in Italia nel
1991 in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare
in carcere della magistratura
di Catania e condannato a 20
anni di reclusione. Nell’immediato arrivò pure un’ulteriore
pena: quella dell’ergastolo ma
poiché l’estradizione venne
concessa unicamente per la
prima ordinanza, scontata la
condanna iniziale nel 2010
Garozzo riassaporò il sapore
della libertà, evitando così la
reclusione perpetua.
La morte del cognato e il ritorno in libertà di Garozzo.
Poco prima della scarcerazio-
ne dello storico boss però gli
equilibri in città tornarono a
essere flebili. Il 4 maggio 2009
Nicola Lo Faro, cognato di Garozzo, veniva freddato in pieno
giorno in via Cardi a Catania.
Un’esecuzione in piena regola,
filmata dalle videocamere di
un negozio che immortalarono
una moto e uno scooter con a
bordo i killer, tutti appartenenti
al clan dei Cappello, giustizieri
di Lo Faro, all’epoca reggente
del clan dei Cursoti, che pagò
con la vita per aver pianificato
in piena autonomia il 7 aprile,
sempre del 2009, l’omicidio di
Giuseppe Vinciguerra, appartenente alla famiglia Santapaola,
ucciso davanti all’ospedale Vittorio Emanuele di Catania con
13 colpi di pistola.
I proiettili non tardarono ad
arrivare nemmeno per lo stesso
Giuseppe Garozzo, gambizzato
a Misterbianco in provincia di
Catania nel giugno del 2011, a
un anno esatto dal suo ritorno
in libertà.
Un’esecuzione mancata inserita
in un disegno di più ampia
portata, all’interno del quale
trovò la morte, proprio il giorno
successivo al tentato omicidio
di Garozzo, Salvatore Grasso,
fedelissimo del clan dei Cursoti, crivellato a colpi d’arma
da fuoco mentre, all’interno di
un bar di corso Indipendenza
a Catania, impegnava il tempo
giocando a un video-poker.
Una scia di sangue tra il 2009 e
il 2011 che tracciò una duplice conclusione: da un lato il
magmatismo delle alleanze tra
i clan catanesi in cui il continuo
alternarsi delle figure al vertice
segnava una forte instabilità
nei rapporti, dall’altro il pieno
ritorno nella scena criminale di
Giuseppe Garozzo.
I primi riferimenti
al piano di Garozzo
emergono tramite
una missiva
di morte intercettata
nel carcere
di Udine. Orazio
Finocchiaro autore
del biglietto dal
carcere friulano,
in cui è detenuto
al 41bis, scrive:
«Buttagli 32 colpi
in testa, noi ti
facciamo avere
tutto».
Mira del disegno
criminoso per
scalare i vertici
del gruppo
d’appartenenza,
il magistrato della
procura di Catania,
Pasquale Pacifico
12 | giugno 2012 | narcomafie
brevi di mafia
a cura di Marco Nebiolo
Trattativa Stato-mafia, fine delle indagini dopo 4 anni.
Tra gli indagati tre ex ministri
Si chiude il filone principale dell’inchiesta palermitana sulla presunta trattativa tra Stato e mafia
che ambisce a far luce su una delle pagine più oscure della storia recente, quella delle stragi del
biennio 1992/93. Sono 12 gli indagati ai quali la procura di Palermo il 14 giugno, dopo 4 anni di
inchiesta, ha inviato l’avviso di conclusione delle indagini, prodromico alla richiesta di rinvio a
giudizio. Tra di loro due ex ministri, vertici degli apparati investigativi, boss mafiosi. L’ex ministro
democristiano Calogero Mannino (nella foto in basso) è accusato di violenza o minaccia a corpo
politico dello Stato. Sarebbe stato lui il primo a cercare canali di dialogo con la mafia all’indomani
dell’omicidio del deputato dc Salvo Lima, nel marzo 1992, per il timore di essere a sua volta nel
mirino della mafia. Nicola Mancino (nella foto in alto), ex ministro dell’Interno nonché ex vice
presidente del Csm è indagato invece per falsa testimonianza. Il senatore Marcello Dell’Utri è
coinvolto in quanto ritenuto colui che si fece portatore delle richieste della mafia nei confronti di Silvio Berlusconi, nel 1994
presidente del Consiglio appena nominato. Sul fronte istituzionale della presunta trattativa, sono indagati anche carabinieri
come l’ex generale Antonio Subranni (indicato dalla vedova Borsellino come “traditore” del marito sulla base di una confessione dello stesso Paolo Borsellino, accusa su cui i magistrati hanno indagato e recentemente chiesto l’archiviazione per
mancanza di riscontri probatori), l’ex colonnello dei Ros Giuseppe De Donno, l’ex generale del Ros Mario Mori, attualmente
sotto processo per la mancata cattura di Provenzano nel 1995.
Sul fronte mafioso della trattativa i protagonisti sarebbero stati Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, il defunto Vittorio Mangano,
l’ex stalliere di Arcore, Nino Cinà e naturalmente Totò Riina e Bernardo Provenzano. Massimo Ciancimino deve rispondere
di concorso in associazione mafiosa e di calunnia aggravata nei confronti dell’ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro.
Secondo quanto riportato nell’avviso di chiusura indagini, i pubblici ufficiali avrebbero «agito con abuso di potere e con
violazione dei doveri inerenti la loro pubblica funzione», anche «con altri soggetti allo stato ignoti, per turbare la regolare
attività di corpi politici dello Stato italiano, e in particolare del Governo». I boss, per perseguire le proprie finalità, avrebbero
«usato minaccia a rappresentanti di detto corpo politico, per impedirne o comunque turbarne l’attività», minaccia che sarebbe
«consistita nel prospettare l’organizzazione e l’esecuzione di stragi, omicidi e altri gravi delitti, alcuni dei quali commessi e
realizzati, ai danni di esponenti politici e delle istituzioni».
Il provvedimento è stato firmato dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dai sostituti Nino Di Matteo, Francesco Del Bene
e Lia Sava. Si è rifiutato di firmare invece il sostituto Paolo Guido, convinto che l’accusa non possa reggere in giudizio.
Nell’inchiesta è entrato anche Giovanni Conso, 91 anni, ex ministro della Giustizia e giurista di chiara fama in materia
processual-penalistica, anche se la sua posizione è stata stralciata rispetto agli altri indagati e seguirà un percorso procedurale diverso. L’ipotesi di reato è di aver fornito false informazioni al pm. Conso, che fu ministro dal febbraio 1993 all’aprile
1994 nei governi Amato e Ciampi, è stato audito in diverse occasioni dai magistrati titolari dell’inchiesta dopo che lo stesso
Conso, l’11 novembre 2010, dichiarò, davanti alla Commissione antimafia, di aver determinato la revoca del carcere duro
(41 bis) a circa 300 mafiosi tra il novembre 1993 e il gennaio 1994. Una decisione assunta in «totale autonomia» secondo
il giurista, ma che per i magistrati potrebbe essere un tassello di quella presunta trattativa tra pezzi dello Stato e mafia
corleonese. L’ex ministro ha commentato: «Sono curioso di sapere di che cosa mi si
accusa, non so di quali cose false si possa trattare. Qui c’è un grosso equivoco: un conto
è l’accusa di aver in qualche modo trattato con la mafia, che non esiste assolutamente,
un altro è la contestazione di qualcosa che posso aver fatto o detto negli interrogatori.
Finché non ne saprò di più non potrò dire altro». Per lo stesso capo di accusa (false
informazioni al pm) risultano indagati anche l’ex capo del Dap Adalberto Capriotti, 89
anni, e l’europarlamentare dell’Udc Giuseppe Gargani. La legge prevede che l’inchiesta
sugli indagati soggetti a stralcio sia bloccata fino alla definizione in primo grado del
processo principale.
13 | giugno 2012 | narcomafie
brevi di mafia
Camorra, colpito
il clan Mallardo
con 47 arresti
Il clan Mallardo di Giugliano,
in provincia di Napoli, attivo in
particolare anche nel basso Lazio, ma con diramazioni fino in
Emilia Romagna e Lombardia,
è stato pesantemente colpito lo
scorso 6 giugno da un’operazione condotta dal Ros dei Carabinieri e coordinata dalla Dda di
Napoli. In manette sono finite
47 persone con accuse che vanno dall’associazione mafiosa
all’estorsione, alla detenzione
di armi da guerra. Il blitz è stato
condotto in Campania, Lazio,
Emilia Romagna, Abruzzo, Calabria e Lombardia. Sono stati
sequestrati beni per milioni di
euro, tra cui uno yacht e un
supermercato. Dall’inchiesta
sono emerse nuove alleanze
con il clan Licciardi di Secondigliano (Napoli) e con
il clan Bidognetti di Casal di
Principe (Caserta), stipulate al
fine di una gestione unitaria
delle estorsioni. Per il governo
dell’alleanza i clan avrebbero
dato vita ad una sorta di direttorio costituito da Francesco
Diana, Giuseppe Trambarulo
e Giuseppe Pellegrino, in rappresentanza rispettivamente
dei Bidognetti, dei Licciardi
e dei Mallardo. Le indagini
hanno appurato «numerosi e
continuativi episodi estorsivi»
ai danni di commercianti di
Villa Literno, Castel Volturno
e Giugliano. In nessun caso le
vittime hanno fornito collaborazione agli inquirenti.
Napoli, commerciante mette
in fuga l’estorsore camorrista
Il fatto si è verificato lo scorso
ottobre, ma la notizia è stata
diffusa solo il 5 giugno, a termine
di un’inchiesta condotta dai pm
Antonello Ardituro, Giovanni
Conzo, Catello Maresca e Cesare
Siringano della Dda di Napoli
che ha portato all’arresto di 10
esponenti del clan Venosta, legato al clan dei Casalesi. Dagli
atti è emerso come un commerciante, Luigi Sagliocco, titolare
di un negozio di ferramenta a
San Marcellino, in provincia di
Caserta, abbia respinto in modo
inusualmente fermo e deciso una
richiesta estorsiva formulata da
un emissario del clan Venosta,
Mario Maisto. Dalle immagini registrate dalle telecamere
a circuito chiuso del negozio,
si vede Sagliocco rispondere a
muso duro alla richiesta di pizzo:
«Tu, comandi tu? Allora mi senti
a me? Tu lo sai chi è “occhi di
ghiaccio”? Lo sai “porcellino”?
Li sai i Mistrilli? I Malapelle? Lo
sai che li ho fatti arrestare tutti
quanti io? Ascolta, io sto nell’antiracket da 10 anni, solo che non
sai questo fatto. Mo’ voglio capire
chi è che ti ha mandato qua».
L’estorsore appare evidentemente preso di sorpresa: «Aspetta,
Luigi, ambasciatore non porta
pena». Lo scambio di battute
si chiude con il commerciante
all’attacco: «Benissimo, allora
quello che sto dicendo tu vallo
a riportare. Vedi che se lo vai a
riportare capiscono pure che da
12 anni stiamo nell’antiracket.
Facciamo arrestare tutti quanti
che vengono qua». L’estorsore ha
lasciato la ferramenta chiedendo
dei prodotti per giustificare con
un acquisto la presenza nel negozio. Sagliocco ha poi consegnato
il video ai carabinieri che hanno
avviato l’inchiesta.
Provenzano, aperta
inchiesta sul
tentato suicidio
Lo scorso 10 maggio Bernardo
Provenzano, rinchiuso nel carcere
di Parma al regime del 41 bis,
fu protagonista di un apparente tentativo di suicidio con un
sacchetto di plastica, sventato
prontamente dagli agenti della
polizia penitenziaria.
Sull’episodio la procura di Palermo
ha aperto un fascicolo a carico di
ignoti. Interrogato dai pm Ignazio
De Francisci e Antonio Ingroia,
Provenzano non avrebbe fornito
spiegazioni. Secondo quanto rilevato dai periti del tribunale di
sorveglianza, le condizioni di salute
del vecchio boss, quasi ottantenne
– affetto da tumore alla prostata
e morbo di Parkinson in stadio
iniziale –, sono precarie, ma non
incompatibili con la detenzione
né tali da comprometterne la capacità di intendere e di volere o di
difendersi in giudizio.
Il sindaco di Trapani: “Mafia? Meglio non parlarne”
«Non bisogna parlare di mafia perché si rischia di darle soltanto troppa importanza,
i progetti dove si parla sempre e solo male della mafia, in realtà, danno importanza
ai mafiosi». È questo il pensiero del neo eletto sindaco di Trapani Vito Damiani, Pdl,
ex generale dei Carabinieri in pensione, espresso durante un incontro con gli alunni
e i genitori della scuola media “Simone Catalano”, lo scorso 31 maggio. Secondo il
sindaco, a scuola «bisogna puntare su progetti che riguardano lo sviluppo sociale» e
ha detto di avere apprezzato due progetti della scuola visitata: «Uno sull’educazione
alimentare e l’altro sull’integrazione tra gli alunni. Questi – ha detto – sono i tipi di progetti che
io sosterrò in qualità di sindaco». Le parole del primo cittadino hanno suscitato un vespaio di
polemiche alle quali l’ex generale dei carabinieri ha risposto dalle pagine de «La Repubblica»
senza scomporsi: «È giusto parlare di legalità ma di legalità concreta. Io preferisco finanziare un
laboratorio e uno studio finale dedicato ai prodotti tipici locali che uno studio sulla mafia, dove
magari gli studenti recitano perché imbeccati. Ci sono le ore di educazione civica per parlare
di mafia. Finché ci sarò si parlerà di mafia nella maniera più contratta possibile, per non fare
vivere i ragazzi nella paura».
14 | giugno 2012 | narcomafie
brevi di mafia
Basso Piemonte, richieste
100 anni di carcere contro
la locale di Novi ligure
I pm della Dda di Torino Paola Stupino, Monica
Abbatecola, Roberto Sparagna ed Enrico Araldi
di Balme lo scorso 12 giugno hanno chiesto 16
condanne per gli imputati sotto processo con il
rito abbreviato accusati di affiliazione alle ’ndrine operanti nel basso Piemonte, colpite il 21 giugno 2011 con
l’operazione “Alba chiara”, che portò all’arresto di 19 presunti affiliati alla mafia calabrese. Le pene richieste vanno da un
minimo di 5 anni a un massimo di 9. Complessivamente sono
stati chiesti 100 anni di reclusione. Secondo quanto emerso
dall’inchiesta, a Novi Ligure (Al) avrebbe avuto sede una locale costituita dalle ’ndrine operanti in provincia di Alessandria, Asti e Cuneo. La locale sarebbe stata guidata da Rocco
Pronestì di Bosco Marengo. Per lui la pena richiesta è stata di
soli 8 anni, anche in virtù della scelta dell’imputato di dissociarsi dall’organizzazione. Il nome che nel giugno 2011 aveva
fatto più scalpore, però, era quello di Giuseppe Caridi (nella
foto), consigliere comunale di Alessandria in forza Pdl, ritenuto
affiliato alla ’ndrangheta con il grado di “picciotto”. Per lui i
magistrati hanno richiesto 6 anni e 8 mesi di carcere.
Terremoto in Emilia, “non fermare
ricostruzione per rischio infiltrazioni”
Lo ha dichiarato il procuratore
capo di Bologna, Roberto Alfonso, il 13 giugno a margine della
presentazione del rapporto sulla
presenza mafiosa in Emilia curata dal prof. Enzo Ciconte. «La
ricostruzione post-terremoto
farà arrivare in Emilia-Romagna
tanto denaro e sarà una buona
occasione anche per la criminalità organizzata, che non vorrà
sicuramente mancare. Occorre
restare vigili e mettere in campo
tutti gli strumenti che il legislatore ci mette a disposizione»,
perché «non si può fermare la
ricostruzione per paura di infil-
trazioni». Il procuratore di Bologna, dunque, invoca l’utilizzo di
tutti gli strumenti già esistenti
«e anche di qualcun altro che
potrebbe arrivare a breve» per
integrare le norme attuali «in
particolare sulla documentazione antimafia». In provincia di
Modena sono attive centinaia
di imprese edili originarie della provincia di Caserta, patria
del clan dei Casalesi. Proprio
la camorra Casertana, insieme
alla ’ndrangheta calabrese, è
l’organizzazione criminale più
presente nei territori colpiti
dal sisma.
Piemonte, processo
Minotauro, chieste
condanne per primi
73 imputati
È alle battute finali di fronte al
Gup del tribunale di Torino la
tranche del processo che vede
alla sbarra i 73 presunti ’ndranghetisti coinvolti nell’inchiesta
Minotauro (la più importante
operazione contro la ’ndrangheta
in Piemonte mai realizzata) e che
hanno scelto il rito abbreviato.
Il procuratore aggiunto Sandro
Ausiello, coordinatore della Dda
torinese, ha chiesto 500 anni di
carcere complessivi per gli imputati che, solo per la scelta del rito
alternativo, godono di uno sconto
di pena secco pari a un terzo di
quella altrimenti comminata nel
giudizio ordinario. Pugno duro
contro Aldo Cosimo Crea, detto
“Cosimino”, 38 anni, “padrino”
con un ruolo attivo nel “crimine”,
la struttura organizzativa preposta allo svolgimento di azioni
violente per conto delle famiglie
mafiose. Quattordici anni e 4
mesi per il fratello Adolfo, 41
anni, anche lui affiliato con dote
di “padrino”. I fratelli Crea, che
nell’inchiesta Minotauro risultano ricoprire un ruolo apicale
nell’organigramma delle famiglie
’ndranghetiste piemontesi, negli
anni scorsi erano stati già coinvolti in processi per mafia, dai quali
erano usciti quasi indenni, con
pene irrisorie. Altri personaggi di
spicco dell’inchiesta che si sono
avvalsi del rito abbreviato sono
Giovanni e Bruno Iaria, della
locale di Cuorgné. Per Bruno
Iaria, considerato il capolocale,
Ausiello ha chiesto 14 anni e 45
mila euro di multa. Per lo zio
Giovanni, figura nota alle cronache politiche e giudiziarie da
almeno 30 anni, con un passato da
attivista socialista e già assessore
di Cuorgné, la procura ha chiesto
7 anni e 8 mesi di reclusione.
La sentenza è prevista per dopo
l’estate. Per gli altri 75 imputati
che hanno scelto il rito ordinario
il processo inizierà a ottobre.
Reggio Calabria,
pentito: “Pronto
l’esplosivo per
Nicola Gratteri”
Secondo quanto riportato da «Il
Fatto quotidiano» il 13 giugno
scorso, un collaboratore di giustizia avrebbe rivelato l’intenzione
della ’ndrangheta di assassinare
il procuratore aggiunto di Reggio
Calabria Nicola Gratteri tramite
un attentato dinamitardo. Secondo il pentito il progetto omicida
sarebbe in uno stadio avanzato
di elaborazione e l’esplosivo, 16
chilogrammi, sarebbe già arrivato
nella città dello Stretto. Nicola
Gratteri è uno dei magistrati di
punta della Dda Reggina, uno
dei massimi esperti di mafia calabrese, autore di molte delle più
importanti inchieste degli ultimi
20 anni. Sotto scorta dal 1989,
nel 1990 una telefonata raggiunse
la sua fidanzata per intimarle
di non sposare il magistrato,
in quanto “uomo morto”. La
procura di Catanzaro ha aperto
un’inchiesta, mentre il comitato
per l’ordine pubblico e la sicurezza si è riunito per rinforzare il
dispositivo di sicurezza a tutela
del magistrato.
15 | giugno 2012 | narcomafie
Mafia e politica
Tutti i guai del
governatore
Tra avvisi di garanzia e dichiarazioni di pentiti sui presunti legami
con le cosche: per Giuseppe Scopelliti l’epoca da golden boy del
Pdl meridionale sembra essere finita. A travolgere l’ex sindaco di
Reggio Calabria anche l’udienza del colonnello Valerio Giardina che
ha puntato il dito contro la “lobby politico mafiosa” di cui sarebbe
espressione
Foto di Mimì Scarrone
di Alessia Candito
16 | giugno 2012 | narcomafie
Complice il mutato
clima nelle stanze
romane, la rete
di protezione
che per anni
sembrava aver
preservato la lunga
carriera politica
di Scopelliti
si va sfaldando
Ha ricevuto tre avvisi di garanzia nell’ambito di due diverse
inchieste. Il 29 giugno dovrà
presentarsi davanti al gup di
Reggio Calabria, Antonio Laganà, chiamato a decidere se
rinviarlo a giudizio per falso
in atto pubblico e abuso d’ufficio. Di lui e dei suoi presunti
legami con le cosche hanno
parlato in diverse occasioni sei
collaboratori di giustizia e un
nome noto della ’ndrangheta
che opera sotto la Madonnina,
ma che ha in Reggio Calabria
il proprio baricentro.
Nel frattempo tre commissari
ministeriali scavano tra le carte
del Comune che ha amministrato per 8 anni, gli scandali
travolgono il Consiglio regionale che presiede e l’ultima
tornata elettorale non è stata per
nulla favorevole ai suoi uomini
candidati negli 81 comuni della
Calabria.
Accuse respinte al mittente.
Per Giuseppe Scopelliti l’epoca
da golden boy del Pdl meridionale sembra essere finita
nonostante abbia convocato
in riva allo Stretto il segretario
nazionale del partito, Angelino
Alfano, e il capogruppo dei
senatori azzurri, Maurizio Gasparri, chiamati a distanza di
una settimana l’uno dall’altro a
perorare la causa del cosiddetto
Modello Reggio contro il «feroce attacco vissuto da questa
città» ad opera – a detta dell’ex
sindaco e attuale governatore
Scopelliti – di giornalisti, oppositori politici locali e nazionali, non meglio identificati
comunisti, vecchi compagni di
strada. La sua giunta regionale
vanta già due consiglieri finiti
in manette, più di un’indagine lambisce i suoi più stretti
collaboratori e dietro di lui si
addensa, sempre più concreta,
l’ombra delle ’ndrine.
Complice forse il mutato clima
nelle stanze romane, la rete di
protezione che per anni sembrava aver preservato la lunga
carriera politica di Scopelliti si
va sfaldando. Il presidente è in
difficoltà. Ha sempre respinto al
mittente ogni accusa e annunciato che avrebbe dimostrato
la sua totale estraneità. Anche
l’ipotesi piuttosto concreta di
un rinvio a giudizio sembra non
scalfirne la coriacea volontà di
rimanere in carica. «Non penso
che l’ipotesi dell’abuso d’ufficio
possa diventare ipotesi di dimissioni, tanto meno quella del
falso in bilancio», ha dichiarato
di recente il governatore, spiegando: «I bilanci non li fanno
i sindaci ma li fanno spesso e
volentieri i dirigenti, e spesso
e volentieri li fanno di concerto
con gli assessori competenti.
Sennò che ci sono a fare gli
assessori?». Il processo «sarà
un modo per raccontare quello
che ho sempre detto e che continuerò a dire su questa vicenda
perché la posizione mi sembra
molto onesta e molto chiara. Ci
sarà modo per ribadire la mia
posizione e la mia estraneità
agli atti che mi sembra chiara
e evidente».
Il caso Fallara. Nonostante
anche il Tribunale di Catanzaro
abbia fatto recapitare sulla scrivania di Scopelliti l’ennesimo
avviso di garanzia, in questo
caso come autore di alcune
contestate delibere sottoscritte in qualità di commissario
ad acta per la sanità, il cuore
delle preoccupazioni del presidente della regione Calabria
batte trecento chilometri più a
sud. In quella Reggio di cui è
stato sindaco per due mandati.
Otto anni di gestione che oggi
stanno passando sotto la lente
degli ispettori della commissione d’accesso, disposta dal
ministro dell’Interno in seguito
alla relazione dell’ex prefetto
Luigi Varratta, che al Viminale
aveva mandato il lungo elenco delle operazioni di polizia
che nel corso degli ultimi anni
hanno interessato o lambito
il Comune. Indagini come il
cosiddetto caso Fallara, che
oggi rischia di trascinare in
Tribunale, in qualità di imputato anche Scopelliti, finito
sotto la lente dei magistrati
nell’ambito dell’inchiesta sul
buco di bilancio che rischia
di portare il Comune di Reggio
Calabria alla bancarotta. A lui il
procuratore Ottavio Sferlazza e
i sostituti Sara Ombra e Francesco Tripodi, contestano alcuni
episodi di abuso d’ufficio e l’accusa di falso in atto pubblico. E
l’atto in questione è il bilancio
negli anni dal 2008 al 2010. Un
buco nero nel quale – hanno
accertato i periti incaricati dalla
Procura – in due anni, grazie
a un’infinita gamma di artifici contabili, sono spariti oltre
87 milioni di euro. Manovre
finanziare complesse per far
quadrare i conti e rispettare il
Patto di Stabilità. E quindi poter
spendere, assumere, contrarre
mutui, pagare consulenze e
progettazioni. E accumulare
debiti su debiti. Medesimo
modus operandi fotografato
dagli ispettori che il ministero
dell’Economia ha spedito in
riva allo Stretto, secondo cui
tra il 2006 e il 2010, dalle casse
comunali sono spariti oltre 170
milioni di euro. Una voragine
– si legge in quel documento
17 | giugno 2012 | narcomafie
– «approssimata per difetto».
Oltre che per il governatore, i
pm Sferlazza, Ombra e Tripodi hanno richiesto il rinvio a
giudizio anche per i tre revisori
dei conti, Domenico D’Amico,
Ruggero Alessandro De Medici
e Carmelo Stracuzzi (che dopo
anni di “onorato servizio” al
Comune, lavora oggi alla Regione Calabria), che avrebbero
certificato i bilanci di quegli
anni senza ravvisare alcuna
anomalia. Nel corso delle indagini, i tre, al cospetto dei pm,
si erano avvalsi della facoltà
di non rispondere. Della voragine nei conti del Comune,
unica responsabile – allo stato – sarebbe l’ex dirigente del
settore Bilancio, Orsola Fallara,
accusata di essersi indebitamente liquidata somme ingenti
di denaro e morta poco più di
un anno e mezzo fa, dopo aver
ingerito una dose letale di acido
muriatico. Ma lo strano suicidio
della donna – che per anni ha
avuto in mano le chiavi del
tesoro comunale e ha accompagnato Scopelliti fin dagli albori
della sua carriera politica – non
ha fermato i giudici, decisi a
chiarire se dietro il tanto decantato “Modello Reggio” si
nasconda la condotta illecita
di un singolo o un sistema di
illegalità diffusa.
“Firmavo atti che non leggevo”. Un sistema del quale
Giuseppe Scopelli, nonostante
abbia governato per otto anni
la città di Reggio e guidato la
sua amministrazione, saprebbe
poco o nulla. O almeno, questo
ha sostenuto davanti ai magistrati quando nel corso delle
indagini è stato chiamato a riferire sulla gestione creativa delle
casse comunali e sull’ancor più
creativo documento di bilancio,
che in qualità di sindaco aveva
firmato. Il 20 dicembre scorso,
uscendo – scuro in viso – dalle
stanze dell’allora Procuratore
capo della Dda, Giuseppe Pignatone, Scopelliti aveva dichiarato: «Ho soltanto chiarito
la mia posizione in merito alle
vicende contestate, evidenziando così come è scritto dagli
stessi ispettori ministeriali, il
distinguo tra le competenze,
che sono gestionali in capo ai
dirigenti, e quelle in capo alla
politica». Medesimo copione di
quanto sostenuto davanti ai pm
in una precedente occasione,
nel marzo 2011, quando – rispondendo ai magistrati che
all’epoca gli contestavano solo
l’abuso d’ufficio – Scopellitidichiarava: «Premetto che in
qualità di sindaco ho firmato
tantissimi atti e preciso che gli
stessi mi venivano sottoposti in
notevole quantità all’interno di
faldoni, sicché li sottoscrivevo
senza leggerne il contenuto,
confidando nella responsabilità e professionalità dei colleghi competenti». Eppure, in
un precedente interrogatorio,
Franco Zoccali – prima capo di
gabinetto poi city manager del
Comune, attualmente direttore
generale della Regione Calabria
– aveva dichiarato che gli atti
della dottoressa Fallara venivano direttamente sottoposti
alla firma del sindaco da lei
stessa. Circostanza negata con
forza da Scopelliti: «Ribadisco che gli atti della Fallara
seguivano lo stesso iter degli
altri». Nel frattempo però iniziarono a emergere alcune di
quelle “22 irregolarità palesi”
accertate dagli ispettori ministeriali prima e dai periti della
Procura poi. Interrogato dai
pm, l’architetto Franco Labate,
che della Fallara era amante,
ha raccontato come grazie a
lei sarebbe riuscito a ottenere
dal Comune l’assegnazione di
“piccoli lavori”. «La Fallara
mi aveva invece procurato dei
contrattini per piccoli lavori
pubblici sul verde attrezzato
portandomi personalmente le
lettere di conferimento che io
firmavo e che lei stessa avrebbe portato al responsabile del
settore. Erano soltanto piccole
progettazioni di aiuole e piazzuole che non so nemmeno se
siano state realizzate». Valore
delle opere, spesso fantasma,
settecentomila euro. Tutti prelevati dalle casse del Comune.
Soldi che in parte Labate ha
già restituito e preannuncia di
restituire totalmente. Illeciti
che gli sono valsi un’accusa di
peculato e truffa, per la quale i
suoi legali avevano concertato
con la Procura un patteggiamento a un anno e 8 mesi di
carcere (con pena sospesa), che
il gup Daniela Oliva, ha definito
non “congruo”.
Ma l’ex dirigente del settore
Bilancio non era l’unico alto
papavero dell’amministrazione
reggina dal quale l’architetto
avesse ricevuto favori e attenzioni. «Fu la Fallara – ha detto
Labate – tramite Franco Zoccali
che era assieme a Scopelliti a
procurarmi l’incarico di capo
della delegazione romana, sempre da considerarsi un “parcheggio” in attesa dell’incarico
a Fin Calabra, che era il mio
vero obiettivo. L’incarico di
direttore Fin Calabra avrebbe
comportato lo stipendio di circa
ottomila euro, almeno così mi
disse la Fallara». Parcheggio
di cui Labate avrebbe parlato direttamente con l’attuale
Giuseppe Scopelliti
18 | giugno 2012 | narcomafie
Governatore: «Fu un incontro
breve e Scopelliti mi disse di
parlare con Zoccali – all’epoca
direttore generale del Comune
di Reggio Calabria e storico
braccio destro dell’attuale governatore – al quale spiegai la
mia aspirazione. Poi mi mandarono tutte le carte del contratto
a Roma per firmarle».
Le accuse del colonnello Giardina. Affermazioni inquietanti
che hanno ancor più inquietante eco nella “lobby affaristico-massonica in cui vi sono
i vertici delle cosche e della
politica” di cui ha parlato, in
pubblica udienza, il colonnello
Valerio Giardina, chiamato a
riferire sulle sue indagini da
comandante dei Ros di Reggio
Calabria nell’ambito del processo Meta. Una lobby che – stando
alle parole del colonnello –
governerebbe gli affari e gli
appalti e nella quale avrebbero
un ruolo di primo piano anche
l’ex sindaco di Reggio, oggi governatore Giuseppe Scopelliti,
e il fratello Consolato (Tino).
«In riferimento a Scopelliti –
ha affermato Giardina davanti
al Tribunale e al pm Giuseppe
Lombardo – ci sono altri fatti,
reciprocità relazionali di natura
criminal-mafiosa con i vertici
della ’ndrangheta di Villa San
Giovanni, oltre ai legami di suo
fratello Consolato relativi agli
appalti pubblici del Comune di
Reggio». Ma non solo. «Abbiamo documentato – ha dichiarato ancora Giardina – rapporti
di Scopelliti con i vertici delle
cosche di San Giovanni in Fiore
e di Reggio Calabria».
Rapporti come quelli con gli
imprenditori Barbieri, uno dei
quali, Domenico, è stato già
condannato in primo grado per
associazione mafiosa, ma i cui
inviti il governatore ha pensato
bene di accettare. Il 15 ottobre
2006, al ricevimento per l’anniversario di nozze dei coniugi
Barbieri – genitori di Domenico,
Carmelo e Vincenzo, ritenuti
organici alle cosche di Villa San
Giovanni – Scopelliti arriverà
accompagnato dalla macchina
blindata e dalla scorta. Graditi
ospiti della coppia, insieme al
governatore, personaggi di spicco della ’ndrangheta reggina
come Cosimo Alvaro e il fratello
Giuseppe. Di quella giornata
scriveranno i carabinieri nel
loro rapporto: «La presenza
di esponenti politici, nonché
di personaggi appartenenti ad
agguerrite associazioni mafiose, non lasciava alcun dubbio sulla centralità di Barbieri
nelle dinamiche criminali e
politiche della città di Reggio
Calabria».
Sono i magistrati a chiarire
invece nell’ordinanaza di custodia cautelare di Meta, chi
siano i fratelli Barbieri a Reggio
città: «Sono imprenditori al
servizio della cosca operanti
non secondo logiche di libero
mercato, ma nel rispetto delle
dinamiche oligopolistiche di
tipo mafioso». Domenico Barbieri, detto Mimmo, è considerato dai magistrati “contiguo al
gruppo criminale facente capo
ad Antonino Imerti ed ai fratelli
Buda egemoni nell’area di Villa
San Giovanni”. Si legge ancora
nelle carte dell’inchiesta: “Il
Barbieri unitamente ai fratelli
Vincenzo e Carmelo, mantenevano stretti contatti con il
pregiudicato Cosimo Alvaro,
appartenente alla omonima
famiglia di Sinopoli, e che
proprio i fratelli Barbieri, per
un periodo di tempo avevano
gestito la latitanza di Carmine
Alvaro, fratello di Cosimo”. Frequentazioni non esattamente
opportune per un rappresentante delle istituzioni. Eppure,
una volta divenuta pubblica la
notizia della sua partecipazione al ricevimento, Scopelliti
derubricherà la sua presenza
a misero “favore” fatto ad un
imprenditore – Vincenzo, non
il fratello Domenico – che per
molto tempo avrebbe lavorato
con il Comune, ma del quale
non avrebbe mai approfondito
trascorsi e frequentazioni.
Poco spazio alle interpretazioni. Eppure i Barbieri –
secondo quanto riferito dallo
stesso Giardina in udienza –
non sembrano avere una conoscenza superficiale degli affari
e dell’entourage del presidente
della Regione. È lo stesso Domenico – ignaro della microspia
piazzata dal Ros nella sua auto
– a fornire a più riprese agli
investigatori gli elementi che
porteranno Giardina ad affermare l’esistenza di un grumo di
poteri convergenti che governa
la città. «Stanno dando i lavori
dove vogliono, fino a quando il
discorso equilibrato…no, qua
il discorso è tutto focalizzato»,
registrano le cimici: a parlare
è l’imprenditore Franco Labate
– già coinvolto nel cosiddetto
caso Fallara – che con Barbieri lamenta lo strapotere della
Edilmar di Santo Marcianò
nell’assegnazione degli appalti,
proprio negli anni in cui a capo
del Comune di Reggio c’è il sindaco Scopelliti. Uno strapotere
non casuale, secondo Giardina,
che ha spiegato come la ditta
sia stata «favorita nell’aggiudicazione degli appalti dall’interesse di Tino Scopelliti in
19 | giugno 2012 | narcomafie
combutta con Pasquale Crucitti,
dirigente dell’ufficio tecnico
del Comune». Un’affermazione
che il militare può fare anche
sulla base della conversazione
intercettata e registrata fra Barbieri e Labate.
Barbieri: “Bisogna aggiustare i
lavori…hai visto Edil.ma?”
Labate: “Crucitti?”
Barbieri: “Con il fratello del
sindaco… è lui… i soldi li sta
prendendo il fratello del sindaco…”
Labate: Edil.ma
Barbieri: Di tutti! Quello che si
è riempito la mazzetta, quello
che si è preso la pila
E Pasquale Crucitti, non è un
personaggio sconosciuto alle
cronache. All’epoca, l’ingegnere era la figura chiave, forse la
più importante del Comune di
Reggio Calabria: dirigente alla
Programmazione e progettazione. Un personaggio importante, che il 10 aprile 2009 verrà
gambizzato con alcuni colpi
di pistola al centro di Reggio,
dopo che aveva parcheggiato
l’automobile per raggiungere
casa. Pochi mesi prima dell’agguato, insieme all’allora sindaco Giuseppe Scopelliti, aveva
partecipato alla consegna dei
lavori di riqualificazione della
zona limitrofa la chiesa di Santo Stefano da Nicea di Archi
Cep, a Reggio. L’intervento,
programmato già nel 2007, era
stato eseguito da Edil.ma.
Ma la Edil.ma non sarebbe
l’unica ditta a disporre di un
canale preferenziale. Stando
ad un’altra conversazione del
gennaio 2007 fra Labate e Barbieri, anche nel caso dei lavori
di ampliamento dell’aeroporto
“Tito Minniti” e degli appalti
nel Comune di Reggio, le commesse sarebbero state pilotate.
A beneficiarne sarebbe stata
la ditta Minghetti, perché appoggiata dal clan Lampada,
presunto braccio finanziario ed
operativo della cosca Condello
in Lombardia. Lo stesso clan
che – stando alle ultime indagini – aveva sul proprio libro
paga il gip di Palmi, Giancarlo
Giusti, l’ex presidente della
sezione Misure di Prevenzione, Vincenzo Giglio, il cugino
medico Enzo Giglio, l’avvocato
Vincenzo Minasi e il consigliere
regionale Franco Morelli. Volti
e nomi noti dell’élite reggina
sempre a cavallo fra politica e
salotti buoni. Secondo gli esiti
delle indagini meneghine, il
gruppo di professionisti sarebbe stato infatti fino a poco
tempo fa uno dei grandi centri
di raccolta voti e preferenze
del neo assessore regionale ai
Trasporti Luigi Fedele. Politico
di lungo corso oggi in Regione,
ma con solide radici a Reggio
città, dove da sempre radica il
suo zoccolo duro, Fedele, che
allo stato risulta non indagato,
per il gip del Tribunale di Milano Giuseppe Gennari era per i
Lampada «la figura fondamentale per la risoluzione di qualsiasi problematica». Eppure, le
osservazioni dei magistrati non
sono state d’ostacolo a Fedele
nella corsa all’assessorato. Il
presidente della Regione – a
capo di una maggioranza che
ha già visto due consiglieri,
Santi Zappalà e Franco Morelli,
finire in manette in due diverse
inchieste per concorso esterno
in associazione mafiosa – ha deciso di affidare proprio a lui la
delicatissima delega ai Trasporti. Una nomina che corre sul filo
dell’ambiguità, formalmente
inattaccabile – Fedele non è
indagato – ma politicamente
e socialmente estremamente
significativa. Una nomina che
sembra seguire, questa volta in
Regione, il solco tracciato dal
Modello Reggio.
Un Modello che oggi sembra
essere sul banco degli imputati
insieme a tutti gli indagati del
processo Meta. L’immagine del
Comune e di tutti gli affari che
attorno ad esso ruotano che
viene fuori da quell’indagine
è quella del terminale ultimo
di un “sistema perverso”, in
cui lecito e illecito camminano
affiancati. «Dalle varie intercettazioni – ha detto Giardina in
pubblica udienza – emerge un
sistema garantito dalla mafia
e creato dal mondo politico
con la partecipazione di imprenditori e tecnici comunali.
Un sistema riconducibile alle
“menti” Giorgio De Stefano e
Paolo Romeo». Il primo è il
cugino di Paolo De Stefano, il
boss della ’ndrangheta reggina
ucciso nella prima guerra di
mafia, e secondo gli investigatori, il vero consigliori politico,
economico e strategico del clan.
Il secondo è un ex deputato
condannato per concorso esterno in associazione mafiosa,
il cui nome fa capolino nelle
pagine più oscure della storia
reggina.
Dichiarazioni che Giardina
può fare non in ragione di
brillanti speculazioni investigative, ma sulla base di
dati concreti venuti fuori da
una conversazione intercettata – ancora una volta – fra
Franco Labate e Domenico
Barbieri. «Si sono mangiati
sopra a dodici miliardi di
strade che dovevano bitumare… non dico dieci, ma una
ottina di miliardi se li sono
mangiati, se li sono divisi....
L’atto in questione
è il bilancio di
Reggio negli anni
dal 2008 al 2010.
Un buco nero nel
quale in due anni,
grazie ad artifici
contabili, sono
spariti oltre
87 milioni di euro
Nar, politici e faccendieri:
le sfortunate frequentazioni
del governatore
20 | giugno 2012 | narcomafie
di A. C.
Ancora una volta nulla di penalmente rilevante, eppure il governatore sembra avere una curiosa
tendenza ad accompagnarsi a personaggi di estremo interesse per le
Direzioni antimafia della penisola.
Come nel caso di Gioacchino Campolo, detto il “re dei videopoker”,
arrestato nel luglio 2008 e considerato uomo del clan De Stefano, dal
quale, nel 2007, Scopelliti avrebbe
ottenuto in comodato d’uso gratuito
uno dei locali poi sequestrati dalla
magistratura – l’ex cinema-teatro
Margherita, sul centralissimo corso Garibaldi – per gli uffici della
sua segreteria politica. Oppure,
come nel caso di Bruno Mafrici,
sedicente avvocato, transitato dalla
natia Melito Porto Salvo (Rc) a un
ufficio di riferimento per la finanza
e l’industria che conta: quello della
Mgim dell’ex Nar Lino Guaglianone, legato a molti dei più lucrosi
affari che si cucinano a Reggio Calabria. In quell’ufficio, in cui aveva
una stanza lo stesso ex cassiere
della Lega Francesco Belsito – di
cui Mafrici è stato consulente al
Ministero –, sono transitati i nomi
e i volti noti dell’imprenditoria
che conta a Reggio e provincia:
dall’azienda Mucciola, alle attività dell’imprenditore Montesano,
dalla Siram – azienda campione
di appalti a Palazzo Alemanni,
agli ospedali Riuniti, alla Provincia
di Reggio Calabria e all’università Mediterranea – fino ai big del
mattone a Reggio città. Sempre
quell’ufficio ha trattato – pur senza
aver ricevuto alcun incarico formale
secondo i racconti di Mafrici ai
magistrati – la cessione delle quote
della società mista del Comune di
Reggio Calabria, Multiservizi, un
tempo in mano alla Fiat. Quella
stessa Multiservizi che le indagini
hanno dimostrato in mano sin dalla
costituzione alla cosca Tegano di
Reggio Calabria. E Mafrici, oggi
indagato nell’ambito dell’inchiesta che ha messo a soqquadro il
Carroccio, nonostante lontano da
tempo, sembra non aver mai tagliato
il cordone ombelicale che lo lega
alla Reggio bene. Incluso quello
che lo lega all’attuale governatore
della Calabria, che decide di contattare proprio Mafrici per ottenere
i biglietti per il derby Milan-Inter
dell’aprile 2011. A casa di Mafrici
decide di guardare in tv – il giorno
prima di andare alla stadio – la
partita della Reggina in compagnia
di assessori e funzionari regionali
calabresi in trasferta nel capoluogo
meneghino. Quella sera a casa Mafrici c’è anche Lino Guaglianone,
un passato da cassiere nella Banda
Cavallini dei Nar e un presente da
socio plenipotenziario della Mgim,
multi-assegnatario di incarichi in
aziende strategiche (dalle Ferrovie
nord, a Fiera Milano Congressi
spa, passando per la Finman Spa
dell’immobiliarista calabrese Mario Pecchia, già noto alle cronache
giudiziarie – ma mai indagato –
per l’inchiesta Cerberus, nonché
proprietario di palestre e locali
frequentati dalla galassia nera
milanese). Con Guaglianone, scrive in un relazione l’ex capo del
centro operativo della Direzione
investigativa antimafia di Reggio
Calabria, Francesco Falbo, pare
che Scopelliti si sia appartato
per discutere di affari e sponsorizzazioni elettorali. Circostanza,
ancora una volta, liquidata in
modo sprezzante dal governatore
per il quale “tifare Reggina non è
un reato”. Vero. Eppure anche a
un osservatore superficiale saltano
agli occhi i tanti fili che legano
l’ex Nar Lino Guaglianone e il
presidente della Regione Calabria,
cresciuto sotto l’ala protettrice di
Ciccio Franco e dei suoi “Boia chi
molla”, protagonisti di pagine
ancora da chiarire sulla storia
calabrese come il golpe Borghese
o la latitanza della primula nera
Franco Freda. O quelli che sembrano incrociare la carriera del
governatore con personaggi legati
più o meno direttamente alla cosca De Stefano, che della galassia
nera in Calabria fu prima se non
unica referente. Un rapporto che –
forse – non si è ancora interrotto.
E che i magistrati oggi hanno tutta
l’intenzione di ricostruire.
21 | giugno 2012 | narcomafie
ed ora uscirà fuori sempre
che le menti sono Paolo e
Giorgio!... Uscirà fuori», dice
Labate al suo interlocutore. E
alla richiesta di chiarimenti
da parte di Barbieri, risponde
senza lasciar spazio a dubbi:
«Paolo Romeo e Giorgio De
Stefano».
Circostanze che gettano ombre
sulle istituzioni e sulla classe
politica di Reggio Calabria,
di cui i due sono stati – e
sono tuttora, nonostante da
tempo si siano ritirati – pezzi
da novanta. E che non sono
piaciute per nulla al governatore. O meglio, che il governatore non ha gradito per
nulla che fossero tirate fuori.
«Ho appreso con stupore e
sconcerto quanto dichiarato
dal colonnello dei carabinieri Giardina durante l’ultima
udienza del processo Meta»,
scriveva Scopelliti in una stizzita nota stampa dell’epoca.
Il pluridecorato colonnello
– che all’attivo ha anche la
cattura del numero uno dei
latitanti calabresi, Pasquale
Condello, per Scopelliti «non
si è limitato a illustrare le
risultanze dell’attività di indagine svolta, ma ha spacciato
per tali delle, per come da lui
stesso definite, «deduzioni
investigative del suo ufficio».
E infatti, partendo dalla lettura di alcune intercettazioni
captate, ha costruito un teorema accusatorio ai miei danni
non avvedendosi, nella cieca
volontà di accusarmi a tutti i
costi, di riportare circostanze
smentite proprio da quelle
verità storiche e processuali
che lui stesso avrebbe dovuto
ben conoscere».
E ancora, scriveva Scopelliti
in quella nota «la gravità di
queste affermazioni mi fa riflettere sul perché un uomo delle
istituzioni e quindi dello Stato
abbia tenuto un comportamento sprezzante ed oltraggioso dei
valori che lui stesso dovrebbe
rappresentare, non limitandosi
alla lettura oggettiva dei fatti,
ma dando giudizi di natura
politica che ne hanno reso
evidente la sua faziosità. Voglio evidenziare che parliamo
di vicende che non mi hanno
mai coinvolto dal punto di
vista giudiziario».
Una settimana dopo, abbandonando la proverbiale serenità sempre professata, il
governatore ha convocato una
tumultuosa conferenza stampa
per ribadire lo stesso concetto
e «fare chiarezza su alcune
questioni – ha detto Scopelliti
– che riguardano me e la nostra
città. Non sono indagato né
faccio parte di alcun procedimento giudiziario. Ho convocato questa conferenza stampa
per spiegare l’infondatezza di
queste testimonianze».
L’ombra dei De Stefano. Una
conferenza stampa in cui
l’obiettivo numero uno è il
colonnello Giardina, che per
Scopelliti «si è comportato
come un oppositore politico, chissà che alle prossime
elezioni non si candidi». Il
racconto di Giardina è basato
su una lunga serie di episodi
sospetti: tra presunti “amici”
dei clan, politici, tecnici comunali e membri delle forze
dell’ordine. Convitato di pietra
nell’intera vicenda, il clan De
Stefano. Che riemerge spesso,
troppo spesso, direttamente o
indirettamente in relazione con
quello del governatore. Come
nel dialogo del 25 luglio 2007,
registrato dal Ros nell’ufficio
di Domenico Barbieri, l’imprenditore vicino ai clan di
Villa San Giovanni, il quale
parlando con Labate, ricorda
come fosse l’attuale collaboratore di giustizia Nino Fiume,
la persona delegata dalla cosca De Stefano alla “gestione
del sindaco di Reggio” e la
raccolta di voti in suo favore.
Affermazioni sempre respinte
al mittente dal governatore,
che si è giustificato dicendo:
«Conosco Fiume. Come tutti
i ragazzi di questa città, negli
anni Ottanta frequentavo l’unica discoteca che c’era a Reggio,
il “Papirus”. Era un gruppo
ampio ma sempre circoscritto.
Ci si conosceva un po’ tutti. È
stata una frequentazione estiva
e casuale. Lo ricordo perché era
tra quei ragazzi con cui ci si
salutava e si scambiava qualche
battuta. Non c’è stata alcuna
frequentazione. Attraverso i
giornali ho appreso che lui era
vicino ai De Stefano e che era
Della voragine nei
conti del Comune,
unica responsabile
sarebbe l’ex
dirigente del settore
Bilancio, Orsola
Fallara, morta poco
più di un anno e
mezzo fa, dopo
aver ingerito
una dose letale di
acido muriatico
22 | giugno 2012 | narcomafie
Fiume non è
l’unico a indicare
Scopelliti come
terminale ultimo
delle attenzioni
del gotha della
’ndrangheta reggina,
che al termine della
seconda guerra
di mafia ha
equanimemente
spartito la città
fra le famiglie
De Stefano-Tegano
e Condello
legato alla figlia di Paolo De
Stefano. Mai parlato di politica
con Fiume. Ho appreso dai
giornali che faceva campagna
elettorale per me». Eppure lo
stesso Fiume, sentito in udienza
durante il processo “Testamento”, aveva dichiarato «conosco
Giuseppe Scopelliti in quanto
ho appoggiato politicamente lo
stesso». Circostanza che l’attuale governatore ha provato a
smentire, sostenendo che Fiume si sarebbe spontaneamente
consegnato ai magistrati prima
della sua elezione a sindaco. Ma
Scopelliti sembra dimenticare
che la sua carriera politica non
è iniziata nel 2002, quando ha
indossato la fascia tricolore da
primo cittadino di Reggio Calabria. Da militante del Fronte
della Gioventù, Scopelliti si è
ben presto fatto strada nelle
istituzioni cittadine e regionali: all’inizio degli anni 90 era
consigliere comunale di Reggio,
nel ’94 tenta senza successo la
strada del Parlamento europeo,
nel ’95 transita alla Regione,
divenendo presidente del consiglio, nel 2000, sempre della
Regione diventa assessore al
Lavoro e alla Formazione professionale. Tutto ciò prima di
diventare – nel 2002 – sindaco.
Mentre il pentito Fiume era
fidanzato dell’unica figlia di
don Paolo De Stefano e uno dei
killer più fidati della cosca.
E Fiume non è l’unico a indicare Scopelliti come terminale
ultimo delle attenzioni del gotha della ’ndrangheta reggina,
che al termine della seconda
guerra di mafia ha equamente
spartito la città fra le famiglie
De Stefano-Tegano e Condello.
Solo pochi mesi fa, il 19 ottobre,
il pentito Roberto Moio, nipote
del boss Giovanni Tegano, nel
corso del dibattimento d’appello del processo “Testamento”,
ha rivelato: «Abbiamo sempre
votato il sindaco Scopelliti attraverso Peppe Agliano. Con
lui avevamo rapporti ottimi.
Qualche volta è salito anche
dai miei zii. Agliano è venuto
a chiedere i voti. Abbiamo appoggiato Scopelliti negli anni
passati anche tramite Antonio
Franco. Votammo sia lui che
Scopelliti». Affermazioni ovviamente tutte respinte da tutti
gli interessati. Incluso l’attuale
governatore, che prima di Moio,
già tre diversi collaboratori di
giustizia avevano già indicato
come l’uomo su cui le cosche
puntavano. Nino Lo Giudice il
7 dicembre 2010: «Gli abbiamo
dato i voti io e la mia famiglia».
Giovanbattista Fragapane, ex
killer dei De Stefano, pentito
dal 2004: «Alle elezioni sentivo
sempre il nome di Scopelliti».
Paolo Iannò, ex braccio destro
del “supremo” Pasquale Condello: «In relazione a Giuseppe
Scopelliti si diceva che era
appoggiato dalla’ndrangheta
già da quando ero latitante».
Affermazioni che il governatore ha cercato a più riprese
di smontare giocando su date
e circostanze, o negando addirittura di conoscere i diretti
interessati.
Paolo Martino, ambasciatore
al Nord. Ma a parlare di Scopelliti è stato anche quello
che gli inquirenti considerano il ministro del Tesoro
del clan De Stefano nel nord
Italia: Paolo Martino, cugino
prediletto del boss Paolo De
Stefano. Finito in manette
qualche mese fa nell’ambito
dell’operazione che ha assestato un duro colpo al clan
Flachi, Martino ha risposto
con dovizia di particolari alle
domande che i pm gli hanno
posto. È con un certo orgoglio che l’ambasciatore dei
De Stefano al Nord racconterà
al gip Gennari non solo delle
sue amicizie nel mondo della
moda, da Santo Versace («mi
ha visto crescere»), a Saverio
Moschillo di Richmond («mi
ha aiutato in tante cose»), a
Maria Paola Paciotti («È lei che
dirige l’azienda»), ma anche di
quelle con la politica. Il ministro del Tesoro dei De Stefano
al Nord conosce Giuseppe Scopelliti. «Ci conosciamo, sappiamo tutti – dirà Martino a un
allibito Gennari – conosco lui,
suo fratello Rino (Tino, ndr),
suo fratello, l’altro, Francesco,
è assessore a Como, conosco
tutti, ma conosco perché,
non perché sono un mafioso, perché sono una persona
perbene, e tutta Reggio lo può
testimoniare, anche se sanno
tutti dei miei precedenti penali purtroppo». E non si tratta di semplici affermazioni.
Nel 2006, l’allora sindaco di
Reggio incontrò Martino alla
Bit di Milano, gli chiederà un
“aiuto” per contattare Lele
Mora, in seguito coinvolto
da Scopelliti nell’organizzazione di eventi in città.
Una notizia che solleva un
polverone, tanto da spingere
Martino a contattare l’allora
sindaco di Reggio per scusarsi
degli eventuali guai provocati
dall’esser stati sorpresi insieme. «Non ti devi scusare di
nulla», risponderà Scopelliti,
ascoltato dagli investigatori
che da tempo tengono Martino
sotto controllo. «È un qualcosa
di gratificante conoscere uomini
come te».
23 | giugno 2012 | narcomafie
quale facevo il report di quello
che avevo visto. Ma andando
a casa portavo con me anche
l’amarezza di non potere condurre una vita normale. E spesso
scoppiavo a piangere da solo, per
strada». La vita “infiltrata” di
Paolo è durata otto mesi. Dopo
sono scattati gli arresti. «Stavo
per impazzire. Mi dicevano che
le indagini erano quasi al termine,
ma io cominciavo a non reggere
più quella vita. Non tolleravo di
vedere tutta quella violenza sotto
gli occhi. Allora la polizia decise
che per 15 giorni avrei fatto finta
di essere in Svizzera». Grazie alla
collaborazione di Paolo è partita
l’operazione “Serpe” (conosciuta
come “Aspide”).
Il processo è ancora in corso
nell’aula bunker di Venezia, dove
Mario Crisci, il capoclan casalese,
è accusato anche di associazione
mafiosa. Paolo è costretto a vivere nell’anonimato. «È difficile
essere un testimone di giustizia.
Vivere nel silenzio. Con un’altra
identità e senza lavoro. Abbiamo
vissuto momenti difficili, io e la
mia famiglia. All’inizio non avevamo neanche da mangiare. Non
avevamo aiuti, se non quelli che
ci davano gli stessi investigatori
che ci portavano i viveri. Poi
siamo stati costretti a lasciare il
Veneto. Io non volevo. Non ho
paura. Per ragioni di sicurezza siamo ormai lontani. Come
lontana è quella vita tranquilla
che avevo un tempo». Paolo ha
avuto accesso al fondo per le
vittime del racket e dell’usura,
ma ancora non hanno visto un
soldo. Vittima di uno Stato per
il quale ha lottato, al momento
non ricambiato.
nuoveresistenze
avevano prestato inizialmente
50mila euro, su cui dovevo pagare
7.500 euro al mese di interessi. Io
pagavo, ma la somma pattuita non
mi veniva data mai. Arrivai ad
avere un debito di 200mila euro
e a quel punto capii che volevano
impadronirsi delle mie aziende.
Mi minacciavano. Mi dicevano
che stavo perdendo tempo e chi
me lo faceva fare a tenermi ancora
le mie aziende in quello stato.
A quel punto non ne ho potuto
più e ho denunciato». Da quel
momento la vita di Paolo si trasforma da imprenditore vittima
di usura a infiltrato. «Ho iniziato
a collaborare perché volevo che
questi farabutti finissero in galera.
Mi hanno dato apparecchiature
tecnologiche come gli scarponcini
con trasmittenti per segnalare
la mia presenza continuamente. Le ricaricavo tutte le sere.
Ero pronto per entrare nel clan.
Partivo alle sette del mattino in
macchina con loro e venivo presentato come quello che prendeva
i soldi. Stavo tutto il giorno con i
miei aguzzini. Guardavo spesso
la violenza, le minacce nei confronti degli imprenditori in crisi.
È terribile fingere di fare parte di
un mondo che odi e colpevole di
averti rovinato la vita. Eppure
avevo desiderio di giustizia. E ho
rischiato. Sono stato con loro in
Emilia Romagna, a trattare affari
di questo genere per e con loro.
In soli 8 mesi ero diventato il cervello del clan. Quando si doveva
comprare una casa, o immobili di
vario genere, dovevo valutare io.
Consigliare. Andavo in giro con
le loro pistole, i loro assegni. E la
sera andavo alla sede della Direzione investigativa antimafia alla
Storie di chi si ribella ogni giorno
«Io non ho paura. L’unica volta
che ho avuto un po’ di timore è
stato durante il processo. Quando
passavo e loro mi applaudivano
battendo le mani in maniera provocatoria». Paolo ha 52 anni, è un
imprenditore edile campano oggi
testimone di giustizia.
«Da anni avevo abbandonato la
mia terra e investito nel Veneto.
Le cose andavano bene, fino a
quando sono stato costretto a
chiedere un prestito. Avevo bisogno di 350mila euro per sistemare
alcune aziende nel padovano.
Niente banche, niente Confidi,
niente fondi a sostegno per le
imprese. Allora un collega mi ha
consigliato di chiedere aiuto a una
finanziaria. Si chiamava Aspide».
Quel nome passerà alla storia per
avere messo a nudo un sistema
di estorsione che riguardava circa
100 imprenditori taglieggiati dal
clan dei casalesi capeggiati da
Mario Crisci, conosciuto come ’o
dotto’, per le sue capacità manageriali. «Il 9 settembre del 2010
dovevo tornare in Campania. Era
morto mio padre. Mia moglie aveva preparato le valigie. Ma io ero
dietro al clan. Nessuno riusciva a
giustificarsi la mia assenza. Sono
tornato a casa che erano le 23. Facevo sempre tardi quelle sere. Ma
quella volta ho trovato mia moglie
e i miei figli in piedi ad aspettarmi per avere delle spiegazioni».
Inizia così il suo lungo racconto
Paolo, che per diversi mesi aveva tenuto nascosto alla famiglia
quello che stava passando. «Ho
capito subito che Aspide non era
una vera finanziaria – racconta a
«Narcomafie» (che della vicenda si era occupata sul numero
5/2011, ndr). I miei aguzzini mi
di Laura Galesi
“Io non ho paura”
24 | giugno 2012 | narcomafie
Attentati sui beni confiscati
Come l’araba
fenice
Sessanta ettari di terreno bruciati in dieci giorni. Grano, aranci,
ulivi ridotti in cenere. Dalla Puglia alla Sicilia. Una vera e propria
rappresaglia militare condotta con ogni probabilità da criminali
che non vogliono che i beni confiscati loro tornino a dare frutti.
Un grave colpo per le cooperative che su quei campi lavorano,
un colpo per i ragazzi pronti a trascorrere un’estate di lavoro
volontario. Ma ci si rimbocca le maniche e si riparte
Foto Libera Catania
di Marika Demaria
25 | giugno 2012 | narcomafie
Oltre sessanta ettari di terreno bruciati. Raccolti di grano,
arance, olive ridotti in cenere.
In dieci giorni. Dalla Puglia alla
Sicilia. Una vera e propria rappresaglia militare che sarebbe
stata condotta dalla criminalità organizzata ai danni di beni
confiscati ai mafiosi e affidati in
gestione a cooperative sociali o in
fase transitoria all’associazione
Libera (che di fatto non possiede
alcun bene, fatta eccezione per
la sede romana). Il condizionale
è d’obbligo, le indagini sono in
corso, ma è difficile credere che si
tratti di un coacervo di analoghe
situazioni, di figure piromani
che si sono aggirate di notte indisturbate prendendo di mira
sempre e solo i beni sui quali,
dalla metà di giugno, stanno
portando il proprio contributo di
volontariato giovani provenienti
da tutta Italia.
Don Luigi Ciotti, fondatore e
presidente di Libera, è risoluto: «Non possiamo pensare che
si tratti di coincidenze. Questi
atti di vandalismo non possono
lasciare indifferenti; quei beni
non sono solo uno schiaffo alle
organizzazioni criminali, uno
strumento per indebolirle in
ciò che le rende forti: l’accumulazione illecita di capitali.
Sono opportunità di lavoro, di
economia sana e trasparente e
prima ancora di cambiamento
culturale». Il primo incendio è
avvenuto il 2 giugno, in località Canalotto di Castelvetrano:
distrutti venti ettari di uliveto
sulla proprietà che fu di Gaetano
Sansone, lo stesso che possedeva la villa Bernini a Palermo
dove Totò Riina si nascose come
latitante. Il 6 giugno, le fiamme
hanno distrutto duemila piante
di arance rosse che sarebbero
state destinate alla produzione
della marmellata e cento alberi
d’ulivo: siamo in contrada Casablanca a Belpasso, in provincia
di Catania, su un bene confiscato
alla famiglia Riela ed ora intitolato a Beppe Montana. Si sono
calcolati danni per centomila
euro, mentre ammonta a circa la
metà il danno dell’incendio che
l’11 giugno ha mandato in fumo
sette ettari di terreno confiscato
a Carlo Contanna, stretto collaboratore di Pino Rogoli, uno dei
padri della Sacra corona unita:
due quintali di grano bruciati
a Mesagne, che sarebbero dovuti servire per la produzione
dei taralli. Infine, a distanza di
poche ore due incendi hanno
colpito Castelvetrano e Partanna, bruciando rispettivamente
dieci e venti ettari di uliveto. I
beni confiscati sulla prima delle
due località trapanesi sono stati
dedicati a Rita Atria e proprio
per il 12 giugno era prevista
la sottoscrizione della convenzione tra l’amministrazione e
l’associazione Libera in merito a
un bando da istituire per aprire
cooperative giovanili.
«Ritengo che questa successione
di fatti criminosi – ha sottolineato don Ciotti – sia stata scaturita
dall’iniziativa fatta dal Quirinale: per la Festa della Repubblica il Presidente Napolitano
ha chiesto che le tavole fossero
apparecchiate con i prodotti di
Libera Terra. Una cerimonia
semplice, sobria, ma densa di
significato, di segnali forti della
politica». Una politica alla quale
l’associazione Libera chiede di
rivedere alcuni inceppamenti
che riguardano proprio la legge
sui beni confiscati. «Centinaia
di beni sono stati confiscati ma
sono gravati da ipoteca bancaria,
quindi inaccessibili. Non ci si
preoccupa di restituire quei beni
alla collettività e nemmeno di
pensare a chi all’epoca accordò
l’accensione dei mutui ai mafiosi
e ai loro prestanome. Mettere in
vendita quei beni significherebbe
farli ricomprare dalla criminalità
organizzata. Sempre più spesso
sentiamo di operazioni condotte
dalle forze dell’ordine. Confische
di beni mobili ed immobili per
centinaia di migliaia di euro:
dove sono questi soldi? Perché
non possono essere destinati a
diventare uno zoccolo per l’avvio
delle cooperative sociali e a un
fondo indirizzato ai famigliari di
vittime delle mafie e ai testimoni
di giustizia?».
I terreni confiscati non sono stati
l’unico bersaglio preso di mira
nella prima decade di giugno. Si
sono registrati infatti nuovi atti
vandalici a Borgo Sabotino, nel
Villaggio della Legalità che fu già
distrutto lo scorso 21 ottobre e
che dal 25 al 30 luglio ospiterà
oltre trecento ragazzi dai 18 ai 30
anni che daranno vita alla terza
edizione del Raduno dei Giovani
di Libera. Infine, il referente di
Libera Reggio Calabria Mimmo
Nasone ha ricevuto una lettera
contenente esplicite minacce
di morte.
«Gli incendi e le intimidazioni
non fermeranno il nostro impegno. Contro questi atti – ha
concluso don Luigi Ciotti – il
“noi” del nostro Paese è chiamato in gioco e deve sentire forte
questo impegno nella lotta alla
criminalità».
COME SOSTENERE
Sono tantissimi gli attestati di
solidarietà pervenuti a Libera
e alle cooperative sociali colpite dagli incendi, che hanno
causato ingenti danni economici
alle coltivazioni. Per ripartire è
necessario investire nuovamente
e ognuno può contribuire. Basta
un piccolo gesto.
Le donazioni possono essere effettuate sul conto corrente postale
48182000 intestato a “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro
le mafie. Via IV novembre, 98 –
00187 Roma” o tramite bonifico
bancario utilizzando i codici Iban
della Banca Popolare Etica (IT83A
050 180 32 0000 0000 121900) o
della Unipol Banca (IT350 031 27
0320 6000 000000166).
Inoltre, chi volesse sottoscrivere
la campagna promossa dalla cooperativa sociale “Beppe Montana
Libera Terra” e dal coordinamento
provinciale Libera Pisa, può contribuire all’acquisto e alla piantumazione di nuove piante versando
dieci euro per ogni pianta che
intende donare (nella causale va
specificato “Un arancio per Belpasso”). Le coordinate bancarie
del conto corrente sono:
Coop. Soc. “Beppe Montana
Libera Terra” P.zza Duomo, 6
96016 Lentini (SR).
IBAN: IT 19 A 05018 04600
000000133562
(Banca Popolare Etica);
oppure “Ora Legale di Pisa”
IBAN: IT 38 N 0760114000
000003317574.
Per ulteriori informazioni
www.libera.it.
In memoria
di don Diana
di Marika Demaria
l’antimafiacivile
cosenostre
26 | giugno 2012 | narcomafie
Cinque colpi di pistola. Due alla
testa, uno esploso in faccia, l’altro
all’altezza della mano e l’ultimo
nel collo. Morì così don Peppe
Diana, il coraggioso prete di Casal
di Principe, ucciso dalla camorra
la mattina del 19 marzo 1994 per
il suo impegno nel contrastare la
criminalità organizzata. L’uomo
non perdeva infatti occasione
per scuotere gli animi dei suoi
fedeli, della gente della sua terra,
schiacciata sotto il giogo del controllo camorrista. Casalese. Con a
capo Francesco Schiavone. A tal
proposito, celeberrima è la lettera
che, in occasione della festività
natalizia del 1991, il sacerdote
distribuì in tutte le chiese di
Casal di Principe: Per amore del
mio popolo non tacerò.
«Se oggi don Peppe fosse qui,
avrebbe costruito lui tutto questo,
che è stato invece portato avanti
con energie sane dai suoi amici,
dai suoi ragazzi». Hic et nunc.
17 maggio 2012, Castel Volturno.
A parlare è don Luigi Ciotti, il
giorno dell’inaugurazione del
caseificio “Le terre di don Diana”
sorto a Castel Volturno. Qui si
produrrà la mozzarella della legalità (con latte di bufala fornito
dai titolari dell’azienda agricola
Ponterè Cecere di Cancello ed
Arnone, Alessandra e Nicola
Cecere), con rigoroso riconoscimento Dop, avendo il formaggio
superato tutti i test e gli esami
necessari per l’attribuzione di
questa dicitura.
Un percorso, come ha ricordato
Valerio Taglione dell’associazione Libera e del comitato Don
Peppe Diana, «iniziato esattamente sei anni fa, quando abbiamo compreso appieno che
alla memoria avremmo dovuto
affiancare l’impegno. Fin da subito abbiamo dovuto fronteggiare
chi infangava la figura di don
Peppe Diana, difendendo la sua
memoria e i suoi insegnamenti».
La delegittimazione. Un’ulteriore
forma di disprezzo verso le vittime della criminalità organizzata
da parte di quest’ultima e dei
suoi conniventi: si disse infatti
che l’omicidio del prete era a
sfondo passionale.
Sul palco, il giorno dell’inaugurazione, era presente anche
Emilio Diana, fratello del sacerdote. Un commosso pensiero è
andato anche al padre Gennaro, scomparso il 6 agosto dello
scorso anno, tra i firmatari del
protocollo “Simboli e risorse
delle comunità libere” che diede la stura al progetto che il 17
maggio si è concretizzato.
Il caseificio “Le terre di Don
Diana” rappresenta l’ultima, in
termini temporali, rivincita della
società civile impegnata nell’antimafia, resa possibile grazie
all’attuazione della legge 109/96
che prevede il riutilizzo sociale
dei beni confiscati ai mafiosi, in
aggiunta a quanto previsto dalla
legge “Rognoni-La Torre”.
dialogo tra antimafia virtuale e antimafia reale
a cura di Marcello Ravveduto
28 | giugno 2012 | narcomafie
Falcone e il coraggio
Mi è capitato molte volte di scrivere
nei motori di ricerca il nome di
Giovanni Falcone, ma non ho mai
registrato le indicizzazioni. Decido
di ripetere l’operazione e di trascrivere i risultati: Google 2.830.000
link, Youtube 4.940 pagine, Facebook 3.100 gruppi e 90 pagine
fan. Su Youtube, apro la pagina
contenente i primi 20 video riferiti
al giudice e carico il terzo perché
ha un titolo suggestivo: Giovanni
Falcone, eroe senza paura. La sequenza iniziale è un susseguirsi
di immagini della Palermo anni
Ottanta: automobili blindate in
cortei serrati, poliziotti di scorta
con giubbetti antiproiettili, la mole
mastodontica del palazzo di Giustizia. La voce narrante racconta:
«Con l’approssimarsi del processo
[il maxiprocesso, ndr] anche le
misure di sicurezza per i magistrati
del pool furono drasticamente aumentate. I giudici erano sotto scorta
24 ore su 24. Per permettere i loro
spostamenti le strade venivano
sgombrate mentre un elicottero
della polizia li sorvegliava dall’alto». Mentre il narratore pronuncia
quest’ultima frase si vedono Paolo Borsellino e Giovanni Falcone
uscire dalle auto per entrare in
Tribunale. L’immagine successiva è
il volto in primo piano di Falcone.
La voce fuori campo è quella della
giornalista Michelle Padovani che
gli domanda: «Giovanni Falcone è
un eroe, costretto a vivere 16 ore su
24 in un piccolo ufficio di acciaio
e cemento per lottare contro la
mafia. Non può assaporare i piccoli
piaceri della vita quotidiana. È vero
quello che dicono?». Il magistrato
guarda in basso, poi, accennando
un sorriso imbarazzato, risponde:
«Diciamo che c’è molto di vero.
Indubbiamente questo tipo di attività incide personalmente sulla
privacy. Questo non c’è dubbio».
La giornalista: «E come lo vive
lei?». Il giudice: «Mah! Direi con
rassegnazione [sottolinea la parola
con un sospiro guardando verso
l’interlocutrice, nda]». Michelle
Padovani: «Lei pare che abbia detto
che il vigliacco muore più volte al
giorno, il coraggioso una volta sola.
Questo significa che non ha paura?». Prima che Falcone risponda
parte una struggente melodia di
violini. Il magistrato parla: «L’importante non è stabilire se uno ha
paura o meno; è sapere convivere
con la propria paura, ma non farsi
condizionare dalla stessa. Il coraggio è questo, altrimenti non è più
coraggio, ma è incoscienza». Ora
sorride con tutto il volto. Spesso mi
sono domandato qual era la forza
da cui Falcone traeva il coraggio
cosciente della paura. Mi pare di
aver trovato la soluzione al quesito nell’art. 54 della Costituzione,
recante la disposizione sui doveri
dei pubblici funzionari: «I cittadini
a cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle
con disciplina ed onore, prestando
giuramento nei casi stabiliti dalla
legge». Mi viene in mente, allora,
la scena del film Giovanni Falcone
(1993) di Giuseppe Ferrara. Si vede
un giovane magistrato di spalle che
entrando in servizio giura fedeltà alla Repubblica. Il coraggio di
Falcone, quella triste ma risoluta
rassegnazione a vivere con dignità
una vita blindata, derivava da un
preciso senso del dovere, dalla consapevolezza che i pubblici funzionari sono al servizio della nazione
per difendere le libertà garantite
dalla Costituzione. Se i pubblici
funzionari si sentono al servizio
non della nazione ma di cittadini
ricchi e potenti, o se non assolvono
il proprio compito con disciplina
e onore, la Repubblica diventa
regno dell’arbitrio e ai deboli non
resta che subire la prepotenza dei
forti. Il magistrato è, invece, quel
funzionario che sancisce la regola
aurea della democrazia: la legge è
uguale per tutti. Per questo ci vuole
onore e disciplina. Non il malinteso
onore delle mafie, né la disciplina
della costrizione gerarchica, ma,
nel primo caso, quella particolare
superiorità ed eccellenza che dobbiamo alle persone oneste solo ed
esclusivamente in virtù della loro
onestà, in particolare l’onestà con
cui assolvono ai loro doveri pubblici; nel secondo caso mi riferisco alla
capacità dell’individuo di sottoporsi a regola e sforzo ordinato per
raggiungere un fine capito e voluto:
una disciplina sorretta da regole
e sanzioni, ma che è soprattutto
autodisciplina basata sul senso
del dovere. L’eccellenza del fine
e del servizio (svolgere funzioni
pubbliche incardinate negli ordinamenti repubblicani) esige un senso
dell’onore e della disciplina più
forte di quelli che è lecito esigere
dagli altri cittadini.
Ha scritto Maurizio Viroli: «Il dovere è libertà. È la libertà morale, la
più preziosa, perché senza di essa
le altre libertà avvizziscono, muoiono… Soltanto noi stessi possiamo
imporci un dovere, o, per usare
un linguaggio più classico, solo la
nostra coscienza può comandarci
il dovere… Detto altrimenti, per i
doveri dobbiamo rispondere a noi
stessi, e dunque alla voce interiore
della coscienza… Non siamo liberi
nonostante i doveri, ma grazie ai
doveri». Ora credo di aver capito il
significato recondito della sua affermazione e, se potessi, cambierei il
titolo del video che ho appena visto
in Giovanni Falcone, il coraggio
cosciente del dovere.
29 | giugno 2012 | narcomafie
Roma
inchiesta
Roma è un centro nevralgico per le attivita mafiose. Nella capitale le cosche puntano a riciclare denaro sporco attraverso
una penetrazione che per anni è avvenuta nel silenzio e nell’indifferenza. Oggi è il boato delle armi che risveglia le paure:
omicidi e gambizzazioni sconvolgono anche in pieno giorno
la città, riaccendendo eco mai spente dalla scena romana di
personaggi legati alla banda della Magliana. L’allerta è alta,
ma le forze dell’ordine sono sotto organico nelle periferie. Intanto gli sviluppi sulla vicenda della scomparsa di Emanuela
Orlandi alimentano la possibilità che si possa definitivamente
fare chiarezza sulla vicenda.
Fotografie di La città dei sanpietrini, Francesca Guadagnini,
Joao Xavi, Ismael Alonso, Leo D’Amico, Moyan Brenn
Roma
30 | giugno 2012 | narcomafie
Lo spazio
conteso
Omicidi, droga, gioco d’azzardo. In un contesto sociale ed
economico così fragile, le mafie hanno gioco facile nel rilevare
aziende in crisi, immettere capitali illeciti nelle imprese e trasformarle in “lavatrici” di soldi sporchi. Nella capitale la criminalità sta ridefinendo i propri equilibri e i nuovi spazi sono
occupati da una generazione cruenta e conflittuale
di Fabio E. Torsello
31 | giugno 2012 | narcomafie
La criminalità e il contesto
sociale. «Con un tasso di disoccupazione che nel Lazio
sfiora il 9% (il 30% tra i giovani) – afferma il prefetto – il
terreno di insediamento delle
mafie è quantomai fertile». Ma
a creare canali privilegiati per
le infiltrazioni criminali è soprattutto la crisi economica
che a Roma e nel Lazio sta letteralmente falciando centinaia
di aziende. Secondo i dati di
Confcommercio Roma e Lazio
diffusi nell’aprile scorso dal
presidente Giuseppe Roscioli,
«nella graduatoria completa che
indica il numero di fallimenti,
il Lazio è al secondo posto con
1.215 dopo la Lombardia. E nel
2011 – ha proseguito – quasi un
fallimento su tre è stato causato
da ritardi nei pagamenti. Si
stima che in Italia l’ammontare
complessivo dei crediti vantati
dalle imprese fornitrici verso la
Pubblica amministazione sia di
circa 60 miliardi di euro. Un
macigno che pesa soprattutto
sulle piccole e medie imprese,
impedendo loro di scommettere
anche sul breve e medio termine. Indubbiamente – ha spiegato – anche la crisi economica ha
contribuito ad aggravare questa
situazione. Infatti, il trend dei
ritardi in Italia in questi ultimi
quattro anni è quasi raddoppiato (+97,5%)». Mentre secondo
la Cna Commercio di Roma, nei
soli primi tre mesi del 2012
hanno già chiuso un migliaio
di negozi al dettaglio.
In un contesto sociale ed economico così fragile, le mafie hanno
quindi gioco facile nel rilevare
le aziende in crisi, immettere
capitali frutto di attività illecite
nelle casse delle imprese che
così diventano – loro malgrado
– “lavatrici” per i soldi sporchi
delle mafie. Il tutto – come
spesso accade – senza cambiare
ragione sociale, titolare o nome
all’impresa. Una prassi che il
sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia di
Roma, Diana De Martino, così
descriveva nel maggio scorso
durante un’audizione presso la
regione Lazio: «Come nelle altre
regioni a tradizionale presenza
mafiosa, in alcuni casi nel Lazio
si assiste a un’infiltrazione della
malavita organizzata nell’economia, anche attraverso un modello criminale di derivazione
economica, dove gli imprenditori si mettono spontaneamente
al servizio delle mafie, oppure
sono gli stessi mafiosi a operare
come gli imprenditori».
Ma la Capitale è anche caratterizzata da un crescente sviluppo urbanistico tale che nella
provincia di Roma risiedono
circa cinque milioni di persone,
di cui – secondo i dati forniti
dal prefetto – almeno 700mila
stranieri. Un contesto che, afferma Pecoraro, «impone necessariamente una revisione della
mappa dei presìdi territoriali
delle forze dell’ordine», ma che
si scontra con una drammatica
carenza di uomini e mezzi, spostati – di volta in volta – nelle
zone più “a rischio” e con la
chiusura di diversi commissariati cittadini.
La mappa criminale. Nell’elencare le presenze sul territorio
romano e laziale, il prefetto
parte da Cosa nostra. Sebbene
se ne parli ormai poco, la mafia
siciliana è attiva e presente a
Roma: «Le attività primarie
dei sodalizi operanti in Roma
– spiega il prefetto – si situano
in un vasto insieme di condotte
che spaziano dal traffico internazionale di sostanze stupefacenti, al reimpiego dei capitali
illeciti nei settori commerciali, immobiliari e finanziari, al
commercio delle autovetture. Si
rileva la presenza degli Stassi,
contigui alla famiglia trapanese
degli Accardo, con interessenze
in numerosi esercizi di ristorazione». Mentre sul litorale sono
stati rilevati «altri gruppi criminali di origine siciliana, quali
il gruppo Triassi, collegato alla
nota famiglia Cuntrera-Caruana,
e Picarella (cosca agrigentina di
Porto Empedocle), interessati
all’affidamento e alla gestione
dei lotti di spiaggia libera del
litorale di Ostia, nonché a gestire il narcotraffico».
Roma
Roma città aperta. Alle mafie. La Capitale, dove solo nel
2011 ci sono stati oltre trenta
omicidi, è sempre più terra
di conquista per la criminalità organizzata. Dalla droga,
all’edilizia, al gioco d’azzardo, all’usura, all’infiltrazione
nelle attività commerciali, la
Città eterna è da anni terreno
fertile dove ognuno può arare
la propria parte di orto. Una
pax mafiosa turbata – almeno
in apparenza – dalla serie di
omicidi che ha sconvolto la città e messo in allarme cittadini
romani e istituzioni.
Per capire quanto, in quale modalità e da quali mafie Roma sia
stata “infiltrata” è utile andare a
rileggere le carte della Commissione parlamentare antimafia
che nel settembre scorso ha
ascoltato sull’argomento i pm
della Dda romana e il prefetto
Giuseppe Pecoraro. Una panoramica – quella fatta dagli
inquirenti – che tenta di dare
anche una spiegazione degli
omicidi avvenuti in città.
L’audizione del
prefetto Pecoraro
Roma
32 | giugno 2012 | narcomafie
di Viviana Pansa
«Pur non riscontrandosi un vero e
proprio controllo del territorio da
parte della criminalità organizzata,
non si possono ignorare situazioni
di preoccupazione, soprattutto in
alcune aree, sia per la presenza
di referenti delle principali famiglie mafiose, camorristiche e della
’ndrangheta, sia per gli investimenti
conclusi dagli stessi». Così il prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro,
ha qualificato in Commissione antimafia la presenza delle principali
organizzazioni della criminalità
organizzata nel territorio romano
e in provincia. Presenza e attività
mafiose interessano anche il resto
del Lazio, in particolare le province
di Frosinone – dove risulta emergere
in maniera sempre più evidente
la penetrazione della camorra, in
particolare del clan dei Casalesi,
soprattutto per quanto riguarda il
ciclo dei rifiuti e degli inerti, insieme a reati di estorsione e usura – e
Latina – in cui si segnala una forte
presenza sia della camorra napoletana, sia della ’ndrangheta calabrese in
particolare a Fondi, Aprilia, Latina
e nel Sud Pontino.
Il prefetto chiarisce che i numerosi
ed efferati omicidi avvenuti nel
2011 – oltre 30, una scia di sangue
che ha toccato l’apice nei primi
giorni del 2012, con l’uccisione nel
quartiere di Torpignattara di Zhou
Zeng e di sua figlia di pochi mesi Joy
– non siano ascrivibili «ad attività
conflittuali interne alla criminalità
organizzata». Tuttavia ammette che
parte dei delitti siano sintomatici
«del tentativo da parte di criminali
locali emergenti di occupare spazi
determinati dalla disarticolazione
dei gruppi delinquenziali più importanti operata dalle attività poste
in essere dalle forze di polizia, in
particolare nel settore degli stupefacenti». Disarticolazione avvenuta
in gran parte con la cattura, nel
2009, di Michele Senese, a cui è
stata imputata la gestione di grossi
traffici di droga, proveniente anche
da Olanda e Spagna, in particola-
re nei quartieri sud-orientali della
città. Senese, affiliato in passato
alla Nuova famiglia e legato al clan
Moccia di Afragola, è tornato in
carcere all’inizio di febbraio, dopo
gli arresti domiciliari in una clinica
psichiatrica della capitale concessi
a seguito di una delle perizie che
gli sono valse l’appellativo di “’O
pazzo”.
Nella relazione il prefetto Pecoraro
entra nel dettaglio della presenza di
cosa nostra, camorra e ’ndrangheta
nel territorio laziale, ma parla anche
di criminalità organizzata straniera –
dedita a traffici di merce contraffatta,
al contrabbando, alla prostituzione,
alla vendita di stupefacenti, al traffico di migranti – e dei rapporti di
quest’ultima con quella italiana.
“Lazio e Roma sono zone in cui
la criminalità organizzata investe
somme ingenti per l’acquisizione
di rilevanti attività economiche,
soprattutto nel campo alberghiero
e della ristorazione», spiega Pecoraro. A dimostrazione delle sue
affermazioni, tra i casi più eclatanti
quello del Caffè Chigi, acquisito
dalla famiglia calabrese dei Gallico e
messo sotto sequestro della Dia nello
scorso mese di luglio, e del Café
de Paris, in via Veneto, acquisito
dagli Alvaro di Sinopoli (Reggio
Calabria), confiscato e oggi gestito in
amministrazione giudiziaria.
Roma è un centro privilegiato per
l’attività mafiosa perché qui le cosche possono puntare al riciclaggio
del denaro sporco e dei proventi
ricavati da traffici illeciti, attraverso
una penetrazione “morbida”, che
non desta allarme sociale, ma si
pone come obiettivo l’immissione e il reimpiego dei capitali nei
circuiti dell’economia locale. Una
penetrazione che non necessita il
contendersi di comparti economicoimprenditoriali, «per il semplice
motivo – sottolinea Pecoraro stesso
– che c’è posto per tutti».
Le organizzazioni criminali, mantenendo bassa la loro visibilità, orientano sempre più spesso l’attenzione
alle commesse pubbliche, la cui
assegnazione garantisce profitti consistenti e proietta i sodalizi all’interno di ambiti economici legali.
Proprio al tessuto economico occorre dunque guardare con maggiore
attenzione per scovare eventuali
infiltrazioni mafiose, coniugando
– come ha messo in luce il presidente della Commissione d’inchiesta, Giuseppe Pisanu – il sistema
repressivo-penalistico con quello
delle misure patrimoniali antimafia,
così da impedire l’articolarsi di un
compiuto tessuto mafioso.
Nella zona di Civitavecchia,
invece, nell’ambito dell’operazione “Civita-Memento” sono
state riscontrate le attività delle
famiglie gelesi dei Rinzivillo
ed Emmanuello, interessate
all’acquisizione di subappalti
e fornitura di manodopera per
i lavori della centrale di Torrevaldaliga Nord.
Ben più presente e ramificata
la ’ndrangheta, con attività che
vanno dalla ristorazione e dalla
gestione dei locali del centro
storico, al traffico di droga, a
traffici illeciti di diversa natura. È ancora il prefetto a fare il
quadro della situazione: «La
penetrazione criminale di tale
organizzazione mafiosa di origini calabresi ha avuto, secondo
le tendenze palesatesi negli
ultimi anni, un’accresciuta vitalità grazie alla presenza sul
suolo laziale di gruppi collegati
all’organizzazione madre, della quale hanno mantenuto la
fisionomia comportamentale,
permeata del notorio carattere
misterico-religioso, rituale e
simbolico, fatta di stretti legami familiari aventi vincoli di
sangue, di estrema cautela nel
muovere le fila organizzative,
di costanti collegamenti con i
territori di origine».
Nella capitale sono presenti i
rappresentanti di tutte le maggiori cosche calabresi, con «personaggi riconducibili alle famiglie mafiose calabresi Piromalli,
Molè e Alvaro – spiega Pecoraro
– che reinvestono copiosi capitali di provenienza illecita
in attività commerciali, sbaragliando la normale concorrenza
con conseguente alterazione
degli equilibri del mercato».
Gli Alvaro-Palamara, sottolinea
il prefetto, si sono specializzati
nella «costituzione di società
fittizie aventi per oggetto la
gestione di bar, paninoteche,
pasticcerie e ristoranti; circostanza, questa, favorita dalle
dimensioni e dalla vastità di
Roma, che favoriscono l’anonimato». Molti di questi, nel
centro storico, letteralmente
spartiti con la camorra per
quel che riguarda il controllo
delle attività commerciali. Un
dato sottolineato da Pecoraro:
«Alcuni rappresentanti degli
Alvaro-Palamara, che nell’arco
di pochissimo tempo si sono
trasformati da piccoli artigiani
locali a imprenditori di primissimo livello, hanno reinvestito
ingenti capitali verosimilmente
provenienti da traffici di droga
attuati sull’asse Germania-Italia,
per conto della cosca di appartenenza, comprando esercizi di
ristorazione nella zona di Roma
centro, con prezzi di acquisto
nettamente inferiori al valore
reale di mercato degli esercizi
in questione. Tra gli esercizi
commerciali sequestrati, risultano alcuni noti bar situati in
centralissime zone della capitale, tra cui lo storico “Café de
Paris”, il ristorante “George’s” e
altri importanti locali operanti
nel settore della ristorazione
(vedi il Gran Caffé Cellini, il
ristorante La Piazzetta, il ristorante Colonna Antonino, ndr),
nei cui assetti societari si sono
insinuati esponenti delle citate
famiglie».
È un’infiltrazione silenziosa,
quella delle mafie, che non
spara ma fa leva sulla grande
disponibilità di denaro delle
cosche, sempre pronte a venire
in soccorso di imprenditori in
difficoltà. Ed è nel giugno dello
scorso anno che scatta una delle
più importanti operazioni ai
danni di esponenti calabresi
della ’ndrangheta nel Lazio,
con il sequestro di quote di 18
società intestate a Domenico
Greco, ritenuto contiguo alla
’ndrina dei Gallico di Palmi
(Reggio Calabria) con un ruolo
– secondo gli inquirenti – di
fiancheggiatore, tra cui l’Antico Caffè Chigi, una villa di
29 stanze a Formello, due appartamenti a Fiumicino, conti
correnti e rapporti finanziari,
per un valore complessivo di
circa 20 milioni di euro. Il referente della cosca, come ha
Roma
33 | giugno 2012 | narcomafie
34 | giugno 2012 | narcomafie
Roma
dichiarato il colonnello Paolo
La Forgia, capo del centro Dia
di Roma, «ufficialmente era un
saldatore».
Roma, trampolino per la conquista del Lazio. Allargando il
cerchio poco fuori Roma, nel
circondario di Velletri, Nettuno
– sciolto per infiltrazioni mafiose a fine 2005 – e Anzio, operano esponenti legati ai Novella
e ai Gallace di Guardavalle,
attivi nel settore dell’edilizia,
delle truffe alle assicurazioni,
nel traffico di stupefacenti e di
armi. «Le nuove indagini sulla
’ndrina di Nettuno – ha spiegato
Pecoraro – che, pur mantenendo costanti collegamenti con la
cosca madre godeva di ampi
margini di autonomia, hanno
accertato che, dopo la rottura della storica alleanza tra le
famiglie Gallace e Novella, la
prima stava tentando di riorganizzarsi nel litorale romano
grazie ai supporto delle famiglie Andreacchio di Nettuno e
Romagnoli-Cugini di Roma».
Mentre Enzo Ciconte, già presidente dell’Osservatorio tecnico
scientifico per la sicurezza e
la legalità della regione Lazio
ricorda come «già nel 2007 in
altri tre centri (Pomezia, Formia, Minturno) indagini delle
forze dell’ordine individuarono tentativi di infiltrazione e
condizionamento del tessuto
politico o amministrativo locale
da parte delle organizzazioni
criminali».
Ma la ’ndrangheta ha anche
tutta una rete di fiancheggiatori,
funzionali a creare una base
operativa e di supporto a quanti
giungono nella regione. Nella
zona di Tivoli e Palestrina, ad
esempio, alcune famiglie calabresi legate alla ‘ndrina attiva
nella zona di Sinopoli, secondo
quanto spiega il prefetto, «non
pongono in atto comportamenti
criminali ma fungono da punto
di riferimento per le attività
economiche della ’ndrina, e
danno occasionalmente supporto a soggetti provenienti
dalla terra di origine». Una sorta
di piattaforma organizzativa e
logistica, un trampolino verso
la prosecuzione delle attività
nella capitale e nel Lazio.
Secondo quanto emerge dalla
relazione, inoltre, anche i comuni a nord di Roma registrano
la presenza di elementi collegati a formazioni criminali di
origine calabrese della zona di
Reggio Calabria (Africo, Melito
Porto Salvo, Bruzzano Zeffirio),
alcuni dei quali pregiudicati
per reati associativi. Si tratta di
famiglie tra loro legate da rapporti di parentela e residenti a
Rignano Flaminio, Castelnuovo
di Porto, Morlupo e Campagnano di Roma, tutti comuni che
“circondano” la capitale, sulla
direttrice verso Firenze.
La Camorra va sul litorale. Una
delle maggiori operazioni – coordinata dalla Dda di Napoli – è
quella del marzo 2011 ai danni
del clan Mallardo di Giuliano,
che ha portato al sequestro di
circa 900 immobili, 23 aziende
commerciali, circa 200 rapporti
bancari e numerose auto e moto
di lusso, per un valore complessivo stimato di oltre 600
milioni di euro. Gli inquirenti
hanno scoperto due holding
imprenditoriali operanti tra
Roma, Latina e Napoli. Oltre
alla Capitale, il clan operava
nella zona di Mentana, Monterotondo, Sant’Angelo Romano,
Fonte Nuova, Guidonia, Fiano
Romano, Capena e Montecelio.
Il centro dell’organizzazione
era a Fonte Nuova, comune
nato poco più di dieci anni
fa, il 15 ottobre 2001. «Una
cellula operativa del predetto
clan – spiega Pecoraro – si era
infiltrata nel mondo dell’imprenditoria lecita, in particolare
nel settore edilizio, e aveva
costituito, grazie alla collaborazione di soggetti esperti e fidati,
numerose società immobiliari,
operando anche in accordo con
esponenti del clan dei casalesi
in una sorta di joint venture
criminale. L’organizzazione
controllava, inoltre, la lavorazione e la distribuzione del
caffè Seddio, anche attraverso
imposizioni di tipo estorsivo,
nonché a mezzo di prestanome,
agenzie di scommesse sportive
ed attività di commercio all’ingrosso di prodotti medicali e
parafarmaceutici».
E tra gli esponenti di spicco
della camorra arrestati a Roma,
Emilio Esposito, facente capo ai
Casalesi, arrestato il 23 luglio
scorso in zona Tiburtina.
Particolarmente “caldo” il litorale romano. Nella zona di
Acilia, ad esempio, viene tenuta
sotto osservazione la famiglia
degli Iovine, il cui capo Mario
Iovine, nipote del noto boss di
camorra appartenente all’area
dei casalesi, secondo il prefetto «ha da tempo creato una
vera e propria base logistica
per avviare attività di copertura nell’ambito della gestione
di sale da gioco (videopoker
e scommesse on-line) e della
ristorazione, in modo da poter
svolgere in tranquillità quelle
illecite, stringendo forti legami anche con elementi della
criminalità locale e fornendo
appoggio logistico a latitanti di
camorra, tra i quali, sembrereb-
35 | giugno 2012 | narcomafie
Il clan Senese. Ma tra le famiglie più importanti che hanno
segnato in modo irreversibile
gli ultimi anni della storia
criminale della capitale, c’è il
clan Senese. Proprio l’arresto
di Michele Senese, infatti, ha
lasciato un vuoto nel mercato
dello spaccio di stupefacenti
che diverse bande starebbero
ora tentando di colmare a forza
di omicidi e gambizzazioni. Il
21 gennaio 2009, a Roma, a
conclusione dell’operazione
denominata “Orchidea”, i carabinieri del raggruppamento
operativo speciale (Ros) disarticolarono una ramificata
struttura criminosa dedita
al traffico internazionale di
hashish e cocaina, proveniente
da Olanda e Spagna. A capo
del sodalizio c’era Senese Michele, di cui – si legge nella
relazione della Commissione
parlamentare antimafia – erano «ben noti i legami camorristici con i vertici della famiglia
Moccia di Afragola per conto
della quale, negli anni Ottanta,
unitamente ad altri membri
del suo entourage familiare, ha
militato nella storica confederazione camorristica denominata
“Nuova Famiglia”».
La criminalità “locale”. Ex
Banda della Magliana, Casa-
monica, Fasciani. Roma ha un
nutrito numero di “famiglie” e
organizzazioni criminali storiche ancora molto attive sul
territorio. Oltre a ex esponenti
della Banda della Magliana –
dediti soprattutto alle rapine
e al traffico di stupefacenti – i
Casamonica sono gli usurai
storici della Capitale, dediti
anche – come hanno evidenziato numerose indagini – al
commercio di droga. Insieme
a loro, i Fasciani, attivi soprattutto sul litorale e in contatto con la famiglia Nicoletti.
E proprio l’operazione “Los
Moros-Madara” del Comando provinciale dei carabinieri
nel 2009 ha disarticolato un
“sodalizio criminoso dedito al
narcotraffico internazionale che
aveva come base di riferimento
il noto stabilimento balneare
di Ostia denominato “Village”, con annessa discoteca e
ristorante, tutto riconducibile
al pregiudicato Carmine Fasciani, elemento apicale della
criminalità romana”.
Le mafie straniere. La criminalità straniera nel Lazio –
spiega Pecoraro – si atteggia su
due direttrici: «La prima – che
interessa i gruppi organizzati
serbo-montenegrini, nigeriani, albanesi, rumeni e sudamericani – opera soprattutto
nei crimini tradizionali quali
il traffico di stupefacenti, il
racket della prostituzione, le
rapine; la seconda – costituita
essenzialmente dai cinesi –
agisce all’interno del circuito
commerciale e finanziario connesso alla contraffazione e al
contrabbando delle merci». Tra
le operazioni di rilievo, “Città
proibita” che, nel gennaio 2011,
ha portato al sequestro preven-
tivo di beni per nove milioni di
euro, accumulati da un’associazione criminale con base nella
Capitale, composta da cinesi e
dedita all’importazione e alla
commercializzazione di oggetti
contraffatti.
Money transfer e rimesse.
Un capitolo a parte meritano i
money transfer (vedi intervista
p. 46), principali canali di invio
di rimesse all’estero, da sempre sotto la lente della polizia
tributaria. Attraverso le filiali
money transfer, infatti, spesso
viene inviato all’estero denaro
frutto di attività illecite o – di
contro – vengono pagate merci
contraffatte spedite in Italia per
cui non è possibile emettere
fattura. E numerose sono state
le operazioni della Guardia di
finanza che hanno evidenziato
pratiche scorrette durante l’in-
Roma
be, Antonio Iovine», arrestato
nel novembre 2010 dopo quasi
quindici anni di latitanza.
Nelle zone di Ladispoli, Cerveteri, Santa Marinella e Civitavecchia, invece, è stata accertata la presenza di sodalizi
camorristici attivi nel narcotraffico, una compagine criminale
molto attiva anche nella zona
di Fondi, Latina, Aprilia e più
in generale nel Pontino.
A Roma nasce la Consulta
provinciale antimafia
Roma
36 | giugno 2012 | narcomafie
di Viviana Pansa
A fine marzo si è insediata a Roma
la Consulta provinciale antimafia, organismo la cui costituzione
si deve a una delibera approvata
all’unanimità del consiglio provinciale della capitale il 3 novembre
scorso. Una decisione maturata solo
alcuni giorni dopo la conclusione
dell’audizione del prefetto di Roma,
Giuseppe Pecoraro, alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla
mafia e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, presenti nel
nostro paese. La Provincia ha quindi
da oggi a disposizione un tavolo
di lavoro utile ad approfondire la
conoscenza e la consapevolezza di
quanto il fenomeno della criminalità organizzata sia presente anche
a Roma e provincia, così come da
tempo dimostrano episodi – sempre
più violenti – di cronaca nera e come
conferma la stessa relazione di Pecoraro alla Commissione, insieme agli
interventi svolti in quella sede.
La Consulta nasce quale “organo
permanente di controllo” – si legge
sul sito internet della Provincia –
promuovendo la messa in rete di
agenzie per la sicurezza, sindaci,
rappresentanti di polizie locali, associazioni e movimenti della società
civile che si occupano di legalità
e sicurezza. E proprio il “salto di
qualità” di questa chiamata a raccolta della società civile è il valore
aggiunto per una più efficace lotta
contro la criminalità organizzata che
il presidente della provincia, Nicola
Zingaretti, ha sottolineato intervenendo nel corso dell’insediamento
ufficiale della Consulta.
Tra le iniziative che quest’ultima si
propone di realizzare, progetti di
informazione e formazione rivolti
a cittadini ma anche a dipendenti
ed eletti di comuni e Provincia di
Roma; intese e accordi con enti
pubblici ed associazioni di categoria
per il coordinamento di azioni di
contrasto alla criminalità organizzata; azioni di monitoraggio sullo
stato dei beni confiscati nella provincia e sulla regolare assegnazione
di appalti pubblici o fornitura di
servizi sul territorio.
Obiettivo principale sarà quello di
promuovere, attraverso un confronto permanente sui problemi legati
alle infiltrazioni della malavita organizzata nell’area metropolitana
di Roma, iniziative di contrasto
che possano coinvolgere la stessa
società civile, accrescendo la cultura
della legalità nel territorio, baluardo
contro il degrado urbano e stimolo
ad una partecipazione più attenta
alla vita cittadina.
Nel regolamento è indicato inoltre
quale compito principale dell’organismo la redazione di un “rapporto
annuale sulle infiltrazioni mafiose
nell’area metropolitana di Roma
e sulle politiche di contrasto alla
criminalità organizzata sul territorio provinciale”. Un attento monitoraggio di ciò che avviene sul
territorio avrà come finalità anche
l’identificazione di buone pratiche
amministrative la cui adozione, insieme a quelle già sperimentate sul
territorio nazionale, sarà proposta al
consiglio provinciale, alla giunta e
ai comuni della Provincia.
Oltre a un presidente – Franco La
Torre, figlio di Pio La Torre, parlamentare siciliano che propose
una norma per introdurre nell’ordinamento italiano il reato di associazione mafiosa – fanno parte di
diritto della Consulta l’assessore
della Provincia di Roma con delega alla sicurezza, due consiglieri
provinciali (Enzo Ercolani e Marco
Scotto Mavina), il comandante della
Polizia provinciale, un rappresentante dell’Agenzia nazionale dei
beni sequestrati e confiscati alla
mafia e un rappresentante della
Prefettura. L’iniziativa è maturata
nell’ambito del progetto “Provincia
senza mafie” illustrato dal presidente della provincia Zingaretti in
occasione della giornata di studio “Il
Governo locale e il contrasto delle
infiltrazioni mafiose”, nel novembre scorso. Esso prevede inoltre la
costituzione della Provincia quale
parte civile nei processi di mafia,
la creazione di una Stazione unica
appaltante per i lavori pubblici
e l’acquisizione di beni e servizi,
l’adesione della Provincia all’associazione Avviso pubblico-Enti
Locali e Regioni per la formazione
civile contro le mafie, l’avvio di una
collaborazione con la casa editrice
Aliberti per la realizzazione di un
dizionario enciclopedico sulle mafie
in Italia e altri progetti di promozione della cultura della sicurezza
e della legalità nelle scuole.
Alla Consulta hanno già comunicato
la loro adesione 45 tra associazioni
e sindacati (tra esse Libera, Federconsumatori Lazio, Legambiente
Lazio, Federalberghi, Cgil, Sos
impresa e daSud), 26 comuni – tra
cui Anzio, Albano, Ariccia, Guidonia Montecelio, Marino, Castel
Gandolfo, Rocca Santo Stefano e
Cave – e 8 municipi. Un intervento
polemico, formulato dal consigliere
comunale del Pd Paolo Calicchio,
è stato invece sollevato a proposito
della mancata adesione – a oggi –
all’iniziativa da parte del comune
di Fiumicino.
Proprio la presenza di scali aerei – e
marittimi – internazionali era stata
segnalata da Pecoraro quale elemento che di fatto favorisce la presenza
sul territorio della criminalità organizzata, da sempre interessata al
transito e alla commercializzazione
di un elevato e costante flusso di
sostanze stupefacenti. «Strategiche
sono le investigazioni nel settore del narcotraffico perché utili a
ricostruire alleanze ed equilibri
interni alle varie organizzazioni,
italiane e straniere, della criminalità
organizzata», ha affermato a questo
proposito il prefetto.
A Pecoraro è stata inoltre indirizzata in queste settimane anche una
lettera di Paolo Masini (Pd) che da
tempo sollecita l’approvazione da
parte del consiglio comunale di
Roma di una delibera che prevede
l’istituzione di un delegato comunale contro le mafie.
37 | giugno 2012 | narcomafie
la periferia romana, vennero
ritrovate 500mila tonnellate
di merce (soprattutto capi di
abbigliamento, calzature e occhiali), proveniente dalla Cina,
in gran parte contraffatta o di
contrabbando, contenente in
alcuni casi cromo esavalente,
altamente tossico.
Tra le attività più redditizie
delle mafie straniere, lo sfruttamento della prostituzione. Nel
2011 la questura di Roma, con
le operazioni “Grande capo”,
“China house” e “Said”, ha
portato a termine tre importanti
indagini che hanno consentito
di sgominare associazioni a delinquere gestite da cittadini di
nazionalità cinese, rumena e, in
un altro caso, magrebina, dedite
allo sfruttamento della prostituzione e al favoreggiamento
dell’immigrazione clandestina,
attive anche su altre province
del Lazio tra cui Frosinone e
Latina. In alcuni casi, come
nell’operazione “Said”, il sodalizio criminale era impegnato
nella ricettazione e nell’utilizzo
di documenti falsi e di permessi
di soggiorno rubati.
«I colombiani – spiega Pecoraro
descrivendo una panoramica dei rapporti criminali tra
mafie straniere e italiane sul
territorio romano – agiscono
in collegamento diretto con
elementi della ’ndrangheta calabrese. I cinesi hanno rapporti
con sodalizi criminali vicini ad
ambienti di camorra (tant’è che
viene utilizzato principalmente
il porto di Napoli) nell’attività
di import-export delle merci
contraffatte, contrabbandate e
tossiche e di successivo reinserimento sul mercato. I nigeriani si relazionano con altri
gruppi italiani, specialmente
camorristi, per il traffico di dro-
ga. Gli slavi (ungheresi, rumeni e
bulgari) sono in contatto con la
criminalità organizzata russa per
gli skimmer, cioè la clonazione di
bancomat e carte di credito».
Gli omicidi nella Capitale. Pecoraro conclude spiegando le
cause dei numerosi omicidi
avvenuti a Roma nel 2011.
All’epoca della sua relazione alla Commissione, nella
capitale erano stati registrati
27 morti ammazzati. I fatti,
secondo il prefetto, non sono
però ascrivibili «ad attività
conflittuali interne alla criminalità organizzata. Questa è
sintomatica, peraltro solo per
alcuni di essi, del tentativo
da parte di criminali locali
emergenti di occupare spazi
determinati dalla disarticolazione dei gruppi delinquenziali più importanti operata dalle
attività poste in essere dalle
forze di polizia, in particolare
nel settore degli stupefacenti.
Non a caso si faceva riferimento alla cattura nel 2009 del
camorrista Michele Senese
che a Roma era il boss degli
stupefacenti. La situazione
– prosegue il prefetto – incoraggia alcune neo-costituite
strutture delinquenziali nel
ridisegnare in proprio favore
gli equilibri e i poteri nella
gestione di attività delittuose.
In considerazione di quanto sopra, non essendoci soggettività
criminali in grado di assumere
un ruolo egemone, i vuoti aperti
vengono colmati da una nuova generazione di criminali,
violenti, meno riflessivi, più
inclini all’esercizio della forza
che alla mediazione, soliti
ricorrere alle armi per gestire
le dinamiche conflittuali con i
gruppi o soggetti ostili».
Roma
vio di denaro: ingenti somme
parcellizzate al di sotto della
soglia massima consentita,
destinatari o mittenti fittizi,
documenti falsi ecc.
Per rendersi conto del volume
di denaro inviato dagli stranieri
residenti in Italia verso l’estero,
basti pensare che nel 2011 dal
nostro paese sono usciti 7,4
miliardi di euro. Secondo i
dati diffusi dalla Fondazione
Moressa, tra tutti i paesi la Cina
è quello a cui viene inviato il
maggior volume di rimesse con
2,5 miliardi di euro, seguito
da Romania (894 milioni di
euro), Filippine (601 milioni di
euro) e Marocco (299 milioni
di euro). Le principali nazioni
di destinazione mostrano un
aumento nell’ultimo anno, ad
eccezione delle Filippine che
mostrano un -19,1%. Per la
Cina la variazione si attesta
addirittura al +39,7%, per la
Romania si tratta del +3% e per
il Marocco il +5,8%. Quanto a
rimesse procapite, ciascun cinese residente in Italia invia in
patria poco più di 12mila euro
a testa, il valore più elevato tra
tutte le nazionalità. Questo significa che ogni cinese in Italia
“mantiene” 3,9 cinesi in Patria
e che a livello complessivo si
tratta di oltre 800 mila di cinesi.
Roma è la provincia dalla quale
defluisce il maggior volume di
rimesse verso l’estero: si tratta
di 2 miliardi di euro, pari a oltre
un quarto di tutte le rimesse che
escono dall’Italia. Seguono a
ruota Milano, Napoli e Prato.
E spesso gli ingenti invii verso
la Cina nascondono in realtà
pagamenti di merce contraffatta
o sono il frutto della vendita
di prodotti non originali. Nel
febbraio 2010, ad esempio,
presso alcuni capannoni del-
Roma
38 | giugno 2012 | narcomafie
Cronologia
della mattanza
Un vero e proprio bollettino di guerra. A Roma nel 2011 si
sono accertati oltre trenta omicidi e decine di gambizzazioni.
Nelle zone limitrofe la situazione è analoga e nell’anno in corso
la situazione non conforta
Una vera e propria mattanza con
33 omicidi e una ventina di sparatorie. Il 2011 per la città amministrata da Gianni Alemanno è
stato l’annus horribilis sul fronte
della lotta alla criminalità, con le
forze dell’ordine sempre un passo
indietro rispetto alle bande che si
sono contese il territorio a colpi
di pistola e omicidi.
Omicidi e gambizzazioni.
A chiudere il 2011, una gambizzazione nel quartiere di San
Lorenzo – il 29 dicembre – ai
danni di un pregiudicato ca-
tanese di 45 anni. Solo pochi
giorni prima, il 23, Gioacchino
Aiano – un pregiudicato di 50
anni con precedenti per droga,
ricettazione e rapina – era stato
gambizzato in Largo Ferruccio
Mengaroni, nel quartiere di Tor
Bella Monaca. Mentre il 18 dicembre un albanese veniva ferito
a colpi di pistola nel quartiere
Casilino. E albanese era anche
l’ennesima vittima di un agguato
non mortale nella filiale Snai di
via Colombi, sempre nel quartiere Casilino, avvenuto appena
tre giorni prima.
Nella capitale si è sparato ovunque e a ogni ora del giorno.
Anche in pieno centro storico,
nella centralissima via della
Scrofa, dove il 10 novembre un
gestore di una sala giochi viene
colpito da tre colpi di pistola alle
gambe. Pochi giorni dopo, il 22
novembre 2011 alle cinque del
pomeriggio, in via Forni a Ostia,
vengono uccisi due pregiudicati già appartenuti alla banda
della Magliana e legati a Paolo
Frau: “Baficchio” e “Sorcanera”,
all’anagrafe noti come Giovanni
Galleoni e Francesco Antonini.
I due 40enni erano stati arrestati in passato con le accuse
di associazione a delinquere
di stampo mafioso finalizzata
al gioco d’azzardo, all’usura,
all’estorsione e al traffico di
sostanze stupefacenti. Galloni,
colpito all’inguine e al torace
è morto sul colpo mentre Antonini ha cercato inutilmente
rifugio in un locale. Nel 2009
era stato ucciso con le stesse
modalità anche Emidio Salomone, considerato capo del clan
e di cui Baficchio e Sorcanera
erano “luogotenenti”. Ma nella
Roma criminale l’impressione
è che nel 2011 si sia cercato di
tappare le falle del sistema di
vigilanza e prevenzione, vittima di una carenza cronica di
uomini e mezzi.
Le gambizzazioni: elemento che
ha caratterizzato tanti fatti di
cronaca del 2011. Il 2 febbraio,
infatti, un uomo viene ferito
da un proiettile in via di Tor
Pagnotta, in zona Esposizione:
a sparargli due uomini in sella a
uno scooter che avrebbero fatto
fuoco dopo averlo rapinato del
portafogli e del cellulare.
Passa meno di una settimana e
a Roma, in via di Torrevecchia,
avviene l’ennesimo omicidio:
con un colpo in testa viene
freddato Mario Maida, un meccanico, ucciso forse per una
faida familiare iniziata nel 2005
con l’omicidio del nipote, Andrea Bennato. Maida era stato
condannato a 12 anni nel 2008
ma era stato rimesso in libertà:
«Da sei anni nessuno lo proteggeva più», dissero in quartiere.
Mentre il 21 febbraio tocca a
Marco Zioni, pregiudicato romano ucciso a Montespaccato
da due killer in scooter per
problemi legati probabilmente
a un bambino conteso.
E non passa un mese che gli inquirenti capitolini hanno a che
fare con l’ennesimo cadavere. Il
5 marzo, il corpo di un uomo di
circa 30 anni e probabilmente
dell’Est Europa, viene rinvenuto
sul ciglio della strada a Torvajanica (Roma), tra via Ponente
e via Monreale.
E se sono gli omicidi a fare
notizia, le più numerose sono
proprio le gambizzazioni: i
killer affiancano in scooter la
vittima ed esplodono raffiche
di colpi in pieno giorno. Una
prassi che ha aperto anche il
2012, con un agguato ai danni
di un ex esponente dei Nar,
ferito a Tivoli mentre il giorno
successivo, a Roma, venivano
uccisi Zhou Zeng – un cinese
di 32 anni, titolare di una filiale
di Money Transfer – e la sua
bambina di nove mesi. Obiettivo
dei rapinatori, pare, l’incasso
dell’attività di trasferimento di
denaro all’estero.
Pochi giorni dopo, l’8 gennaio,
una notizia che non raggiunge le
cronache nazionali ma è legata
in qualche modo a un omicidio
che scosse la Capitale nel luglio
2011: muore suicida il cugino di
Flavio Simmi, Davide, trovato
impiccato nel suo appartamento in via della Cisterna, zona
Trastevere.
Mentre il 24 gennaio viene ucciso in pieno giorno l’immobiliarista Antonio Maria Rinaldi,
64 anni, freddato nel garage condominiale in via del Fontanile
Arenato, alla Pisana. L’uomo era
già noto alle forze dell’ordine
per un precedente del 1998,
legato agli stupefacenti.
Tre giorni dopo, il 27 gennaio,
viene ucciso a colpi di pistola
e poi bruciato Salvatore Polcino, 52 anni. Il suo corpo viene
ritrovato nelle campagne della
periferia romana, a Borgo Santa
Fumia. Per il delitto vengono
fermati un 21enne di Ardea
(Rm) e altri due pluripregiudicati originari della Calabria e
della Sicilia.
Accoltellamenti. E nel mese di
novembre 2011, nella Capitale
si registrano altri due ferimenti
all’arma bianca (il 10 e il primo
del mese). Un altro accoltellamento avviene il 14 ottobre
nel garage di un supermercato
romano, senza vita resta Fabio
Severini, di 43 anni. Vicende
minori che con difficoltà sono
arrivate alle cronache nazionali
ma hanno contribuito a rendere
Roma
39 | giugno 2012 | narcomafie
È il ritorno delle Erinni?
intervista a Otello Lupacchini
Roma
40 | giugno 2012 | narcomafie
di Fabio E.
Torsello
Omicidi, eco lontane di criminali
mai scomparsi dalla scena romana, sparatorie che ormai in pieno
giorno sconvolgono la Capitale.
In molti sussurrano il nome della
banda della Magliana. Stanno tornando? Per capirlo, «Narcomafie»
ha incontrato il magistrato che
ha destrutturato la banda, Otello
Lupacchini. Musica in sottofondo,
la scrivania piena di carte e una
libreria con decine di volumi su
terrorismo, crimine organizzato
e filosofia, il giudice ha tracciato
una panoramica del fenomeno:
De Pedis e sodali, sembrano ormai relegati a meri protagonisti
di un “Romanzo criminale” che
poco o nulla ha a che vedere con
la realtà attuale.
Gli omicidi dello scorso anno
e del 2012, per cui più volte è
stata chiamata in causa la banda
della Magliana, in quale quadro
criminale si inscrivono?
Potrebbe sembrare una banalità,
ma occorre ribadirlo con forza:
Roma è ormai un territorio conquistato dalla criminalità organizzata.
Capitale e provincia detengono il
triste primato in tutto il Lazio per
il numero degli omicidi volontari,
delle estorsioni, del riciclaggio e
del reimpiego di denaro in attività
illecite.
Detto questo, goldonianamente,
veniamo a dire il merito.
Nel corso dell’ultimo decennio,
sono avvenuti a Roma e Provincia
svariati fatti di sangue ascrivibili
a scontri e contrasti nell’ambito
del crimine organizzato e che
hanno coinvolto personaggi, in
qualche misura, già partecipi delle
vicissitudini della Banda della
Magliana.
In proposito, se si vogliono evitare fuorvianti semplificazioni e
suggestive interpretazioni degli
avvenimenti, occorre convenire su un punto: la liquidazione
giudiziaria di quel sodalizio è
avvenuta nel periodo a cavallo del
1993. Oggi, dunque, non si può
più parlare di riemersione, quasi
si trattasse di un fiume carsico,
della Banda della Magliana, né
come realtà associativa né come
fenomeno criminale, fortemente
e specificamente caratterizzato,
perché ormai esauritosi definitivamente: ci troviamo piuttosto di
fronte alle gesta di sopravvissuti
della vecchia organizzazione,
scampati al processo o magari
alla condanna o, comunque, tornati in libertà, dopo carcerazioni
più o meno lunghe.
In ogni caso, non può tacersi che
i numerosi fatti di sangue verificatisi negli ultimi anni a Roma
e nel suo hinterland, divenuti
numerosissimi, sia per quel che
attiene agli omicidi sia per quanto
concerne gli episodi di “gambizzazione”, negli ultimi due anni, così
per le modalità esecutive come
per le caratteristiche soggettive
delle vittime, sono maturati a
seguito di contrasti insorti tra
gruppi rivali. Essi, se di certo
hanno contribuito ad accendere
i riflettori su una provincia da
“Romanzo criminale”, tuttavia
sono inequivocabilmente sintomatici della vastità del fenomeno
della delinquenza organizzata che
inquina ormai irrimediabilmente
il tessuto sociale, economico e,
dunque, lato sensu politico, della
Capitale, al punto che non esito
a definire criminale, prima che
non più tollerabile, perché mai
disinteressato, qualsiasi tentativo
di rimozione del problema semplicemente negandolo, magari
ignorandolo o, peggio, diffondendo un’immagine mistificata del
fenomeno, attraverso meccanismi
di comunicazione tanto più rassicuranti quanto più truffaldini.
È doveroso, insomma, riconoscere
che Roma attira le organizzazioni criminali, mafiose e non, sia
perché Roma è una piazza commerciale di primo piano nello
scenario nazionale, specie, ma
non soltanto, per quanto riguarda
il consumo di droghe, sia perché
è il centro del potere politico e
qui vengono prese le grosse decisioni sui grossi investimenti e
sui grandi appalti.
Dopo l’arresto di Michele Senese, come è cambiata la scena
criminale a Roma?
Sarà stato senza dubbio un caso,
ma a seguito dell’arresto di Michele Senese si è assistito a una
recrudescenza dei crimini violenti, al centro dei quali troviamo
oltre a incensurati o piccoli malavitosi anche, se non soprattutto
vecchie conoscenze degli annali
criminali. E molto spesso, se non
sempre, accade che gambizzazioni, ferimenti, omicidi consumati o
tentati, con contorno di minacce
anonime, pestaggi e sequestri di
persona, vengano liquidati alla
stregua di regolamenti di conti
fra malavitosi, di avvertimenti,
di esplodere improvviso di vecchi e mai sopiti rancori, magari
anche di vendette per fatti di
corna. Qualcuno, malignamente,
insinua tuttavia che sia in atto
una guerra in cui si contrappongono coloro che combattono per
la conservazione di vecchie leadership e chi, invece, lo fa per
imporre una nuova governance
delinquentesca.
Come si pongono le “grandi
mafie” nei confronti di questi
omicidi?
Diciamo innanzi tutto che è in atto
un processo di evoluzione della
criminalità organizzata dinamico
e al passo con i tempi. Il tessuto
cittadino di Roma è strategico
per il rifugio dei latitanti, ma è
anche terreno fertile per mercati
illeciti più sofisticati, quali appalti
pubblici e imprenditoria piratesca, attraverso la nuova tecnica
del leverage buy out. Il traffico
della droga e della prostituzione
come pure il gioco d’azzardo
41 | giugno 2012 | narcomafie
e Novella sono orientate verso il
settore degli appalti pubblici. In
un simile fervore d’affari è evidente che si sviluppino gli appetiti
e che, per riempire gli spazi che
si liberano, possa scatenarsi la
guerra di tutti contro tutti.
La recente sparatoria di Spinaceto è sembrata a molti una
trappola. Chi era la vittima? È
plausibile parlare di un complotto?
Più che di complotto, nella morte
di Angelotti vedo una sorta di nemesi: quando venne ucciso Enrico
De Pedis, si disse che qualcuno
avesse propiziato l’incontro, in
via del Pellegrino, fra Renatino e
Angelotti, per trattare una partita
di gioielli, consegnando in tal
modo la vittima agli assassini.
Chissà che quello stesso qualcuno non abbia sussurrato ad
Angelotti che c’era a Spinaceto
un campionario di gioielli in partenza per una mostra al di là delle
Alpi, traendolo così al campo del
massacro. La sensazione, e sottolineo sensazione, visto il valore
esiguo della posta in gioco, è che
le Erinni possano essere tornate a
riprendersi il posto lasciato una
volta alle Eumenidi.
L’estate di sangue. E la scia di
omicidi e ferimenti ha caratterizzato anche l’estate romana.
Il 20 settembre, nel quartiere di
San Basilio, viene ucciso Ennio
Lupparelli, di 68 anni, il giorno
prima, in zona Portuense, viene
gambizzato un pregiudicato romano di 32 anni (ai soccoritori
ha racconterà di essersi ferito
da solo). Pochi giorni prima,
il 16 settembre, alcuni killer
avevano tentato di uccidere
un pregiudicato romano di 46
anni, in via Ferruccio Mengaroni (zona Tor Bella Monaca),
mentre il giorno precedente un
giovane di 21 anni era stato
ferito a colpi d’arma da fuoco
in zona Laurentino, in via Pico
della Mirandola.
Ma a fare scalpore, il 23 agosto 2011, è stato l’omicidio di
Eduardo Sforna, un giovane
incensurato di 18 anni, pioniere
della Croce rossa italiana che
lavorava come fattorino in una
Roma
sono i business principali. La
mappa dello spaccio è suddivisa
secondo i quartieri e le borgate:
San Basilio, Tor Bella Monaca,
Termini e San Lorenzo; nella
lista figurano anche i quartieri
del Pigneto, Montesacro, Tor
Vergata ed Ostia. L’aeroporto di
Fiumicino è sempre più spesso
luogo di arrivo di corrieri di
droga. La prostituzione è presente su tutta la Capitale anche
nelle zone più centrali, ma con
una forma diversa: le prostitute si trasformano in escort ben
vestite ed eleganti. Gli affari li
curano personalmente attraverso
il passaggio di biglietti da visita. Le strade dove si riscontra
una maggiore concentrazione
di prostitute sono Via Salaria,
via Prati Fiscali, viale Palmiro
Togliatti, Villaggio Olimpico,
via Cristoforo Colombo, Piazza
dei Navigatori in primo luogo.
Poi via Tiburtina, via Portuense,
via Aurelia, via di Malagrotta.
E in centro storico: via Marsala
(soprattutto trans), via Urbana e
piazza degli Zingari nell’area di
Santa Maria Maggiore, via Emanuele Filiberto, l’Aventino, le vie
attorno a Caracalla e a Piramide.
Tra i nuovi soggetti criminali
spiccano i sodalizi stranieri, che
gestiscono fette importanti del
mercato criminale, ma i settori
strategici restano saldamente in
mano alle organizzazioni criminali tradizionali: le mani della
criminalità organizzata toccano
ad esempio il settore degli appalti pubblici e l’allarme è stato
lanciato proprio dai rappresentanti di categoria dei costruttori
di Roma. L’altro aspetto del fenomeno è quello degli appalti senza
gara, il cui apparente clientelismo
legato a fazioni politiche potrebbe
nascondere capitale criminale.
La camorra ha tentato di entrare
anche negli appalti dei mondiali
di nuoto al Foro Italico di Roma.
Ma anche le ’ndrine dei Gallace
Roma una città molto più violenta di “capitali” storiche di
mafie e agguati come Napoli o
Palermo, dove ormai “non si
spara più”.
Roma
42 | giugno 2012 | narcomafie
pizzeria a Morena: i killer fecero
irruzione nel locale sparando a
bruciapelo al giovane. La notte
precedente, nel quartiere di Centocelle, un marocchino era stato
ferito a colpi di pistola. Mentre
il 13 dello stesso mese, Stefano
Suriano, uno stalker di 36 anni
con precedenti penali, era stato
ucciso presso un distributore
di benzina nel quartiere di San
Basilio. E il 9 agosto, nella zona
di Cerveteri, era stato ammazzato – a scopo di rapina – Mario
Cuomo, di 62 anni.
Andando a ritroso, l’estate di
sangue si apre con l’omicidio – il
5 luglio 2011 – di Flavio Simmi,
gestore di un “compro oro” e
figlio di Roberto, un gioielliere
già indagato per fatti relativi alla
banda della Magliana e poi prosciolto. Simmi viene ucciso con
nove colpi di pistola – una vera
e propria esecuzione – attorno
alle 9 di mattina, in via Grazioli
Lante, zona Prati, mentre era in
macchina. Vano il suo tentativo
di fuga. Le fotografie della sparatoria ritraggono il corpo del
giovane – già vittima di un ferimento nel febbraio precedente
– riverso con le gambe ancora
incastrate al posto guida.
Cinque giorni dopo, il 10
luglio, al Tiburtino veniva
ferito un altro pregiudicato
romano, Giulio Saltafilippi:
se la caverà con un proiettile
nell’addome. Mentre il 27 luglio tocca a Simone Colaneri,
ucciso a colpi di 44 Magnum in
un agguato a Torrevecchia, alla
periferia di Roma. Detto “il teppista”, aveva 30 anni e alle spalle un
lungo curriculum criminale.
Ci sono poi gli episodi “minori”.
Il 20 giugno a Quarto Miglio,
in un campo, un pastore di 78
anni, Sabatino Onofri, viene trovato morto, ucciso a bastonate.
Il 14 giugno, il 47enne Marco
Calamanti viene aggredito in
strada a San Basilio e ucciso
con un colpo di crick in testa,
per questioni di debiti. Lo stesso
giorno, a Tor Sapienza, Paolo
Mistretta, 24 anni, in preda a un
raptus uccideva a coltellate la
nonna e feriva la sorella. Mentre
il 7 giugno a Cinecittà il 24enne
Stefano Salvi massacrava la nonna della fidanzata e cercava di
scioglierla nell’acido.
L’omicidio di Rafael Coen. Un
omicidio di cui si è parlato appena sui quotidiani è quello del
74enne pensionato ebreo Rafael
Coen trovato morto il 14 giugno
2011 nell’androne di casa in
Via Lanciani, colpito con una
stilettata – da alcuni definita “da
professionisti” – al cuore.
C’è poi la strage di Cecchina,
con due omicidi e due ferimenti, avvenuta il 29 maggio 2011
per motivi probabilmente legati
alla droga: un commando fa
irruzione in un appartamento e apre il fuoco sui presenti,
uccidendo il marocchino Rabii
Baridi e Fabio Giorgi. E sempre
a maggio viene ucciso – in via
Vittoria – un agente immobiliare
di 41 anni.
Gli omicidi non mancano neanche ad aprile. In via Col di
Lana, davanti al teatro delle
Vittorie e a poche centinaia di
metri da dove pochi mesi dopo
sarebbe stato ammazzato Flavio
Simmi, l’8 aprile viene infatti
freddato Roberto Ceccarelli,
imprenditore di 45 anni con
gravi precedenti penali e il cui
nome compariva nell’operazione Capricorno connection del
2003. Un’indagine che portò in
carcere estremisti di destra ed
esponenti di un clan siciliano
minore, specializzato nel traffico
di stupefacenti.
Mentre a marzo la capitale viene
scossa da una macabra scoperta:
il cadavere di una donna privo
di testa, braccia e gambe, viene ritrovato in un campo nei
pressi dell’Ardeatina: chi l’ha
uccisa – secondo gli inquirenti
– potrebbe aver utilizzato una
motosega per mutilare il corpo,
prelevandone poi gli organi in
modo quasi chirurgico. Tra le
ipotesi, quella del satanismo o di
un feticista. L’omicidio è rimasto
tutt’ora senza colpevole.
Due dei trentatré omicidi, un
benzinaio a Cerenova (caso
ancora irrisolto) e un pensionato a San Basilio, infine, sono
il tragico risultato di rapine, in
un periodo che ha contato un
aumento di colpi a danno degli
esercizi commerciali (3-4 al
giorno solo nei supermercati,
secondo quanto comunicato
da Sos-Impresa/Confesercenti) e un generale aumento
delle rapine dell’11% rispetto
all’anno precedente.
È il 28 aprile scorso le cronache nazionali tornano a
parlare della Roma violenta.
Nel corso del tentativo di
rapina ai danni di due gioiellieri, infatti, viene ucciso
Angelo Angelotti, 62 anni,
già appartenuto alla banda
della Magliana e coinvolto
nell’omicidio di “Renatino”, Enrico De Pedis. Feriti
nell’agguato i complici, Giulio Valente e Stefano Pompili.
Decisiva la reazione dei due
gioiellieri – Luca e Andrea
Polimadei – che, vedendoli
armati, hanno ingaggiato una
sparatoria prima ancora che i
rapinatori potessero esplodere
un colpo. A bordo dell’auto i
fratelli Polimadei portavano un
campionario da 75mila euro.
Chi ordina
chi riscuote
Reato che da sempre caratterizza la capitale, l’usura è andata
trasformandosi negli anni. Dal singolo “cravattaro”
di quartiere si è passati a strutture più organizzate con clan
e “famiglie” che hanno fatto rete e diviso i compiti.
Non mancano le “sentinelle” nei quartieri, che attraverso
il passaparola indicano da chi trovare denaro facile.
In un periodo di crisi economica per famiglie e imprese
di Fabio E. Torsello
Roma
43 | giugno 2012 | narcomafie
44 | giugno 2012 | narcomafie
Roma
«La vera notizia è che in questi
anni Roma è diventata la capitale dell’antiusura. Oltre agli
sportelli dislocati nei diversi
Municipi della città, ci sono
associazioni come la Salus
populi romani, l’Adiconsum,
l’Ambulatorio antiusura, l’Agisa, la Comunità ebraica e altre
ancora che quotidianamente
si prodigano per offrire aiuto
a persone sovraindebitate o
vittime di usura». Luigi Ciatti,
delegato del sindaco per l’emergenza racket e usura di Roma
Capitale e fondatore dell’ambulatorio antiusura insieme a Tano
Grasso, va subito al punto: non
bisogna negare il problema ma
riconoscere che esiste una via
d’uscita e una rete a cui rivolgersi per chiedere aiuto.
Aziende nel mirino degli usurai. Secondo i dati del Campidoglio, al 31 dicembre 2011
sono state 2.152 le persone che
nel 2011 si sono rivolte agli
sportelli antiusura del comune
di Roma, con un incremento del
16,2% rispetto al 2010: 45%
lavoratori dipendenti (e quindi
famiglie), 26% imprenditori e
20% pensionati. Minima – pari
al 9% – la percentuale di quanti
si sono rivolti agli usurai pur
non percependo alcun reddito.
Quasi tutti – l’84% – con problemi di sovraindebitamento,
mentre solo il 16% di quanti
si sono rivolti agli sportelli
antiusura si è dichiarato vittima
del reato in senso stretto. Una
percentuale bassa che non deve
ingannare. Secondo Confesercenti, infatti, nel Lazio sarebbero almeno 28mila i commercianti vittime di usura, un
sommerso che – se paragonato
alle denunce – dà la tara della
difficoltà degli usurati a far
emergere il fenomeno.
«Il numero delle vittime è
molto più alto rispetto ai
censimenti ufficiali – spiega
Fausto Bernardini, presidente
di Confesercenti-SosImpresa
Lazio – e il sovraindebitamento sta crescendo in modo esponenziale. Immutata negli anni
anche l’impossibilità di accedere al credito: come garanzia
non bastano più le proprietà e
gli immobili ma viene valutata
la capacità reale dell’azienda o
dell’imprenditore a restituire
il debito». Un dato confermato
anche da Erino Colombi, presidente della Confederazione
nazionale dell’artigianato (Cna)
di Roma, che sottolinea come
in molti casi le banche boccino le pratiche «nonostante i
fondi messi a disposizione
dai Confidi e una percentuale
molto bassa di insolvenze, con
garanzie che sfiorano il 100%
del prestito erogato dall’istituto
di credito».
E il bacino delle aziende in
difficoltà – carne da macello
per gli usurai – è vastissimo.
Secondo il rapporto sull’usura
nella Capitale presentato da
Confesercenti/SosImpresa nel
settembre scorso, infatti, nel
2010 la media nazionale di
procedure di insolvenza da
parte delle imprese è stata di
trenta al giorno, undicimila
nell’intero anno. Aziende che
fanno gola alla criminalità
organizzata, sempre pronta a
subentrare con quote societarie
finanziando chi è sull’orlo del
fallimento.
E l’usura romana, secondo
Confesercenti, si sta specializzando. «Sul campo – spiega
ancora Bernardini – ci sono
due tipi di usurai: quelli di
quartiere – comunque minoritari – e la grande criminalità
organizzata. I primi lucrano
sugli interessi, i secondi mirano a impossessarsi dell’attività
quando l’imprenditore non
riesce più a pagare il debito
e in questo modo entrano nel
canale legale tramite l’usura».
Il giro d’affari dell’usura nel
Lazio è stimato in tre miliardi
di euro. E spesso a indicare
l’usuraio cui rivolgersi sono
gli stessi creditori che ben
conoscono la rete sommersa
del finanziamento “facile”.
Sconti, in cambio di favori.
«Ad aggravare la situazione
– spiega ancora Ciatti – vi è
che, a differenza di qualche
anno fa, l’usura colpisce fasce
sociali incapaci di affrontare la
crisi economica e le sue conseguenze. Quando ho iniziato a
occuparmi di usura – prosegue
– nel 1996, agli sportelli si rivolgevano quasi esclusivamente
commercianti, imprenditori e
artigiani, soggetti che si caratterizzano per avere un flusso
di denaro incostante. Adesso
il 50% delle richieste di aiuto
proviene da famiglie, lavoratori
dipendenti e pensionati». E le
testimonianze raccontano di
creditori che chiedono “favori”
alle loro vittime, in cambio di
sconti sulla cifra da versare:
la possibilità di nascondere in
casa grosse quantità di droga,
ospitare clandestini o intestarsi
beni e società. Un modo di fare
che – spiegano da SosImpresa/
Confesercenti – abbassa il rischio di denuncia per gli usurai
in quanto la vittima percepisce se stessa come complice e
quindi “a rischio” in caso di
operazioni da parte delle forze
dell’ordine.
Il clan Casamonica. Quella
dell’usura romana è una rete
ben implementata e messa a
sistema con altre attività illecite
come il mercato della droga.
E nella Capitale il business fa
capo alla storica famiglia dei
Casamonica. A fine gennaio, nel
quartiere romano della Romanina, le forze dell’ordine hanno
arrestato 39 persone con l’accusa di associazione finalizzata
al traffico degli stupefacenti,
un business funzionale a far
entrare soldi da reinvestire
nell’usura. Secondo quanto
appurato dagli inquirenti, tra
via Devers e vicolo Barzilai
era stata formata una sorta di
Scampia romana, con vedette
posizionate sui tetti e strade
appositamente “ridotte” da
fioriere e ingombri, in modo
da tenere d’occhio qualsiasi
accesso. Lo spaccio al dettaglio
di cocaina e hashish era affidato
alle donne. L’autorità giudiziaria ha disposto il sequestro preventivo dei beni riconducibili
agli arrestati per cinque milioni
di euro, tra immobili (ville,
terreni, 16 abitazioni), 36 autovetture, 20 orologi di pregio,
un borsa piena d’oro, 135mila
euro in contanti, 28mila euro in
titoli e conti correnti, depositi
bancari e postali. Nelle sfarzosissime abitazioni trasformate
in supermarket della droga, il
camino era sempre acceso: in
caso di operazioni di polizia
tutto doveva essere bruciato.
E gli “esattori” dei Casamonica erano dietro a un’altra
organizzazione dedita all’usura
smantellata nel settembre del
2010 da un’operazione della
Dda di Roma, culminata con
l’arresto di undici persone tra
insospettabili professionisti,
camorristi e alcuni esponenti
della banda della Magliana, 23
indagati e numerose perquisizioni. Il giro usuraio – secondo
quanto è emerso dalle indagini – era funzionale alle truffe
messe a segno dall’organizzazione che aveva già incassato
cinquantamila euro di caparra
per la vendita del palazzo della
Questura in via di San Vitale,
così come avevano venduto
la casa del calciatore Marcus
Cafu e dell’ex presidente della
Lazio, Sergio Cragnotti, e una
partecipazione ai magazzini
Coin di via Cola di Rienzo a
Roma. Anche in questo caso,
grazie alla complicità di insospettabili professionisti – un
avvocato e un commercialista – proponevano affari d’oro
alle vittime che si illudevano
di poter acquistare un’auto o
una casa alle aste giudiziarie
e passavano all’indebitamento
e al tunnel dell’usura. Lungo
l’elenco di quanti erano caduti nella rete: piloti, esponenti
delle forze dell’ordine, medici,
imprenditori, impiegati di Acea
e Telecom e anche nomi noti,
come lo scomparso attore Pietro
Taricone. Al vertice dell’organizzazione, un “coordinamento” con i rappresentanti di tutti
i nuclei storici della criminalità
romana, dai Casamonica alla
camorra, fino ad arrivare alla
storica banda della Magliana, ai
quali si è arrivati con l’inchiesta sull’omicidio di Umberto
Morzilli, freddato il 29 febbraio
2008 a Centocelle per un regolamento di conti. Il secondo
livello, invece, era formato da
professionisti mai toccati da
alcuna indagine che avevano
il compito di “intercettare” le
potenziali vittime.
Sempre nel luglio dello scorso
anno, un’altra operazione – che
ha visto coinvolti alcuni ex
esponenti della Banda della
Magliana – ha portato a undici
ordinanze di custodia cautelare
e a una cinquantina di perquisizioni. Un centinaio le vittime
dell’usura – tra cui anche un
carabiniere e un poliziotto – e
oltre centomila euro di giro di
affari settimanale.
Altra famiglia nomade – originaria dell’Abruzzo – che da
sempre pratica l’usura nella
capitale è quella del clan dei Di
Silvio, attiva soprattutto nella
periferia (nei quartieri di Torre
Roma
45 | giugno 2012 | narcomafie
La rotta dei money transfer
intervista al Generale Leandro Cuzzocrea
Roma
46 | giugno 2012 | narcomafie
Una fitta rete di filiali che permette
l’invio di denaro all’estero in modo
molto più semplice e immediato
rispetto alle banche: sono i Money
Transfer, terminali da cui gli stranieri spediscono le rimesse presso
i loro Paesi d’origine. Pur senza
criminalizzare un’intera categoria,
numerose sono le operazioni della Guardia di finanza che hanno
scoperto irregolarità e procedure
non rispettate da parte di mittenti
e titolari delle agenzie. Per capire
come si possa riciclare denaro e
mascherare da rimesse veri e propri pagamenti, «Narcomafie» ha
intervistato il Generale Leandro
Cuzzocrea, Comandante del nucleo
speciale della Polizia valutaria della
Guardia di finanza.
La rete money transfer è cresciuta
in modo esponenziale in Italia negli
ultimi anni: quali sono i territori
a più alta densità di agenzie in
Italia? C’è una differenza tra Nord
e Sud? Qual è il numero totale
delle agenzie di invio di denaro
all’estero?
Le agenzie di money transfer sono
notevolmente aumentate negli ultimi anni, basti pensare che tra il 2002
e il 2010 c’è stato un incremento
percentuale di oltre il 1.400%, essendo il numero di iscritti passato
da 2.202 a oltre 34mila.
Oggi gli agenti in attività finanziaria (compresi quelli che esercitano
attività diverse dal money transfer)
sono oltre 75mila, di questi, circa
5mila sono società.
Riguardo alla ripartizione territoriale, la concentrazione maggiore
di agenti in attività finanziaria si
registra a Roma, Napoli e Milano.
Rischio riciclaggio: quale la comunità che – in base alle indagini
eseguite – ha fatto registrare più
violazioni della legge antiriciclaggio nel 2011?
I dati relativi alle violazioni alla
normativa antiriciclaggio accertate
dalla Guardia di finanza nel 2011
evidenziano una situazione sostanzialmente invariata rispetto all’anno
precedente. Nell’ultimo biennio,
infatti, i soggetti verbalizzati, per
violazioni penali e amministrative al D.Lgs. n. 231 del 2007, sono
quasi 9mila.
Nel corso del 2011 la Guardia di
finanza ha effettuato 296 ispezioni
antiriciclaggio nei confronti di agenti in attività finanziaria che hanno
consentito di accertare la commissione di oltre 150 violazioni di tipo
amministrativo e penale.
Non disponiamo di dati precisi su
quali siano le comunità che hanno
infranto le norme con maggiore
frequenza, ma possiamo ragionevolmente affermare che nella
realizzazione degli illeciti sono
coinvolti, con ruoli e responsabilità diversi, la persona che invia il
denaro, l’agente e l’intermediario
finanziario, quest’ultimo responsabile di non aver intercettato e
conseguentemente bloccato le operazioni illecite.
Una possibile relazione potrebbe
essere quella tra numero di violazioni e volumi trasferiti e oggi il Paese
che registra il maggior numero di
invii è la Cina: solo nel 2010 sono
partiti con questa destinazione oltre
1 miliardo e 800 milioni di euro.
Le maggiori operazioni nel 2011 a
livello nazionale: sequestri, entità
del volume di denaro riciclato...
Tra le tante e diversificate operazioni
condotte dalla Guardia di finanza nel
2011 nell’ambito della prevenzione
e della repressione dei fenomeni di
riciclaggio possiamo ricordarne due.
La prima, che origina da un’attività
amministrativa di prevenzione, è
quella del Nucleo speciale di polizia
valutaria: al termine di un’ispezione antiriciclaggio, eseguita nei
confronti di un intermediario finanziario, sono stati denunciati,
presso 81 procure della Repubblica,
246 agenti money transfer per non
aver effettuato l’adeguata verifica
della clientela.
L’altra operazione, denominata
“Cian ba”, è stata eseguita dal Comando regionale della Toscana.
Rappresenta lo sviluppo di una
precedente operazione, “Cian liu”,
e ha portato al sequestro di oltre
25 milioni di euro nei confronti di
imprenditori ed amministratori di
imprese cinesi denunciati per vari
reati, tra cui trasferimento fraudolento di valori, frode fiscale ed
occultamento dei titolari effettivi
delle operazioni finanziarie.
Con quale meccanismo si ricicla il
denaro e con quali finalità? Penso
al finanziamento del terrorismo,
al pagamento fittizio di merce
contraffatta, ecc...
I meccanismi sono sostanzialmente
due e consistono nel frazionare gli
invii, così da portarli tutti al di sotto
del limite legale o nell’attribuire
gli stessi a soggetti assolutamente
ignari, di cui si dispongono i relativi dati anagrafici, o a soggetti che
consapevolmente si prestano a ciò.
Spesso abbiamo riscontrato una
combinazione di questi meccanismi
fraudolenti.
C’è da dire che, sotto il profilo della
regolamentazione, i presidi sono stati nel tempo rafforzati, abbassando
progressivamente il limite di denaro
contante che può essere inviato
attraverso i money transfer. Questo
limite, che ha subito alterne vicende
– in origine 5.000 €, poi 12.500€,
poi ancora 5.000€, 2.000€ – è stato
di recente portato a 1.000€.
Le finalità perseguite sono varie: inviare verso la madrepatria i guadagni
lecitamente conseguiti in Italia ma
sottratti alla tassazione nazionale,
inviare somme frutto di attività
illecite condotte in Italia ovvero
ancora pagare merce contraffatta o
sostanze stupefacenti.
Riguardo al terrorismo, o più correttamente, riguardo al finanziamento del terrorismo, occorre fare
un discorso diverso e rappresentare
che il fenomeno è strutturalmente
diverso rispetto al riciclaggio, avuto
riguardo sia ai volumi trasferiti, sia
all’origine delle somme. La nostra
esperienza ci dice, infatti, che nel
caso del riciclaggio le somme sono
sempre molto considerevoli, mentre
il terrorismo viene finanziato anche
con piccole “donazioni” che non
sono necessariamente il provento
di attività illecite, ma il guadagno
di somme accumulate legalmente
o raccolte presso i fiancheggiatori
delle cellule terroristiche da associazioni con apparenti finalità
filantropiche o culturali. Altra significativa differenza è che il riciclatore
vuole occultare l’origine illecita
delle somme, il finanziatore del
terrorismo, invece, vuole coprire
la finalità ultima dell’invio.
Come risolvere alla radice il problema
della parcellizzazione degli invii?
La problematica non può essere
ricondotta a lacune nel sistema
di regolamentazione che peraltro,
come ricordato, è stato oggetto di
ripetuti interventi legislativi. Una
importante e recente riforma, più
volte auspicata dalle Autorità, ha
ulteriormente rafforzato i presidi
del sistema money transfer. Ancora
più recentemente la Banca d’Italia
ha emanato un provvedimento che
impone agli intermediari finanziari
che svolgono l’attività di money
transfer di dotarsi di procedure
informatiche che consentano di monitorare in tempo reale le operazioni
effettuate anche attraverso la rete
degli agenti e collaboratori esterni
e di bloccare quelle anomale.
Le maggiori criticità sono dovute
principalmente ad uno scarso livello
di compliance di molti operatori. Se
questa è la diagnosi, allora la possibile cura potrebbe essere quella di
ricorrere ad una massiccia dose di
“antibiotici” rappresentati da ulteriori
controlli e da campagne di sensibilizzazione sui rischi economici, legali
e reputazionali legati ad un uso
distorto di questo sistema che, per
altri versi, assolve ad una fisiologica
funzione economica e sociale.
Angela, la Rustica e Tor Bella
Monaca) e nella provincia di
Latina (nei territori di Pantanaccio, Gionchetto e Campo
Boario) dove è nota per essere
il braccio armato della famiglia
malavitosa dei Ciarelli.
Proprio nel sudpontino, secondo i dati della fondazione
Wanda Vecchi, a rischio usura
sono soprattutto gli agricoltori, i più colpiti dalla crisi tra
quanti operano nel cirocondario di Latina. Solo nell’ultimo
anno, la Fondazione Vecchi
ha effettuato 530 colloqui per
un totale di circa 150 utenti, e ha erogato attraverso le
banche convenzionate oltre
venti prestiti per una media
di 10mila euro ciascuno, cui
si aggiungono sedici mutui
erogati nei confronti di chi
rischia di perdere la propria
casa. I territori più colpiti, il
triangolo tra Sabaudia, Fondi
e Terracina.
Lo strozzinaggio quotidiano.
Non per forza l’usura è legata
a clan o mafie. Nel maggio del
2011, infatti, la Guardia di finanza di Roma ha stroncato un
giro di prestiti a strozzo da 12
milioni di euro, con tassi d’interesse fino al 4.552% annuo. Gli
arrestati erano soggetti titolari
di attività economiche nonché
liberi professionisti operanti in
tutto il Lazio (principalmente
a Roma), in Abruzzo e nelle
province di Pescara, Chieti,
L’Aquila, Teramo, Latina, Rieti, Siena, Bologna, Piacenza
e Viterbo.
Pochi mesi prima, nel marzo 2011, era stata sgominata
un’organizzazione composta da
padre, figlio e due coniugi, tutti
nullafacenti ma dotati di grandi
disponibilità finanziarie che
taglieggiavano un imprenditore
sottraendogli denaro a ritmi
di cinquemila euro al giorno.
Gli inquirenti, però, non sono
riusciti a provare l’esistenza di
un “ombrello” criminale nella
regia delle operazioni.
Mentre è del 2010 la notizia
di un sequestro di persona in
pieno centro, ad opera di tre
usurai provenienti dal quartiere
del Tufello. Un piccolo imprenditore del quartiere Prati,
vittima di un giro di prestiti a
strozzo, venne preso in ostaggio
e rilasciato solo dopo il pagamento di 35mila euro da parte
della famiglia. Nella zona della
Casilina, infine, nell’ottobre
2010 sono finiti in manette un
architetto, un imprenditore e
due pregiudicati: oltre trenta
vittime e diversi milioni di euro
di denaro e giro d’affari.
Roma
47 | giugno 2012 | narcomafie
Roma
48 | giugno 2012 | narcomafie
Serbatoi
a secco
Il corpo della Polizia di Stato è sotto organico. A denunciarlo il
sindacato di categoria, che sottolinea la pericolosità nel lasciare
scoperte estese zone periferiche della città: a beneficio della criminalità di ogni tipologia
di Fabio E. Torsello
Nella Capitale mancano almeno
duemila agenti delle forze dell’ordine. A comunicare il dato è il SilpCgil che sottolinea come i rinforzi
inviati nei mesi scorsi dal ministero
dell’Interno, all’indomani dell’ondata di omicidi che ha sconvolto la
capitale tra le fine del 2011 e l’inizio
del 2012, siano solo dei palliativi
di breve durata: finito il periodo
decretato per il trasferimento,
gli agenti torneranno nei loro
distretti di appartenenza.
Ad oggi Roma soffre una carenza
di organico e posti di Polizia che
compromette irrimediabilmente
la vigilanza sul territorio, per non
parlare dei mezzi e dei ritardi
nella manutenzione: spesso gli
agenti sono costretti a usare la
stessa volante su più turni per
mancanza di vetture.
A colpire, però, è anche la distribuzione dei commissariati, con le
periferie romane quasi del tutto
“scoperte” e il centro cittadino che
da solo ha sei commissariati (su un
totale di 36). Con una superficie
di 14,3 chilometri quadrati e una
popolazione residente di 129.861
persone - secondo i numeri forniti
dal Silp-Cgil - il I Municipio ha una
densità di un agente ogni 232 persone, un dato che si scontra con una
realtà ben più problematica come
quella del IV Municipio (Fidene/
Serpentara): 97,2 chilometri quadrati di territorio, 202.281 cittadini,
un solo commissariato e un agente
ogni 2.248 persone. E non va meglio
nel VIII Municipio (Casilino): un
solo posto di polizia e un agente
ogni 2.100 abitanti. Mentre la zona
della Magliana/viale Marconi, una
delle più popolose della Capitale,
fa contare appena un agente ogni
1.900 persone.
E la situazione non migliora neanche sul fronte della presenza sul
territorio: si passa dai 32,9 poliziotti
per chilometro quadro del I Muni-
cipio ai 2,4 poliziotti per chilometro
quadro del IV Municipio. Una
sproporzione che rende evidente
come tagli e accorpamenti abbiano
negli anni penalizzato le fasce più
esterne della città, lasciando scoperte intere porzioni di territorio,
zone in cui fare prevenzione è
quasi impossibile. In totale, nella
capitale mancano almeno duemila
agenti effettivi. Parlare di lotta alla
criminalità con numeri di questo
tipo è quantomeno azzardato. A
differenza delle forze di polizia,
infatti, le cosche hanno uomini,
mezzi e strumenti finanziari quasi illimitati con cui da tempo
hanno permeato il tessuto cittadino della Capitale.
«L’incremento delle unità di polizia
– spiega Claudio Giardullo Segretario Generale del Silp-Cgil – c’è stato
nell’ordine delle duecento persone
ma non con trasferimenti, bensì con
personale aggregato: quando finirà
l’aggregazione gli agenti torneranno
nelle sedi di provenienza. Si è
trattato di un provvedimento di
emergenza mentre Roma ha bisogno di riforme strutturali per quel
che riguarda la sicurezza. La città
– prosegue Giardullo – sta pagando
ancora lo scotto dei tre miliardi
di tagli lineari fatti dal governo
Berlusconi. E l’esecutivo Monti
non ha previsto alcun piano che
determini una svolta rispetto agli
orientamenti del governo precedente». Su tutto aleggia la spada di
Damocle della spending review che
potrebbe ulteriormente prevedere
tagli alla sicurezza. Tra le ipotesi,
infatti, la chiusura di un numero
impreciso di “uffici di Specialità”
(Polfer, Polizia Postale, ecc...) che
andrebbe a gravare anche sulla situazione della Capitale. «Un conto
è ragionare sulla razionalizzazione
delle risorse – prosegue Giardullo –
altro è operare tagli indiscriminati
di presidi e personale sul territorio:
accorpare gli uffici significa calare
sulla città una rete a maglie sempre
più larghe. Ad oggi – sottolinea –
siamo davanti a una insufficienza
conclamata delle forze di polizia,
a fronte di problemi di sicurezza
cresciuti in modo evidente negli
ultimi anni». E si tratta del traffico
di droga, del gioco d’azzardo e
degli omicidi. «Grazie anche alla
flessibilità che stanno dimostrando
le organizzazioni criminali – conclude il segretario del Silp-Cgil – è
cresciuta la presenza delle mafie in
zone che non sono a tradizionale
presenza mafiosa”.
E per rendersi conto dell’infiltrazione nella regione, basta recuperare i dati dei sequestri avvenuti
nel Lazio negli ultimi mesi. Al 9
gennaio scorso l’Anbc (Agenzia
Nazionale per l’amministrazione
dei beni confiscati alla criminalità organizzata) indicava in
574 i beni confiscati nel Lazio.
Di questi il 53,3% sono presenti
nel comune di Roma e il 77,5%
nel complesso della provincia.
Seguono le province di Latina e
Frosinone. In soli quattro mesi
(da ottobre 2011) si è registrato
un incremento pari all’11%.
Fondamentale, infine, la questione delle scorte: il personale è
insufficiente e accade che alcune
volanti in servizio di pattugliamento in città vengano dirottate
per proteggere personaggi ritenuti a rischio. “Il vero problema
- spiega ancora Giardullo - non
è nella fase dell’assegnazione
delle scorte ma nel successivo
processo di valutazione, per cui
in pochi casi le scorte vengono revocate anche quando non
sussistono più le condizioni di
rischio. E nel nostro Paese spesso si fanno pressioni per conservare le scorte anche quando
le forze dell’ordine certificano
il cessato pericolo”.
Roma
49 | giugno 2012 | narcomafie
Roma
50 | giugno 2012 | narcomafie
Emanuela,
la verità
occultata
Perché fu rapita la giovane cittadina del Vaticano? Chi furono
i mandanti? Quali le responsabilità di Enrico De Pedis? Dopo
trent’anni dalla scomparsa, il trasferimento della salma del
boss della Magliana da Sant’Apollinare e l’incriminazione di
Monsignor Vergari segnano la volontà di fare definitamente
luce su uno dei più gravi misteri italiani?
di Angela Camuso
«Enrico De Pedis aveva contatti in Vaticano diretti tramite qualche monsignore… ma
c’era chi, come Flavio Carboni, ci stava proprio dentro al
Vaticano…io posso dire che
monsignor Vergari aveva contatti con De Pedis; che padre
Franco (monsignor Gianfranco
Girotti, ndr) aveva rapporti
con De Pedis. Renatino aveva
modi da boss imprenditoriale,
sapeva che doveva costruire
il suo futuro con le pubbliche
relazioni. Lui era uno che in
tribunale era capace di prendere il cappotto del suo legale
e metterglielo sulle spalle, di
allungargli il fazzoletto... è
morto incensurato e ha ammazzato più gente di me; ha
fatto le stesse rapine che ho
fatto io… Come ha fatto a morire incensurato? De Pedis ci
sapeva fare… lui la domenica
mi veniva a prendere a casa…
andavamo a mangiare le paste
da “Andreotti” a Testaccio,
su via Ostiense, poi magari
andavamo a mangiare il pesce
a Ostia, oppure al centro, al
“Bolognese”… e lui la domenica si attaccava al telefono
e chiamava il fior fiore degli
avvocati di Roma, con quei
suoi atteggiamenti che io non
avrei mai avuto. Era referente.
Diceva: “Avvocato, professore,
ha ricevuto il regalo?”… Già si
stava costruendo il futuro, mentre io il futuro non lo vedevo
lui se lo costruiva con questi
contatti... Per questo era di una
noia mortale… Non si faceva
neanche una canna! Ma così
si preparava agli avvenimenti
che sognava. Si immaginava,
perché no, con qualche incarico
in Parlamento, magari come
Sottosegretario o presidente
di qualche cosa...».
Giugno 1983, la scomparsa.
Così, in un’intervista registrata
a chi scrive, disse a febbraio
del 2010 il pentito Antonio
Mancini, detto l’Accattone,
sull’ex compagno di delitti
ed ex amico – Mancini fu tra
quelli che brindarono alla sua
morte – di Enrico De Pedis
detto Renatino, senz’altro il
personaggio più famoso e più
inquentante della banda della
Magliana, il cui nome è tornato
prepotentemente alla ribalta
delle cronache in questi giorni, allorchè su decisione della
procura di Roma, nell’ambito
delle indagini sulla scomparsa
misteriosa della quindicenne
cittadina vaticana, Emanuela
Orlandi, figlia del postino personale di Papa Wojtyla, è stata
riesumata la sua salma, scandalosamente sepolta, a fianco
di illustri rappresentanti della
cristianità e della cultura italiana, all’interno della cripta
della basilica di Sant’Apollinare, maestoso esempio di
architettura cinquecentesca
sull’omonima piazza, la stessa
del conservatorio vaticano che
frequentava Emanuela e da cui
la ragazza fu vista uscire, in
anticipo rispetto all’orario di
fine della sua lezione di flauto,
proprio il pomeriggio in cui fu
rapita, 22 giugno 1983, dopo
aver confidato a un’amica di
avere appuntamento con un
tale che si era presentato come
un rappresentante della ditta
di cosmetici Avon.
Da De Pedis a Simmi. Enrico
De Pedis fu colui che inaugurò
il nuovo stile, imprenditoriale,
della ciminalità organizzata romana che negli anni che seguirono la sua morte, fino a oggi, si
rivelò vincente. Proprio a causa
delle sue ambizioni sfrenate
di riscatto sociale il bandito
finì la sua carriera all’età di
36 anni, ucciso per vendetta e
per invidia su volere dei suoi
ex compagni da un proiettile
che gli trapassò la gola mentre
si trovava, quel 2 febbraio del
’90, a concludere affari con un
antiquario in via del Pellegrino,
dietro piazza Campo De Fiori,
all’epoca quartier generale degli
usurai e luogo dove pullulano
ancora oggi, come testimoniano
indagini recenti, esercizi commerciali che dietro una facciata
di legalità apparente ricettano
preziosi, trafficano droga e prestano a strozzo denaro. Non a
caso il 33enne Flavio Simmi,
rampollo di una famiglia di gioiellieri storicamente legati alla
banda della Magliana e con un
negozio “Compro Oro” proprio
nella zona di Campo de Fiori, è
stato ammazzato un anno fa, da
due killer in moto, per motivi
ancora oscuri, mentre usciva di
casa dalla sua abitazione a Prati,
tra i quartieri più signorili della
capitale, in compagnia della
bella moglie, la quale grazie
a una conoscenza diretta con
l’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi era tra
le addette dell’ufficio stampa
di Palazzo Grazioli.
Soldi e odore di morte. La
realtà supera spesso la fantasia
in questa storia infinita della
banda della Magliana. E questo sebbene prima il romanzo,
poi il cinema e la tv, abbiano
con maestria trasfigurato quei
feroci banditi e le loro imprese,
esaltando i primi e riducendo
le seconde a una saga nazional
popolare. Invece al puzzle dei
misteri d’Italia mancano ancora
troppi tasselli. E tanti pezzi che
Roma
51 | giugno 2012 | narcomafie
Roma
52 | giugno 2012 | narcomafie
riguardano il famigerato gruppo
criminale romano stanno da
tempo nel mucchio, senza che
nessuno trovi soluzione al gioco
di incastri. Di certo le indagini
dell’ultima ora e fatti gravi di
sangue, accaduti di recente,
testimoniano che la banda della
Magliana, se con questo termine
si intende la “mafia romana”, è
una realtà del presente di cui è
intriso l’ambiente criminale capitolino: oggi come ieri fatto di
assassini, trafficanti e rapinatori
da una parte – alcuni di loro,
peraltro, già membri della vecchia banda e nonostante l’età
avanzata ancora al “lavoro” – e
criminali finanziari dall’altra,
questi ultimi in contatto, più
o meno diretto, con un sottobosco popolato da personaggi
“puliti” ma solo di facciata
che si infilano invisibili tra i
meandri dei settori immobiliare, del commercio e della
sanità e maneggiano denaro
che puzza di morte facendolo
scorrere invisibile tra i mille
rivoli della burocrazia romana,
grazie anche al potere della
corruzione.
Il passato riaffiora. Non a caso,
un personaggio come Enrico
Nicoletti, già “banchiere” della
banda, oggi ultrasettantenne,
è stato arrestato per ben due
volte nel giro dei soli ultimi due
anni, peraltro per reati identici
a quelli per i quali è finito nel
passato in carcere in numerose
occasioni e cioè per estorsione,
usura, riciclaggio nonchè associazione mafiosa, anche se poi
quest’ultima accusa è sempre
decaduta in sede di dibattimento, come già avvenne per tutti
gli imputati al maxiprocesso
alla banda che si concluse nel
2000 e che riconobbe alla gang
soltanto lo status della semplice associazione a delinquere.
Allo stesso modo, un altro del
gruppo specializzato nel riciclaggio degli assegni, Giuseppe
De Tomasi, detto il Ciccione, è
finito un anno fa in galera con
l’accusa di gestire un grosso giro
di usura che andava avanti da
anni ma che è stato scoperto
dalla polizia, inspiegabilmente,
a quasi un ventennio di distanza dall’ultima indagine che
coinvolse il vecchio bandito,
libero di deliquere indisturbato
fin quando qualcuno ritenne
doverso andare a spulciare nei
suoi affari. E che dire di Raffaele
Pernasetti, detto Er Palletta, storico braccio destro del famoso
Enrico De Pedis, condannato in
primo grado a quattro ergastoli,
in secondo grado a trent’anni e uscito l’anno scorso in
semilibertà con il permesso
accordatogli dal tribunale di
Sorveglianza di andare a lavorare in un ristorante famoso
di Testaccio, ‘Oio a Casa mia’,
gestito da un parente e indicato
dal collaboratore di giustizia
Dario Marsiglia come luogo
dove si tenevano ancora nel
vicino 2003 i summit di mala?
Non ha suscitato particolare
scandalo neppure la notizia che
Massimo Carminati, il neofascista associato a pieno titolo alla
banda, processato e assolto per
l’omicidio di Mino Pecorelli e
oggi benestante commerciante
di vestiario e autovetture, sia
finito in questi giorni all’interno
dell’inchiesta sul calcioscommesse a fianco di esponenti del
clan camorristico dei Senese,
anche loro storici alleati della
gang. Anche la recente fine,
sventurata, di un bandito di
spessore come Angelo Angelotti, colui che 22 anni fa attirò
De Pedis nella trappola mortale, è un evento che riporta la
memoria a un passato da cui la
capitale sembra non riesca più
a staccarsi. Angelotti è morto
ammazzato lo scorso 28 aprile
all’età di 65 anni, sotto i colpi di pistola di un gioielliere
romano vittima di una tentata
rapina. Non era neanche un
anno che il bandito era uscito
dal carcere. Ed era tornato ad
abitare nel suo quartiere, Tor
Marancia, dove non aveva fatto
fatica e reinserirsi nel tessuto
criminale della città.
Un favore al cardinale Poletti?
Com’è noto, a ipotizzare un
nesso tra la sepoltura di Enrico
De Pedis a Sant’Apollinare e la
scomparsa di Emanuela Orlandi
fu una telefonata fatta nel 2005
alla trasmissione televisiva “Chi
l’ha visto?”, da parte di un anonimo poi individuato attraverso
una perizia fonica come il figlio
dello storico collaboratore di
De Pedis, Giuseppe De Tomasi, anche lui in seguito finito
nell’inchiesta sul sequestro di
Emanuela perché riconosciuto
come il telefonista “Mario”,
l’uomo che a pochi giorni dalla
scomparsa chiamò a casa Orlandi, per depistare, sostenendo di
avere informazioni sulla sorte
della ragazza.
«Se volete scoprire qualcosa sul
caso Orlandi, andate a vedere
chi è seppellito nella basilica
di Sant’Apollinare e il favore
che all’epoca fece Renatino al
cardinale Ugo Poletti», erano
state le parole del telefonista a
“Chi l’ha visto?”. E poco tempo
dopo era arrivata in procura
un’altra sconvolgente deposizione sul caso, quella della
donna che fu l’amante di De
Pedis nei primi anni 80, Sabrina
Minardi, ex prostituta. Anche
Sabrina Minardi dirà di riconoscere nella voce di “Mario”
quella del bandito Giuseppe De
Tomasi. E riferirà che Emanuela
era stata rapita dagli uomini di
De Pedis e tenuta prigioniera
in un sotterraneo al quartiere
Monteverde che il suo Renatino
utilizzava come nascondiglio,
un labirinto di cunicoli da cui
si accedeva passando per la
casa di alcuni amici di Danilo
Abbruciati, un altro dei capi
della Magliana, morto durante
l’attentato al vicepresidente del
Banco Ambrosiano, Roberto
Rosone, e tra quelli della banda
più vicino alla mafia siciliana
e ai servizi segreti deviati: era
Abbruciati che teneva i contatti col cassiere di Cosa nostra,
Pippo Calò, con Roberto Calvi
e con i faccendieri Francesco
Pazienza, il consulente piduista
dei servizi segreti militari e con
Flavio Carboni, altro personaggio sempreverede della storia
oscura di questo Paese, processato e assolto, com’è noto, per
l’omicidio di Roberto Calvi.
Marcinkus, lo Ior e le ragazze.
L’ex amante di De Pedis accennò
anche al movente del sequestro
di Emanuela Orlandi: a quanto
le avrebbe rivelato Renatino,
il rapimento era stato voluto
dall’arciverscovo Marcinkus,
all’epoca presidente dello Ior. Il
quale peraltro, proprio in quei
giorni, si era trovato alle prese
con il crack dell’Ambrosiano:
«… La decisione era partita da
alte vette… come se avessero
voluto dare un messaggio a
qualcuno sopra di loro. Era lo
sconvolgimento che avrebbe
creato la notizia», spiegherà
Minardi. Sempre a proposito
dell’arcivescovo Marcinkus,
racconterà la testimone che
era stata lei stessa ad accompagnare a casa del prelato ragazze disponibili, anche per
assecondare il suo segretario,
quest’ultimo a dire di Sabrina
con un debole per le minorenni.
De Pedis, secondo la sua ex
amante, ogni tanto andava a
casa di Marcinkus con borsoni
zeppi di banconote, frutto del
riciclaggio dei sequestri: «Mi
ricordo – dirà – che Renato portava sempre delle grosse borse
di soldi a casa. Sa, le borse di
Vuitton, quelle con la cerniera
sopra. Mi dava tanta di quella
cocaina, per contare i soldi
dovevo fare tutti i mazzetti e mi
ricordo che contò un miliardo
e il giorno dopo lo portammo
su a Marcinkus».
Il sotterraneo a Monteverde
descritto dalla testimone, con
annesso bagno murato, verrà
effettivamente trovato dalla
polizia, in via Pignatelli, vicino
all’ospedale San Camillo.
Ma non sarà scoperta alcuna
traccia del passaggio in quei
luoghi della ragazza rapita. Eppure una conferma, anche se
generica, di un coinvolgimento
della banda nel rapimento, arriverà in procura con le parole
del pentito Antonio Mancini:
«Si diceva in carcere che la
ragazza era robba nostra. Che
l’aveva presa uno dei nostri»,
dirà il pentito ai magistrati,
che all’epoca del sequestro era
detenuto.
La pista Calvi. Anche l’Accattone, riascoltando la voce registrata del telefonista “Mario”,
riconoscerà quella del fedelissimo di De Pedis. E durante
un secondo interrogatorio in
procura l’ex bandito farà anche
il nome di uno dei possibili
esecutori materiali del rapimento: quello di Libero Angelico,
tipo freddo e spietato, uno che
agli esordi rapinava blindati
e una volta aveva assassinato
un complice che si era impossesato del bottino, gli aveva
sparato a bruciapelo mentre
questo era seduto sulla poltrona
del barbiere. In una successiva
deposizione, a quanto riferirà lo stesso Accattone a chi
scrive durante un’intervista,
l’ex bandito illuminerà i magistrati sulle motivazioni del
sequestro, con argomentazioni
che in parte confermeranno i
racconti, piuttosto confusi, di
Sabrina Minardi. Dirà Antonio
Mancini: «La Orlandi è opera
della banda della Magliana, di
quelli di Testaccio. Io di questo ne sono sicuro… Io sapevo
perché dovevo saperlo perché
erano voci che giravano tra noi
del gruppo…Le ragioni già le
ho dette e le ripeto oggi… per
una questione di denaro che si
collega all’attentato a Rosone,
quando Abbruciati gambizza
quello del Banco Ambrosiano
perché si diceva che bisognava addolcire Rosone visto che
metteva i bastoni tra le ruote a
Calvi per recuperare i soldi che
la banda – e non solo la banda,
ma anche la mafia e altri poteri
criminali finanziari – aveva
investito su Calvi… Poi c’era
stata l’impiccagione di Calvi… perché Calvi, terrorizzato,
aveva cominciato a ricattare il
Vaticano… e si era fatto pericoloso e allora uomini collegati
al Vaticano dicono… bisogna
eliminare Calvi perché ci sta
creando dei problemi… e visto
e considerato che nonostante
queste pressioni i soldi non
tornavano o quanto meno non
tornavano tutti, allora, per far
Roma
53 | giugno 2012 | narcomafie
54 | giugno 2012 | narcomafie
Roma
capire che chi aveva investito,
cioè de Pedis, non si sarebbe
fermato davanti a niente ... stabilirono di portare via questa
ragazzina…».
Ricordi e minacce: l’ombra di
Marcinkus. Maurizio Abbatino
detto Crispino, anche lui in
cella quando Emanuela sparì, durante un’intervista Rai,
negherà ogni coinvolgimento
della banda della Magliana nel
caso Orlandi: «Sono sicuro –
dirà il pentito nel 2008 – che
la banda della Magliana non
c’entra niente con il caso Orlandi. Abbiamo fatto un sacco di
cose orrende e gravi, non credo
che mai nessuno sia arrivato
a sequestrare una ragazzina».
Soltanto un anno dopo, però,
Abbatino cambierà la sua versione dei fatti. Confermando
alla procura di aver saputo anche lui che la banda era implicata in quel misfatto: «c’era di
mezzo un grosso prestito – dirà
– fatto allo Ior da parte di quelli
della Magliana ed Emanuela
era stata scelta quasi per caso,
come arma del ricatto».
Aggiungerà qualche tassello a
questo quadro agghiacciante
Sabrina Minardi in una seconda
deposizione davanti ai magistrati: Marcinkus, dirà ancora
l’ex amante di De Pedis, si era
invaghito della ragazza. «Io
arrivai al bar del Gianicolo
con una macchina... Renato
mi aveva detto che avrei incontrato una ragazza che dovevo
accompagnare al benzinaio del
Vaticano… Arriva ’sta ragazzina: era confusa, non stava bene,
piangeva… rideva.
All’appuntamento c’era uno che
sembrava un sacerdote… prese
la ragazza… Poi io, dopo che
ebbi realizzato chi era, dissi:
“A Renà, ma quella non era...”.
E lui: “Tu, se l’hai conosciuta,
è meglio che non la riconosci.
Fatti gli affari tuoi”. La Minardi
dirà anche che durante il sequestro l’Arcivescovo Marcinkus si
era presentato nella casa dove
la giovane era segregata per
violentarla brutalmente. Era
una villa a Torvajanica e Sabrina Minardi, che era lì, aveva
sentito la ragazzina urlare.
«Io stessa insieme a De Pedis e
Sergio (ovvero l’autista di Renatino, n.d.r.) portai la ragazza
nella casa al mare. Doveva restare solo un giorno ma è rimasta
15 notti... De Pedis mi disse di
farmi gli affari miei».
Nulla osta per il “benefattore” De Pedis. Renatino non
beveva, non fumava, non sniffava.Nell’88, due anni prima
di essere assassinato, si era
sposato
con Carla Di Giovanni (10 anni
più grande di lui, figlia dell’allora ex Presidene dell’Istituto
Case Popolari) nella basilica di
Sant’Apollinare. «Il giorno in
cui ci sposammo – racconterà
Carla Di Giovanni in un’intervista – mio marito mi indicò
la cripta cimiteriale, in fondo
alla navata sinistra e mi disse:
“Quando mi tocca, piuttosto
che al campo santo preferirei
che mi mettessero qui”». E in
effetti dopo i funerali, il corpo
di De Pedis fu portato al cimitero comunale del Verano e lì
tumulato, ma dopo qualche
giorno fu trasferito nella cripta,
secondo il volere del defunto.
Era stato il rettore della basilica, monsignor Piero Vergari,
ad accontentare Renatino. Lo
aveva conosciuto in carcere e
i due erano diventati amici: a
quanto dirà lo stesso sacerdote
De Pedis frequentava spesso
la basilica e tutte le volte lo
andava a trovare.
Vergari, oltre che amministratore di Sant’Apollinare, dal
’78 prestava la sua opera come
volontario a Regina Coeli, lavorava a fianco del cappellano
titolare. Quest’ultimo, all’epoca, era padre Gianfranco Girotti,
anche lui diventato monsignore: un prete accusato dai pentiti
della banda, ma poi prosciolto
da ogni accusa, di essere il
postino clandestino dei detenuti, quello che faceva arrivare
nelle celle droga e altri oggetti
proibiti in cambio di “offerte
per la Chiesa” Il cappellano
Girotti divenne poi reggente
della Penitenzieria Apostolica
mentre Vergari, il rettore di
Sant’Apollinare, fu mandato a
lavorare presso la Nunziatura.
A conferire quegli incarichi fu il
cardinale Ugo Poletti, all’epoca
vicario generale di Roma nonché presidente della Cei.
Sensibilizzato da una lettera di
monsignor Vergari, fu proprio
Poletti a dare il nulla osta che
esaudì il desiderio dell’ambizioso De Pedis. «Eminenza
Reverendissima – fu la presentazione che Vergari fece
al superiore di quel bandito
assassino – il defunto è stato
generoso nell’aiutare i poveri
che frequentano la Basilica, i
sacerdoti ed i seminaristi e in
suo suffragio la famiglia continuerà ad esercitare opere di
bene, soprattutto contribuendo
nella realizzazione di opere
diocesane...». Alla lettera Vergari volle allegare una nota
di benemerenza: «Si attesta
che il signor De Pedis, nato in
Roma Trastevere il 15-5-1954 e
deceduto a Roma il 2-2-1990 è
stato un grande benefattore dei
55 | giugno 2012 | narcomafie
Le responsabilità di Monsignor
Vergari. La sepoltura avvenne
senza clamore, la vedova pagò
le spese del sepolcro, che costò
37 milioni di lire e fu eseguito da una ditta convenzionata
con la Santa Sede. Accanto
alla tomba di De Pedis quella
di Giacomo Carissimi, il più
grande compositore musicale
del ’600. A Carla Di Giovanni
furono date in consegna le chiavi del cancello di accesso alla
cripta e la donna le restituì nel
’97, quando un articolo de «Il
Messaggero» rese pubblico lo
scandalo facendo partire un’indagine da parte della Direzione investigativa antimafia per
anni rimasta senza sbocchi, fin
quando la questione tornò alla
ribalta con la riapertura delle
indagini sul caso.
«Il vero motivo per cui De Pedis
fu seppellito nella basilica è
strettamente connesso al mistero della scomparsa di Emanuela
Orlandi – dichiarerà a sorpresa,
pubblicamente, due anni fa il
procuratore aggiunto Giancarlo
Capaldo, titolare delle indagini
sul caso Orlandi –. E a differenza di quanto la famiglia
ha fatto intendere con le sue
dichiarazioni pubbliche, non
fu De Pedis a chiedere di essere
seppellito lì: perché abbiamo
le prove che quel bandito alla
morte non pensava affatto».
Anche la moglie di De Pedis,
interrogata sulla questione in
procura, finirà per ammettere
che quella ricostruzione data
alla stampa non era esattamente
la verità, sostenendo quindi di
essere stata lei ad aver avuto
l’idea di quella sepoltura, per
rendere onore all’amato defunto
e di averne così parlato col
reggente della basilica, don
Vergari. Ma Vergari, per motivi
oscuri, dirà ai pm il contrario,
confermando l’iniziale versione
dei fatti così come raccontata
dalla vedova ai giornali.
Fatto sta che a maggio scorso i magistrati hanno deciso
di iscrivere nel registro degli
indagati Monsignor Vergari
per il sequestro di Emanuela
Orlandi.
Il prete è stato formalmente
accusato di aver organizzato
il rapimento insieme ad altre quattro persone e cioè alla
stessa ex amante di De Pedis,
Sabrina Minardi, di fatto rea
confessa del delitto, all’uomo
ritenuto l’autista di Renatino e
cioè tale Sergio Virtù – inguaiato pure da un’intercettazione
del 2009, in cui dava a intendere alla propria amante di
aver preso parte al misterioso
rapimento – nonché ai presunti
carcerieri della ragazza, due
malavitosi che all’epoca della
scomparsa di Emanuela gravitavano attorno ai Testaccini
di De Pedis e chiamati Angelo
Cassani, detto nell’ambiente
Ciletto e Gianfranco Cerboni,
soprannominato Giggetto.
Mirella Gregori: maggio
1983. Nel battere la pista di
un rapimento a sfondo sessuale, eseguito dalla mala
all’ombra del Cupolone, i magistrati hanno deciso pure di
accostare, unificando i fascicoli
d’inchiesta, il caso Orlandi a
quello, ugualmente irrisolto,
di un’altra ragazzina sparita a
Roma, all’età di 16 anni, il 17
maggio del 1983, cioè quaranta
giorni prima della scomparsa
di Emanuela: Mirella Gregori, figlia dei titolari di un bar
vicino alla stazione Termini,
via Montebello angolo via Volturno, dunque non cittadina
vaticana ma tuttavia vista – e
forse adocchiata, secondo chi
indaga – almeno una volta nei
sacri palazzi, dal momento che
la giovane si era recata con la
scolaresca un anno prima di
sparire per un incontro con
Karol Wojtyla, tant’è che una
foto-ricordo di quell’evento,
con Mirella sorridente accanto
al Pontefice, era rimasta affissa
Roma
poveri che frequentavano la
basilica e ha aiutato concretamente tante iniziative di bene
che sono state patrocinate in
questi ultimi tempi, sia di carattere religioso che sociale. Ha
dato particolari contributi per
aiutare i giovani, interessandosi
specialmente alla loro formazione cristiana e umana».
Roma
56 | giugno 2012 | narcomafie
in bacheca per diversi mesi
nella sede dell’ Osservatore
Romano.
Anche Mirella fu quasi sicuramente adescata da qualcuno
che le aveva ispirato fiducia,
perchè uscì di casa dopo aver
risposto al citofono e ai genitori disse, mentendo, di avere
appuntamento con amici che
invece si trovavano altrove. Per
questo da subito si ipotizzò un
movente sessuale del rapimento. E già all’epoca si insinuò
il sospetto che questo fosse
maturato in ambienti contigui
a quelli ecclesiastici: un’ipotesi
fatta non solo da parte degli
investigatori italiani ma anche
dalla polizia della Santa Sede
come dimostrato, se non altro,
da una vecchia intercettazione
telefonica.
L’allora vicecapo della vigilanza
vaticana, Raoul Bonarelli, era
infatti entrato nelle indagini in
qualità di sospettato perché la
madre di Mirella aveva intravisto un uomo che somigliava
al poliziotto parlare in più di
un’occasione con sua figlia e
una sua amica in un bar sotto
la loro abitazione. E Bonarelli, che comunque uscì pulito
dall’inchiesta, perché la madre
di Mirella durante il confronto
in procura non lo riconobbe, fu
ascoltato dagli investigatori di
allora mentre parlava con sua
moglie dopo essere stato convocato in tribunale per quella
faccenda, dicendo queste parole: “È uscito sul giornale di uno
della sicurezza del Papa, quello
che aveva adescato la figlia al
bar, pensa un po’ ... Il parroco
deve aver fatto il mio nome...
Per me è uno di quelli che stava
lì intorno in quel periodo... che
ce ne ha avuti 3 o 4 di questi
praticoni il prete, no?».
Bonarelli fu di nuovo ascoltato
negli anni 90 anche sul caso
Orlandi dal giudice Rando,
quando ancora era aperta la
prima indagine che seguiva la
pista del terrorismo internazionale legata all’attentato al Papa.
Ma il giorno prima dell’interrogatorio, un’intercettazione
documenta che Bonarelli fu
imbeccato dal suo capo, che
gli disse: «Che sai di Orlandi?
Niente! Non dirlo, eh... che è
andata alla Segreteria di Stato».
Il fu Renato De Pedis. La notizia clamorosa dell’incriminazione di monsignor Vergari per
il sequestro Orlandi è stata data
all’indomani dell’apertura della
tomba di Enrico De Pedis, avvenuta su ordine della procura
di Roma il 14 maggio del 2012,
dopo che sulla spinta degli
appelli accorati, alle autorità
italiane e vaticane, fatte dal
fratello della ragazza scomparsa, Pietro Orlandi, l’annosa
questione di quella sepoltura era arrivata in Parlamento,
con un intervento del ministro
dell’Interno Annamaria Cancellieri, la quale, dopo aver
studiato i vecchi documenti
che nel ’90 autorizzarono il
trasferimento della salma del
boss nella basilica, si è accertata che di fatto la tumulazione
nella cripta avvenne senza la
pur prevista autorizzazione del
Viminale, bensì soltanto con
un via libera del Comune, il
cui ufficio preposto, per errore
o mala fede, definì all’epoca,
erroneamente, Sant’Apollinare territorio inviolabile del
Vaticano, quando in realtà la
basilica è stata sempre sotto la
giurisdizione italiana.
La Santa Sede già nel 2010, in
risposta alle polemiche per il
silenzio imbarazzante, aveva
dato il suo nulla osta alla riesumazione del cadavere di
Renatino. Tuttavia, solo due
anni dopo questa è stata ordinata dai magistrati capitolini,
dunque con un ritardo enorme
apparentemente inspiegabile se
non fosse stato che gli inquirenti, più volte, abbiano affermato che la riesumazione nulla
di utile avrebbe aggiunto alle
indagini sul caso e che soprattutto non c’era alcun motivo
per sospettare che nella cripta,
al posto di De Pedis, ci fossero
i resti della ragazza. Come si
voleva dimostrare l’apertura
della tomba è stato un evento
sì emozionante, ma alla fine
alquanto deludente. Lì dentro
altri non c’era che il Fu Renatino col vestito del funerale, blu
scuro, la cravatta e la camicia
bianca, ormai ingiallita e la pelle del viso ancora parzialmente
integra, anche se la faccia era
ormai irriconoscibile.
Dalle mani quasi intatte è stato
possibile prelevare le impronte
digitali e i risultati degli esami hanno fugato ogni dubbio.
All’interno della cripta, anche
se in un luogo diverso da quello
dove Renatino riposava, sono
state trovate, ammassate, 200
ossa, quasi tutte di persone morte centinaia di anni fa. Qualcuna, però, è recente, di gente
defunta da 30 anni, proprio
quando Emanuela sparì. La fine
del giallo è attesa entro l’estate,
quandi la procura renderà pubblici i risultati degli esami del
Dna che si stanno svolgendo
su quelle ossa. Per l’autunno,
invece, è attesa la discovery
di tutte le carte sulla nuova
inchiesta per la scomparsa di
Emanuela.
altarisoluzione
58 | giugno 2012 | narcomafie
La battaglia
di Cherán
Cherán è un paese di circa ventimila
anime adagiato sulle montagne dello stato
di Michoacán, nel centro del Messico. Si
trova a più di duemila metri sul livello
del mare ed è circondato da boschi che,
negli ultimi anni, si sono andati assottigliando. La storia recente di Cherán ci
offre un esempio dell’esasperazione della
popolazione messicana nei confronti del
crimine organizzato, ma anche della forza
che possiamo avere se ci organizziamo
contro le mafie.
Gli abitanti di Cherán sono indigeni
purépechas che, come tutte le nazioni
indigene d’America, hanno un rapporto
speciale e intimo con quella che chiamano
Pacha Mama, la Madre Terra. I nativi americani comprendono in modo spirituale
Testo e foto di Emma Volonté
59 | giugno 2012 | narcomafie
60 | giugno 2012 | narcomafie
la connessione presente tra la natura e gli
esseri umani, relazione difficile da afferrare
per la nostra concezione giudaico-cristiana,
secondo cui solo gli essere umani hanno
un’anima. Per i purépechas, al contrario, i
boschi e le fonti d’acqua sono vivi e sacri,
e vanno pertanto amati e difesi.
Da tempo i talamontes, come si definiscono
i tagliaboschi illegali, avevano preso di mira
le foreste che circondano Cherán. Le elezioni
municipali del 2007 crearono una spaccatura all’interno del paese, e i tagliaboschi
approfittarono delle tensioni per portarsi via
tonnellate di legna: dai dieci ai venti camion
al giorno attraversavano le strade del paese,
carichi di pini e querce. Dal 2008 ad oggi, a
Cherán sono stati abbattuti 28mila ettari di
foresta, l’80% della superficie totale.
(A pag. 62 segue articolo
di approfondimento)
altarisoluzione
61 | giugno 2012 | narcomafie
altarisoluzione - approfondimento
62 | giugno 2012 | narcomafie
Sulle barricate
Spietati tagliaboschi nello stato di Michoacán stanno
devastando il territorio. Dietro di loro, i disegni di criminali
organizzati che sul contrabbando di legname fanno affari d’oro.
Ma la popolazione non ci sta
Durante
l’insurrezione
i bambini
avevano smesso
di andare a
scuola perché
la criminalità
organizzata
minacciava
attentati e
gli insegnanti
decisero di
fare lezione
intorno ai falò
di Emma Volonté
Quando il crimine organizzato,
molto presente nello Stato di
Michoacán, si rese conto degli
introiti che potevano derivare
dal commercio clandestino di
legna, volle la sua fetta di torta.
Secondo uno studio della Banca
mondiale dal titolo “Giustizia
per i boschi. Migliorando gli
sforzi della giustizia penale per
combattere il disboscamento
illegale”, a livello planetario la
vendita illegale di legna genera
introiti per una cifra compresa
tra i 10 e i 15 miliardi di dollari.
In Messico, la maggior parte dei
proventi derivati dal commercio
della legna finisce nelle casse
del crimine organizzato. Parte
di questo denaro – continua lo
studio – viene utilizzato per
pagare funzionari corrotti a tutti i livelli di governo: locale,
statale e federale. Le leggi di
protezione delle risorse boschive in Messico non vengono
applicate proprio a causa della
corruzione, ma anche dei problemi di coordinamento tra le
autorità, e la probabilità che un
depredatore forestale messicano
venga sanzionato è una delle
più basse del mondo: si parla di
meno di un arresto ogni cento
tagliaboschi clandestini.
Non talamontes qualunque. Gli
uomini del crimine organizzato
dello Stato di Michoacán, appartenti al cartello denominato
La Familia Michoacana, hanno
saputo approfittare di questa
situazione di impunità generalizzata mettendosi all’entrata
del bosco di Cherán e chiedendo
1.000 pesos (circa 60 euro) ai
tagliaboschi per ogni camion
che usciva, offrendo in cambio
protezione nei confronti della
popolazione locale.
La tensione tra i tagliaboschi
e gli abitanti di Cherán era
infatti palpabile. «Vivevamo
il disboscamento delle nostre
foreste per opera dei talamontes, ma non avevamo capito che
dietro di loro c’era il crimine
organizzato. Poi, visto che la
situazione continuava e che si
trattava di una vera e propria
devastazione, abbiamo iniziato
a pensare che non potevano
essere talamontes comuni. Così
abbiamo indagato e abbiamo
scoperto che dietro di loro c’era
gente armata, appartenente a
un cartello del narcotraffico»,
racconta a «Narcomafie» José
Merced Velázquez, abitante
di Cherán.
La sorgente d’acqua. Il conflitto esplose quando i tagliaboschi iniziarono ad abbattere
gli alberi secolari che proteggevano la sorgente che rifornisce
d’acqua tutto il paese: il 15
aprile 2011, alle 6 del mattino,
un gruppo di donne e giovani
bloccarono con pali e pietre
tre camion dei tagliaboschi.
Fermarono cinque di loro per
consegnarli alle autorità e, nello
scontro, una persona ricevette
una pallottola nella testa. La
popolazione riuscì comunque
a cacciare i criminali, che nella
fuga incendiarono il bosco.
«L’insurrezione è iniziata perché i criminali toccarono la nostra più grande sorgente d’acqua
– spiega José Merced Velázquez
–. A quel punto abbiamo reagito: per noi purépecha il bosco e
l’acqua sono sacri, perché sono
le fonti della nostra vita. Consideriamo la natura come parte di
noi stessi, quando toccarono la
zona dove si genera l’acqua ci
siamo sentiti come se ci avessero attaccato. Abbiamo reagito come gli essere viventi che
siamo, in relazione all’acqua e
all’aria. Da tempo parlavamo
di fare qualcosa per fermare i
talamontes, ma l’insurrezione
si è data in modo spontaneo: la
gente iniziò a bloccare i camion
che passavano per il paese,
inizialmente furono le donne,
poi ci siamo aggiunti tutti».
«Di fronte all’umiliazione che
viveva la nostra comunità e
all’inerzia da parte del governo, che non agiva contro i talamontes malgrado le nostre
denunce, noi donne abbiamo
dato vita alla lotta per la difesa
dei boschi, della nostra casa che
è Cherán – racconta Alicia –.
La storia della nostra comunità
è frequente in Messico, dove i
popoli nativi vengono spogliati
delle loro risorse naturali e dei
luoghi sacri che i nostri avi ci
hanno lasciati in eredità, e che
noi vogliamo lasciare ai nostri
figli e nipoti». Anche Angelina
ricorda il coraggio che la mosse
in quei giorni: «Non eravamo
più liberi di uscire in strada
ed avevamo paura per i nostri
bambini. Abbiamo iniziato a
parlare fra noi per decidere il
da farsi, e un giorno abbiamo
preso in mano i bastoni. Ora
siamo liberi e non abbiamo
più paura».
Barricate in paese. Il 15 aprile 2011, dopo aver cacciato la
criminalità organizzata, la gente
di Cherán ha costruito barricate
alle tre entrate del paese, per
impedire il passaggio dei tagliaboschi. José Merced Velázquez
racconta come la comunità si
è organizzata per difendersi:
«Ancora oggi c’è una barricata
a ogni entrata, siamo pronti per
qualsiasi eventualità. La nostra
priorità è assicurare la sicurezza di tutti, e lo abbiamo fatto
creando posti di vigilanza in
tutto il paese, che poi abbiamo
chiamato “falò”: sono fuochi
intorno ai quali ci riuniamo
riscaldati dalla legna». Sono
stati creati centinaia di falò in
tutta Cherán, per permettere a
chi vigilava le strade di ripararsi dal freddo pungente della
montagna michoacana. I falò si
sono presto convertiti in luoghi
di aggregazione e interscambio,
in una comunità che nella sua
coesione ha trovato la forza per
lottare contro un potere che a
molti sembra invincibile.
Il fuoco ha inoltre un significato
particolare nella cultura purépecha, come spiega a «Narcomafie» Jurhamuti José Velázquez
Morales: «In lingua purépecha
si parla di khurikhua k’erhi, il
grande fuoco, elemento creatore
e generatore di vita, luce, pace e
dialogo. Per noi il fuoco ha una
grande importanza, è sempre
presente nelle feste e nei rituali,
ad esempio in quelli relativi
alla medicina tradizionale o
nei matrimoni. Parhankua è il
falò, il fuoco sul piano mondano, intorno a cui possiamo
dialogare e condividere, addirittura imparare: quando c’è
stata l’insurrezione i bambini
avevano smesso di andare a
scuola perché la criminalità organizzata minacciava attentati,
e i maestri e le maestre hanno
deciso di fare lezione intorno
ai falò. Intorno alla parhankua
i bambini imparano anche la
nostra lingua purépecha, che
si sta perdendo, o attività che
sono state assorbite nel processo
di acculturazione occidentale,
come fare legna o preparare pietanze locali. Il fuoco ha quindi
per noi un significato storicosociale molto importante, e oggi
acquista una valenza in più: lo
abbiamo ripreso nel nostro processo di organizzazione contro
la criminalità, lo utilizziamo per
proteggerci, per tenerci allerta
e caldi. È diventato la cellula
del nostro movimento, intorno
al falò parliamo della nostra
lotta e di ciò che succede nelle
nostre famiglie».
La comunità
ha organizzato
ronde
per proteggere
la foresta
dai tagliaboschi,
in 18
hanno perso
la vita
negli scontri
con il crimine
organizzato.
L’ultimo
episodio si è
registrato il 18
aprile scorso
altarisoluzione - approfondimento
63 | giugno 2012 | narcomafie
Niente elezioni
contro la corruzione
altarisoluzione - approfondimento
64 | giugno 2012 | narcomafie
Oggi la criminalità organizzata
e i camion pieni di legna non
passano più per il paese, ma
continuano ad operare – seppur
in modo ridotto – nei boschi
che la circondano. La comunità
organizza ronde per proteggere
la foresta dai tagliaboschi, sono
diciotto gli abitanti di Cherán
morti negli scontri con il crimine
organizzato. L’ultimo episodio
si è registrato il 18 aprile scorso, quando un gruppo di venti
persone impegnate in lavori
di riforestazione fu vittima di
un’imboscata: due persone vennero ferite e altre due trovarono
la morte. Nello stesso luogo, il
mese precedente, undici persone furono sequestrate.
Gli impresari dell’avocado. Il
commercio illegale di legna non
è l’unico affare che la criminalità organizzata sta facendo alle
spalle degli abitanti di Cherán:
una volta abbattuti gli alberi, la
zona viene bruciata e si converte
in terreno adatto alla coltivazione. Non a caso, negli ultimi anni
sono spuntati impresari che
chiedono l’utilizzo dei terreni
per seminare piante di avocado, coltivazione molto comune
nello Stato di Michoacán. La
gente di Cherán sostiene che
gli “impresari dell’avocado”
lavorano in accordo con il crimine organizzato e criticano
la scelta di coltivare questa
pianta perché ha bisogno di
molta acqua, non è adatta al
tipo di suolo ed è destinata
all’esportazione invece che al
consumo interno.
Un momento importante nella storia di Cherán fu il novembre 2011.
Si sarebbero dovute tenere le elezioni locali, ma la comunità decise
di non lasciare entrare i candidati
alla presidenza municipale: «Abbiamo deciso di non celebrare le
elezioni perché il sistema elettorale
messicano propizia la corruzione
e fa vincere chi in realtà ha perso.
Il presidente municipale di allora era colluso con la criminalità
organizzata, che lo proteggeva in
cambio della sua connivenza: abbiamo denunciato i criminali alle
autorità molte volte, ma non hanno
mai fatto nulla», denucia José Merced Velázquez. Inoltre, secondo la
gente di Cherán, i partiti promuovono l’individualismo e dividono
la comunità, creando tensioni tra
persone di differente affiliazione
politica. Il crimine organizzato
approfitta di queste divisioni per
portare avanti il disboscamento
clandestino della foresta.
Una volta cacciati i partiti, gli abitanti di Cherán decisero di governarsi “per usi e costumi”: elessero
le loro autorità attraverso il sistema
assembleario con cui i loro avi gestivano la cosa pubblica prima della
conquista da parte degli spagnoli,
che imposero lo Stato-nazione e la
democrazia rappresentativa.
Per evitare che i partiti politici
collusi con la criminalità organiz-
zata tentassero di organizzare altre
elezioni, invalidando il processo
politico portato avanti dagli abitanti
di Cherán, questi chiesero al Tribunal Electoral del Poder Judicial
de la Federación (l’organo federale
incaricato di risolvere le controversie in materia elettorale) di indire
un referendum per chiedere alla
popolazione se volesse governarsi
“per usi e costumi” o attraverso il
sistema costituzionale.
La legge non contempla esplicitamente il diritto dei popoli indigeni
di governarsi secondo il sistema
tradizionale, ma il Messico ha ratificato dei trattati internazionali che
regolano la materia. In particolare,
la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Popoli indigeni e il Convegno
169 dell’Oil, che stabilisce diritti
in capo ai popoli nativi sul proprio
territorio e sulla propria forma di
governo, prevedendo il rispetto, da
parte dello Stato e le sue istituzioni,
dei costumi e del diritto consuetudinario indigeno. «La normativa
internazionale ci ha permesso di
appellarci al Tribunal Electoral del
Poder Judicial de la Federación,
e la sua sentenza fu una sopresa
per tutti – prosegue José Merced
Velázquez –. Noi indigeni messicani
siamo abituati a vedere le istituzioni
sempre dalla parte dei potenti, ma
quella volta il tribunale ci diede
ragione, stabilendo il nostro diritto
ad eleggere le autorità attraverso
il sistema “per usi e costumi”.
Al referendum solo otto persone
hanno votato a favore del sistema
partitario, e le elezioni secondo il
sistema tradizionale purépecha si
sono svolte il 22 gennaio. Fu una
festa, il riconoscimento legale delle
nostre autorità è stata una grande
vittoria: ora abbiamo un governo collettivo, non individuale e
personale, e le istituzioni statali e
federali devono rivolgersi a tutte le
dodici persone che ne fanno parte.
Abbiamo anche cacciato l’esercito
e la polizia imposta dal governo,
e ora noi stessi eleggiamo chi si
occupa di garantire la sicurezza nel
paese». Non più i corrotti poliziotti
messicani, spesso collusi con la
criminalità organizzata, ma persone
scelte dagli abitanti di Cherán, in
base alla loro affidabilità e rigore
morale.
La storia di Cherán ha ispirato
altre comunità messicane a cui la
criminalità organizzata non permette una vita serena. Lo scorso
giugno la gente di Huamuxtitlán,
nello Stato di Guerrero, ha liberato
diciassette persone sequestrate
dal cartello de Los Zetas e ha
fermato sei dei suoi membri. Il
sindaco e le altre autorità di Huamuxtitlán, assicurano gli abitanti,
sono collusi con la criminalità
organizzata.
Lugano Gerardo Cuomo dovrà
essere giudicato ancora una volta dalla Corte d’Appello di Bari
che, dopo averlo assolto per due
volte in tre anni (febbraio 2008
e gennaio 2011) dall’accusa di
associazione mafiosa, sarà chiamata a giudicarlo per la terza.
Lo ha deciso nei giorni scorsi
la Corte di Cassazione che ha
annullato con rinvio ai giudici
baresi la sentenza con cui la
stessa Corte d’Appello aveva
stabilito che Cuomo, uno dei
quattro «broker» internazionali – titolari di una licenza che
consentiva l’importazione in
Montenegro di 25mila casse di
tabacchi lavorati esteri al mese –,
non avesse mai fatto parte della
«Tobacco Connection».
Per Cuomo, napoletano d’origine, ma operativo in Svizzera,
occorrerà un terzo giudizio
di merito (sul perché sarà necessario attendere le motivazioni del Supremo Collegio).
Cuomo dovrà tornare in aula
per difendersi dall’accusa di
avere fatto parte della presunta
Colombia,
scoperti
cimiteri
clandestini
Bogotà Accompagnata da un
capo paramilitare smobilitato,
una delegazione dell’Unità di
giustizia e pace della procura
generale colombiana ha localizzato 180 fosse nelle località
di Unguía e Necoclí, situate,
rispettivamente, nei dipartimenti nord-occidentali di Chocó e
Antioquía.
Secondo le indicazioni di Freddy Rendón Herrera, alias El
Alemán, già capo del Bloque
Elmer Cárdenas delle Autodifese unite della Colombia (Auc),
conterebbero almeno 150 cadaveri di persone assassinate da
diversi squadroni della morte
di estrema destra un tempo
attivi nella regione Urabá.
Rendón ha dichiarato che si
tratta di vittime del conflitto
interno uccise tra il 1995 e il
1999. Ma nelle fosse di Necoclí
sarebbero stati occultati anche i
corpi di diversi membri dei più
temuti squadroni, dalla Casa
Castaño, che prende il nome
dagli storici fondatori delle
Auc, al fronte Arlex Hurtado
e al Bloque Bananero.
El Alemán e i membri del suo
fronte, oltre 1500, deposero
formalmente le armi tra l’aprile
e l’agosto 2006. Fra il 2003 e il
2006 furono in totale 32mila,
sulla carta, i paramilitari smobilitati come risultato.
rassegna stampa internazionale
“Tobacco
connection”,
annullata
assoluzione
a Cuomo
associazione mafiosa che, secondo la Dda di Bari (e alcune
sentenze), tra il 1996 e il 2000
avrebbe introdotto in Puglia dal
Montenegro mille tonnellate
al mese di tabacchi, riciclando
denaro in Svizzera.
Le sigarette venivano importate in Montenegro (il Governo
imponeva una tassa di 55 dollari per cassa), stoccate dalla
«Zetatrans», società a partecipazione pubblica, e introdotte
illegalmente in Italia via mare
da contrabbandieri pugliesi e
campani che gestivano i loro
affari dalla latitanza dorata nel
Montenegro. Le sigarette, una
volta giunte sulle coste a bordo
di motoscafi, venivano immesse
sul mercato nero. I pagamenti
dei fornitori venivano effettuati in Svizzera dove il denaro
veniva trasportato in contanti
tramite corrieri a bordo di auto
piene di lire, dollari e franchi
svizzeri. Già nel primo rinvio i
giudici avevano rispedito tutto
a Bari affinché una diversa sezione riesaminasse la questione Cuomo. In quell’occasione
era stato suggerito ai giudici di
merito di rivalutare le prove
per Cuomo partendo dalla presunta riconducibilità di alcune
sue società in contatto con la
Zetatrans, alla sua «qualità di
fiduciario della Philip Morris
in Svizzera e di concessionario
del governo montenegrino per
l’importazione».
a cura di Stefania Bizzarri
65 | giugno 2012 | narcomafie
66 | giugno 2012 | narcomafie
è stato ben fatto», ha stimato
la cronista. Patrucic ha anche
aggiunto che questi documenti
dimostrano chiaramente che la
Prva Banka ha commesso numerose infrazioni. L’inchiesta
scoppia in un momento di forte
crisi finanziaria del Paese. Il
debito pubblico montenegrino sfiora 1,5 miliardi di euro:
una spirale che potrebbe presto
portare il Montenegro alla bancarotta, considerando inoltre
che il Paese segue i criteri di
stabilità dettati del trattato di
Maastricht perché utilizza l’euro, pur senza averne mai avuto
un’autorizzazione formale.
Montenegro:
Prva Bank,
il bancomat
del clan
Djukanovic
Podgorica Documenti confidenziali metterebbero in luce le
strette relazioni della famiglia
di Milo Djukanovic, ex primo
ministro del Montenegro e
attuale presidente del partito
politico al potere (Dps), con la
banca «Prva» (“Prima” ndr), i
cui azionisti di maggioranza
sono parenti prossimi di Djukanovic stesso.
Un’inchiesta condotta congiuntamente dalla Bbc e dall’«Organized crime and corruption
reporting project» (Occrp)
dimostra che la maggioranza
dei fondi depositati sui conti
di questa banca proviene da
capitali pubblici e che i due
terzi dei prestiti accordati dalla
stessa sono stati destinati a
Milo Djukanovic, a collaboratori prossimi e a familiari.
L’inchiesta di Occrp ha dimostrato che lauti presititi sono
stati erogati anche alle società
legate al faccendiere Stanko
Subotic, accusato in Italia di
traffico di sigarette, e Darko
Saric, trafficante di stupefacenti
latitante dal 2010.
Milo Djukanovic e i dirigenti
di Prva Banka si sono rifiutati
di rispondere alle domande dei
giornalisti. Miranda Patrucic,
giornalista dell’Occrp, afferma
che la famiglia Djukanovic e i
suoi collaboratori si servivano
della banca «come un distributore di contanti».
Miranda Patrucic per tre anni
ha seguito l’attività della Prva
Banka:« Il fatto che alti funzionari non si siano pronunciati in
pubblico né abbiano contestato
l’autenticità o l’esattezza dei
dati indica che il nostro lavoro
Mafia balcanica, album
di famiglia
Sarajevo Naser Kelmendi è
nato a Pec, in Kosovo, 55 anni
fa. Dopo la guerra si è stabilito
a Sarajevo. In dieci anni ha
costruito «un vero impero criminale», secondo le stime dei
servizi segreti bosniaci. Noto
all’Interpol, Naser Kelmendi è
stato recentemente iscritto sulla
«lista nera» degli Stati Uniti
perché sospettato di transazioni
finanziarie derivanti da capitali
accumulati grazie al traffico di
droga. Naser Kelmendi non è
mai stato giudicato da un tribunale bosniaco, tuttavia, insieme
al fratello e i figli, è sospettato
di differenti crimini: traffico di
droga e armi, contrabbando di
sigarette, riciclaggio e usura.
Il clan formerebbe una delle
più potenti reti criminali dei
Balcani e costituerebbe il canale
principale del transito di droga
in Europa via ex Yougoslavia.
Negli anni i servizi segreti
sono riusciti a costituire un
voluminoso dossier sul clan
Kelmendi, al quale sarebbero
legati importanti personalità
della Bosnia-Herzegovina, del
Kosovo e del Montenegro. In
questo vero e proprio album di
famiglia delle reti criminali balcaniche ritroviamo Naser Oric,
già capo della difesa bosniaca
a Srebrenica; Nihad Bojadzic,
ex colonnello dell’Esercito di
Bosnia-Herzegovina; Ekrem
Luka, businessman del Kosovo,
Ramush Haradinaj, ex primo
ministro kosovaro. Tra questi
nomi figura anche quello di
Fahrudin Radoncic, neoministro dell’Interno di Bosnia.
Anche se Radoncic ha smentito
di intrattenere qualsiasi tipo di
relazione con Naser Kelmendi,
un’inchiesta condotta nel 2010
dal Centro per il giornalismo
investigativo di Sarajevo (Cin)
provava la vicinanza dei due
attraverso la conclusione di
affari comuni nel settore immobiliare tra Zenica e Sarajevo,
dove Kelmendi possiede l’hotel
di lusso “Casa Grande”.
I rapporti di Fahrudin Radoncic con il crimine organizzato
ritornano dunque di attualità
nel momento della sua investitura a ministro della Sicurezza,
ma non sono una sorpresa. Nel
2010 un cablogramma dell’ambasciata degli Stati Uniti lo
definiva un «magnate dei media, potente, corrotto e vendicativo». Sempre secondo il
documento «Radoncic era in
procinto di ottenere un ruolo
politico per evitare di essere
condannato a causa delle sue
attività illegali». Installarsi al
posto del ministero di Sicurezza potrebbe essere già un
buon inizio.
Quito L’Ecuador sta diventando
un paese sempre più “attraente”
per il narcotraffico e il riciclaggio
di denaro proveniente da attività
criminali a causa della sua prossimità con i principali produttori
e consumatori di cocaina e alla
sua economia “dollarizzata”.
«Il fatto di avere come vicini due
paesi che producono droga come
Colombia e Perù ha fatto sì che
i ‘narcos’ abbiano cominciato a
utilizzare l’Ecuador come teatro
dei loro affari o per il trasporto
degli stupefacenti», ha avvertito
il direttore dell’Unità di analisi finanziarie (Uaf), Gustavo
Iturralde. In più, aver adottato
il dollaro, nel 2000, ha spinto
anche il riciclaggio, reato peraltro
non codificato fino al 2005.
I settori più esposti al riciclaggio,
che secondo Iturralde arriva a
rappresentare il 3% del Prodotto
interno lordo nazionale (in totale
pari a 21,5 miliardi di euro), sono
l’edilizia, l’industria automobilistica e le piccole cooperative
che ricevono e inviano il denaro
degli emigrati.
Altro motivo di preoccupazione
per le autorità del paese andino,
è la presenza dei cartelli della
droga messicani: sebbene, secondo l’Uaf, non si siano ancora
stabiliti in Ecuador, lo utilizzano
da tempo per i loro traffici. A
dimostrarlo, tra l’altro, ha contribuito anche l’incidente aereo
avvenuto la scorsa settimana
quando un velivolo messicano
che volava a bassa quota si è
Turchia,
soluzione
per il popolo
curdo?
Ankara La deputata turca Leyla
Zana, nota per le sue posizioni filo curde, è convinta che il
premier Recep Tayyip Erdogan
risolverà la questione curda. «Non
ho mai perso la speranza in lui»,
ha detto la Zana in un’intervista
al quotidiano «Hurriyet», pubblicata oggi. «La persona che è a
capo del più forte governo nella
storia (del paese, ndr) è in grado
di dimostrare la volontà e il potere di risolvere la questione – ha
detto la Zana –. Credo ci riuscirà».
Nell’intervista la Zana conferma
quanto scritto pochi giorni fa dal
direttore di «Hurriyet», Murat
Yetkin, in un editoriale in cui
sosteneva che «la scena politica
del paese sta convergendo rapidamente verso la cooperazione
(tra i due maggiori partiti) sul
problema cronico dei curdi».
Il 6 giugno scorso il premier Erdogan ha ricevuto il capo del
Partito repubblicano del popolo
(Chp, maggiore forza dell’opposizione), Kemal Kilicdaroglu, per
discutere con lui di una soluzione
definitiva alla questione curda.
La proposta di Kilicdaroglu di
creare una commissione mista
in parlamento per redigere una
road map per la soluzione del
problema curdo è stata accolta da
Erdogan, il quale ha sottolineato
inoltre che «intende collaborare
con il Chp» anche nel caso in cui
il partito filo curdo per la pace e la
democrazia (Bdp) e il Partito del
Movimento nazionalista (Mhp)
decidano di non prendere parte
alla commissione.
«La posizione assunta da Erdogan – scrive Yetkin – è stata
una vera sorpresa e rappresenta
la prima opportunità nella storia della Turchia per trovare un
consenso sul problema curdo che
ha causato oltre 40 mila morti
negli ultimi tre decenni». L’Mhp
e il Bdp, nel frattempo, hanno
annunciato di non voler aderire
alla commissione parlamentare.
È quindi probabile che saranno
i due maggiori partiti, Giustizia
e sviluppo (Akp) e Partito del
popolo repubblicano (Chp, erede
di quello fondato dal padre dei
turchi, Mustafa Kemal Ataturk)
a creare una “grande coalizione”
per risolvere il problema curdo.
Secondo Yetkin, «l’intera regione
potrebbe beneficiare di una soluzione della questione curda e
la responsabilità è nelle mani di
Erdogan e Kilicdaroglu».
Nel frattempo Erdogan ha annunciato l’intenzione del governo d’introdurre lezioni facoltative di lingua curda nelle
scuole a partire dal prossimo
anno. «Il curdo sarà insegnato
come materia facoltativa se ne fa
richiesta un numero sufficiente
di studenti. È un passo storico»,
ha affermato Erdogan in un discorso tenuto in parlamento ai
deputati dell’Akp. L’introduzione
del curdo nelle scuole fa parte della nuova riforma dell’istruzione
in Turchia, che permetterà agli
studenti di scegliere le scuole
religiose islamiche e studiare
la religione musulmana come
materia facoltativa.
rassegna stampa internazionale
Ecuador
nelle mire
dei narcos
messicani
schiantato a terra nella provincia
nord-occidentale di Manabí: a
bordo, oltre ai corpi dei due
passeggeri, messicani, è stata
trovata una valigia contenente un
milione e mezzo di dollari.
a cura di Stefania Bizzarri
67 | giugno 2012 | narcomafie
68 | giugno 2012 | narcomafie
La ricerca dei figli dei desaparecidos
Argentina
chiama Italia
Nel nostro paese potrebbero trovarsi figli di desaparecidos
argentini, cresciuti da famiglie che hanno tenuto nascoste le
loro origini. Una campagna lanciata dalla Rete per il diritto
all’identità raccoglie l’appello delle nonne di Plaza de Mayo:
madri che mai più rivedranno i figli torturati e uccisi,
ma che sperano di trovare i propri nipoti
Foto di Anvica
di Viviana Pansa
69 | giugno 2012 | narcomafie
Sono 395 i figli di desaparecidos che ancora mancano all’appello delle “Abuelas de Plaza de
Mayo” rilanciato in Italia dalla
Rete per il diritto all’identità,
gruppo di associazioni, ong, onlus e istituzioni pubbliche che
promuovono anche nel nostro
paese la campagna per la ricerca
di giovani desaparecidos.
Le mamme argentine dei cittadini torturati ed uccisi nel
periodo della dittatura militare
credono infatti nella possibilità
che alcune delle famiglie che
hanno ricevuto neonati sottratti
a desaparecidos siano emigrate
in Europa e in particolare in
Italia, visti i vincoli che intercorrono tra i due paesi, in seguito
al default economico del 2001 e
al difficile contesto economico e
sociale ad esso associato.
Storia di Estela. C’è dunque la
possibilità che in Italia vivano
figli, oggi trentenni o trentacinquenni – la dittatura militare
governò il Paese sudamericano
dal 1976 al 1983 – che non conoscono la loro vera identità e
storia, o che sospettino di non
appartenere al nucleo familiare
in cui sono cresciuti. Proprio
a loro è rivolta la campagna
messa in campo con il sostegno della Commissione per
il diritto all’identità (Conadi)
della Repubblica Argentina e
annunciata nei giorni scorsi
in una conferenza stampa alla
Camera dei Deputati. Un’iniziativa organizzata in occasione
dell’arrivo in Italia di Estela
Carlotto, donna simbolo della
battaglia dell’associazione delle
nonne di Plaza de Mayo, di cui
è presidente.
Accompagnata dal parlamentare argentino Horacio Pietragalla,
anch’egli figlio di desaparecidos
e di origine italiana, Estela Carlotto ha incontrato il 29 maggio
scorso il Comitato per i diritti
umani della Camera, a cui sono
state rivolte alcune richieste per
l’identificazione di vittime della
dittatura e il sostegno a questa
nuova iniziativa che ha portato
già al ritrovamento di 105 tra i
nietos sottratti.
La vicenda di Estela è raccontata nel film Verdades verdaderas. La vita de Estela, proposto
recentemente in prima visione italiana al Nuovo Cinema
Aquila di Roma: sposata con
Guido Carlotto, imprenditore
la cui famiglia era originaria
di Arzignano (Vi), subì, oltre al
sequestro del marito, rilasciato
dietro riscatto, la scomparsa
della figlia, Laura Estela, la
quale prima di essere uccisa
partorì, nell’ospedale militare
di Buenos Aires, il 26 giugno
del 1978 – come riporta il sito
internet della onlus 24 marzo
(http://www.24marzo.it), da
tempo impegnata a fianco dei
familiari delle vittime della dittatura argentina – il figlio Guido, a
tutt’oggi non ancora ritrovato.
Un legame a filo doppio. Sarebbe sufficiente rileggere i nomi di
questa drammatica vicenda familiare per comprendere come
la storia dell’emigrazione italiana in questo paese si confonda
sino a diventare un tutt’uno con
la storia più recente del popolo
argentino. «Se l’emigrazione
italiana all’estero ha costituito
una delle parti più rilevanti
della nostra storia nazionale,
la nostra collettività emigrata
in Argentina ne ha certamente
vissuto le pagine più drammatiche», ha affermato nel corso
della conferenza stampa Fabio
Porta, deputato eletto nella cir-
coscrizione Estero. Ma è forse
solo scorrendo i nomi di coloro
che si sono costituiti parte civile nei processi celebrati dal
Tribunale di Roma a carico di
alcuni esponenti dei vertici
militari delle dittature latinoamericane (come Alfonso Podlech, procuratore militare ai
tempi di Pinochet, o Emilio
Eduardo Massera, capo di Stato
maggiore della Marina militare
argentina) che prendono corpo
i risvolti concreti di questa fusione. Risvolti che sono ferite
aperte nella memoria di un
popolo e non solo. Di uno Stato,
ma non solo.
Per questo anche l’Italia è chiamata oggi a fare la sua parte.
Perché sia fatta giustizia, ma
anche per contribuire alla ricerca della verità su quei fatti,
perché non si dica, oggi come
allora, che i figli dei desaparecidos sarebbero stati in realtà
“nascosti all’estero” e le rivendicazioni di queste nonne senza
fondamento. Illazioni che Tonio
Dell’Olio, di Libera Internazionale, afferma di aver ascoltato
ancora l’anno scorso nel corso
di una consultazione promossa
dall’Ufficio delle Nazioni Unite
per il controllo della droga e la
prevenzione del crimine.
L’Argentina tiene a far sapere al
mondo che sta facendo la sua
parte, così come ha sottolineato
Carlos Cherniak, responsabile
dei diritti umani per l’ambasciata argentina a Roma, e come
dimostra il sostegno alla campagna della Commissione per il
diritto all’identità del governo
argentino. Ma il salto di qualità
nella riuscita e per la reale portata di questa battaglia è affidato
ancora una volta all’impegno
della società civile.
Per info: www.retexi.it.
Donna simbolo
della battaglia
dell’associazione
delle nonne di Plaza
de Mayo, Estela
Carlotto ha
incontrato il 29
maggio scorso
il Comitato per i
diritti umani della
Camera, a cui sono
state rivolte alcune
richieste per
l’identificazione
di vittime della
dittatura e il sostegno
a questa nuova
iniziativa che ha
portato già al
ritrovamento di 105
tra i nietos sottratti
70 | giugno 2012 | narcomafie
criminalità e dintorni
cronachesommerse
di Andrea Giordano
Instabile Libia
A breve distanza dalle elezioni
– rinviate a luglio – che dovrebbero darle una nuova assemblea
costituente, la Libia è teatro di
attentati e violenze estremiste,
indici dell’elevata instabilità che
regna nel Paese otto mesi dopo la
sua “liberazione”.
Attacchi a catena sono stati portati
a termine a Bengasi: un veicolo
dell’ambasciata del Regno Unito è
stato di recente colpito da un razzo
anticarro. All’inizio di giugno un
ordigno è stato fatto esplodere di
fronte alla sede diplomatica degli
Stati Uniti. In maggio, erano stati
attaccati gli uffici del Comitato
internazionale della Croce Rossa
(la medesima organizzazione è
stata colpita anche pochi giorni
fa a Misurata), mentre in aprile
una bomba era stata scagliata
contro un convoglio della missione Onu in Libia.
Sempre a Bengasi, focolaio della
ribellione dell’anno scorso contro
il regime di Gheddafi, sono stati
notati nell’ultimo mese miliziani
a bordo di pickup con vessilli
neri jihadisti, e centinaia di ex
ribelli armati sono scesi in piazza
chiedendo l’istituzione della legge
islamica (Sharia).
Ai primi di giugno anche l’aeroporto di Tripoli è stato preso d’assalto per una giornata da uomini
della milizia Al Awfiya, in segno
di protesta per il rapimento del
loro leader. L’ordine è poi stato
riportato da altri miliziani – appartenenti alle Forze rivoluzionarie della cittadina di Zindan
– che agiscono su mandato delle
autorità libiche.
Nella capitale, come pure a Bengasi, gruppi di islamisti armati
hanno devastato tombe e luoghi
santi della comunità sufi.
Ad oggi in Libia è stata reintegrata nelle nuove, embrionali forze
di sicurezza solo una piccola
parte degli ex ribelli ancora in
armi, e molte zone sono ancora
controllate da milizie.
A Derna, ad esempio, sono avvenuti numerosi scontri tra fazioni
armate ed attentati, tra cui quello –
fallito – ai danni di Abdel Hakim al
Hassadi, potente leader dei ribelli
ed ex jihadista in Afghanistan
quale membro del Lifg (Gruppo combattente islamico libico):
questo gruppo armato tentò di
rovesciare Gheddafi negli anni
Novanta, allineandosi poi ad Al
Qaeda nel 2007, prima del ripudio
di tale posizione nel 2009, anno
del suo scioglimento definitivo. A
Derna sarebbe però presente anche
un nuovo emissario di Al Qaeda,
Abdul Basit Azuz, con 300 uomini
e un campo di addestramento.
A Zintan, gli uomini di una milizia
che vigila sulla prigionia del figlio
di Gheddafi, Saif al Islam, hanno
arrestato insieme alla sua interprete l’avvocato di una commissione
della Corte penale internazionale
in visita al detenuto, con l’accusa
di aver tentato di recapitare a Saif
un messaggio inviatogli da un suo
ex braccio destro ora ricercato
dalle autorità libiche.
Aree remote nel sud della Libia
sono teatro di accesi scontri tribali. E intanto prosegue il contrabbando di armi (predate al
caduto regime) verso l’Egitto, o
verso il Mali e la Nigeria.
Eppure, in un Paese quasi tutto
di fede sunnita, la componente
religiosa islamica – persino in
ciò che resta delle organizzazioni
radicali e jihadiste represse in
ogni modo dallo scomparso dittatore – rappresenta l’unico, decisivo
elemento di riunificazione e di
creazione identitaria, e sarà alla
base di qualunque nuova realtà
politica: il problema è vedere se
quest’ultima in futuro vorrà e
potrà combattere l’estremismo e
il potere delle milizie, retaggio
del suo passato e del suo stesso
presente.
Nello scorso agosto Mustafa
Abdel Jalil, leader del Consiglio
nazionale transitorio al potere in
Libia, ha indicato la Sharia come
il principale elemento della futura
legislazione del Paese.
I Fratelli musulmani libici, a lungo
perseguitati sotto Gheddafi, hanno
dato vita al partito Giustizia e Costruzione, che di certo svolgerà un
ruolo-chiave nello sviluppo civile
del Paese. Lo stesso vale per Ali
al Sallabi, chierico islamico – in
passato imprigionato dal regime
ma poi da esso usato come mediatore con il LIFG – vicino all’élite
politico-religiosa del Qatar, grande
finanziatore e sostenitore logistico
della ribellione libica.
Ha inoltre creato il Partito nazionale Abdel Hakim Belhaj: l’ex
comandante ribelle del Consiglio
militare di Tripoli è anche un ex
leader del Lifg, detenuto nelle
carceri di Gheddafi per sei anni
dopo essere stato consegnato al
regime dalla Cia, che lo aveva
“prelevato” a Bangkok nel 2004
con la complicità dell’intelligence
del Regno Unito (contro il cui governo Belhaj ha ora sporto causa).
Le cancellerie occidentali temono
l’arrivo al potere degli islamisti
libici, e solo il tempo dirà a quale
tipo di nuovo Stato essi offriranno
il loro contributo.
71 | giugno 2012 | narcomafie
Con i loro occhi
Libera inaugura insieme a «Narcomafie» una nuova collana
di quaderni: strumenti agili e pungenti su temi che alternano
analisi e attualità.
Ecco la prefazione della prima uscita: una ricerca
sulla percezione del fenomeno mafioso da parte dei giovani
Come fanno i giovani a capire cos’è la mafia ed il tipo di
criminalità analoga (’ndrangheta, camorra…) se non ne
sono toccati direttamente, se
l’agire criminoso risulta “invisibile” alla loro esperienza
diretta e non coinvolge la loro
quotidianità, le loro relazioni,
le loro famiglie?
Quali sono le fonti di informazione a cui attingono per
rappresentarsi il fenomeno
mafioso, perché possano dotarsi degli strumenti per capire,
trovare le motivazione di approfondire, ed eventualmente
fare scelte di impegno?
Molti ragazzi ne sanno poco
delle “mafie” e solo per vago
sentito dire. Le conoscenze
risultano approssimative e
frammentate. È giunto alle loro
orecchie qualcosa di Falcone e
Borsellino, fatti accaduti prima
che loro nascessero; oppure
sono stati presi dal clamore di
qualche più recente e spettacolare operazione delle Forze
dell’ordine, con la cattura di
un boss latitante da anni.
Può essere la cronaca televisiva, più che i quotidiani, a
fornire le notizie che spesso
rimbalzano loro addosso, e non
vengono quasi mai elaborate,
senza che si riesca ad ancorare l’informazione all’analisi
critica, e meno ancora all’interpretazione storica del fenomeno.
I sentimenti e il coinvolgimento emotivo sono più facile
preda della fiction, dei film
e degli sceneggiati televisivi,
che, con i propri linguaggi e
spesso con l’ambiguità con cui
vengono proposti i personaggi
di mafia , “aprono” a diverse e
contraddittorie identificazioni,
senza chiari distinguo tra le
persone, le loro storie e le loro
tragedie personali da una parte
e la gravità degli atti commessi
dall’altra.
Le rappresentazioni nell’immaginario mentale giovanile,
indotte dalle narrazioni che
hanno per oggetto la mafia,
sono molteplici: possono suscitare fascino come inorridire,
creare confusione quanto dare
adito a giudizi manichei e semplificatori, captare adesioni
emotive o suscitare difese e
rifiuti, indurre identificazioni con gli “eroi negativi” o,
viceversa, con le vittime, con
chi combatte la mafia e fa resistenza.
L’antimafia sociale. Ad uscire dall’impasse si presta ed è
di aiuto un lavoro capillare,
dal basso, vis-a -vis, che è il
percorso educativo proposto
dal movimento dell’antimafia
sociale, di cui Libera è una
delle espressioni.
La ricostruzione e la memoria
storica fornite dall’educazione
antimafia rivestono un ruolo essenziale: si ricostruiscono fatti,
si contestualizzano gli eventi,
si mettono in rapporto i fenomeni, si connettono i diversi
piani di analisi (economicosociali, culturali e politici), si
distinguono gli aspetti oggettivi
dalle biografie personali e familiari, si dà parola ai congiunti e parenti delle vittime,
si trasmette e si fa toccare con
mano il dolore.
Parlare con chi si è ribellato,
ascoltare di prima mano le
loro storie e le loro sofferenze
è altrettanto importante quanto
frequentare i luoghi e partecipare alle attività dei costruttori
di alternative, di chi lavora nei
beni confiscati, esposti alle
difficoltà e alle volte anche ai
rischi, persino le rappresaglie,
che coinvolgono quei luoghi e
l’impegno che vi è esercitato.
Per essere efficace con chi la
ascolta, la narrazione dell’antimafia sa che deve saper tener
Segnali
di Leopoldo Grosso, vicepresidente del Gruppo Abele
Segnali
72 | giugno 2012 | narcomafie
lontano il pericolo della retorica, e riuscire a diventare il
risultato di un impegno, di una
partecipazione attiva e di un
coinvolgimento personale, di
un percorso di protagonismo
che consente la graduale “autocostruzione di una propria
consapevolezza”, così come
gli autori la definiscono nella
loro ricerca.
L’educazione antimafia corre tuttavia il rischio di essere
minoranza e di essere solo una
voce tra le altre. Inoltre, siccome non è la più forte, può non
essere la più convincente.
I motivi sono diversi: perché
non riesce a diventare organizzazione capillare nei diversi
territori, per il metodo “autoritario” con cui a volte può essere
proposta, per la mancanza di
motivazioni soprattutto da parte di chi compete suscitarle.
La pratica quotidiana di resistenza all’ingiustizia e alla
prevaricazione. È la “mafiosità”, come ribadisce spesso
Nando dalla Chiesa, che rende
possibile la mafia.
La mafiosità è costituita da
una cultura e da atteggiamenti
che comportano, nei contesti
sociali e nelle relazioni che li
compongono,la condivisione di
modalità, anche minuscole, di
prevaricazione e di violenza, di
omertà e convenienza pelosa.
Ciò avviene in tanti “normali”
episodi di vita quotidiana: in
strada, a scuola, sul lavoro,
a volte anche a casa e in famiglia.
La mafiosità è una cultura pervasiva, che sa approfittare dei
vantaggi ed evitare gli svantaggi, propria del comportamento
di chi “non cerca grane” e “si
fa i fatti propri”, che sacrifica
il proprio senso civico ed il
reclamo di giustizia ad un più
comodo “non vedo, non sento,
non parlo”.
Anche il più semplice “tirarsi fuori”, non significa essere
neutrali e fare la scelta di non
schierarsi, ma essere comunque complici, direttamente o
indirettamente, e per di più
complici volontari.
Nella quotidianità si può essere vittime, testimoni e anche
attori, di piccoli episodi di
sopraffazione e di violenza.
Se si subisce una qualche aggressione altrui, ci si difende
e si tenta di ridurne i danni.
Spesso, a episodio concluso, si
tace e si tiene nascosto dentro
di se l’insulto di cui si è stati
vittime: “umiliati e offesi”,
quasi come se ce ne si debba
vergognare.
Se si è testimoni, la tentazione
è farsi da parte, è praticare
indifferenza (anche quando
non la si avverte nelle proprie
corde), per timore di diventare
vittime a propria volta, per
“evitare grane”.
Ci si può sentire in colpa e si
ricorre alla ricerca di teorie
giustificatorie, che fungano da
alibi morali e che mettano a
posto la coscienza.
Se si è attori, si può aver agito
volontariamente, oppure con
atti involontari o semi-volontari. In questi casi si può rimanere condizionati dal gruppo
di amici (si era presenti, ma
non si è partecipato attivamente al “fattaccio”, poiché
si è rimasti come paralizzati
dalla contraddizione tra non
essere da meno degli altri, ma
non esserne convinti), oppure
la “cosa” commessa sembra
irrilevante (una raccomandazione, “lo fanno tutti”). In caso
di volontarietà manifesta si
può essere preda della propria
impulsività o invece interpretare il ruolo del sopraffattore
dominante.
In qualsivoglia delle situazioni
delineate è etico porsi delle
domande e cercare, possibilmente non da soli, le possibili
risposte.
Come si agisce e si reagisce in
determinate situazioni-verità,
ha molto a che fare con la propria identità personale, come
soggetti emotivi e morali, prima ancora che come soggetti
razionali e cognitivi.
Le dimensioni identitarie che
vengono chiamate in causa
nella scelta comportamentale
hanno a che fare con la vigliaccheria e il coraggio, l’opportunismo e la considerazione
degli altri, l’egocentrismo e
l’empatia.
Le radici dell’antimafia sociale si innervano e passano
inevitabilmente per le scelte
personali di ognuno, hanno a
che fare con i propri singoli
vissuti e rispondono alla coscienza di sé.
La risposta alla domanda “da
che parte sto?” ha molto a che
fare con la propria identità personale e la sua costruzione.
L’importanza di essere gruppo.
Le domande non dovrebbero
essere solo personali. Non si
dovrebbe essere lasciati soli a
decidere. Essere insieme nel
fare le scelte, confrontarsi, rincuorarsi, sostenersi nel portarle
avanti e nell’essere coerenti, è
un aiuto indispensabile. Altrimenti si è l’eccezione, si esce
dall’ordinarietà, dalla condivisione di un orizzonte comune,
dal reciproco senso delle cose,
e si è proiettati su un registro
più drammatico, nella dimensione dell’extra-ordinarietà,
dell’azione al di fuori della
“normalità”, contigua alle categorie dell’epico e dell’eroico:
l’esatto contrario di ciò di cui
si ha bisogno oggi per rendere
ordinaria, e non eccezionale,
l’antimafia sociale.
Essere gruppo, in un percorso educativo e formativo, significa confronto continuo,
mettere a nudo e analizzare
i propri dubbi al cospetto dei
dubbi degli altri, cercando di
rispondere insieme a interrogativi difficili.
Essere gruppo, nella pratica
di resistenza alla mafiosità,
significa fare massa critica,
costituire una forza di impatto,
riconosciuta e considerata.
Insieme si conosce l’“invisibile”, insieme si propongono e
si “contagiano” comportamenti
più coraggiosi, insieme si riesce
a essere coerenti e dare maggiore solidità e continuità alle
proprie azioni.
Insieme si fanno progetti, ci
si propone e ci si espone, insieme si diventa parte attiva
del movimento dell’antimafia
sociale.
La ricerca-azione. Fare inchiesta è una pratica di conoscenza
della realtà di cui ogni organizzazione che si muove nel
sociale ha costante e continuo
bisogno. È un accompagnamento all’azione che consente
di verificare impressioni, di
modificare percezioni e rappresentazioni del fenomeno
che possono soffermarsi solo
sugli aspetti che si impongono
con più evidenza, trascurandone altri, più sotterranei, che
più impercettibilmente ma con
un’azione più carsica, finiscono
per imporsi a distanza, con un
effetto sorpresa e dal risultato
spiazzante.
Fare inchiesta è costringere
il pensiero, spesso errabondo
e utopico, a fare un esame di
realtà: con la finalità di ri-tarare
di continuo pratiche, percorsi,
proposte, e di possedere sempre una piena consapevolezza
dei limiti che accompagnano
tutto ciò che, con fatica, si riesce a fare e non fare.
Cercare di sapere e evitare di
supporre di sapere quello che
non si sa, oltre che atto di intelligenza, è anche pratica di
umiltà. È porsi in un rapporto tra pari con le persone, gli
studenti e i ragazzi con cui si
intende iniziare dei percorsi
comuni. Conoscersi vuole dire
anche creare legami, premessa
indispensabile per porre le basi
a una intrapresa che, grande o
piccola che sia, richiede attestazione di reciprocità.
È per tutto questo che si ringraziano, con affetto sincero,
Ludovica Ioppolo, Francesca
della Ratta-Rinaldi, Giuseppe
Ricotta e, con loro, tutte le
altre persone che hanno collaborato per i risultati della
significativa ricerca “Coi loro
occhi: l’immaginario mafioso
tra i giovani”.
Segnali
73 | giugno 2012 | narcomafie
76 | giugno 2012 | narcomafie
La scuola
contro la mafia
di Marika Demaria
«Un uomo d’altri tempi – racconta Andrea Camilleri nella
prefazione – per i modi e le
espressioni. Ebbi anche la certezza che fosse un uomo giusto». Antonino Caponnetto –
successore di Rocco Chinnici
alla guida del pool antimafia
e dell’Ufficio istruzione a Palermo – viene ricordato anche
con queste parole dalle persone che lo hanno conosciuto,
amato e stimato, nei pensieri
che fanno da corollario al fumetto dei giovani autori Luca
Salici e Luca Ferrara Antonino
Caponnetto. Non è finito tutto,
pubblicato dalla casa editrice
Round Robin con il patrocinio
della fondazione Antonino
Caponnetto.
La struttura del fumetto è particolare. Le strisce iniziali raccontano uno degli ultimi discorsi pubblici del giudice
istruttore Rocco Chinnici, ma
in quelle immediatamente successive si ricordano le stragi
di Capaci e di via D’Amelio
per poi raccontare l’efferatezza
di quel 28 luglio 1983, quando
fu ucciso proprio Chinnici. Di
fatto la narrazione si sviluppa
su due piani e quello sincronico (relativo ai ricordi di Antonino Caponnetto) si interseca con quello diacronico che
con un ulteriore flash back
riporta al 1982 e all’omicidio
del generale Carlo Alberto dalla Chiesa per poi ripercorrere
vent’anni di storia d’Italia, della mafia e dell’antimafia.
Luca Salici e Luca Ferrara, attraverso le proprie matite, rievocano fatti eclatanti come le
dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta, il blitz di San
Michele, gli arresti di Vito Ciancimino e dei fratelli Nino e
Ignazio Salvo, la stesura delle
carte che condurranno all’apertura, nel 1986, del maxi processo. E ancora: gli omicidi di
Ninnì Cassarà e di Beppe Montana, oltre ai veleni della vicenda dei “professionisti
dell’antimafia”.
Nel 1988, la svolta. Antonino
Caponnetto sancisce che «bisogna partire subito dalle scuole, confrontarsi con i giovani
e cercare di cambiare questa
cultura di morte», tornando a
percorrere la strada battuta dal
generale dalla Chiesa quando
iniziò ad andare nelle scuole
per parlare con gli studenti.
Storico – e ben ricordato sulle
pagine del fumetto – uno degli
ultimi discorsi che il giudice
77 | giugno 2012 | narcomafie
di adozione fiorentina indirizzò proprio a un folto gruppo
di giovani durante un incontro
in una scuola: «Non chiedete
mai favori o raccomandazioni,
le leggi vi accordano dei diritti, sappiateli esigere, chiedeteli con fermezza, con dignità,
senza piegare la schiena, senza abbassarvi al più forte, al
più potente, al politico di turno. Ragazzi, godetevi la vita,
innamoratevi, siate felici ma
diventate partigiani di questa
nuova resistenza». Sono queste
le parole conclusive del fumetto, che accompagnano il lettore verso la frase celebre di
Antonino Caponnetto – «La
mafia teme più la scuola che
la giustizia» – e in diverse pagine costellate da tracce di
memoria affidate, tra gli altri,
a Maria Falcone, sorella del
giudice ucciso il 23 maggio
1992, che ricorda di «aver incontrato per la prima volta
Caponnetto nel 1985, al matrimonio di Giovanni e Francesca
(Morvillo, an-
che lei rimasta uccisa
nella strage di Capaci,
nda) e il suo insegnamento: divulgare nelle
scuole gli ideali di Falcone e Borsellino». Il
procuratore nazionale
antimafia Pietro Grasso lo dipinge come
«il capo perfetto»
mentre il sociologo
Nando dalla Chiesa
mette in risalto una
peculiarità di Antonino Caponnetto: «Saper comprendere senza
invidia la crescita delle persone
più giovani, colui che auspica
di essere supe-
rato dai suoi allievi: sono pochissime le persone così».
Nel fumetto Antonino Caponnetto. Non è finito tutto si fa
riferimento anche alla celebre
frase che Caponnetto pronunciò all’indomani della strage
di via D’Amelio: «È finito tutto». Chi attraverso il proprio
contributo ha voluto ricordare
il giudice nisseno ha sottolineato con forza che quelle parole furono dette in un momento di massimo sconforto e
dolore ma che non fosse tutto
finito Caponnetto l’ha dimostrato continuando il proprio
impegno nell’antimafia, che
dal 16 giugno 2003 si è ulteriormente concretizzato con la
nascita della Fondazione a lui
dedicata.
Luca Salici
Luca Ferrara
Antonino Caponnetto.
Non è finito tutto
Round Robin
pagine 152
euro 15,00
documentario
L’avvelenata:
cronaca di
una deriva
Il 14 dicembre 1990 la motonave Rosso si arenò sulla spiaggia
delle Formiciche ad Amantea,
in provincia di Cosenza. Prima
del suo ultimo viaggio l’imbarcazione – ribattezzata Jolly Rosso
– era stata affittata dal governo
italiano per trasportare rifiuti
tossici dal Libano all’Italia ed
era conosciuta come la “nave dei
veleni”. All’epoca i cittadini furono rassicurati circa l’eventuale
pericolosità del carico della nave:
non vi era nulla di nocivo. A
distanza di vent’anni però, nella
valle del fiume Oliva, furono
ritrovati 90 mila metri cubi di
rifiuti nocivi.
Il documentario L’avvelenatacronaca di una deriva di Claudio
Metallo restituisce questa vicenda
alla memoria collettiva, arricchita
con testimonianze. Le immagini
sono di Maurizio Marzolla, Ma-
ria Tarzia e Gabriele Morabito
(quelle relative alla nave sono
state girate da Amerigo Spinelli),
con musiche originali di Carmine
Senarcia. L’autore ha così commentato il suo lavoro: «L’avvelenata rispecchia noi calabresi
avvelenati, arrabbiati, per quello
che è stato fatto alla nostra terra.
Siamo avvelenati nel senso che
viviamo in mezzo a veleni che
non abbiamo prodotto noi».
libri
Pelle
di serpente
SHARE
le segnalazioni del mese
a cura di Marika Demaria
78 | giugno 2012 | narcomafie
Chiedersi se i governi siano attenti
e consapevoli verso la reale situazione del paese che devono governare, fotografandone la situazione
economica e lavorativa. È questo
uno degli obiettivi del libro scritto
da Maurizio Campisi, dal titolo
quanto mai eloquente. Un tuffo
in una realtà – l’America Latina
– che, secondo i dati ufficiali di
vari organismi, registra l’indice di
povertà estrema attorno al 45%
della popolazione, cioè 250 milioni di persone. Un’analisi documentata e attenta, che conduce
ad una riflessione applicabile ad
ogni settore e ad ogni Stato: «La
responsabilità di un cambiamento
ricade esclusivamente sulla capacità di reazione e organizzazione
dei singoli individui».
Maurizio Campisi,
Pelle di serpente. Lo sfruttamento infinito di America
Latina e delle sue risorse,
Editorial Intangibile,
(www.editorialintangible.com)
Fuego
«Chi ha dato fuoco al centro sportivo di via L. mi abita a due passi,
ha sempre vissuto nella parallela
dalla mia casa. Io li conosco molto
bene, più o meno da quando
sono nato. Sono gli stessi che da
trent’anni stabiliscono il prezzo
e il quantitativo della coca che
deve essere venduta nelle piazze
di Milano». L’ebook di Giuseppe
Catozzella, già autore del fortunato Alveare (Rizzoli), torna a
raccontare le vicende criminali
legate al capoluogo lombardo:
strani fenomeni di “autocombustione”,
minacce, intimidazioni, incendi dolosi.
E l’omertà
delle persone che, di fronte al
fuoco appiccato dalla malavita,
preferiscono tacere piuttosto che
denunciare.
Cosa Nuova
ciatori ad arrestarne l’avanzata»
spiega l’autore. Il titolo – Cosa
Nuova – richiama alla Cosa nostra
siciliana, ma le pagine del libro
ben delineano le diversità tra le
due organizzazioni criminali.
Il giornalista Andrea Apollonio
accompagna il lettore “alla scoperta dei feudi della ’ndrangheta”
(come recita il sottotitolo) con
l’intento di far conoscere una
figura troppo spesso non considerata. Si tratta dei militari dello
Squadrone Cacciatori di Calabria:
«L’Italia ancora non li conosce,
nonostante l’assalto mafioso al
Nord parta da qui, e siano i Cac-
Giuseppe Catozzella,
Fuego, Feltrinelli (ebook a 0,99
euro su www.feltrinelli.it)
Andrea
Apollonio,
Cosa Nuova,
Pellegrini
Editore
79 | giugno 2012 | narcomafie
mostra
appuntamenti
Lezioni Civili
Vent’anni dopo
Fino al prossimo 19 luglio, presso il palazzo di giustizia di Milano, sarà possibile visitare una
mostra dedicata al ventennale
delle stragi di mafia di Capaci
(23 maggio) e via D’Amelio (19
luglio). La mostra è stata allestita
dall’Associazione nazionale magistrati in collaborazione con l’associazione Libera. Per ulteriori
informazioni è possibile contattare il coordinamento milanese
dell’associazione all’indirizzo
[email protected].
Due mesi di dibattiti, confronti,
testimonianze, proiezioni di filmati: “Lezioni civili” in ricordo
di Falcone e Borsellino è un’iniziativa organizzata da Libera in
collaborazione con la provincia di Roma. La storia dei due
magistrati nel ventennale della
loro morte permette di rendere
omaggio anche ad altre vittime
della mafia, attraverso ospiti quali
Attilio Bolzoni, Francesco La Licata, Giovanni Bianconi, Franco
La Torre, Simona dalla Chiesa,
Gian Carlo Caselli, Giancarlo De
Cataldo, Piero Grasso. Molti i temi
trattati: dagli uomini abbandonati dallo Stato nella lotta alla
mafia ai giornalisti minacciati e
uccisi dalla criminalità organizzata, passando per il ruolo delle
fuoricatalogo
donne di mafia e
dell’antimafia. La
serata conclusiva
– la kermesse è
iniziata lo scorso
21 maggio – si
celebrerà il 17 luglio a Roma, alla
presenza di Giuseppe Pignatone,
Procuratore capo
della Repubblica
a Roma; Corradino
Mineo, direttore
di Rainews 24;
Nicola Zingaretti,
presidente della
Provincia di Roma; don Luigi
Ciotti, presidente e fondatore di
Libera; l’attore Giorgio Tirabassi,
il quale leggerà la lettera che Paolo
Borsellino scrisse in occasione
del trigesimo dell’amico e collega
Giovanni Falcone. Il programma
completo è scaricabile dal sito
www.libera.it
a cura di Elena Ciccarello
La verità è fuori catalogo
Più che di un libro, questa volta parliamo di una storia. La storia di un mistero che rischia di finire fuori catalogo, per sempre.
La storia di un giovane urologo siciliano che è stato trovato morto il 12 febbraio 2004, nella sua casa di Viterbo.
Si chiamava Attilio Manca. Lo hanno trovato con due buchi nel braccio, il setto nasale deviato e lividi su tutto il corpo. Sul pavimento della sua stanza s’era creata una pozza di sangue. Per i magistrati Attilio Manca è morto di overdose, iniettandosi da
solo un mix fatale di eroina e tranquillanti. Una ricostruzione che non convince tutti, neppure il giudice di Viterbo che più di una
volta respinge la richiesta di archiviazione presentata dai pm. Non ci crede la famiglia, l’avvocato e neppure molti giornalisti.
Anzitutto perché Attilio era mancino e difficilmente sarebbe riuscito a bucarsi sul braccio sinistro. Poi perché aveva addosso i
segni di una colluttazione, rimasti senza spiegazione. Infine, perché era un medico bravo, e nel suo paese, Barcellona Pozzo di
Gotto (Me), lo conoscevano tutti. Aveva studiato a Parigi e sapeva eseguire delicate operazioni in laparoscopia. Attilio, raccontano i familiari, era andato l’ultima volta nella Francia del sud nell’autunno del 2003, «per assistere a un intervento chirurgico».
Un’operazione delicata, come quella cui si sottopone negli stessi giorni, e proprio a Marsiglia, il superlatitante Bernardo Provenzano, uscito dall’Italia sotto falsa identità. Per i magistrati si tratta di una semplice coincidenza.
La morte dell’urologo è un caso di droga e null’altro. Lo ha ribadito il procuratore capo di Viterbo
Alberto Pazienti, anche durante la conferenza stampa indetta l’8 giugno scorso: la pista mafiosa è
esclusa. L’unico rinvio a giudizio sarà chiesto per la donna che avrebbe venduto ad Attilio la dose.
Una lacunosa ricostruzione dell’accaduto cui familiari e amici non intendono rassegnarsi.
Intanto anche il libro che racconta questa storia ha rischiato di finire fuori mercato, ad opera dei
legali di alcuni personaggi citati nel testo, che hanno diffidato la casa editrice Terrelibere dal
continuarne la pubblicazione e alcune librerie di Sicilia dal tenerlo in vetrina. Per fortuna senza
riuscire nell’intento.
Joan Queralt, L’enigma di Attilio Manca, terrelibere.org, 2010
80 | giugno 2012 | narcomafie
Se il
razzismo è
istituzionale
Gli sbarchi di migranti di queste
ultime settimane a Lampedusa e
sulle altre coste italiane (pugliesi e calabre), le “vivaci” proteste
registratesi in diversi Centri di
identificazione ed espulsione (Cie)
da parte di stranieri ivi “detenuti”
e, di nuovo, la “costruzione della
paura” ad opera di alcuni esponenti politici sui “clandestini” che
arrivano a “milioni” nel nostro
paese ripropongono l’esigenza di
una riforma dell’intero impianto
normativo sull’immigrazione e
l’adozione di politiche basate più
sull’integrazione (meglio parlare
di “interazione”) e sul governo di
tale fenomeno che sulle espulsioni
e sulle detenzioni. Le migrazioni,
vale la pena ricordarlo ancora,
sono l’espressione di una profonda
iniquità sociale globale, fatta di
sfruttamento, ingiustizia, ipocrisia,
oppressione, che potrà attenuarsi
solo se si riuscirà a colmare le
differenze notevoli tra paesi ricchi
e paesi poveri. Il generoso – ma
ipocrita – slogan che, di tanto in
tanto, sentiamo ripetere da qualche avventato personaggio politico
(“aiutiamoli ma a casa loro”), dovrebbe essere cambiato in quello
più vero di “non danneggiamoli
nei paesi in cui vorrebbero vivere
liberamente e dignitosamente”.
Le continue discriminazioni verso
gli stranieri, anche quelle lessicali
(come “clandestino”, “vucumprà”,
“zingaro”, “extracomunitario”), le
esternazioni xenofobe e razziste
di alcuni noti esponenti politici, parlamentari e rappresentanti
istituzionali hanno sicuramente
stimolato, in un recente passato,
comportamenti di intolleranza e
di violenza per la “presa” che hanno sulla gente comune. A questo
“razzismo istituzionale” (sul punto
suggerisco la lettura dell’interessante libro di Clelia Bartoli “Razzisti
per legge”, Editore Laterza, 2012),
fenomeno che in Italia è ancora
poco studiato, concorrono, poi,
tutti quegli atteggiamenti, consapevolmente o inconsapevolmente,
discriminatori, tenuti da una certa
burocrazia pubblica che, fornendo un
servizio, dovrebbe garantire i diritti
di tutti i cittadini in egual modo.
In attesa di una politica europea comune (e coerente), che riesca a “go-
di Piero Innocenti
vernare” l’immigrazione, ancora in
questi primi cinque mesi del 2012
abbiamo la conferma che i sistemi
restrittivi non fanno certamente
diminuire la pressione migratoria
irregolare, né, tantomeno, inducono i trafficanti di esseri umani
a ridurre l’offerta di tali “servizi”.
Alla data dell’8 giugno, gli sbarchi
sulle coste italiane sono stati 78,
per un totale di 2.880 migranti. A
Lampedusa, che è sempre l’approdo
più vicino alle coste nord africane,
sono stati soccorsi ben 938 stranieri.
L’esigenza di una riapertura del
centro di accoglienza nell’isola è
stata sollecitata da oltre due mesi
anche dal sindaco. Sulle coste
pugliesi e calabre sono sbarcati,
rispettivamente 727 e 454 persone
provenienti, per lo più, dalle coste
greche, turche, egiziane. A questi
dati del “versante marino”, vanno
sommati i 3.469 stranieri irregolari
rintracciati dalle forze di polizia sul
territorio nazionale. Per alcuni di
questi (234) è scattato il “rimpatrio”
in virtù di accordi di riammissione
con alcuni paesi, altri (564) sono
stati “respinti” o espulsi/accompagnati (451) alla frontiera. Per 1.741
si sono adottati i normali provvedimenti amministrativi espulsivi non
immediatamente esecutivi.
Due sono, a mio parere, gli aspetti
di maggiore preoccupazione sul-
lo scenario dell’immigrazione: il
primo è costituito dalla rete di
criminali che trafficano persone e
che si va sempre più rafforzando (in
questo senso anche il Dipartimento
informazioni per la sicurezza, nella
relazione presentata al parlamento
a marzo 2012); il secondo sono le
sconcertanti dichiarazioni, rilasciate il 14 marzo, nel contesto
di una riunione pubblica dall’ex
ministro dell’Interno Maroni, secondo cui “forse con i migranti
abbiamo esagerato” e “ci abbiamo
un po’ marciato” (sic!).
Maroni, sin dal giugno 2009, è stato
il ministro dei “respingimenti” in
mare (giudicati illegali con la recente sentenza del febbraio 2012 della
Corte europea sui diritti umani) di
centinaia di migranti provenienti
dalla Libia, che avrebbero potuto
richiedere asilo politico se fossero stati messi nelle condizioni
di poterlo fare, e che sono stati
riconsegnati alle autorità libiche
per essere sottoposti ai trattamenti
più vili e degradanti che si possano
immaginare. Valutino i lettori se il
“dubbio maroniano”, ora che non
è più ministro della Repubblica
è meritevole di rispetto o debba
essere considerata l’ennesima vergogna leghista.
numero 6 | 2012 | 3 euro
Mensile | Anno XX | Poste italiane S.p.A | SPED. IN A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L.27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 1 DCB | To. ISSN 1127-9117
numero 6 | 2012
Caso Orlandi, riciclaggio,
bande criminali e usura a Roma
PECCATI
CAPITALI
SOMMARIO
3 | L’EDITORIALE
La tecnica non può
sostituire la politica
di Livio Pepino
4 | MAFIA E POLITICA
Amministratori sotto tiro
di Matteo Zola
9 | IL RILANCIO DEI CURSOTI
Il piano del boss
di Dario De Luca
58| ALTARISOLUZIONE
La battaglia di Cheran
testo e foto di Emma Volonté
64 | L’APPROFONDIMENTO
Sulle barricate
di Emma Volonté
65 | OCCIDENTI
Rassegna stampa internazionale
a cura di Stefania Bizzarri
68 | LA RICERCA DEI FIGLI
12 | I GIORNI DELLA CIVETTA
Brevi di mafia
a cura di Marco Nebiolo
Argentina chiama Italia
di Emma Volonté
4 | MAFIA E POLITICA
Tutti i guai del governatore
di Alessia Candito
70 | CRONACHE SOMMERSE
Instabile Libia
di Andrea Giordano
23 | NUOVE RESISTENZE
“Io non ho paura“
di Laura Galesi
71 | SEGNALI
Con i loro occhi
di Leopoldo Grosso
20 | ATTENTATI SUI BENI CONFISCATI
Come l’araba fenice
di Marika Demaria
74 | SEGNALIBRO
La scuola contro la mafia
di Marika Demaria
26 | COSE NOSTRE
In memoria di don Diana
di Marika Demaria
78 | SHARE
Le segnalazioni del mese
a cura di Marika Demaria
28 | STROZZATECI TUTTI
Falcone e il coraggio
di Marcello Ravveduto
80 | L’OPINIONE
Se il razzismo è istituzionale
di Piero Innocenti
27 | ROMA
di Emilio Fabio Torsello
Lo spazio conteso
Cronologia della mattanza
Chi ordina, chi riscuote
Serbatoi a secco
Emanuela, la verità occultata
di Angela Camuso
DEI DESAPARECIDOS