Mafie e criminalità a Roma
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Mafie e criminalità a Roma
1 | giugno 2012 | narcomafie Il caso Scopelliti Mafie e criminalità a Roma 15 58 68 29 Narcotraffico e disboscamento a Cheran La ricerca in Italia dei figli dei desaparecidos 2 | giugno 2012 | narcomafie numero 6 | giugno 2012 Il giornale è dedicato a Giancarlo Siani simbolo dei giornalisti uccisi dalle mafie Fondatore Luigi Ciotti Direzione Manuela Mareso (direttore responsabile) Livio Pepino (condirettore) Redazione Stefania Bizzarri, Marika Demaria, Marco Nebiolo, Davide Pati (Roma), Matteo Zola Comitato scientifico Enzo Ciconte, Mirta Da Pra, Nando dalla Chiesa, Daniela De Crescenzo, Alessandra Dino, Sandro Donati, Lorenzo Frigerio, Tano Grasso, Leopoldo Grosso, Monica Massari, Diego Novelli, Stefania Pellegrini Collaboratori Fabio Anibaldi, Pierpaolo Bollani, Ferdinando Brizzi, Maurizio Campisi, Gian Carlo Caselli, Stefano Caselli, Elena Ciccarello, Rinaldo Del Sordo, Stefano Fantino, Jole Garuti, Andrea Giordano, Gianluca Iazzolino, Piero Innocenti, Alison Jamieson, Alain Labrousse, Bianca La Rocca, Davide Mazzesi, Giovanna Montanaro, Dino Paternostro, Davide Pecorelli, Antonio Pergolizzi, Osvaldo Pettenati, Guido Piccoli, Francesca Rispoli, Lillo Rizzo, Pierpaolo Romani, Adriana Rossi, Peppe Ruggiero, Paolo Siccardi, Elisa Speretta, Lucia Vastano, Monica Zornetta Progetto grafico Avenida grafica e pubblicità (Mo) Impaginazione Acmos adv In copertina Foto di Ismael Alonso Fotolito e stampa Giunti Industrie Grafiche S.p.A. 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È una realtà sotto gli occhi di tutti che ha le sue manifestazioni estreme nei suicidi quotidiani di chi non riesce più a sopravvivere, nella crescita dei mendicanti e di chi scava nelle pattumiere, nella continua invenzione di mestieri (lavavetri, posteggiatori, guide improvvisate, ambulanti senza licenza, benzinai abusivi della domenica, rinati lustrascarpe, venditori di fiori o di fazzoletti, ombrellai dei giorni di pioggia, giocolieri agli incroci delle strade, finti gladiatori di fronte al Colosseo, fotografi di strada e via seguitando potenzialmente all’infinito). Intanto, a fianco dei negozi “compro oro” (mai così diffusi nelle nostre città), spuntano quelli “compro argento”, a riprova del fatto che la povertà sta raggiungendo la classe media inducendola a privarsi persino dei ricordi del battesimo o della comunione… Contemporaneamente scompaiono, dal dibattito pubblico, le persone, con il loro carico di risorse, di bisogni, di problemi, di sentimenti, di speranze. La concreta esistenza delle donne e degli uomini lascia il posto ad astrazioni: l’economia, la finanza, la globalizzazione… E le astrazioni diventano sempre più autoreferenziali e disinteressate alla vita dei cittadini, ridotti a numeri e dati statistici. Le scelte di politica economica e le periodiche manovre finanziarie sono operazioni le cui conseguenze sulle persone sono considerate, nella migliore delle ipotesi, effetti collaterali. Economisti, politici, opinionisti parlano di pensioni, di flessibilità, di spesa sanitaria, di migrazioni: non di pensionati a 500 euro al mese, di lavoratori intermittenti appesi a precarietà e incertezza, di malati che devono essere di Livio Pepino curati, di migranti che attraversano il mare rischiando la vita su carrette inimmaginabili. Se qualcuno prova a cambiare il tavolo del discorso viene considerato un ingenuo o un marziano. E se le persone in carne e ossa irrompono sulla scena, magari in modo poco urbano, esse diventano, per l’establishment, un problema di ordine pubblico. Le categorie astratte – si dice – sono gli strumenti per governare la complessità e per garantire il bene comune, ma i fatti dimostrano che il loro trionfo tutela di fatto gli interessi forti (e i loro titolari) sottraendo le decisioni al controllo democratico. Tutto questo non accade per caso. È la sostituzione della politica (cioè della cura della città e di chi vi abita) con la tecnica, intesa come insieme di regole astratte per governare l’esistente, senza metterne in discussione i fondamenti e, anzi, considerando quello attuale l’unico sistema possibile. Stanno qui, invece, l’errore e l’inganno. In questa situazione non c’è nulla di ineluttabile ma solo il frutto, consapevole e perseguito, di scelte economiche, culturali, sociali. Certo, la crisi economica è profonda e non contingente, ma essa – lungi dall’essere una sorta di “castigo di Dio” – è la conseguenza (prevedibile e prevista) di opzioni politiche. E lo stesso vale per i rimedi approntati: la piena occupazione e il welfare sono oggi i bersagli principali delle politiche economiche dominanti, ma sono stati, nel 1929, il volano che ha consentito l’uscita dalla “grande crisi”. Il blocco dei salari (consistente in realtà in un drastico abbassamento di fatto) e la continua crescita del valore dei beni posseduti (immobili o titoli finanziari) non rispondono, dunque, né a una necessità né a una legge naturale… Alla loro base c’è, piuttosto, una visione del mondo in forza della quale la riduzione delle disuguaglianze non è più un obiettivo condiviso e si fa strada la concezione veicolata dai neocons americani secondo cui «è giusto che il più capace e intraprendente sia premiato da Dio con la ricchezza». La conseguenza è che la garanzia dei diritti e della sicurezza dei meritevoli passa necessariamente attraverso l’isolamento e l’espulsione da quei diritti dei non meritevoli ai quali si addice la povertà. Si realizza così la situazione descritta qualche anno fa da un protagonista della nostra epoca non sospetto di estremismo come Romano Prodi: «Venti anni fa una mia semplice osservazione che la differenza di remunerazione da uno a quaranta tra il direttore e gli operai di una stessa azienda era eccessiva, aveva causato scandali e discussioni a non finire. Oggi nessuno si stupisce del fatto che questa differenza sia in molti casi da uno a quattrocento». Sta qui – nella difesa e nel perpetuarsi delle differenze – la ragione profonda della crisi che viviamo e della povertà che essa porta con sé. 4 | giugno 2012 | narcomafie Mafia e politica Amministratori sotto tiro Nella foto il sindaco di Pollica Angelo Vassallo, ucciso il 5 settembre 2010. Ad oggi le indagini non hanno individuato i colpevoli Sindaci, consiglieri, assessori di comuni grandi e piccoli. Sono loro a essere nel mirino delle mafie quando oppongono trasparenza e rigore a corruzione e collusione. Dal 2010 ad oggi centinaia di casi di minacce, intimidazioni e violenze sono rimasti avvolti dal silenzio e vissuti in solitudine di Matteo Zola 5 | giugno 2012 | narcomafie Ottocento anime appena conta Orsini, piccolo comune del nuorese, arrampicato sulle montagne. Nella notte del 2 gennaio 2010 alcuni colpi di fucile vengono sparati contro il municipio. Non si sa da chi, ovviamente. Tre giorni dopo, a Scopello, ottanta residenti appena, in provincia di Trapani, brucia la villetta di Filippo Grippi, dirigente dell’azienda sanitaria provinciale. La sua colpa, forse, è stata quella di aver sostituito Lorenzo Iannì, arrestato per aver favorito le cosche. Un messaggio dai soliti ignoti. Passano due giorni e, questa volta a Caccamo, paese nel palermitano di ottomila abitanti all’ombra dell’omonima rocca, viene dato alle fiamme il portone di casa di Andrea Galbo, consigliere provinciale. Trascorrono tre giorni e due pallottole vengono fatte recapitare al sindaco di San Lorenzo in Vallo, tremila residenti in provincia di Cosenza. Insieme ai proiettili una lettera recante la frase: “Stai zitto o farai la fine di Fortugno”. E poi ancora: auto bruciate, scritte con minacce di morte sui muri dei municipî, spari contro case e negozi. Arriva ovunque, si snoda nei vicoli dei paesi, per le vie delle città, si insinua dentro le case, entra nelle stanze del potere, condiziona la vita pubblica: è l’intimidazione mafiosa, la minaccia che quotidianamente attraversa lo stivale da sud a nord, e ha un denominatore comune: è sempre rivolta ai danni di sindaci, amministratori e consiglieri scomodi. Scomodi alle mafie, s’intende. E da Orsini, Scopello, Caccamo, la lista si allunga e arriva fino a Fondi, Follonica, Bordighe- ra. Un elenco di fatti e date, dal 2010 a oggi, recentemente pubblicato da Avviso pubblico e dal titolo “Amministratori sotto tiro”, mette in fila queste storie spesso sconosciute al di fuori delle realtà in cui si verificano, vicende che trovano appena lo spazio di un quotidiano locale, diverse tra loro ma che, unite, tracciano un quadro inquietante sullo stato di salute della politica italiana, sempre tesa tra dovere alla legalità e spinte verso l’illegalità, tra buon governo e corruzione, tra infiltrazioni e trasparenza, tra diritti e mafia. I numeri della violenza. Nel corso del 2010 sono stati censiti ben 212 episodi di minacce e intimidazioni di tipo mafioso e criminale, la maggior parte dei quali si concentra nelle regioni del Mezzogiorno e in particolare in Calabria (87 episodi), in Sicilia (49 episodi) e in Campania (29 episodi). Si tratta di regioni che conoscono bene e patiscono la presenza mafiosa sui loro territori ma che, come dimostrano questi dati, si onorano anche della presenza di persone che nell’ambito delle istituzioni si impegnano contro le organizzazioni mafiose. Episodi intimidatori si sono registrati anche in Sardegna (25 episodi) e Puglia (11 episodi), a sorprendere però è il Lazio che, pur con soli cinque casi, testimonia la capacità d’infiltrazione delle mafie in contesti non tradizionalmente soggetti al potere criminale. Si tratta di episodi avvenuti a Ponza, San Felice sul Circeo e Fondi, quest’ultimo era stato oggetto di una richiesta di scioglimento per infiltrazione mafiosa da par- te dell’ex ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ma il consiglio dei ministri aveva infine dato parere negativo. È un fatto che il grande mercato ortofrutticolo, uno dei più importanti d’Italia, fosse oggetto dei desideri delle mafie che arrivarono persino a cooperare pur di spartirsi la torta. Si annoverano poi tre casi in Liguria, la prima ai danni del sindaco di Albenga, il secondo dell’amministrazione comunale di Chiavari e il terzo contro alcuni amministratori locali di Bordighera, comune poi sciolto per mafia. Sono fatti su cui riflettere, perché dimostrano, se ancora ce ne fosse bisogno, che da molto tempo, ormai, le mafie sono presenti su tutto il territorio nazionale. Alcuni dati in merito sono stati diffusi anche dal ministero degli Interni, ma presentano notevoli difformità rispetto a quelli proposti da Avviso pubblico. Secondo il Viminale, tra il 2009 e il 2010 sono stati 733 i casi in cui si sono registrati atti intimidatori nei confronti di amministratori locali. La regione che detiene il triste primato di questi atti criminali è ancora una volta la Calabria, con 209 casi, seguita dalla Sicilia con 195 e dalla Sardegna con 171. Sulla Calabria c’è poi un dato ulteriore, proposto da Legautonomia Calabria che annovera addirittura 863 episodi di intimidazione in regione. Le finalità della minaccia. Tornando ai dati di Avviso pubblico sarebbero circa 60 le occorrenze nel 2011. I dati sono ancora in fase di elaborazione, così come quelli del Viminale, e c’è da attendersi dunque una cifra più alta. Questi fatti, consi- Gli atti di minaccia e di intimidazione mafiosa e criminale hanno molteplici finalità: servono per incutere paura a chi si oppone all’illegalità oppure servono per punire o “richiamare all’ordine” chi è sceso a patti con i mafiosi 6 | giugno 2012 | narcomafie Il sindaco di Monasterace Maria Carmela Lanzetta. Nella pagina seguente, in basso, Eleonora Baldi, sindaco di Follonica Il vero problema è cedere al pensiero che ci si possa assuefare, che con le mafie, come disse in passato un ministro della Repubblica, bisogna abituarsi a convivere derati a livello generale, danno però conto dell’esistenza di un problema urgente sul quale le istituzioni competenti devono attivarsi rapidamente: quello della sicurezza, personale e famigliare, di tanti amministratori locali e funzionari di pubblica amministrazione che sono considerati un ostacolo per le mafie, in quanto operano con disciplina, onore e imparzialità, secondo quanto previsto dalla Costituzione. Gli atti di minaccia e di intimidazione mafiosa e criminale hanno molteplici finalità: servono per incutere paura a chi si oppone all’illegalità oppure servono per punire o “richiamare all’ordine” chi è sceso a patti con i mafiosi. Le minacce, le pallottole in busta chiusa, gli spari diretti al portone di casa, non sono sempre rivolti ad amministratori “eroici”, talvolta anche i sindaci al soldo della mafia vengono minacciati al fine di ricordare loro di rispettare i patti, o se hanno compiuto qualche “sgarro”. Il rischio dell’assuefazione. Sul report di Avviso pubblico scrive Francesco Forgione, docente all’Università dell’Aquila, già presidente della Commissione parlamentare antimafia, che “per trovare una realtà simile all’Italia, bisogna spostarsi nella Colombia o nel Messico dei nuovi narcos o nella Russia di Putin e in alcuni paesi dei Balcani, dove le macerie del comunismo hanno lasciato in eredità una criminalità radicata nella politica e nel sistema economico imprenditoriale”. Un paragone inquietante che sconforta se si pensa alla nostra tradizione democratica. Ma, ribatte Avviso pubblico, le forze positive per cambiare rotta ci sono e vengono proprio dalla politica. A testimoniarlo c’è proprio il numero di intimidazioni rivolte agli amministratori pubblici che hanno scelto il rigore e la trasparenza come partito. È dalla politica, denuncia Avviso pubblico, che deve partire una riflessione sulla politica stessa: «Non può esistere mafia senza rapporti con la politica, ma deve esistere una politica senza rapporti con la mafia». Una riflessione che da un lato denunci i limiti, l’inquinamento, le degenerazioni, la corruzione, ma che dall’altro rilanci il valore della scelta di gestire la cosa pubblica con rigore, trasparenza, spirito di servizio anche se questo può richiedere coraggio. Un coraggio che non è più necessario solo nei territori tradizionalmente soggetti al potere mafioso. «Che sarà mai una testa di cane mozzata a un sindaco di provincia o una porta bruciata a un assessore aspromontano o tre proiettili inviati ad un segretario comunale dell’agrigentino? – si domanda ancora Forgione –. Tutto sommato si tratta di territori dove chi sceglie l’impegno politico-amministrativo sa di dover convivere con questa realtà di violenza e di intimidazione. Eppure è proprio questo il problema: pensare che ci si possa assuefare, che con le mafie, come disse in passato un ministro della Repubblica, bisogna abituarsi a convivere». Il caso Monasterace. Piuttosto è necessario chiedersi cosa stia succedendo nell’intero paese, ben al di là delle regioni a tradizionale insediamento mafioso. Ormai i consigli comunali non si sciolgono solo in Calabria, Sicilia, Campania, Puglia. L’infiltrazione è arrivata in Lombardia, Liguria, Piemonte, Lazio. Non è più – se mai lo è stato – un problema di repressione, giudiziario, penale. Si tratta di una più grande questione democratica. Tornando ai dati raccolti da Avviso pubblico, sono già 22 le minacce a danni di amministratori locali nel 2012, uomini e donne che sfidano la criminalità organizzata senza le fanfare dell’antimafia, senza eroismi mediatici, senza riflettori accesi. Riflettori che si accendono se ci scappa il morto ma spenti, ad aggravarne la buia solitudine, sulla quotidiana prassi di legalità dei sindaci “sotto tiro”. Come Maria Carmela Lanzetta, sindaco di Monasterace, paese di tremila abitanti in provincia di Reggio Calabria, un locus amoenus dove nulla di male sembra poter accadere, e invece accade. Accade che il sindaco, eletto nel 2006 con l’appoggio dei partiti della sinistra, dopo cinque anni di intimidazioni e un’auto bruciata, sia stata rieletta presentandosi nel 2011 con una lista civica, senza l’appoggio di quei partiti che da Monasterace sembrano troppo lontani. Così lontani che quando, il primo aprile scorso, la sua auto e il portone di casa sono stati oggetto di colpi di pistola, il sindaco Lanzetta rassegna le dimissioni. Quei proiettili sono stati l’ultima fase di una escalation di intimidazioni che hanno visto, nella notte tra il 25 e il 26 giugno 2011, dopo neanche un mese dalla sua rielezione, andare in fiamme la farmacia di famiglia dopo che già nei 7 | giugno 2012 | narcomafie cinque anni precedenti il sindaco Lanzetta era stata oggetto di attentati e lettere di minacce. Ospite di un incontro, promosso proprio da Avviso pubblico, il 22 giugno scorso a Torino nell’ambito della manifestazione Biennale democrazia per la legalità, la Lanzetta racconta la sua storia: «Sono stata rieletta in una lista civica che abbiamo voluto chiamare “Indipendenza e libertà”. Indipendenza dai poteri criminali che in ogni modo cercano di influenzare la vita pubblica, libertà dai potentati politici che con troppo silenzio accompagnano la crescita del potere mafioso. La nostra campagna elettorale era fondata su uno slogan che diceva “non possiamo promettervi nulla” perché non sapevamo che cosa ci saremmo trovati ad affrontare, fino a che punto io e la mia giunta saremmo potuti arrivare». È con voce tremante di emozione che poi afferma: «Né io né la mia giunta volevamo combattere la ’ndrangheta, non era quello il nostro programma politico. Era invece cercare di amministrare con trasparenza la cosa pubblica, al servizio del cittadino. E la ’ndrangheta, così facendo, ti capita. Rompendo col clientelismo, col favoritismo, scrivendo le regole dove non ci sono, vigilando sul bene comune, punendo gli abusi edilizi, vai a dare fastidio a qualcuno. Che poi ti presenta il conto». Ed è un conto salato. «Quando hanno sparato alla mia macchina e al portone di casa ho detto basta. Ho delle responsabilità non solo nei confronti delle istituzioni ma anche di chi mi vuole bene. Ho dei figli». Se è tornata sui suoi passi, ritirando le dimissioni, il sindaco Lanzetta lo ha fatto perché ha avuto intorno il calore della gente e la vicinanza delle istituzioni nazionali e dei partiti. «Anche se ora vivo sotto scorta», conclude. La sua esperienza è simile a quella di altre donne primo cittadino, come Carolina Girasole, sindaco di Isola di Capo Rizzuto, cui hanno incendiato l’auto e il portone del municipio per avere dato in gestione transitoria a Libera novanta ettari di terreni confiscati alla cosca Arena. E come quella di Elisabetta Tripodi, sindaco di un comune tristemente noto alle cronache come Rosarno, raggiunta da una lettera intimidatoria a firma del boss Rocco Pesce. Senza dimenticare Eleonora Baldi, sindaco di Follonica, in provincia di Grosseto, luogo meno comune ma egualmente feroce se si parla di ’ndrangheta. «Credevo di fare una cosa normale facendo il sindaco – dice sorridendo, anche lei ospite dell’incontro organizzato da Avviso pubblico – ma la normalità ormai è un’eccezione. Renzo Piano definì Follonica un “esempio di cattiva urbanistica” a causa di alcuni edifici destinati ad attività produttive e invece utilizzati a scopo abitativo, con connesse speculazioni. Speculazioni di cui è stata responsabile anche la cattiva politica. Restituendo quegli edifici alla loro destinazione iniziale abbiamo colpito gli interessi di qualcuno». E sono arrivate le minacce di morte, due proiettili e una scritta: “Una per te, una per il tuo segretario”. A rendere difficile il lavoro del sindaco è stata più di tutto la solitudine. Come nel caso di Maria Carmela Lanzetta, le istituzioni sono state lontane, indifferenti, fino alle nuove minacce, questa volta con la stella a cinque punte: «Un chiaro segno di mitomania, di quelle non ho paura», dice il sindaco, ma i giornali – di quelle minacce – ne hanno parlato eccome. «La paura però c’è sempre, anche adesso ho paura». Sardegna libera. Tra i sindaci sardi, recentemente riunitisi a Cagliari per l’appuntamento “Sardegna libera dalle mafie” spicca il nome di uno che sindaco non lo è più ma che durante il suo mandato ha pagato caro il prezzo della legalità. E’ Pino Tilocca, sindaco di Burgos dal 2000 al 2005, vittima di vari attentati. «In uno di questi – nel 2004 – mio padre ha perso la vita». Era preside di scuola, Tilocca, prima di fare il sindaco di una piccola località come Burgos. Eppure la criminalità è arrivata anche lì: nel febbraio 2004 suo padre Bonifacio è rimasto ucciso per una bomba collocata dietro l’uscio di casa e rivolta a lui. I colpevoli sono rimasti impuniti. Da allora il tempo sembra essere passato inutilmente. Maddalena Calia, sindaco di Lula dal 2002 al 2007: «Mi hanno incendiato lo studio». Gianni Argiolas, sindaco di Monserrato, racconta: «L’anno scorso mi hanno mandato una pallottola». E un mese fa «hanno incendiato la macchina di mio figlio». Giampaolo Marras, sindaco di Ottana dal 2010: «Una notte hanno sparato a casa ferendo mia moglie e rischiando di uccidere i miei due figli». Ma la lista è ancora lunga. Alessandro Cattaneo, sindaco «Né io né la mia giunta volevamo combattere la ’ndrangheta, non era quello il nostro programma politico – dice il sindaco di Monasterace –. Era invece cercare di amministrare con trasparenza la cosa pubblica, al servizio del cittadino. E la ’ndrangheta, così facendo, ti capita» 8 | giugno 2012 | narcomafie Condizionare le istituzioni locali vuol dire controllare risorse economiche, appalti, mercato del lavoro, intervenendo direttamente sulla quantità di consenso che la cittadinanza dà alla politica di Pavia, Maurizio Zoccarato, sindaco di Sanremo, e Gianni Speranza, primo cittadino di Lamezia Terme. Esperienze comuni, a sud e a nord, di resistenza all’infiltrazione mafiosa. Cattaneo, trentun’anni, ha visto la sua città travolta nel caos dell’inchiesta Infinito che svelò il radicamento della ’ndrangheta in Lombardia. Cattaneo reagì facendo appello alla popolazione, dibattendo pubblicamente il problema della mafia nella sua città, costituendo fin da subito il Comune parte civile nel processo, cosa che la Regione Lombardia guidata dal governatore Roberto Formigoni ha atteso di fare fino al gennaio 2012 dopo molte incertezze. A Sanremo invece c’è la mafia del casinò «e ci sarebbe da attendersi che la città abbia i marciapiedi d’oro – ha dichiarato il sindaco Maurizio Zoccarato –; invece le società partecipate del Comune erano tutte in perdita. E sì che il giro d’affari del casinò era di 48 milioni di euro l’anno! Soldi finti, poiché il credito di gioco non è esigibile, anche se quei soldi venivano messi a bilancio. Bilanci farlocchi» e punta il dito contro quarant’anni di amministrazioni lassiste e conniventi «al punto che a Sanremo mancava il piano regolatore». All’incontro di Torino il sindaco Zoccarato ha ribadito che «la legalità non ha colore politico». E anzi, ha chiesto pubblicamente che il tribunale sanremese, con relativa Procura della Repubblica, non venga spostato a Imperia come previsto dal governo: «Imperia non solo è più piccola di Sanremo, ma non c’è il casinò», ha dichia- rato, affermando che Sanremo «presenta peculiari criticità». E che la mafia in Liguria sia un problema vero lo testimoniano lo scioglimento per mafia dei comuni di Ventimiglia e Bordighera. Un problema con cui i sindaci, minacciati o meno, devono fare i conti anche, come nel caso di Zoccarato, attraverso la prevenzione, poiché dal governo locale passano tutte le politiche di intervento sul territorio. Condizionare queste istituzioni vuol dire controllare risorse economiche, appalti, mercato del lavoro, intervenendo direttamente sulla quantità di consenso che la cittadinanza dà alla politica. Consenso che, però, può essere comprato e venduto da sindaci e cosche. Poiché come l’amministrazione locale è la prima linea della lotta alle mafie, è anche la prima difesa a esser travolta da comportamenti viziati da collusione e corruzione. Questa linea di confine tra legalità e illegalità deve essere sostenuta non solo dalle associazioni, che hanno il meritorio compito di rompere il cerchio del silenzio, ma soprattutto dallo Stato. La speranza di Lamezia. Un richiamo in tal senso viene da Giovanni Speranza, sindaco di Lamezia Terme. Anche lui, come l’omologo sanremese, lamenta la decisione del governo di chiudere il locale tribunale e relativa Procura: «È la terza città calabrese per dimensioni, il Comune è già stato sciolto due volte per infiltrazioni mafiose. Ha senso chiudere il tribunale in una città così?». Una città dove opera anche don Giacomo Panizza, impegnato in prima persona contro la ’ndrangheta, più volte minacciato dalle cosche che, tra l’altro, non gli perdonano di gestire i beni confiscati alle ’ndrine. «Ci sono segni di reazione da parte della cittadinanza che noi, come amministrazione, assecondiamo. Per la prima volta a Lamezia c’è stata una serrata di protesta dei commercianti contro le estorsioni. Abbiamo deciso di rinnovare a don Panizza fino al 2030 la gestione dei beni confiscati e di intitolare il lungomare a Falcone e Borsellino e una struttura a Lea Garofalo, che sono esempi diversi della stessa lotta». Una lotta quotidiana anche quella del sindaco Speranza: «Prima di fare il sindaco ero professore. Il giorno del mio insediamento volevo passare a salutare i ragazzi ma non ho potuto, ho dovuto correre in Comune dove era stata bruciata la porta dell’aula consigliare». Non proprio un benvenuto. «Dopo dieci giorni mi minacciarono ancora, da allora vivo sotto scorta». Un chiaro segno al nuovo sindaco di come il vecchio potere non intendesse cedere lo scettro. Sono queste le storie di una guerra a bassa intensità, sono nomi e numeri che restituiscono i termini di una battaglia che si combatte anche su fronti apparentemente minoritari. Ma l’infiltrazione mafiosa è una goccia acida che s’insinua anche nei più piccoli interstizi, scavando nelle intercapedini della nostra democrazia fin dalle fondamenta, fin dal più elementare senso di vita civile e collettiva. Lì sta la prima guardia. Che non bisogna lasciare sola. 9 | giugno 2012 | narcomafie Il rilancio dei Cursoti catanesi Il piano del boss Con la decapitazione del clan di via del Corso a Catania a finire in manette lo scorso maggio è anche lo storico boss Giuseppe Garozzo. Ma ad emergere è un quadro ben più ampio, tra politici malmenati e decine di autocompattatori bruciati 24 ore dopo gli arresti Foto di Giovanna D’Ascenzi di Dario De Luca 10 | giugno 2012 | narcomafie «Se mi va bene una certa cosa... io dall’Italia sparisco». Giuseppe Garozzo, storico capo clan dei Cursoti catanesi, aveva le idee chiare: le rapine tra Piemonte e Sicilia sarebbero state forse gli ultimi atti della sua carriera dopo un rientro a pieno titolo nella scena criminale della Sicilia orientale. Un piano che però il personale della Sezione criminalità organizzata della Squadra mobile di Catania ha stoppato lo scorso 8 maggio, arrestando sia lo storico boss ma anche altre 19 persone ritenute di far parte del riemerso clan. In due anni via del Corso a Catania (in dialetto “U Cursu” nome da cui il clan prende il nome) era tornata ad essere la base operativa di Garozzo e dei vari affiliati. Una trattoria, riconducibile a uno degli arrestati, era stata trasformata in base logistica e nel retro trovava addirittura spazio da qualche anno, a dimostrazione della rinnovata forza del clan, un’edicola votiva, segno indelebile tra sacro e profano, raffigurante la patrona di Catania Sant’Agata con sotto una lapide in cui erano stati incisi i nomi degli appartenenti al gruppo, tutti accomunati dall’essere vittime delle varie faide di mafia. L’area operativa dei Cursoti era quella della fascia pedemontana-ionica nel territorio che da Catania si snoda lungo il litorale fino ai paesi di Fiumefreddo e Giarre. Una fetta di territorio di grosse dimensioni in cui gestire droga ed estorsioni, in cui Garozzo aveva diviso diversi gruppi operativi. Uno, facente riferimento allo stesso capo, attivo nei territori di Catania e Misterbianco, due inseriti nella provincia etnea affidati a Francesco Carmeci e Antonino Arena (proprietario della trattoria) ed infine un terzo attivo nei territorio del litorale guidato da Alfio Tancona. Una ramificazione che s’inseriva progressivamente in tutti i buchi lasciati liberi dagli altri clan. Un pizzino dal carcere. I primi riferimenti al piano di Garozzo emergono però tramite una missiva di morte intercettata nel carcere di Udine, con un messaggio talmente eclatante da far passare quasi in secondo piano la programmata fuga all’estero. Era il 22 marzo quando Orazio Finocchiaro, autore del biglietto, dal carcere friulano, in cui è detenuto al 41bis, cercava tramite un detenuto postino di consegnare ad un uomo prossimo alla scarcerazione alcuni ordini per un’esecuzione eccellente: «Buttagli 32 colpi in testa, noi ti facciamo avere tutto». Mira del disegno criminoso per scalare i vertici del gruppo d’appartenenza, il magistrato della Procura di Catania, Pasquale Pacifico, da anni impegnato in numerose indagini sul clan dei Cappello, di cui Finocchiaro fa parte, ed accusatore di Sebastiano Lo Giudice “Iano Carateddu”, responsabile operativo, arrestato nel 2010. Nelle righe successive del pizzino il riferimento chiaro al “maritatu” (Pippo Garozzo): «È stata una cosa nostra ma ora c’è una finta pace, deve andare via». Una doppia chiave di lettura: da un lato un chiarimento inequivocabile sul tentato omicidio del 2011 di cui Garozzo rimase vittima, dall’altro la consapevolezza dello stesso boss, arrivata fino in carcere, di rendersi protagonista di una fuga all’estero. Una raffica di incendi e alcune verità scomode. La decapitazione dei Cursoti ha però lasciato dietro di sé una serie di incendi di chiara matrice dolosa, che non escludono secondo gli inquirenti un collegamento con la figura di Roberto Russo, arrestato 24 ore prima e impegnato con la mansione di custode nel parco mezzi di Giarre 11 | giugno 2012 | narcomafie (Ct) della ditta Aimeri Ambiente con sede a Rozzano (Mi) ma da diversi anni impegnata nella raccolta dei rifiuti nei comuni della fascia ionica etnea. La stessa che, sprovvista del vecchio sorvegliante finito in manette, si è vista andare in fumo 31 autocompattatori per la raccolta dei rifiuti, attraverso le modalità tipiche delle intimidazioni mafiose. L’arresto di Russo potrebbe aver lasciato vuoto, secondo gli inquirenti, uno spazio, in cui qualcuno ha immediatamente cercato d’inserirsi. Equilibri delicati e molte volte sommersi come quello che avrebbe cercato di colmare in maniera inquietante l’ex assessore del comune di Catania Mario Indaco, responsabile di un invito non gradito a Francesco Carmeci (arrestato nel blitz contro i Cursoti), venditore ambulante di panini intimato a rispettare i regolamenti comunali sul suolo pubblico. Richiesta improponibile, tant’è che Carmeci schiaffeggiò l’ex assessore. Secondo le testimonianze del pentito Vincenzo Pettinati, il politico evitò però di denunciare l’accaduto, e per tutta risposta contattò Giovanni Colombrita, boss del clan Cappello che difese l’amico picchiando l’affiliato dei Cursoti e intimandogli di non dare più fastidio all’assessore. Una versione questa che Indaco non conferma completamente escludendo la richiesta d’aiuto al boss: «Non so chi mi abbia aggredito, per questo non ho denunciato, io quell’episodio volevo mettermelo alle spalle. L’ho vissuto come un incubo». Un curriculum criminale di sangue e morte. Garozzo non è certamente l’ultimo arrivato tra i boss, erano gli anni 80 quando a Catania ai piedi dell’Etna, si combatteva una delle più cruente guerre di mafia che la città abbia conosciuto, la stessa che contò alla fine centinaia di morti ammazzati. Il selciato inondato di sangue era il prezzo dei conflitti tra i gruppi mafiosi per il controllo del territorio, in cui a spiccare era la faida interna proprio per il controllo del clan dei Cursoti. Frange opposte dove a farsi spazio era la figura di Garozzo conosciuto già all’epoca come “Pippu u maritatu” (lo sposato), scarcerato per decorrenza dei termini e pendolare tra Sicilia e nord Italia, dopo essere stato per anni di base pure a Torino a capo del clan dei Catanesi anch’essi impegnati in una guerra criminale, opposti ai “Cursoti milanesi” capeggiati da Jimmy Miano. Garozzo, resosi latitante in Germania nel 1990, mentre a Torino la Corte d’Assise celebrava il processo nei confronti di 242 imputati per la guerra di mafia, veniva estradato in Italia nel 1991 in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere della magistratura di Catania e condannato a 20 anni di reclusione. Nell’immediato arrivò pure un’ulteriore pena: quella dell’ergastolo ma poiché l’estradizione venne concessa unicamente per la prima ordinanza, scontata la condanna iniziale nel 2010 Garozzo riassaporò il sapore della libertà, evitando così la reclusione perpetua. La morte del cognato e il ritorno in libertà di Garozzo. Poco prima della scarcerazio- ne dello storico boss però gli equilibri in città tornarono a essere flebili. Il 4 maggio 2009 Nicola Lo Faro, cognato di Garozzo, veniva freddato in pieno giorno in via Cardi a Catania. Un’esecuzione in piena regola, filmata dalle videocamere di un negozio che immortalarono una moto e uno scooter con a bordo i killer, tutti appartenenti al clan dei Cappello, giustizieri di Lo Faro, all’epoca reggente del clan dei Cursoti, che pagò con la vita per aver pianificato in piena autonomia il 7 aprile, sempre del 2009, l’omicidio di Giuseppe Vinciguerra, appartenente alla famiglia Santapaola, ucciso davanti all’ospedale Vittorio Emanuele di Catania con 13 colpi di pistola. I proiettili non tardarono ad arrivare nemmeno per lo stesso Giuseppe Garozzo, gambizzato a Misterbianco in provincia di Catania nel giugno del 2011, a un anno esatto dal suo ritorno in libertà. Un’esecuzione mancata inserita in un disegno di più ampia portata, all’interno del quale trovò la morte, proprio il giorno successivo al tentato omicidio di Garozzo, Salvatore Grasso, fedelissimo del clan dei Cursoti, crivellato a colpi d’arma da fuoco mentre, all’interno di un bar di corso Indipendenza a Catania, impegnava il tempo giocando a un video-poker. Una scia di sangue tra il 2009 e il 2011 che tracciò una duplice conclusione: da un lato il magmatismo delle alleanze tra i clan catanesi in cui il continuo alternarsi delle figure al vertice segnava una forte instabilità nei rapporti, dall’altro il pieno ritorno nella scena criminale di Giuseppe Garozzo. I primi riferimenti al piano di Garozzo emergono tramite una missiva di morte intercettata nel carcere di Udine. Orazio Finocchiaro autore del biglietto dal carcere friulano, in cui è detenuto al 41bis, scrive: «Buttagli 32 colpi in testa, noi ti facciamo avere tutto». Mira del disegno criminoso per scalare i vertici del gruppo d’appartenenza, il magistrato della procura di Catania, Pasquale Pacifico 12 | giugno 2012 | narcomafie brevi di mafia a cura di Marco Nebiolo Trattativa Stato-mafia, fine delle indagini dopo 4 anni. Tra gli indagati tre ex ministri Si chiude il filone principale dell’inchiesta palermitana sulla presunta trattativa tra Stato e mafia che ambisce a far luce su una delle pagine più oscure della storia recente, quella delle stragi del biennio 1992/93. Sono 12 gli indagati ai quali la procura di Palermo il 14 giugno, dopo 4 anni di inchiesta, ha inviato l’avviso di conclusione delle indagini, prodromico alla richiesta di rinvio a giudizio. Tra di loro due ex ministri, vertici degli apparati investigativi, boss mafiosi. L’ex ministro democristiano Calogero Mannino (nella foto in basso) è accusato di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato. Sarebbe stato lui il primo a cercare canali di dialogo con la mafia all’indomani dell’omicidio del deputato dc Salvo Lima, nel marzo 1992, per il timore di essere a sua volta nel mirino della mafia. Nicola Mancino (nella foto in alto), ex ministro dell’Interno nonché ex vice presidente del Csm è indagato invece per falsa testimonianza. Il senatore Marcello Dell’Utri è coinvolto in quanto ritenuto colui che si fece portatore delle richieste della mafia nei confronti di Silvio Berlusconi, nel 1994 presidente del Consiglio appena nominato. Sul fronte istituzionale della presunta trattativa, sono indagati anche carabinieri come l’ex generale Antonio Subranni (indicato dalla vedova Borsellino come “traditore” del marito sulla base di una confessione dello stesso Paolo Borsellino, accusa su cui i magistrati hanno indagato e recentemente chiesto l’archiviazione per mancanza di riscontri probatori), l’ex colonnello dei Ros Giuseppe De Donno, l’ex generale del Ros Mario Mori, attualmente sotto processo per la mancata cattura di Provenzano nel 1995. Sul fronte mafioso della trattativa i protagonisti sarebbero stati Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, il defunto Vittorio Mangano, l’ex stalliere di Arcore, Nino Cinà e naturalmente Totò Riina e Bernardo Provenzano. Massimo Ciancimino deve rispondere di concorso in associazione mafiosa e di calunnia aggravata nei confronti dell’ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro. Secondo quanto riportato nell’avviso di chiusura indagini, i pubblici ufficiali avrebbero «agito con abuso di potere e con violazione dei doveri inerenti la loro pubblica funzione», anche «con altri soggetti allo stato ignoti, per turbare la regolare attività di corpi politici dello Stato italiano, e in particolare del Governo». I boss, per perseguire le proprie finalità, avrebbero «usato minaccia a rappresentanti di detto corpo politico, per impedirne o comunque turbarne l’attività», minaccia che sarebbe «consistita nel prospettare l’organizzazione e l’esecuzione di stragi, omicidi e altri gravi delitti, alcuni dei quali commessi e realizzati, ai danni di esponenti politici e delle istituzioni». Il provvedimento è stato firmato dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dai sostituti Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Lia Sava. Si è rifiutato di firmare invece il sostituto Paolo Guido, convinto che l’accusa non possa reggere in giudizio. Nell’inchiesta è entrato anche Giovanni Conso, 91 anni, ex ministro della Giustizia e giurista di chiara fama in materia processual-penalistica, anche se la sua posizione è stata stralciata rispetto agli altri indagati e seguirà un percorso procedurale diverso. L’ipotesi di reato è di aver fornito false informazioni al pm. Conso, che fu ministro dal febbraio 1993 all’aprile 1994 nei governi Amato e Ciampi, è stato audito in diverse occasioni dai magistrati titolari dell’inchiesta dopo che lo stesso Conso, l’11 novembre 2010, dichiarò, davanti alla Commissione antimafia, di aver determinato la revoca del carcere duro (41 bis) a circa 300 mafiosi tra il novembre 1993 e il gennaio 1994. Una decisione assunta in «totale autonomia» secondo il giurista, ma che per i magistrati potrebbe essere un tassello di quella presunta trattativa tra pezzi dello Stato e mafia corleonese. L’ex ministro ha commentato: «Sono curioso di sapere di che cosa mi si accusa, non so di quali cose false si possa trattare. Qui c’è un grosso equivoco: un conto è l’accusa di aver in qualche modo trattato con la mafia, che non esiste assolutamente, un altro è la contestazione di qualcosa che posso aver fatto o detto negli interrogatori. Finché non ne saprò di più non potrò dire altro». Per lo stesso capo di accusa (false informazioni al pm) risultano indagati anche l’ex capo del Dap Adalberto Capriotti, 89 anni, e l’europarlamentare dell’Udc Giuseppe Gargani. La legge prevede che l’inchiesta sugli indagati soggetti a stralcio sia bloccata fino alla definizione in primo grado del processo principale. 13 | giugno 2012 | narcomafie brevi di mafia Camorra, colpito il clan Mallardo con 47 arresti Il clan Mallardo di Giugliano, in provincia di Napoli, attivo in particolare anche nel basso Lazio, ma con diramazioni fino in Emilia Romagna e Lombardia, è stato pesantemente colpito lo scorso 6 giugno da un’operazione condotta dal Ros dei Carabinieri e coordinata dalla Dda di Napoli. In manette sono finite 47 persone con accuse che vanno dall’associazione mafiosa all’estorsione, alla detenzione di armi da guerra. Il blitz è stato condotto in Campania, Lazio, Emilia Romagna, Abruzzo, Calabria e Lombardia. Sono stati sequestrati beni per milioni di euro, tra cui uno yacht e un supermercato. Dall’inchiesta sono emerse nuove alleanze con il clan Licciardi di Secondigliano (Napoli) e con il clan Bidognetti di Casal di Principe (Caserta), stipulate al fine di una gestione unitaria delle estorsioni. Per il governo dell’alleanza i clan avrebbero dato vita ad una sorta di direttorio costituito da Francesco Diana, Giuseppe Trambarulo e Giuseppe Pellegrino, in rappresentanza rispettivamente dei Bidognetti, dei Licciardi e dei Mallardo. Le indagini hanno appurato «numerosi e continuativi episodi estorsivi» ai danni di commercianti di Villa Literno, Castel Volturno e Giugliano. In nessun caso le vittime hanno fornito collaborazione agli inquirenti. Napoli, commerciante mette in fuga l’estorsore camorrista Il fatto si è verificato lo scorso ottobre, ma la notizia è stata diffusa solo il 5 giugno, a termine di un’inchiesta condotta dai pm Antonello Ardituro, Giovanni Conzo, Catello Maresca e Cesare Siringano della Dda di Napoli che ha portato all’arresto di 10 esponenti del clan Venosta, legato al clan dei Casalesi. Dagli atti è emerso come un commerciante, Luigi Sagliocco, titolare di un negozio di ferramenta a San Marcellino, in provincia di Caserta, abbia respinto in modo inusualmente fermo e deciso una richiesta estorsiva formulata da un emissario del clan Venosta, Mario Maisto. Dalle immagini registrate dalle telecamere a circuito chiuso del negozio, si vede Sagliocco rispondere a muso duro alla richiesta di pizzo: «Tu, comandi tu? Allora mi senti a me? Tu lo sai chi è “occhi di ghiaccio”? Lo sai “porcellino”? Li sai i Mistrilli? I Malapelle? Lo sai che li ho fatti arrestare tutti quanti io? Ascolta, io sto nell’antiracket da 10 anni, solo che non sai questo fatto. Mo’ voglio capire chi è che ti ha mandato qua». L’estorsore appare evidentemente preso di sorpresa: «Aspetta, Luigi, ambasciatore non porta pena». Lo scambio di battute si chiude con il commerciante all’attacco: «Benissimo, allora quello che sto dicendo tu vallo a riportare. Vedi che se lo vai a riportare capiscono pure che da 12 anni stiamo nell’antiracket. Facciamo arrestare tutti quanti che vengono qua». L’estorsore ha lasciato la ferramenta chiedendo dei prodotti per giustificare con un acquisto la presenza nel negozio. Sagliocco ha poi consegnato il video ai carabinieri che hanno avviato l’inchiesta. Provenzano, aperta inchiesta sul tentato suicidio Lo scorso 10 maggio Bernardo Provenzano, rinchiuso nel carcere di Parma al regime del 41 bis, fu protagonista di un apparente tentativo di suicidio con un sacchetto di plastica, sventato prontamente dagli agenti della polizia penitenziaria. Sull’episodio la procura di Palermo ha aperto un fascicolo a carico di ignoti. Interrogato dai pm Ignazio De Francisci e Antonio Ingroia, Provenzano non avrebbe fornito spiegazioni. Secondo quanto rilevato dai periti del tribunale di sorveglianza, le condizioni di salute del vecchio boss, quasi ottantenne – affetto da tumore alla prostata e morbo di Parkinson in stadio iniziale –, sono precarie, ma non incompatibili con la detenzione né tali da comprometterne la capacità di intendere e di volere o di difendersi in giudizio. Il sindaco di Trapani: “Mafia? Meglio non parlarne” «Non bisogna parlare di mafia perché si rischia di darle soltanto troppa importanza, i progetti dove si parla sempre e solo male della mafia, in realtà, danno importanza ai mafiosi». È questo il pensiero del neo eletto sindaco di Trapani Vito Damiani, Pdl, ex generale dei Carabinieri in pensione, espresso durante un incontro con gli alunni e i genitori della scuola media “Simone Catalano”, lo scorso 31 maggio. Secondo il sindaco, a scuola «bisogna puntare su progetti che riguardano lo sviluppo sociale» e ha detto di avere apprezzato due progetti della scuola visitata: «Uno sull’educazione alimentare e l’altro sull’integrazione tra gli alunni. Questi – ha detto – sono i tipi di progetti che io sosterrò in qualità di sindaco». Le parole del primo cittadino hanno suscitato un vespaio di polemiche alle quali l’ex generale dei carabinieri ha risposto dalle pagine de «La Repubblica» senza scomporsi: «È giusto parlare di legalità ma di legalità concreta. Io preferisco finanziare un laboratorio e uno studio finale dedicato ai prodotti tipici locali che uno studio sulla mafia, dove magari gli studenti recitano perché imbeccati. Ci sono le ore di educazione civica per parlare di mafia. Finché ci sarò si parlerà di mafia nella maniera più contratta possibile, per non fare vivere i ragazzi nella paura». 14 | giugno 2012 | narcomafie brevi di mafia Basso Piemonte, richieste 100 anni di carcere contro la locale di Novi ligure I pm della Dda di Torino Paola Stupino, Monica Abbatecola, Roberto Sparagna ed Enrico Araldi di Balme lo scorso 12 giugno hanno chiesto 16 condanne per gli imputati sotto processo con il rito abbreviato accusati di affiliazione alle ’ndrine operanti nel basso Piemonte, colpite il 21 giugno 2011 con l’operazione “Alba chiara”, che portò all’arresto di 19 presunti affiliati alla mafia calabrese. Le pene richieste vanno da un minimo di 5 anni a un massimo di 9. Complessivamente sono stati chiesti 100 anni di reclusione. Secondo quanto emerso dall’inchiesta, a Novi Ligure (Al) avrebbe avuto sede una locale costituita dalle ’ndrine operanti in provincia di Alessandria, Asti e Cuneo. La locale sarebbe stata guidata da Rocco Pronestì di Bosco Marengo. Per lui la pena richiesta è stata di soli 8 anni, anche in virtù della scelta dell’imputato di dissociarsi dall’organizzazione. Il nome che nel giugno 2011 aveva fatto più scalpore, però, era quello di Giuseppe Caridi (nella foto), consigliere comunale di Alessandria in forza Pdl, ritenuto affiliato alla ’ndrangheta con il grado di “picciotto”. Per lui i magistrati hanno richiesto 6 anni e 8 mesi di carcere. Terremoto in Emilia, “non fermare ricostruzione per rischio infiltrazioni” Lo ha dichiarato il procuratore capo di Bologna, Roberto Alfonso, il 13 giugno a margine della presentazione del rapporto sulla presenza mafiosa in Emilia curata dal prof. Enzo Ciconte. «La ricostruzione post-terremoto farà arrivare in Emilia-Romagna tanto denaro e sarà una buona occasione anche per la criminalità organizzata, che non vorrà sicuramente mancare. Occorre restare vigili e mettere in campo tutti gli strumenti che il legislatore ci mette a disposizione», perché «non si può fermare la ricostruzione per paura di infil- trazioni». Il procuratore di Bologna, dunque, invoca l’utilizzo di tutti gli strumenti già esistenti «e anche di qualcun altro che potrebbe arrivare a breve» per integrare le norme attuali «in particolare sulla documentazione antimafia». In provincia di Modena sono attive centinaia di imprese edili originarie della provincia di Caserta, patria del clan dei Casalesi. Proprio la camorra Casertana, insieme alla ’ndrangheta calabrese, è l’organizzazione criminale più presente nei territori colpiti dal sisma. Piemonte, processo Minotauro, chieste condanne per primi 73 imputati È alle battute finali di fronte al Gup del tribunale di Torino la tranche del processo che vede alla sbarra i 73 presunti ’ndranghetisti coinvolti nell’inchiesta Minotauro (la più importante operazione contro la ’ndrangheta in Piemonte mai realizzata) e che hanno scelto il rito abbreviato. Il procuratore aggiunto Sandro Ausiello, coordinatore della Dda torinese, ha chiesto 500 anni di carcere complessivi per gli imputati che, solo per la scelta del rito alternativo, godono di uno sconto di pena secco pari a un terzo di quella altrimenti comminata nel giudizio ordinario. Pugno duro contro Aldo Cosimo Crea, detto “Cosimino”, 38 anni, “padrino” con un ruolo attivo nel “crimine”, la struttura organizzativa preposta allo svolgimento di azioni violente per conto delle famiglie mafiose. Quattordici anni e 4 mesi per il fratello Adolfo, 41 anni, anche lui affiliato con dote di “padrino”. I fratelli Crea, che nell’inchiesta Minotauro risultano ricoprire un ruolo apicale nell’organigramma delle famiglie ’ndranghetiste piemontesi, negli anni scorsi erano stati già coinvolti in processi per mafia, dai quali erano usciti quasi indenni, con pene irrisorie. Altri personaggi di spicco dell’inchiesta che si sono avvalsi del rito abbreviato sono Giovanni e Bruno Iaria, della locale di Cuorgné. Per Bruno Iaria, considerato il capolocale, Ausiello ha chiesto 14 anni e 45 mila euro di multa. Per lo zio Giovanni, figura nota alle cronache politiche e giudiziarie da almeno 30 anni, con un passato da attivista socialista e già assessore di Cuorgné, la procura ha chiesto 7 anni e 8 mesi di reclusione. La sentenza è prevista per dopo l’estate. Per gli altri 75 imputati che hanno scelto il rito ordinario il processo inizierà a ottobre. Reggio Calabria, pentito: “Pronto l’esplosivo per Nicola Gratteri” Secondo quanto riportato da «Il Fatto quotidiano» il 13 giugno scorso, un collaboratore di giustizia avrebbe rivelato l’intenzione della ’ndrangheta di assassinare il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri tramite un attentato dinamitardo. Secondo il pentito il progetto omicida sarebbe in uno stadio avanzato di elaborazione e l’esplosivo, 16 chilogrammi, sarebbe già arrivato nella città dello Stretto. Nicola Gratteri è uno dei magistrati di punta della Dda Reggina, uno dei massimi esperti di mafia calabrese, autore di molte delle più importanti inchieste degli ultimi 20 anni. Sotto scorta dal 1989, nel 1990 una telefonata raggiunse la sua fidanzata per intimarle di non sposare il magistrato, in quanto “uomo morto”. La procura di Catanzaro ha aperto un’inchiesta, mentre il comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza si è riunito per rinforzare il dispositivo di sicurezza a tutela del magistrato. 15 | giugno 2012 | narcomafie Mafia e politica Tutti i guai del governatore Tra avvisi di garanzia e dichiarazioni di pentiti sui presunti legami con le cosche: per Giuseppe Scopelliti l’epoca da golden boy del Pdl meridionale sembra essere finita. A travolgere l’ex sindaco di Reggio Calabria anche l’udienza del colonnello Valerio Giardina che ha puntato il dito contro la “lobby politico mafiosa” di cui sarebbe espressione Foto di Mimì Scarrone di Alessia Candito 16 | giugno 2012 | narcomafie Complice il mutato clima nelle stanze romane, la rete di protezione che per anni sembrava aver preservato la lunga carriera politica di Scopelliti si va sfaldando Ha ricevuto tre avvisi di garanzia nell’ambito di due diverse inchieste. Il 29 giugno dovrà presentarsi davanti al gup di Reggio Calabria, Antonio Laganà, chiamato a decidere se rinviarlo a giudizio per falso in atto pubblico e abuso d’ufficio. Di lui e dei suoi presunti legami con le cosche hanno parlato in diverse occasioni sei collaboratori di giustizia e un nome noto della ’ndrangheta che opera sotto la Madonnina, ma che ha in Reggio Calabria il proprio baricentro. Nel frattempo tre commissari ministeriali scavano tra le carte del Comune che ha amministrato per 8 anni, gli scandali travolgono il Consiglio regionale che presiede e l’ultima tornata elettorale non è stata per nulla favorevole ai suoi uomini candidati negli 81 comuni della Calabria. Accuse respinte al mittente. Per Giuseppe Scopelliti l’epoca da golden boy del Pdl meridionale sembra essere finita nonostante abbia convocato in riva allo Stretto il segretario nazionale del partito, Angelino Alfano, e il capogruppo dei senatori azzurri, Maurizio Gasparri, chiamati a distanza di una settimana l’uno dall’altro a perorare la causa del cosiddetto Modello Reggio contro il «feroce attacco vissuto da questa città» ad opera – a detta dell’ex sindaco e attuale governatore Scopelliti – di giornalisti, oppositori politici locali e nazionali, non meglio identificati comunisti, vecchi compagni di strada. La sua giunta regionale vanta già due consiglieri finiti in manette, più di un’indagine lambisce i suoi più stretti collaboratori e dietro di lui si addensa, sempre più concreta, l’ombra delle ’ndrine. Complice forse il mutato clima nelle stanze romane, la rete di protezione che per anni sembrava aver preservato la lunga carriera politica di Scopelliti si va sfaldando. Il presidente è in difficoltà. Ha sempre respinto al mittente ogni accusa e annunciato che avrebbe dimostrato la sua totale estraneità. Anche l’ipotesi piuttosto concreta di un rinvio a giudizio sembra non scalfirne la coriacea volontà di rimanere in carica. «Non penso che l’ipotesi dell’abuso d’ufficio possa diventare ipotesi di dimissioni, tanto meno quella del falso in bilancio», ha dichiarato di recente il governatore, spiegando: «I bilanci non li fanno i sindaci ma li fanno spesso e volentieri i dirigenti, e spesso e volentieri li fanno di concerto con gli assessori competenti. Sennò che ci sono a fare gli assessori?». Il processo «sarà un modo per raccontare quello che ho sempre detto e che continuerò a dire su questa vicenda perché la posizione mi sembra molto onesta e molto chiara. Ci sarà modo per ribadire la mia posizione e la mia estraneità agli atti che mi sembra chiara e evidente». Il caso Fallara. Nonostante anche il Tribunale di Catanzaro abbia fatto recapitare sulla scrivania di Scopelliti l’ennesimo avviso di garanzia, in questo caso come autore di alcune contestate delibere sottoscritte in qualità di commissario ad acta per la sanità, il cuore delle preoccupazioni del presidente della regione Calabria batte trecento chilometri più a sud. In quella Reggio di cui è stato sindaco per due mandati. Otto anni di gestione che oggi stanno passando sotto la lente degli ispettori della commissione d’accesso, disposta dal ministro dell’Interno in seguito alla relazione dell’ex prefetto Luigi Varratta, che al Viminale aveva mandato il lungo elenco delle operazioni di polizia che nel corso degli ultimi anni hanno interessato o lambito il Comune. Indagini come il cosiddetto caso Fallara, che oggi rischia di trascinare in Tribunale, in qualità di imputato anche Scopelliti, finito sotto la lente dei magistrati nell’ambito dell’inchiesta sul buco di bilancio che rischia di portare il Comune di Reggio Calabria alla bancarotta. A lui il procuratore Ottavio Sferlazza e i sostituti Sara Ombra e Francesco Tripodi, contestano alcuni episodi di abuso d’ufficio e l’accusa di falso in atto pubblico. E l’atto in questione è il bilancio negli anni dal 2008 al 2010. Un buco nero nel quale – hanno accertato i periti incaricati dalla Procura – in due anni, grazie a un’infinita gamma di artifici contabili, sono spariti oltre 87 milioni di euro. Manovre finanziare complesse per far quadrare i conti e rispettare il Patto di Stabilità. E quindi poter spendere, assumere, contrarre mutui, pagare consulenze e progettazioni. E accumulare debiti su debiti. Medesimo modus operandi fotografato dagli ispettori che il ministero dell’Economia ha spedito in riva allo Stretto, secondo cui tra il 2006 e il 2010, dalle casse comunali sono spariti oltre 170 milioni di euro. Una voragine – si legge in quel documento 17 | giugno 2012 | narcomafie – «approssimata per difetto». Oltre che per il governatore, i pm Sferlazza, Ombra e Tripodi hanno richiesto il rinvio a giudizio anche per i tre revisori dei conti, Domenico D’Amico, Ruggero Alessandro De Medici e Carmelo Stracuzzi (che dopo anni di “onorato servizio” al Comune, lavora oggi alla Regione Calabria), che avrebbero certificato i bilanci di quegli anni senza ravvisare alcuna anomalia. Nel corso delle indagini, i tre, al cospetto dei pm, si erano avvalsi della facoltà di non rispondere. Della voragine nei conti del Comune, unica responsabile – allo stato – sarebbe l’ex dirigente del settore Bilancio, Orsola Fallara, accusata di essersi indebitamente liquidata somme ingenti di denaro e morta poco più di un anno e mezzo fa, dopo aver ingerito una dose letale di acido muriatico. Ma lo strano suicidio della donna – che per anni ha avuto in mano le chiavi del tesoro comunale e ha accompagnato Scopelliti fin dagli albori della sua carriera politica – non ha fermato i giudici, decisi a chiarire se dietro il tanto decantato “Modello Reggio” si nasconda la condotta illecita di un singolo o un sistema di illegalità diffusa. “Firmavo atti che non leggevo”. Un sistema del quale Giuseppe Scopelli, nonostante abbia governato per otto anni la città di Reggio e guidato la sua amministrazione, saprebbe poco o nulla. O almeno, questo ha sostenuto davanti ai magistrati quando nel corso delle indagini è stato chiamato a riferire sulla gestione creativa delle casse comunali e sull’ancor più creativo documento di bilancio, che in qualità di sindaco aveva firmato. Il 20 dicembre scorso, uscendo – scuro in viso – dalle stanze dell’allora Procuratore capo della Dda, Giuseppe Pignatone, Scopelliti aveva dichiarato: «Ho soltanto chiarito la mia posizione in merito alle vicende contestate, evidenziando così come è scritto dagli stessi ispettori ministeriali, il distinguo tra le competenze, che sono gestionali in capo ai dirigenti, e quelle in capo alla politica». Medesimo copione di quanto sostenuto davanti ai pm in una precedente occasione, nel marzo 2011, quando – rispondendo ai magistrati che all’epoca gli contestavano solo l’abuso d’ufficio – Scopellitidichiarava: «Premetto che in qualità di sindaco ho firmato tantissimi atti e preciso che gli stessi mi venivano sottoposti in notevole quantità all’interno di faldoni, sicché li sottoscrivevo senza leggerne il contenuto, confidando nella responsabilità e professionalità dei colleghi competenti». Eppure, in un precedente interrogatorio, Franco Zoccali – prima capo di gabinetto poi city manager del Comune, attualmente direttore generale della Regione Calabria – aveva dichiarato che gli atti della dottoressa Fallara venivano direttamente sottoposti alla firma del sindaco da lei stessa. Circostanza negata con forza da Scopelliti: «Ribadisco che gli atti della Fallara seguivano lo stesso iter degli altri». Nel frattempo però iniziarono a emergere alcune di quelle “22 irregolarità palesi” accertate dagli ispettori ministeriali prima e dai periti della Procura poi. Interrogato dai pm, l’architetto Franco Labate, che della Fallara era amante, ha raccontato come grazie a lei sarebbe riuscito a ottenere dal Comune l’assegnazione di “piccoli lavori”. «La Fallara mi aveva invece procurato dei contrattini per piccoli lavori pubblici sul verde attrezzato portandomi personalmente le lettere di conferimento che io firmavo e che lei stessa avrebbe portato al responsabile del settore. Erano soltanto piccole progettazioni di aiuole e piazzuole che non so nemmeno se siano state realizzate». Valore delle opere, spesso fantasma, settecentomila euro. Tutti prelevati dalle casse del Comune. Soldi che in parte Labate ha già restituito e preannuncia di restituire totalmente. Illeciti che gli sono valsi un’accusa di peculato e truffa, per la quale i suoi legali avevano concertato con la Procura un patteggiamento a un anno e 8 mesi di carcere (con pena sospesa), che il gup Daniela Oliva, ha definito non “congruo”. Ma l’ex dirigente del settore Bilancio non era l’unico alto papavero dell’amministrazione reggina dal quale l’architetto avesse ricevuto favori e attenzioni. «Fu la Fallara – ha detto Labate – tramite Franco Zoccali che era assieme a Scopelliti a procurarmi l’incarico di capo della delegazione romana, sempre da considerarsi un “parcheggio” in attesa dell’incarico a Fin Calabra, che era il mio vero obiettivo. L’incarico di direttore Fin Calabra avrebbe comportato lo stipendio di circa ottomila euro, almeno così mi disse la Fallara». Parcheggio di cui Labate avrebbe parlato direttamente con l’attuale Giuseppe Scopelliti 18 | giugno 2012 | narcomafie Governatore: «Fu un incontro breve e Scopelliti mi disse di parlare con Zoccali – all’epoca direttore generale del Comune di Reggio Calabria e storico braccio destro dell’attuale governatore – al quale spiegai la mia aspirazione. Poi mi mandarono tutte le carte del contratto a Roma per firmarle». Le accuse del colonnello Giardina. Affermazioni inquietanti che hanno ancor più inquietante eco nella “lobby affaristico-massonica in cui vi sono i vertici delle cosche e della politica” di cui ha parlato, in pubblica udienza, il colonnello Valerio Giardina, chiamato a riferire sulle sue indagini da comandante dei Ros di Reggio Calabria nell’ambito del processo Meta. Una lobby che – stando alle parole del colonnello – governerebbe gli affari e gli appalti e nella quale avrebbero un ruolo di primo piano anche l’ex sindaco di Reggio, oggi governatore Giuseppe Scopelliti, e il fratello Consolato (Tino). «In riferimento a Scopelliti – ha affermato Giardina davanti al Tribunale e al pm Giuseppe Lombardo – ci sono altri fatti, reciprocità relazionali di natura criminal-mafiosa con i vertici della ’ndrangheta di Villa San Giovanni, oltre ai legami di suo fratello Consolato relativi agli appalti pubblici del Comune di Reggio». Ma non solo. «Abbiamo documentato – ha dichiarato ancora Giardina – rapporti di Scopelliti con i vertici delle cosche di San Giovanni in Fiore e di Reggio Calabria». Rapporti come quelli con gli imprenditori Barbieri, uno dei quali, Domenico, è stato già condannato in primo grado per associazione mafiosa, ma i cui inviti il governatore ha pensato bene di accettare. Il 15 ottobre 2006, al ricevimento per l’anniversario di nozze dei coniugi Barbieri – genitori di Domenico, Carmelo e Vincenzo, ritenuti organici alle cosche di Villa San Giovanni – Scopelliti arriverà accompagnato dalla macchina blindata e dalla scorta. Graditi ospiti della coppia, insieme al governatore, personaggi di spicco della ’ndrangheta reggina come Cosimo Alvaro e il fratello Giuseppe. Di quella giornata scriveranno i carabinieri nel loro rapporto: «La presenza di esponenti politici, nonché di personaggi appartenenti ad agguerrite associazioni mafiose, non lasciava alcun dubbio sulla centralità di Barbieri nelle dinamiche criminali e politiche della città di Reggio Calabria». Sono i magistrati a chiarire invece nell’ordinanaza di custodia cautelare di Meta, chi siano i fratelli Barbieri a Reggio città: «Sono imprenditori al servizio della cosca operanti non secondo logiche di libero mercato, ma nel rispetto delle dinamiche oligopolistiche di tipo mafioso». Domenico Barbieri, detto Mimmo, è considerato dai magistrati “contiguo al gruppo criminale facente capo ad Antonino Imerti ed ai fratelli Buda egemoni nell’area di Villa San Giovanni”. Si legge ancora nelle carte dell’inchiesta: “Il Barbieri unitamente ai fratelli Vincenzo e Carmelo, mantenevano stretti contatti con il pregiudicato Cosimo Alvaro, appartenente alla omonima famiglia di Sinopoli, e che proprio i fratelli Barbieri, per un periodo di tempo avevano gestito la latitanza di Carmine Alvaro, fratello di Cosimo”. Frequentazioni non esattamente opportune per un rappresentante delle istituzioni. Eppure, una volta divenuta pubblica la notizia della sua partecipazione al ricevimento, Scopelliti derubricherà la sua presenza a misero “favore” fatto ad un imprenditore – Vincenzo, non il fratello Domenico – che per molto tempo avrebbe lavorato con il Comune, ma del quale non avrebbe mai approfondito trascorsi e frequentazioni. Poco spazio alle interpretazioni. Eppure i Barbieri – secondo quanto riferito dallo stesso Giardina in udienza – non sembrano avere una conoscenza superficiale degli affari e dell’entourage del presidente della Regione. È lo stesso Domenico – ignaro della microspia piazzata dal Ros nella sua auto – a fornire a più riprese agli investigatori gli elementi che porteranno Giardina ad affermare l’esistenza di un grumo di poteri convergenti che governa la città. «Stanno dando i lavori dove vogliono, fino a quando il discorso equilibrato…no, qua il discorso è tutto focalizzato», registrano le cimici: a parlare è l’imprenditore Franco Labate – già coinvolto nel cosiddetto caso Fallara – che con Barbieri lamenta lo strapotere della Edilmar di Santo Marcianò nell’assegnazione degli appalti, proprio negli anni in cui a capo del Comune di Reggio c’è il sindaco Scopelliti. Uno strapotere non casuale, secondo Giardina, che ha spiegato come la ditta sia stata «favorita nell’aggiudicazione degli appalti dall’interesse di Tino Scopelliti in 19 | giugno 2012 | narcomafie combutta con Pasquale Crucitti, dirigente dell’ufficio tecnico del Comune». Un’affermazione che il militare può fare anche sulla base della conversazione intercettata e registrata fra Barbieri e Labate. Barbieri: “Bisogna aggiustare i lavori…hai visto Edil.ma?” Labate: “Crucitti?” Barbieri: “Con il fratello del sindaco… è lui… i soldi li sta prendendo il fratello del sindaco…” Labate: Edil.ma Barbieri: Di tutti! Quello che si è riempito la mazzetta, quello che si è preso la pila E Pasquale Crucitti, non è un personaggio sconosciuto alle cronache. All’epoca, l’ingegnere era la figura chiave, forse la più importante del Comune di Reggio Calabria: dirigente alla Programmazione e progettazione. Un personaggio importante, che il 10 aprile 2009 verrà gambizzato con alcuni colpi di pistola al centro di Reggio, dopo che aveva parcheggiato l’automobile per raggiungere casa. Pochi mesi prima dell’agguato, insieme all’allora sindaco Giuseppe Scopelliti, aveva partecipato alla consegna dei lavori di riqualificazione della zona limitrofa la chiesa di Santo Stefano da Nicea di Archi Cep, a Reggio. L’intervento, programmato già nel 2007, era stato eseguito da Edil.ma. Ma la Edil.ma non sarebbe l’unica ditta a disporre di un canale preferenziale. Stando ad un’altra conversazione del gennaio 2007 fra Labate e Barbieri, anche nel caso dei lavori di ampliamento dell’aeroporto “Tito Minniti” e degli appalti nel Comune di Reggio, le commesse sarebbero state pilotate. A beneficiarne sarebbe stata la ditta Minghetti, perché appoggiata dal clan Lampada, presunto braccio finanziario ed operativo della cosca Condello in Lombardia. Lo stesso clan che – stando alle ultime indagini – aveva sul proprio libro paga il gip di Palmi, Giancarlo Giusti, l’ex presidente della sezione Misure di Prevenzione, Vincenzo Giglio, il cugino medico Enzo Giglio, l’avvocato Vincenzo Minasi e il consigliere regionale Franco Morelli. Volti e nomi noti dell’élite reggina sempre a cavallo fra politica e salotti buoni. Secondo gli esiti delle indagini meneghine, il gruppo di professionisti sarebbe stato infatti fino a poco tempo fa uno dei grandi centri di raccolta voti e preferenze del neo assessore regionale ai Trasporti Luigi Fedele. Politico di lungo corso oggi in Regione, ma con solide radici a Reggio città, dove da sempre radica il suo zoccolo duro, Fedele, che allo stato risulta non indagato, per il gip del Tribunale di Milano Giuseppe Gennari era per i Lampada «la figura fondamentale per la risoluzione di qualsiasi problematica». Eppure, le osservazioni dei magistrati non sono state d’ostacolo a Fedele nella corsa all’assessorato. Il presidente della Regione – a capo di una maggioranza che ha già visto due consiglieri, Santi Zappalà e Franco Morelli, finire in manette in due diverse inchieste per concorso esterno in associazione mafiosa – ha deciso di affidare proprio a lui la delicatissima delega ai Trasporti. Una nomina che corre sul filo dell’ambiguità, formalmente inattaccabile – Fedele non è indagato – ma politicamente e socialmente estremamente significativa. Una nomina che sembra seguire, questa volta in Regione, il solco tracciato dal Modello Reggio. Un Modello che oggi sembra essere sul banco degli imputati insieme a tutti gli indagati del processo Meta. L’immagine del Comune e di tutti gli affari che attorno ad esso ruotano che viene fuori da quell’indagine è quella del terminale ultimo di un “sistema perverso”, in cui lecito e illecito camminano affiancati. «Dalle varie intercettazioni – ha detto Giardina in pubblica udienza – emerge un sistema garantito dalla mafia e creato dal mondo politico con la partecipazione di imprenditori e tecnici comunali. Un sistema riconducibile alle “menti” Giorgio De Stefano e Paolo Romeo». Il primo è il cugino di Paolo De Stefano, il boss della ’ndrangheta reggina ucciso nella prima guerra di mafia, e secondo gli investigatori, il vero consigliori politico, economico e strategico del clan. Il secondo è un ex deputato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, il cui nome fa capolino nelle pagine più oscure della storia reggina. Dichiarazioni che Giardina può fare non in ragione di brillanti speculazioni investigative, ma sulla base di dati concreti venuti fuori da una conversazione intercettata – ancora una volta – fra Franco Labate e Domenico Barbieri. «Si sono mangiati sopra a dodici miliardi di strade che dovevano bitumare… non dico dieci, ma una ottina di miliardi se li sono mangiati, se li sono divisi.... L’atto in questione è il bilancio di Reggio negli anni dal 2008 al 2010. Un buco nero nel quale in due anni, grazie ad artifici contabili, sono spariti oltre 87 milioni di euro Nar, politici e faccendieri: le sfortunate frequentazioni del governatore 20 | giugno 2012 | narcomafie di A. C. Ancora una volta nulla di penalmente rilevante, eppure il governatore sembra avere una curiosa tendenza ad accompagnarsi a personaggi di estremo interesse per le Direzioni antimafia della penisola. Come nel caso di Gioacchino Campolo, detto il “re dei videopoker”, arrestato nel luglio 2008 e considerato uomo del clan De Stefano, dal quale, nel 2007, Scopelliti avrebbe ottenuto in comodato d’uso gratuito uno dei locali poi sequestrati dalla magistratura – l’ex cinema-teatro Margherita, sul centralissimo corso Garibaldi – per gli uffici della sua segreteria politica. Oppure, come nel caso di Bruno Mafrici, sedicente avvocato, transitato dalla natia Melito Porto Salvo (Rc) a un ufficio di riferimento per la finanza e l’industria che conta: quello della Mgim dell’ex Nar Lino Guaglianone, legato a molti dei più lucrosi affari che si cucinano a Reggio Calabria. In quell’ufficio, in cui aveva una stanza lo stesso ex cassiere della Lega Francesco Belsito – di cui Mafrici è stato consulente al Ministero –, sono transitati i nomi e i volti noti dell’imprenditoria che conta a Reggio e provincia: dall’azienda Mucciola, alle attività dell’imprenditore Montesano, dalla Siram – azienda campione di appalti a Palazzo Alemanni, agli ospedali Riuniti, alla Provincia di Reggio Calabria e all’università Mediterranea – fino ai big del mattone a Reggio città. Sempre quell’ufficio ha trattato – pur senza aver ricevuto alcun incarico formale secondo i racconti di Mafrici ai magistrati – la cessione delle quote della società mista del Comune di Reggio Calabria, Multiservizi, un tempo in mano alla Fiat. Quella stessa Multiservizi che le indagini hanno dimostrato in mano sin dalla costituzione alla cosca Tegano di Reggio Calabria. E Mafrici, oggi indagato nell’ambito dell’inchiesta che ha messo a soqquadro il Carroccio, nonostante lontano da tempo, sembra non aver mai tagliato il cordone ombelicale che lo lega alla Reggio bene. Incluso quello che lo lega all’attuale governatore della Calabria, che decide di contattare proprio Mafrici per ottenere i biglietti per il derby Milan-Inter dell’aprile 2011. A casa di Mafrici decide di guardare in tv – il giorno prima di andare alla stadio – la partita della Reggina in compagnia di assessori e funzionari regionali calabresi in trasferta nel capoluogo meneghino. Quella sera a casa Mafrici c’è anche Lino Guaglianone, un passato da cassiere nella Banda Cavallini dei Nar e un presente da socio plenipotenziario della Mgim, multi-assegnatario di incarichi in aziende strategiche (dalle Ferrovie nord, a Fiera Milano Congressi spa, passando per la Finman Spa dell’immobiliarista calabrese Mario Pecchia, già noto alle cronache giudiziarie – ma mai indagato – per l’inchiesta Cerberus, nonché proprietario di palestre e locali frequentati dalla galassia nera milanese). Con Guaglianone, scrive in un relazione l’ex capo del centro operativo della Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria, Francesco Falbo, pare che Scopelliti si sia appartato per discutere di affari e sponsorizzazioni elettorali. Circostanza, ancora una volta, liquidata in modo sprezzante dal governatore per il quale “tifare Reggina non è un reato”. Vero. Eppure anche a un osservatore superficiale saltano agli occhi i tanti fili che legano l’ex Nar Lino Guaglianone e il presidente della Regione Calabria, cresciuto sotto l’ala protettrice di Ciccio Franco e dei suoi “Boia chi molla”, protagonisti di pagine ancora da chiarire sulla storia calabrese come il golpe Borghese o la latitanza della primula nera Franco Freda. O quelli che sembrano incrociare la carriera del governatore con personaggi legati più o meno direttamente alla cosca De Stefano, che della galassia nera in Calabria fu prima se non unica referente. Un rapporto che – forse – non si è ancora interrotto. E che i magistrati oggi hanno tutta l’intenzione di ricostruire. 21 | giugno 2012 | narcomafie ed ora uscirà fuori sempre che le menti sono Paolo e Giorgio!... Uscirà fuori», dice Labate al suo interlocutore. E alla richiesta di chiarimenti da parte di Barbieri, risponde senza lasciar spazio a dubbi: «Paolo Romeo e Giorgio De Stefano». Circostanze che gettano ombre sulle istituzioni e sulla classe politica di Reggio Calabria, di cui i due sono stati – e sono tuttora, nonostante da tempo si siano ritirati – pezzi da novanta. E che non sono piaciute per nulla al governatore. O meglio, che il governatore non ha gradito per nulla che fossero tirate fuori. «Ho appreso con stupore e sconcerto quanto dichiarato dal colonnello dei carabinieri Giardina durante l’ultima udienza del processo Meta», scriveva Scopelliti in una stizzita nota stampa dell’epoca. Il pluridecorato colonnello – che all’attivo ha anche la cattura del numero uno dei latitanti calabresi, Pasquale Condello, per Scopelliti «non si è limitato a illustrare le risultanze dell’attività di indagine svolta, ma ha spacciato per tali delle, per come da lui stesso definite, «deduzioni investigative del suo ufficio». E infatti, partendo dalla lettura di alcune intercettazioni captate, ha costruito un teorema accusatorio ai miei danni non avvedendosi, nella cieca volontà di accusarmi a tutti i costi, di riportare circostanze smentite proprio da quelle verità storiche e processuali che lui stesso avrebbe dovuto ben conoscere». E ancora, scriveva Scopelliti in quella nota «la gravità di queste affermazioni mi fa riflettere sul perché un uomo delle istituzioni e quindi dello Stato abbia tenuto un comportamento sprezzante ed oltraggioso dei valori che lui stesso dovrebbe rappresentare, non limitandosi alla lettura oggettiva dei fatti, ma dando giudizi di natura politica che ne hanno reso evidente la sua faziosità. Voglio evidenziare che parliamo di vicende che non mi hanno mai coinvolto dal punto di vista giudiziario». Una settimana dopo, abbandonando la proverbiale serenità sempre professata, il governatore ha convocato una tumultuosa conferenza stampa per ribadire lo stesso concetto e «fare chiarezza su alcune questioni – ha detto Scopelliti – che riguardano me e la nostra città. Non sono indagato né faccio parte di alcun procedimento giudiziario. Ho convocato questa conferenza stampa per spiegare l’infondatezza di queste testimonianze». L’ombra dei De Stefano. Una conferenza stampa in cui l’obiettivo numero uno è il colonnello Giardina, che per Scopelliti «si è comportato come un oppositore politico, chissà che alle prossime elezioni non si candidi». Il racconto di Giardina è basato su una lunga serie di episodi sospetti: tra presunti “amici” dei clan, politici, tecnici comunali e membri delle forze dell’ordine. Convitato di pietra nell’intera vicenda, il clan De Stefano. Che riemerge spesso, troppo spesso, direttamente o indirettamente in relazione con quello del governatore. Come nel dialogo del 25 luglio 2007, registrato dal Ros nell’ufficio di Domenico Barbieri, l’imprenditore vicino ai clan di Villa San Giovanni, il quale parlando con Labate, ricorda come fosse l’attuale collaboratore di giustizia Nino Fiume, la persona delegata dalla cosca De Stefano alla “gestione del sindaco di Reggio” e la raccolta di voti in suo favore. Affermazioni sempre respinte al mittente dal governatore, che si è giustificato dicendo: «Conosco Fiume. Come tutti i ragazzi di questa città, negli anni Ottanta frequentavo l’unica discoteca che c’era a Reggio, il “Papirus”. Era un gruppo ampio ma sempre circoscritto. Ci si conosceva un po’ tutti. È stata una frequentazione estiva e casuale. Lo ricordo perché era tra quei ragazzi con cui ci si salutava e si scambiava qualche battuta. Non c’è stata alcuna frequentazione. Attraverso i giornali ho appreso che lui era vicino ai De Stefano e che era Della voragine nei conti del Comune, unica responsabile sarebbe l’ex dirigente del settore Bilancio, Orsola Fallara, morta poco più di un anno e mezzo fa, dopo aver ingerito una dose letale di acido muriatico 22 | giugno 2012 | narcomafie Fiume non è l’unico a indicare Scopelliti come terminale ultimo delle attenzioni del gotha della ’ndrangheta reggina, che al termine della seconda guerra di mafia ha equanimemente spartito la città fra le famiglie De Stefano-Tegano e Condello legato alla figlia di Paolo De Stefano. Mai parlato di politica con Fiume. Ho appreso dai giornali che faceva campagna elettorale per me». Eppure lo stesso Fiume, sentito in udienza durante il processo “Testamento”, aveva dichiarato «conosco Giuseppe Scopelliti in quanto ho appoggiato politicamente lo stesso». Circostanza che l’attuale governatore ha provato a smentire, sostenendo che Fiume si sarebbe spontaneamente consegnato ai magistrati prima della sua elezione a sindaco. Ma Scopelliti sembra dimenticare che la sua carriera politica non è iniziata nel 2002, quando ha indossato la fascia tricolore da primo cittadino di Reggio Calabria. Da militante del Fronte della Gioventù, Scopelliti si è ben presto fatto strada nelle istituzioni cittadine e regionali: all’inizio degli anni 90 era consigliere comunale di Reggio, nel ’94 tenta senza successo la strada del Parlamento europeo, nel ’95 transita alla Regione, divenendo presidente del consiglio, nel 2000, sempre della Regione diventa assessore al Lavoro e alla Formazione professionale. Tutto ciò prima di diventare – nel 2002 – sindaco. Mentre il pentito Fiume era fidanzato dell’unica figlia di don Paolo De Stefano e uno dei killer più fidati della cosca. E Fiume non è l’unico a indicare Scopelliti come terminale ultimo delle attenzioni del gotha della ’ndrangheta reggina, che al termine della seconda guerra di mafia ha equamente spartito la città fra le famiglie De Stefano-Tegano e Condello. Solo pochi mesi fa, il 19 ottobre, il pentito Roberto Moio, nipote del boss Giovanni Tegano, nel corso del dibattimento d’appello del processo “Testamento”, ha rivelato: «Abbiamo sempre votato il sindaco Scopelliti attraverso Peppe Agliano. Con lui avevamo rapporti ottimi. Qualche volta è salito anche dai miei zii. Agliano è venuto a chiedere i voti. Abbiamo appoggiato Scopelliti negli anni passati anche tramite Antonio Franco. Votammo sia lui che Scopelliti». Affermazioni ovviamente tutte respinte da tutti gli interessati. Incluso l’attuale governatore, che prima di Moio, già tre diversi collaboratori di giustizia avevano già indicato come l’uomo su cui le cosche puntavano. Nino Lo Giudice il 7 dicembre 2010: «Gli abbiamo dato i voti io e la mia famiglia». Giovanbattista Fragapane, ex killer dei De Stefano, pentito dal 2004: «Alle elezioni sentivo sempre il nome di Scopelliti». Paolo Iannò, ex braccio destro del “supremo” Pasquale Condello: «In relazione a Giuseppe Scopelliti si diceva che era appoggiato dalla’ndrangheta già da quando ero latitante». Affermazioni che il governatore ha cercato a più riprese di smontare giocando su date e circostanze, o negando addirittura di conoscere i diretti interessati. Paolo Martino, ambasciatore al Nord. Ma a parlare di Scopelliti è stato anche quello che gli inquirenti considerano il ministro del Tesoro del clan De Stefano nel nord Italia: Paolo Martino, cugino prediletto del boss Paolo De Stefano. Finito in manette qualche mese fa nell’ambito dell’operazione che ha assestato un duro colpo al clan Flachi, Martino ha risposto con dovizia di particolari alle domande che i pm gli hanno posto. È con un certo orgoglio che l’ambasciatore dei De Stefano al Nord racconterà al gip Gennari non solo delle sue amicizie nel mondo della moda, da Santo Versace («mi ha visto crescere»), a Saverio Moschillo di Richmond («mi ha aiutato in tante cose»), a Maria Paola Paciotti («È lei che dirige l’azienda»), ma anche di quelle con la politica. Il ministro del Tesoro dei De Stefano al Nord conosce Giuseppe Scopelliti. «Ci conosciamo, sappiamo tutti – dirà Martino a un allibito Gennari – conosco lui, suo fratello Rino (Tino, ndr), suo fratello, l’altro, Francesco, è assessore a Como, conosco tutti, ma conosco perché, non perché sono un mafioso, perché sono una persona perbene, e tutta Reggio lo può testimoniare, anche se sanno tutti dei miei precedenti penali purtroppo». E non si tratta di semplici affermazioni. Nel 2006, l’allora sindaco di Reggio incontrò Martino alla Bit di Milano, gli chiederà un “aiuto” per contattare Lele Mora, in seguito coinvolto da Scopelliti nell’organizzazione di eventi in città. Una notizia che solleva un polverone, tanto da spingere Martino a contattare l’allora sindaco di Reggio per scusarsi degli eventuali guai provocati dall’esser stati sorpresi insieme. «Non ti devi scusare di nulla», risponderà Scopelliti, ascoltato dagli investigatori che da tempo tengono Martino sotto controllo. «È un qualcosa di gratificante conoscere uomini come te». 23 | giugno 2012 | narcomafie quale facevo il report di quello che avevo visto. Ma andando a casa portavo con me anche l’amarezza di non potere condurre una vita normale. E spesso scoppiavo a piangere da solo, per strada». La vita “infiltrata” di Paolo è durata otto mesi. Dopo sono scattati gli arresti. «Stavo per impazzire. Mi dicevano che le indagini erano quasi al termine, ma io cominciavo a non reggere più quella vita. Non tolleravo di vedere tutta quella violenza sotto gli occhi. Allora la polizia decise che per 15 giorni avrei fatto finta di essere in Svizzera». Grazie alla collaborazione di Paolo è partita l’operazione “Serpe” (conosciuta come “Aspide”). Il processo è ancora in corso nell’aula bunker di Venezia, dove Mario Crisci, il capoclan casalese, è accusato anche di associazione mafiosa. Paolo è costretto a vivere nell’anonimato. «È difficile essere un testimone di giustizia. Vivere nel silenzio. Con un’altra identità e senza lavoro. Abbiamo vissuto momenti difficili, io e la mia famiglia. All’inizio non avevamo neanche da mangiare. Non avevamo aiuti, se non quelli che ci davano gli stessi investigatori che ci portavano i viveri. Poi siamo stati costretti a lasciare il Veneto. Io non volevo. Non ho paura. Per ragioni di sicurezza siamo ormai lontani. Come lontana è quella vita tranquilla che avevo un tempo». Paolo ha avuto accesso al fondo per le vittime del racket e dell’usura, ma ancora non hanno visto un soldo. Vittima di uno Stato per il quale ha lottato, al momento non ricambiato. nuoveresistenze avevano prestato inizialmente 50mila euro, su cui dovevo pagare 7.500 euro al mese di interessi. Io pagavo, ma la somma pattuita non mi veniva data mai. Arrivai ad avere un debito di 200mila euro e a quel punto capii che volevano impadronirsi delle mie aziende. Mi minacciavano. Mi dicevano che stavo perdendo tempo e chi me lo faceva fare a tenermi ancora le mie aziende in quello stato. A quel punto non ne ho potuto più e ho denunciato». Da quel momento la vita di Paolo si trasforma da imprenditore vittima di usura a infiltrato. «Ho iniziato a collaborare perché volevo che questi farabutti finissero in galera. Mi hanno dato apparecchiature tecnologiche come gli scarponcini con trasmittenti per segnalare la mia presenza continuamente. Le ricaricavo tutte le sere. Ero pronto per entrare nel clan. Partivo alle sette del mattino in macchina con loro e venivo presentato come quello che prendeva i soldi. Stavo tutto il giorno con i miei aguzzini. Guardavo spesso la violenza, le minacce nei confronti degli imprenditori in crisi. È terribile fingere di fare parte di un mondo che odi e colpevole di averti rovinato la vita. Eppure avevo desiderio di giustizia. E ho rischiato. Sono stato con loro in Emilia Romagna, a trattare affari di questo genere per e con loro. In soli 8 mesi ero diventato il cervello del clan. Quando si doveva comprare una casa, o immobili di vario genere, dovevo valutare io. Consigliare. Andavo in giro con le loro pistole, i loro assegni. E la sera andavo alla sede della Direzione investigativa antimafia alla Storie di chi si ribella ogni giorno «Io non ho paura. L’unica volta che ho avuto un po’ di timore è stato durante il processo. Quando passavo e loro mi applaudivano battendo le mani in maniera provocatoria». Paolo ha 52 anni, è un imprenditore edile campano oggi testimone di giustizia. «Da anni avevo abbandonato la mia terra e investito nel Veneto. Le cose andavano bene, fino a quando sono stato costretto a chiedere un prestito. Avevo bisogno di 350mila euro per sistemare alcune aziende nel padovano. Niente banche, niente Confidi, niente fondi a sostegno per le imprese. Allora un collega mi ha consigliato di chiedere aiuto a una finanziaria. Si chiamava Aspide». Quel nome passerà alla storia per avere messo a nudo un sistema di estorsione che riguardava circa 100 imprenditori taglieggiati dal clan dei casalesi capeggiati da Mario Crisci, conosciuto come ’o dotto’, per le sue capacità manageriali. «Il 9 settembre del 2010 dovevo tornare in Campania. Era morto mio padre. Mia moglie aveva preparato le valigie. Ma io ero dietro al clan. Nessuno riusciva a giustificarsi la mia assenza. Sono tornato a casa che erano le 23. Facevo sempre tardi quelle sere. Ma quella volta ho trovato mia moglie e i miei figli in piedi ad aspettarmi per avere delle spiegazioni». Inizia così il suo lungo racconto Paolo, che per diversi mesi aveva tenuto nascosto alla famiglia quello che stava passando. «Ho capito subito che Aspide non era una vera finanziaria – racconta a «Narcomafie» (che della vicenda si era occupata sul numero 5/2011, ndr). I miei aguzzini mi di Laura Galesi “Io non ho paura” 24 | giugno 2012 | narcomafie Attentati sui beni confiscati Come l’araba fenice Sessanta ettari di terreno bruciati in dieci giorni. Grano, aranci, ulivi ridotti in cenere. Dalla Puglia alla Sicilia. Una vera e propria rappresaglia militare condotta con ogni probabilità da criminali che non vogliono che i beni confiscati loro tornino a dare frutti. Un grave colpo per le cooperative che su quei campi lavorano, un colpo per i ragazzi pronti a trascorrere un’estate di lavoro volontario. Ma ci si rimbocca le maniche e si riparte Foto Libera Catania di Marika Demaria 25 | giugno 2012 | narcomafie Oltre sessanta ettari di terreno bruciati. Raccolti di grano, arance, olive ridotti in cenere. In dieci giorni. Dalla Puglia alla Sicilia. Una vera e propria rappresaglia militare che sarebbe stata condotta dalla criminalità organizzata ai danni di beni confiscati ai mafiosi e affidati in gestione a cooperative sociali o in fase transitoria all’associazione Libera (che di fatto non possiede alcun bene, fatta eccezione per la sede romana). Il condizionale è d’obbligo, le indagini sono in corso, ma è difficile credere che si tratti di un coacervo di analoghe situazioni, di figure piromani che si sono aggirate di notte indisturbate prendendo di mira sempre e solo i beni sui quali, dalla metà di giugno, stanno portando il proprio contributo di volontariato giovani provenienti da tutta Italia. Don Luigi Ciotti, fondatore e presidente di Libera, è risoluto: «Non possiamo pensare che si tratti di coincidenze. Questi atti di vandalismo non possono lasciare indifferenti; quei beni non sono solo uno schiaffo alle organizzazioni criminali, uno strumento per indebolirle in ciò che le rende forti: l’accumulazione illecita di capitali. Sono opportunità di lavoro, di economia sana e trasparente e prima ancora di cambiamento culturale». Il primo incendio è avvenuto il 2 giugno, in località Canalotto di Castelvetrano: distrutti venti ettari di uliveto sulla proprietà che fu di Gaetano Sansone, lo stesso che possedeva la villa Bernini a Palermo dove Totò Riina si nascose come latitante. Il 6 giugno, le fiamme hanno distrutto duemila piante di arance rosse che sarebbero state destinate alla produzione della marmellata e cento alberi d’ulivo: siamo in contrada Casablanca a Belpasso, in provincia di Catania, su un bene confiscato alla famiglia Riela ed ora intitolato a Beppe Montana. Si sono calcolati danni per centomila euro, mentre ammonta a circa la metà il danno dell’incendio che l’11 giugno ha mandato in fumo sette ettari di terreno confiscato a Carlo Contanna, stretto collaboratore di Pino Rogoli, uno dei padri della Sacra corona unita: due quintali di grano bruciati a Mesagne, che sarebbero dovuti servire per la produzione dei taralli. Infine, a distanza di poche ore due incendi hanno colpito Castelvetrano e Partanna, bruciando rispettivamente dieci e venti ettari di uliveto. I beni confiscati sulla prima delle due località trapanesi sono stati dedicati a Rita Atria e proprio per il 12 giugno era prevista la sottoscrizione della convenzione tra l’amministrazione e l’associazione Libera in merito a un bando da istituire per aprire cooperative giovanili. «Ritengo che questa successione di fatti criminosi – ha sottolineato don Ciotti – sia stata scaturita dall’iniziativa fatta dal Quirinale: per la Festa della Repubblica il Presidente Napolitano ha chiesto che le tavole fossero apparecchiate con i prodotti di Libera Terra. Una cerimonia semplice, sobria, ma densa di significato, di segnali forti della politica». Una politica alla quale l’associazione Libera chiede di rivedere alcuni inceppamenti che riguardano proprio la legge sui beni confiscati. «Centinaia di beni sono stati confiscati ma sono gravati da ipoteca bancaria, quindi inaccessibili. Non ci si preoccupa di restituire quei beni alla collettività e nemmeno di pensare a chi all’epoca accordò l’accensione dei mutui ai mafiosi e ai loro prestanome. Mettere in vendita quei beni significherebbe farli ricomprare dalla criminalità organizzata. Sempre più spesso sentiamo di operazioni condotte dalle forze dell’ordine. Confische di beni mobili ed immobili per centinaia di migliaia di euro: dove sono questi soldi? Perché non possono essere destinati a diventare uno zoccolo per l’avvio delle cooperative sociali e a un fondo indirizzato ai famigliari di vittime delle mafie e ai testimoni di giustizia?». I terreni confiscati non sono stati l’unico bersaglio preso di mira nella prima decade di giugno. Si sono registrati infatti nuovi atti vandalici a Borgo Sabotino, nel Villaggio della Legalità che fu già distrutto lo scorso 21 ottobre e che dal 25 al 30 luglio ospiterà oltre trecento ragazzi dai 18 ai 30 anni che daranno vita alla terza edizione del Raduno dei Giovani di Libera. Infine, il referente di Libera Reggio Calabria Mimmo Nasone ha ricevuto una lettera contenente esplicite minacce di morte. «Gli incendi e le intimidazioni non fermeranno il nostro impegno. Contro questi atti – ha concluso don Luigi Ciotti – il “noi” del nostro Paese è chiamato in gioco e deve sentire forte questo impegno nella lotta alla criminalità». COME SOSTENERE Sono tantissimi gli attestati di solidarietà pervenuti a Libera e alle cooperative sociali colpite dagli incendi, che hanno causato ingenti danni economici alle coltivazioni. Per ripartire è necessario investire nuovamente e ognuno può contribuire. Basta un piccolo gesto. Le donazioni possono essere effettuate sul conto corrente postale 48182000 intestato a “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie. Via IV novembre, 98 – 00187 Roma” o tramite bonifico bancario utilizzando i codici Iban della Banca Popolare Etica (IT83A 050 180 32 0000 0000 121900) o della Unipol Banca (IT350 031 27 0320 6000 000000166). Inoltre, chi volesse sottoscrivere la campagna promossa dalla cooperativa sociale “Beppe Montana Libera Terra” e dal coordinamento provinciale Libera Pisa, può contribuire all’acquisto e alla piantumazione di nuove piante versando dieci euro per ogni pianta che intende donare (nella causale va specificato “Un arancio per Belpasso”). Le coordinate bancarie del conto corrente sono: Coop. Soc. “Beppe Montana Libera Terra” P.zza Duomo, 6 96016 Lentini (SR). IBAN: IT 19 A 05018 04600 000000133562 (Banca Popolare Etica); oppure “Ora Legale di Pisa” IBAN: IT 38 N 0760114000 000003317574. Per ulteriori informazioni www.libera.it. In memoria di don Diana di Marika Demaria l’antimafiacivile cosenostre 26 | giugno 2012 | narcomafie Cinque colpi di pistola. Due alla testa, uno esploso in faccia, l’altro all’altezza della mano e l’ultimo nel collo. Morì così don Peppe Diana, il coraggioso prete di Casal di Principe, ucciso dalla camorra la mattina del 19 marzo 1994 per il suo impegno nel contrastare la criminalità organizzata. L’uomo non perdeva infatti occasione per scuotere gli animi dei suoi fedeli, della gente della sua terra, schiacciata sotto il giogo del controllo camorrista. Casalese. Con a capo Francesco Schiavone. A tal proposito, celeberrima è la lettera che, in occasione della festività natalizia del 1991, il sacerdote distribuì in tutte le chiese di Casal di Principe: Per amore del mio popolo non tacerò. «Se oggi don Peppe fosse qui, avrebbe costruito lui tutto questo, che è stato invece portato avanti con energie sane dai suoi amici, dai suoi ragazzi». Hic et nunc. 17 maggio 2012, Castel Volturno. A parlare è don Luigi Ciotti, il giorno dell’inaugurazione del caseificio “Le terre di don Diana” sorto a Castel Volturno. Qui si produrrà la mozzarella della legalità (con latte di bufala fornito dai titolari dell’azienda agricola Ponterè Cecere di Cancello ed Arnone, Alessandra e Nicola Cecere), con rigoroso riconoscimento Dop, avendo il formaggio superato tutti i test e gli esami necessari per l’attribuzione di questa dicitura. Un percorso, come ha ricordato Valerio Taglione dell’associazione Libera e del comitato Don Peppe Diana, «iniziato esattamente sei anni fa, quando abbiamo compreso appieno che alla memoria avremmo dovuto affiancare l’impegno. Fin da subito abbiamo dovuto fronteggiare chi infangava la figura di don Peppe Diana, difendendo la sua memoria e i suoi insegnamenti». La delegittimazione. Un’ulteriore forma di disprezzo verso le vittime della criminalità organizzata da parte di quest’ultima e dei suoi conniventi: si disse infatti che l’omicidio del prete era a sfondo passionale. Sul palco, il giorno dell’inaugurazione, era presente anche Emilio Diana, fratello del sacerdote. Un commosso pensiero è andato anche al padre Gennaro, scomparso il 6 agosto dello scorso anno, tra i firmatari del protocollo “Simboli e risorse delle comunità libere” che diede la stura al progetto che il 17 maggio si è concretizzato. Il caseificio “Le terre di Don Diana” rappresenta l’ultima, in termini temporali, rivincita della società civile impegnata nell’antimafia, resa possibile grazie all’attuazione della legge 109/96 che prevede il riutilizzo sociale dei beni confiscati ai mafiosi, in aggiunta a quanto previsto dalla legge “Rognoni-La Torre”. dialogo tra antimafia virtuale e antimafia reale a cura di Marcello Ravveduto 28 | giugno 2012 | narcomafie Falcone e il coraggio Mi è capitato molte volte di scrivere nei motori di ricerca il nome di Giovanni Falcone, ma non ho mai registrato le indicizzazioni. Decido di ripetere l’operazione e di trascrivere i risultati: Google 2.830.000 link, Youtube 4.940 pagine, Facebook 3.100 gruppi e 90 pagine fan. Su Youtube, apro la pagina contenente i primi 20 video riferiti al giudice e carico il terzo perché ha un titolo suggestivo: Giovanni Falcone, eroe senza paura. La sequenza iniziale è un susseguirsi di immagini della Palermo anni Ottanta: automobili blindate in cortei serrati, poliziotti di scorta con giubbetti antiproiettili, la mole mastodontica del palazzo di Giustizia. La voce narrante racconta: «Con l’approssimarsi del processo [il maxiprocesso, ndr] anche le misure di sicurezza per i magistrati del pool furono drasticamente aumentate. I giudici erano sotto scorta 24 ore su 24. Per permettere i loro spostamenti le strade venivano sgombrate mentre un elicottero della polizia li sorvegliava dall’alto». Mentre il narratore pronuncia quest’ultima frase si vedono Paolo Borsellino e Giovanni Falcone uscire dalle auto per entrare in Tribunale. L’immagine successiva è il volto in primo piano di Falcone. La voce fuori campo è quella della giornalista Michelle Padovani che gli domanda: «Giovanni Falcone è un eroe, costretto a vivere 16 ore su 24 in un piccolo ufficio di acciaio e cemento per lottare contro la mafia. Non può assaporare i piccoli piaceri della vita quotidiana. È vero quello che dicono?». Il magistrato guarda in basso, poi, accennando un sorriso imbarazzato, risponde: «Diciamo che c’è molto di vero. Indubbiamente questo tipo di attività incide personalmente sulla privacy. Questo non c’è dubbio». La giornalista: «E come lo vive lei?». Il giudice: «Mah! Direi con rassegnazione [sottolinea la parola con un sospiro guardando verso l’interlocutrice, nda]». Michelle Padovani: «Lei pare che abbia detto che il vigliacco muore più volte al giorno, il coraggioso una volta sola. Questo significa che non ha paura?». Prima che Falcone risponda parte una struggente melodia di violini. Il magistrato parla: «L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno; è sapere convivere con la propria paura, ma non farsi condizionare dalla stessa. Il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio, ma è incoscienza». Ora sorride con tutto il volto. Spesso mi sono domandato qual era la forza da cui Falcone traeva il coraggio cosciente della paura. Mi pare di aver trovato la soluzione al quesito nell’art. 54 della Costituzione, recante la disposizione sui doveri dei pubblici funzionari: «I cittadini a cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge». Mi viene in mente, allora, la scena del film Giovanni Falcone (1993) di Giuseppe Ferrara. Si vede un giovane magistrato di spalle che entrando in servizio giura fedeltà alla Repubblica. Il coraggio di Falcone, quella triste ma risoluta rassegnazione a vivere con dignità una vita blindata, derivava da un preciso senso del dovere, dalla consapevolezza che i pubblici funzionari sono al servizio della nazione per difendere le libertà garantite dalla Costituzione. Se i pubblici funzionari si sentono al servizio non della nazione ma di cittadini ricchi e potenti, o se non assolvono il proprio compito con disciplina e onore, la Repubblica diventa regno dell’arbitrio e ai deboli non resta che subire la prepotenza dei forti. Il magistrato è, invece, quel funzionario che sancisce la regola aurea della democrazia: la legge è uguale per tutti. Per questo ci vuole onore e disciplina. Non il malinteso onore delle mafie, né la disciplina della costrizione gerarchica, ma, nel primo caso, quella particolare superiorità ed eccellenza che dobbiamo alle persone oneste solo ed esclusivamente in virtù della loro onestà, in particolare l’onestà con cui assolvono ai loro doveri pubblici; nel secondo caso mi riferisco alla capacità dell’individuo di sottoporsi a regola e sforzo ordinato per raggiungere un fine capito e voluto: una disciplina sorretta da regole e sanzioni, ma che è soprattutto autodisciplina basata sul senso del dovere. L’eccellenza del fine e del servizio (svolgere funzioni pubbliche incardinate negli ordinamenti repubblicani) esige un senso dell’onore e della disciplina più forte di quelli che è lecito esigere dagli altri cittadini. Ha scritto Maurizio Viroli: «Il dovere è libertà. È la libertà morale, la più preziosa, perché senza di essa le altre libertà avvizziscono, muoiono… Soltanto noi stessi possiamo imporci un dovere, o, per usare un linguaggio più classico, solo la nostra coscienza può comandarci il dovere… Detto altrimenti, per i doveri dobbiamo rispondere a noi stessi, e dunque alla voce interiore della coscienza… Non siamo liberi nonostante i doveri, ma grazie ai doveri». Ora credo di aver capito il significato recondito della sua affermazione e, se potessi, cambierei il titolo del video che ho appena visto in Giovanni Falcone, il coraggio cosciente del dovere. 29 | giugno 2012 | narcomafie Roma inchiesta Roma è un centro nevralgico per le attivita mafiose. Nella capitale le cosche puntano a riciclare denaro sporco attraverso una penetrazione che per anni è avvenuta nel silenzio e nell’indifferenza. Oggi è il boato delle armi che risveglia le paure: omicidi e gambizzazioni sconvolgono anche in pieno giorno la città, riaccendendo eco mai spente dalla scena romana di personaggi legati alla banda della Magliana. L’allerta è alta, ma le forze dell’ordine sono sotto organico nelle periferie. Intanto gli sviluppi sulla vicenda della scomparsa di Emanuela Orlandi alimentano la possibilità che si possa definitivamente fare chiarezza sulla vicenda. Fotografie di La città dei sanpietrini, Francesca Guadagnini, Joao Xavi, Ismael Alonso, Leo D’Amico, Moyan Brenn Roma 30 | giugno 2012 | narcomafie Lo spazio conteso Omicidi, droga, gioco d’azzardo. In un contesto sociale ed economico così fragile, le mafie hanno gioco facile nel rilevare aziende in crisi, immettere capitali illeciti nelle imprese e trasformarle in “lavatrici” di soldi sporchi. Nella capitale la criminalità sta ridefinendo i propri equilibri e i nuovi spazi sono occupati da una generazione cruenta e conflittuale di Fabio E. Torsello 31 | giugno 2012 | narcomafie La criminalità e il contesto sociale. «Con un tasso di disoccupazione che nel Lazio sfiora il 9% (il 30% tra i giovani) – afferma il prefetto – il terreno di insediamento delle mafie è quantomai fertile». Ma a creare canali privilegiati per le infiltrazioni criminali è soprattutto la crisi economica che a Roma e nel Lazio sta letteralmente falciando centinaia di aziende. Secondo i dati di Confcommercio Roma e Lazio diffusi nell’aprile scorso dal presidente Giuseppe Roscioli, «nella graduatoria completa che indica il numero di fallimenti, il Lazio è al secondo posto con 1.215 dopo la Lombardia. E nel 2011 – ha proseguito – quasi un fallimento su tre è stato causato da ritardi nei pagamenti. Si stima che in Italia l’ammontare complessivo dei crediti vantati dalle imprese fornitrici verso la Pubblica amministazione sia di circa 60 miliardi di euro. Un macigno che pesa soprattutto sulle piccole e medie imprese, impedendo loro di scommettere anche sul breve e medio termine. Indubbiamente – ha spiegato – anche la crisi economica ha contribuito ad aggravare questa situazione. Infatti, il trend dei ritardi in Italia in questi ultimi quattro anni è quasi raddoppiato (+97,5%)». Mentre secondo la Cna Commercio di Roma, nei soli primi tre mesi del 2012 hanno già chiuso un migliaio di negozi al dettaglio. In un contesto sociale ed economico così fragile, le mafie hanno quindi gioco facile nel rilevare le aziende in crisi, immettere capitali frutto di attività illecite nelle casse delle imprese che così diventano – loro malgrado – “lavatrici” per i soldi sporchi delle mafie. Il tutto – come spesso accade – senza cambiare ragione sociale, titolare o nome all’impresa. Una prassi che il sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia di Roma, Diana De Martino, così descriveva nel maggio scorso durante un’audizione presso la regione Lazio: «Come nelle altre regioni a tradizionale presenza mafiosa, in alcuni casi nel Lazio si assiste a un’infiltrazione della malavita organizzata nell’economia, anche attraverso un modello criminale di derivazione economica, dove gli imprenditori si mettono spontaneamente al servizio delle mafie, oppure sono gli stessi mafiosi a operare come gli imprenditori». Ma la Capitale è anche caratterizzata da un crescente sviluppo urbanistico tale che nella provincia di Roma risiedono circa cinque milioni di persone, di cui – secondo i dati forniti dal prefetto – almeno 700mila stranieri. Un contesto che, afferma Pecoraro, «impone necessariamente una revisione della mappa dei presìdi territoriali delle forze dell’ordine», ma che si scontra con una drammatica carenza di uomini e mezzi, spostati – di volta in volta – nelle zone più “a rischio” e con la chiusura di diversi commissariati cittadini. La mappa criminale. Nell’elencare le presenze sul territorio romano e laziale, il prefetto parte da Cosa nostra. Sebbene se ne parli ormai poco, la mafia siciliana è attiva e presente a Roma: «Le attività primarie dei sodalizi operanti in Roma – spiega il prefetto – si situano in un vasto insieme di condotte che spaziano dal traffico internazionale di sostanze stupefacenti, al reimpiego dei capitali illeciti nei settori commerciali, immobiliari e finanziari, al commercio delle autovetture. Si rileva la presenza degli Stassi, contigui alla famiglia trapanese degli Accardo, con interessenze in numerosi esercizi di ristorazione». Mentre sul litorale sono stati rilevati «altri gruppi criminali di origine siciliana, quali il gruppo Triassi, collegato alla nota famiglia Cuntrera-Caruana, e Picarella (cosca agrigentina di Porto Empedocle), interessati all’affidamento e alla gestione dei lotti di spiaggia libera del litorale di Ostia, nonché a gestire il narcotraffico». Roma Roma città aperta. Alle mafie. La Capitale, dove solo nel 2011 ci sono stati oltre trenta omicidi, è sempre più terra di conquista per la criminalità organizzata. Dalla droga, all’edilizia, al gioco d’azzardo, all’usura, all’infiltrazione nelle attività commerciali, la Città eterna è da anni terreno fertile dove ognuno può arare la propria parte di orto. Una pax mafiosa turbata – almeno in apparenza – dalla serie di omicidi che ha sconvolto la città e messo in allarme cittadini romani e istituzioni. Per capire quanto, in quale modalità e da quali mafie Roma sia stata “infiltrata” è utile andare a rileggere le carte della Commissione parlamentare antimafia che nel settembre scorso ha ascoltato sull’argomento i pm della Dda romana e il prefetto Giuseppe Pecoraro. Una panoramica – quella fatta dagli inquirenti – che tenta di dare anche una spiegazione degli omicidi avvenuti in città. L’audizione del prefetto Pecoraro Roma 32 | giugno 2012 | narcomafie di Viviana Pansa «Pur non riscontrandosi un vero e proprio controllo del territorio da parte della criminalità organizzata, non si possono ignorare situazioni di preoccupazione, soprattutto in alcune aree, sia per la presenza di referenti delle principali famiglie mafiose, camorristiche e della ’ndrangheta, sia per gli investimenti conclusi dagli stessi». Così il prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, ha qualificato in Commissione antimafia la presenza delle principali organizzazioni della criminalità organizzata nel territorio romano e in provincia. Presenza e attività mafiose interessano anche il resto del Lazio, in particolare le province di Frosinone – dove risulta emergere in maniera sempre più evidente la penetrazione della camorra, in particolare del clan dei Casalesi, soprattutto per quanto riguarda il ciclo dei rifiuti e degli inerti, insieme a reati di estorsione e usura – e Latina – in cui si segnala una forte presenza sia della camorra napoletana, sia della ’ndrangheta calabrese in particolare a Fondi, Aprilia, Latina e nel Sud Pontino. Il prefetto chiarisce che i numerosi ed efferati omicidi avvenuti nel 2011 – oltre 30, una scia di sangue che ha toccato l’apice nei primi giorni del 2012, con l’uccisione nel quartiere di Torpignattara di Zhou Zeng e di sua figlia di pochi mesi Joy – non siano ascrivibili «ad attività conflittuali interne alla criminalità organizzata». Tuttavia ammette che parte dei delitti siano sintomatici «del tentativo da parte di criminali locali emergenti di occupare spazi determinati dalla disarticolazione dei gruppi delinquenziali più importanti operata dalle attività poste in essere dalle forze di polizia, in particolare nel settore degli stupefacenti». Disarticolazione avvenuta in gran parte con la cattura, nel 2009, di Michele Senese, a cui è stata imputata la gestione di grossi traffici di droga, proveniente anche da Olanda e Spagna, in particola- re nei quartieri sud-orientali della città. Senese, affiliato in passato alla Nuova famiglia e legato al clan Moccia di Afragola, è tornato in carcere all’inizio di febbraio, dopo gli arresti domiciliari in una clinica psichiatrica della capitale concessi a seguito di una delle perizie che gli sono valse l’appellativo di “’O pazzo”. Nella relazione il prefetto Pecoraro entra nel dettaglio della presenza di cosa nostra, camorra e ’ndrangheta nel territorio laziale, ma parla anche di criminalità organizzata straniera – dedita a traffici di merce contraffatta, al contrabbando, alla prostituzione, alla vendita di stupefacenti, al traffico di migranti – e dei rapporti di quest’ultima con quella italiana. “Lazio e Roma sono zone in cui la criminalità organizzata investe somme ingenti per l’acquisizione di rilevanti attività economiche, soprattutto nel campo alberghiero e della ristorazione», spiega Pecoraro. A dimostrazione delle sue affermazioni, tra i casi più eclatanti quello del Caffè Chigi, acquisito dalla famiglia calabrese dei Gallico e messo sotto sequestro della Dia nello scorso mese di luglio, e del Café de Paris, in via Veneto, acquisito dagli Alvaro di Sinopoli (Reggio Calabria), confiscato e oggi gestito in amministrazione giudiziaria. Roma è un centro privilegiato per l’attività mafiosa perché qui le cosche possono puntare al riciclaggio del denaro sporco e dei proventi ricavati da traffici illeciti, attraverso una penetrazione “morbida”, che non desta allarme sociale, ma si pone come obiettivo l’immissione e il reimpiego dei capitali nei circuiti dell’economia locale. Una penetrazione che non necessita il contendersi di comparti economicoimprenditoriali, «per il semplice motivo – sottolinea Pecoraro stesso – che c’è posto per tutti». Le organizzazioni criminali, mantenendo bassa la loro visibilità, orientano sempre più spesso l’attenzione alle commesse pubbliche, la cui assegnazione garantisce profitti consistenti e proietta i sodalizi all’interno di ambiti economici legali. Proprio al tessuto economico occorre dunque guardare con maggiore attenzione per scovare eventuali infiltrazioni mafiose, coniugando – come ha messo in luce il presidente della Commissione d’inchiesta, Giuseppe Pisanu – il sistema repressivo-penalistico con quello delle misure patrimoniali antimafia, così da impedire l’articolarsi di un compiuto tessuto mafioso. Nella zona di Civitavecchia, invece, nell’ambito dell’operazione “Civita-Memento” sono state riscontrate le attività delle famiglie gelesi dei Rinzivillo ed Emmanuello, interessate all’acquisizione di subappalti e fornitura di manodopera per i lavori della centrale di Torrevaldaliga Nord. Ben più presente e ramificata la ’ndrangheta, con attività che vanno dalla ristorazione e dalla gestione dei locali del centro storico, al traffico di droga, a traffici illeciti di diversa natura. È ancora il prefetto a fare il quadro della situazione: «La penetrazione criminale di tale organizzazione mafiosa di origini calabresi ha avuto, secondo le tendenze palesatesi negli ultimi anni, un’accresciuta vitalità grazie alla presenza sul suolo laziale di gruppi collegati all’organizzazione madre, della quale hanno mantenuto la fisionomia comportamentale, permeata del notorio carattere misterico-religioso, rituale e simbolico, fatta di stretti legami familiari aventi vincoli di sangue, di estrema cautela nel muovere le fila organizzative, di costanti collegamenti con i territori di origine». Nella capitale sono presenti i rappresentanti di tutte le maggiori cosche calabresi, con «personaggi riconducibili alle famiglie mafiose calabresi Piromalli, Molè e Alvaro – spiega Pecoraro – che reinvestono copiosi capitali di provenienza illecita in attività commerciali, sbaragliando la normale concorrenza con conseguente alterazione degli equilibri del mercato». Gli Alvaro-Palamara, sottolinea il prefetto, si sono specializzati nella «costituzione di società fittizie aventi per oggetto la gestione di bar, paninoteche, pasticcerie e ristoranti; circostanza, questa, favorita dalle dimensioni e dalla vastità di Roma, che favoriscono l’anonimato». Molti di questi, nel centro storico, letteralmente spartiti con la camorra per quel che riguarda il controllo delle attività commerciali. Un dato sottolineato da Pecoraro: «Alcuni rappresentanti degli Alvaro-Palamara, che nell’arco di pochissimo tempo si sono trasformati da piccoli artigiani locali a imprenditori di primissimo livello, hanno reinvestito ingenti capitali verosimilmente provenienti da traffici di droga attuati sull’asse Germania-Italia, per conto della cosca di appartenenza, comprando esercizi di ristorazione nella zona di Roma centro, con prezzi di acquisto nettamente inferiori al valore reale di mercato degli esercizi in questione. Tra gli esercizi commerciali sequestrati, risultano alcuni noti bar situati in centralissime zone della capitale, tra cui lo storico “Café de Paris”, il ristorante “George’s” e altri importanti locali operanti nel settore della ristorazione (vedi il Gran Caffé Cellini, il ristorante La Piazzetta, il ristorante Colonna Antonino, ndr), nei cui assetti societari si sono insinuati esponenti delle citate famiglie». È un’infiltrazione silenziosa, quella delle mafie, che non spara ma fa leva sulla grande disponibilità di denaro delle cosche, sempre pronte a venire in soccorso di imprenditori in difficoltà. Ed è nel giugno dello scorso anno che scatta una delle più importanti operazioni ai danni di esponenti calabresi della ’ndrangheta nel Lazio, con il sequestro di quote di 18 società intestate a Domenico Greco, ritenuto contiguo alla ’ndrina dei Gallico di Palmi (Reggio Calabria) con un ruolo – secondo gli inquirenti – di fiancheggiatore, tra cui l’Antico Caffè Chigi, una villa di 29 stanze a Formello, due appartamenti a Fiumicino, conti correnti e rapporti finanziari, per un valore complessivo di circa 20 milioni di euro. Il referente della cosca, come ha Roma 33 | giugno 2012 | narcomafie 34 | giugno 2012 | narcomafie Roma dichiarato il colonnello Paolo La Forgia, capo del centro Dia di Roma, «ufficialmente era un saldatore». Roma, trampolino per la conquista del Lazio. Allargando il cerchio poco fuori Roma, nel circondario di Velletri, Nettuno – sciolto per infiltrazioni mafiose a fine 2005 – e Anzio, operano esponenti legati ai Novella e ai Gallace di Guardavalle, attivi nel settore dell’edilizia, delle truffe alle assicurazioni, nel traffico di stupefacenti e di armi. «Le nuove indagini sulla ’ndrina di Nettuno – ha spiegato Pecoraro – che, pur mantenendo costanti collegamenti con la cosca madre godeva di ampi margini di autonomia, hanno accertato che, dopo la rottura della storica alleanza tra le famiglie Gallace e Novella, la prima stava tentando di riorganizzarsi nel litorale romano grazie ai supporto delle famiglie Andreacchio di Nettuno e Romagnoli-Cugini di Roma». Mentre Enzo Ciconte, già presidente dell’Osservatorio tecnico scientifico per la sicurezza e la legalità della regione Lazio ricorda come «già nel 2007 in altri tre centri (Pomezia, Formia, Minturno) indagini delle forze dell’ordine individuarono tentativi di infiltrazione e condizionamento del tessuto politico o amministrativo locale da parte delle organizzazioni criminali». Ma la ’ndrangheta ha anche tutta una rete di fiancheggiatori, funzionali a creare una base operativa e di supporto a quanti giungono nella regione. Nella zona di Tivoli e Palestrina, ad esempio, alcune famiglie calabresi legate alla ‘ndrina attiva nella zona di Sinopoli, secondo quanto spiega il prefetto, «non pongono in atto comportamenti criminali ma fungono da punto di riferimento per le attività economiche della ’ndrina, e danno occasionalmente supporto a soggetti provenienti dalla terra di origine». Una sorta di piattaforma organizzativa e logistica, un trampolino verso la prosecuzione delle attività nella capitale e nel Lazio. Secondo quanto emerge dalla relazione, inoltre, anche i comuni a nord di Roma registrano la presenza di elementi collegati a formazioni criminali di origine calabrese della zona di Reggio Calabria (Africo, Melito Porto Salvo, Bruzzano Zeffirio), alcuni dei quali pregiudicati per reati associativi. Si tratta di famiglie tra loro legate da rapporti di parentela e residenti a Rignano Flaminio, Castelnuovo di Porto, Morlupo e Campagnano di Roma, tutti comuni che “circondano” la capitale, sulla direttrice verso Firenze. La Camorra va sul litorale. Una delle maggiori operazioni – coordinata dalla Dda di Napoli – è quella del marzo 2011 ai danni del clan Mallardo di Giuliano, che ha portato al sequestro di circa 900 immobili, 23 aziende commerciali, circa 200 rapporti bancari e numerose auto e moto di lusso, per un valore complessivo stimato di oltre 600 milioni di euro. Gli inquirenti hanno scoperto due holding imprenditoriali operanti tra Roma, Latina e Napoli. Oltre alla Capitale, il clan operava nella zona di Mentana, Monterotondo, Sant’Angelo Romano, Fonte Nuova, Guidonia, Fiano Romano, Capena e Montecelio. Il centro dell’organizzazione era a Fonte Nuova, comune nato poco più di dieci anni fa, il 15 ottobre 2001. «Una cellula operativa del predetto clan – spiega Pecoraro – si era infiltrata nel mondo dell’imprenditoria lecita, in particolare nel settore edilizio, e aveva costituito, grazie alla collaborazione di soggetti esperti e fidati, numerose società immobiliari, operando anche in accordo con esponenti del clan dei casalesi in una sorta di joint venture criminale. L’organizzazione controllava, inoltre, la lavorazione e la distribuzione del caffè Seddio, anche attraverso imposizioni di tipo estorsivo, nonché a mezzo di prestanome, agenzie di scommesse sportive ed attività di commercio all’ingrosso di prodotti medicali e parafarmaceutici». E tra gli esponenti di spicco della camorra arrestati a Roma, Emilio Esposito, facente capo ai Casalesi, arrestato il 23 luglio scorso in zona Tiburtina. Particolarmente “caldo” il litorale romano. Nella zona di Acilia, ad esempio, viene tenuta sotto osservazione la famiglia degli Iovine, il cui capo Mario Iovine, nipote del noto boss di camorra appartenente all’area dei casalesi, secondo il prefetto «ha da tempo creato una vera e propria base logistica per avviare attività di copertura nell’ambito della gestione di sale da gioco (videopoker e scommesse on-line) e della ristorazione, in modo da poter svolgere in tranquillità quelle illecite, stringendo forti legami anche con elementi della criminalità locale e fornendo appoggio logistico a latitanti di camorra, tra i quali, sembrereb- 35 | giugno 2012 | narcomafie Il clan Senese. Ma tra le famiglie più importanti che hanno segnato in modo irreversibile gli ultimi anni della storia criminale della capitale, c’è il clan Senese. Proprio l’arresto di Michele Senese, infatti, ha lasciato un vuoto nel mercato dello spaccio di stupefacenti che diverse bande starebbero ora tentando di colmare a forza di omicidi e gambizzazioni. Il 21 gennaio 2009, a Roma, a conclusione dell’operazione denominata “Orchidea”, i carabinieri del raggruppamento operativo speciale (Ros) disarticolarono una ramificata struttura criminosa dedita al traffico internazionale di hashish e cocaina, proveniente da Olanda e Spagna. A capo del sodalizio c’era Senese Michele, di cui – si legge nella relazione della Commissione parlamentare antimafia – erano «ben noti i legami camorristici con i vertici della famiglia Moccia di Afragola per conto della quale, negli anni Ottanta, unitamente ad altri membri del suo entourage familiare, ha militato nella storica confederazione camorristica denominata “Nuova Famiglia”». La criminalità “locale”. Ex Banda della Magliana, Casa- monica, Fasciani. Roma ha un nutrito numero di “famiglie” e organizzazioni criminali storiche ancora molto attive sul territorio. Oltre a ex esponenti della Banda della Magliana – dediti soprattutto alle rapine e al traffico di stupefacenti – i Casamonica sono gli usurai storici della Capitale, dediti anche – come hanno evidenziato numerose indagini – al commercio di droga. Insieme a loro, i Fasciani, attivi soprattutto sul litorale e in contatto con la famiglia Nicoletti. E proprio l’operazione “Los Moros-Madara” del Comando provinciale dei carabinieri nel 2009 ha disarticolato un “sodalizio criminoso dedito al narcotraffico internazionale che aveva come base di riferimento il noto stabilimento balneare di Ostia denominato “Village”, con annessa discoteca e ristorante, tutto riconducibile al pregiudicato Carmine Fasciani, elemento apicale della criminalità romana”. Le mafie straniere. La criminalità straniera nel Lazio – spiega Pecoraro – si atteggia su due direttrici: «La prima – che interessa i gruppi organizzati serbo-montenegrini, nigeriani, albanesi, rumeni e sudamericani – opera soprattutto nei crimini tradizionali quali il traffico di stupefacenti, il racket della prostituzione, le rapine; la seconda – costituita essenzialmente dai cinesi – agisce all’interno del circuito commerciale e finanziario connesso alla contraffazione e al contrabbando delle merci». Tra le operazioni di rilievo, “Città proibita” che, nel gennaio 2011, ha portato al sequestro preven- tivo di beni per nove milioni di euro, accumulati da un’associazione criminale con base nella Capitale, composta da cinesi e dedita all’importazione e alla commercializzazione di oggetti contraffatti. Money transfer e rimesse. Un capitolo a parte meritano i money transfer (vedi intervista p. 46), principali canali di invio di rimesse all’estero, da sempre sotto la lente della polizia tributaria. Attraverso le filiali money transfer, infatti, spesso viene inviato all’estero denaro frutto di attività illecite o – di contro – vengono pagate merci contraffatte spedite in Italia per cui non è possibile emettere fattura. E numerose sono state le operazioni della Guardia di finanza che hanno evidenziato pratiche scorrette durante l’in- Roma be, Antonio Iovine», arrestato nel novembre 2010 dopo quasi quindici anni di latitanza. Nelle zone di Ladispoli, Cerveteri, Santa Marinella e Civitavecchia, invece, è stata accertata la presenza di sodalizi camorristici attivi nel narcotraffico, una compagine criminale molto attiva anche nella zona di Fondi, Latina, Aprilia e più in generale nel Pontino. A Roma nasce la Consulta provinciale antimafia Roma 36 | giugno 2012 | narcomafie di Viviana Pansa A fine marzo si è insediata a Roma la Consulta provinciale antimafia, organismo la cui costituzione si deve a una delibera approvata all’unanimità del consiglio provinciale della capitale il 3 novembre scorso. Una decisione maturata solo alcuni giorni dopo la conclusione dell’audizione del prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, presenti nel nostro paese. La Provincia ha quindi da oggi a disposizione un tavolo di lavoro utile ad approfondire la conoscenza e la consapevolezza di quanto il fenomeno della criminalità organizzata sia presente anche a Roma e provincia, così come da tempo dimostrano episodi – sempre più violenti – di cronaca nera e come conferma la stessa relazione di Pecoraro alla Commissione, insieme agli interventi svolti in quella sede. La Consulta nasce quale “organo permanente di controllo” – si legge sul sito internet della Provincia – promuovendo la messa in rete di agenzie per la sicurezza, sindaci, rappresentanti di polizie locali, associazioni e movimenti della società civile che si occupano di legalità e sicurezza. E proprio il “salto di qualità” di questa chiamata a raccolta della società civile è il valore aggiunto per una più efficace lotta contro la criminalità organizzata che il presidente della provincia, Nicola Zingaretti, ha sottolineato intervenendo nel corso dell’insediamento ufficiale della Consulta. Tra le iniziative che quest’ultima si propone di realizzare, progetti di informazione e formazione rivolti a cittadini ma anche a dipendenti ed eletti di comuni e Provincia di Roma; intese e accordi con enti pubblici ed associazioni di categoria per il coordinamento di azioni di contrasto alla criminalità organizzata; azioni di monitoraggio sullo stato dei beni confiscati nella provincia e sulla regolare assegnazione di appalti pubblici o fornitura di servizi sul territorio. Obiettivo principale sarà quello di promuovere, attraverso un confronto permanente sui problemi legati alle infiltrazioni della malavita organizzata nell’area metropolitana di Roma, iniziative di contrasto che possano coinvolgere la stessa società civile, accrescendo la cultura della legalità nel territorio, baluardo contro il degrado urbano e stimolo ad una partecipazione più attenta alla vita cittadina. Nel regolamento è indicato inoltre quale compito principale dell’organismo la redazione di un “rapporto annuale sulle infiltrazioni mafiose nell’area metropolitana di Roma e sulle politiche di contrasto alla criminalità organizzata sul territorio provinciale”. Un attento monitoraggio di ciò che avviene sul territorio avrà come finalità anche l’identificazione di buone pratiche amministrative la cui adozione, insieme a quelle già sperimentate sul territorio nazionale, sarà proposta al consiglio provinciale, alla giunta e ai comuni della Provincia. Oltre a un presidente – Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, parlamentare siciliano che propose una norma per introdurre nell’ordinamento italiano il reato di associazione mafiosa – fanno parte di diritto della Consulta l’assessore della Provincia di Roma con delega alla sicurezza, due consiglieri provinciali (Enzo Ercolani e Marco Scotto Mavina), il comandante della Polizia provinciale, un rappresentante dell’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alla mafia e un rappresentante della Prefettura. L’iniziativa è maturata nell’ambito del progetto “Provincia senza mafie” illustrato dal presidente della provincia Zingaretti in occasione della giornata di studio “Il Governo locale e il contrasto delle infiltrazioni mafiose”, nel novembre scorso. Esso prevede inoltre la costituzione della Provincia quale parte civile nei processi di mafia, la creazione di una Stazione unica appaltante per i lavori pubblici e l’acquisizione di beni e servizi, l’adesione della Provincia all’associazione Avviso pubblico-Enti Locali e Regioni per la formazione civile contro le mafie, l’avvio di una collaborazione con la casa editrice Aliberti per la realizzazione di un dizionario enciclopedico sulle mafie in Italia e altri progetti di promozione della cultura della sicurezza e della legalità nelle scuole. Alla Consulta hanno già comunicato la loro adesione 45 tra associazioni e sindacati (tra esse Libera, Federconsumatori Lazio, Legambiente Lazio, Federalberghi, Cgil, Sos impresa e daSud), 26 comuni – tra cui Anzio, Albano, Ariccia, Guidonia Montecelio, Marino, Castel Gandolfo, Rocca Santo Stefano e Cave – e 8 municipi. Un intervento polemico, formulato dal consigliere comunale del Pd Paolo Calicchio, è stato invece sollevato a proposito della mancata adesione – a oggi – all’iniziativa da parte del comune di Fiumicino. Proprio la presenza di scali aerei – e marittimi – internazionali era stata segnalata da Pecoraro quale elemento che di fatto favorisce la presenza sul territorio della criminalità organizzata, da sempre interessata al transito e alla commercializzazione di un elevato e costante flusso di sostanze stupefacenti. «Strategiche sono le investigazioni nel settore del narcotraffico perché utili a ricostruire alleanze ed equilibri interni alle varie organizzazioni, italiane e straniere, della criminalità organizzata», ha affermato a questo proposito il prefetto. A Pecoraro è stata inoltre indirizzata in queste settimane anche una lettera di Paolo Masini (Pd) che da tempo sollecita l’approvazione da parte del consiglio comunale di Roma di una delibera che prevede l’istituzione di un delegato comunale contro le mafie. 37 | giugno 2012 | narcomafie la periferia romana, vennero ritrovate 500mila tonnellate di merce (soprattutto capi di abbigliamento, calzature e occhiali), proveniente dalla Cina, in gran parte contraffatta o di contrabbando, contenente in alcuni casi cromo esavalente, altamente tossico. Tra le attività più redditizie delle mafie straniere, lo sfruttamento della prostituzione. Nel 2011 la questura di Roma, con le operazioni “Grande capo”, “China house” e “Said”, ha portato a termine tre importanti indagini che hanno consentito di sgominare associazioni a delinquere gestite da cittadini di nazionalità cinese, rumena e, in un altro caso, magrebina, dedite allo sfruttamento della prostituzione e al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, attive anche su altre province del Lazio tra cui Frosinone e Latina. In alcuni casi, come nell’operazione “Said”, il sodalizio criminale era impegnato nella ricettazione e nell’utilizzo di documenti falsi e di permessi di soggiorno rubati. «I colombiani – spiega Pecoraro descrivendo una panoramica dei rapporti criminali tra mafie straniere e italiane sul territorio romano – agiscono in collegamento diretto con elementi della ’ndrangheta calabrese. I cinesi hanno rapporti con sodalizi criminali vicini ad ambienti di camorra (tant’è che viene utilizzato principalmente il porto di Napoli) nell’attività di import-export delle merci contraffatte, contrabbandate e tossiche e di successivo reinserimento sul mercato. I nigeriani si relazionano con altri gruppi italiani, specialmente camorristi, per il traffico di dro- ga. Gli slavi (ungheresi, rumeni e bulgari) sono in contatto con la criminalità organizzata russa per gli skimmer, cioè la clonazione di bancomat e carte di credito». Gli omicidi nella Capitale. Pecoraro conclude spiegando le cause dei numerosi omicidi avvenuti a Roma nel 2011. All’epoca della sua relazione alla Commissione, nella capitale erano stati registrati 27 morti ammazzati. I fatti, secondo il prefetto, non sono però ascrivibili «ad attività conflittuali interne alla criminalità organizzata. Questa è sintomatica, peraltro solo per alcuni di essi, del tentativo da parte di criminali locali emergenti di occupare spazi determinati dalla disarticolazione dei gruppi delinquenziali più importanti operata dalle attività poste in essere dalle forze di polizia, in particolare nel settore degli stupefacenti. Non a caso si faceva riferimento alla cattura nel 2009 del camorrista Michele Senese che a Roma era il boss degli stupefacenti. La situazione – prosegue il prefetto – incoraggia alcune neo-costituite strutture delinquenziali nel ridisegnare in proprio favore gli equilibri e i poteri nella gestione di attività delittuose. In considerazione di quanto sopra, non essendoci soggettività criminali in grado di assumere un ruolo egemone, i vuoti aperti vengono colmati da una nuova generazione di criminali, violenti, meno riflessivi, più inclini all’esercizio della forza che alla mediazione, soliti ricorrere alle armi per gestire le dinamiche conflittuali con i gruppi o soggetti ostili». Roma vio di denaro: ingenti somme parcellizzate al di sotto della soglia massima consentita, destinatari o mittenti fittizi, documenti falsi ecc. Per rendersi conto del volume di denaro inviato dagli stranieri residenti in Italia verso l’estero, basti pensare che nel 2011 dal nostro paese sono usciti 7,4 miliardi di euro. Secondo i dati diffusi dalla Fondazione Moressa, tra tutti i paesi la Cina è quello a cui viene inviato il maggior volume di rimesse con 2,5 miliardi di euro, seguito da Romania (894 milioni di euro), Filippine (601 milioni di euro) e Marocco (299 milioni di euro). Le principali nazioni di destinazione mostrano un aumento nell’ultimo anno, ad eccezione delle Filippine che mostrano un -19,1%. Per la Cina la variazione si attesta addirittura al +39,7%, per la Romania si tratta del +3% e per il Marocco il +5,8%. Quanto a rimesse procapite, ciascun cinese residente in Italia invia in patria poco più di 12mila euro a testa, il valore più elevato tra tutte le nazionalità. Questo significa che ogni cinese in Italia “mantiene” 3,9 cinesi in Patria e che a livello complessivo si tratta di oltre 800 mila di cinesi. Roma è la provincia dalla quale defluisce il maggior volume di rimesse verso l’estero: si tratta di 2 miliardi di euro, pari a oltre un quarto di tutte le rimesse che escono dall’Italia. Seguono a ruota Milano, Napoli e Prato. E spesso gli ingenti invii verso la Cina nascondono in realtà pagamenti di merce contraffatta o sono il frutto della vendita di prodotti non originali. Nel febbraio 2010, ad esempio, presso alcuni capannoni del- Roma 38 | giugno 2012 | narcomafie Cronologia della mattanza Un vero e proprio bollettino di guerra. A Roma nel 2011 si sono accertati oltre trenta omicidi e decine di gambizzazioni. Nelle zone limitrofe la situazione è analoga e nell’anno in corso la situazione non conforta Una vera e propria mattanza con 33 omicidi e una ventina di sparatorie. Il 2011 per la città amministrata da Gianni Alemanno è stato l’annus horribilis sul fronte della lotta alla criminalità, con le forze dell’ordine sempre un passo indietro rispetto alle bande che si sono contese il territorio a colpi di pistola e omicidi. Omicidi e gambizzazioni. A chiudere il 2011, una gambizzazione nel quartiere di San Lorenzo – il 29 dicembre – ai danni di un pregiudicato ca- tanese di 45 anni. Solo pochi giorni prima, il 23, Gioacchino Aiano – un pregiudicato di 50 anni con precedenti per droga, ricettazione e rapina – era stato gambizzato in Largo Ferruccio Mengaroni, nel quartiere di Tor Bella Monaca. Mentre il 18 dicembre un albanese veniva ferito a colpi di pistola nel quartiere Casilino. E albanese era anche l’ennesima vittima di un agguato non mortale nella filiale Snai di via Colombi, sempre nel quartiere Casilino, avvenuto appena tre giorni prima. Nella capitale si è sparato ovunque e a ogni ora del giorno. Anche in pieno centro storico, nella centralissima via della Scrofa, dove il 10 novembre un gestore di una sala giochi viene colpito da tre colpi di pistola alle gambe. Pochi giorni dopo, il 22 novembre 2011 alle cinque del pomeriggio, in via Forni a Ostia, vengono uccisi due pregiudicati già appartenuti alla banda della Magliana e legati a Paolo Frau: “Baficchio” e “Sorcanera”, all’anagrafe noti come Giovanni Galleoni e Francesco Antonini. I due 40enni erano stati arrestati in passato con le accuse di associazione a delinquere di stampo mafioso finalizzata al gioco d’azzardo, all’usura, all’estorsione e al traffico di sostanze stupefacenti. Galloni, colpito all’inguine e al torace è morto sul colpo mentre Antonini ha cercato inutilmente rifugio in un locale. Nel 2009 era stato ucciso con le stesse modalità anche Emidio Salomone, considerato capo del clan e di cui Baficchio e Sorcanera erano “luogotenenti”. Ma nella Roma criminale l’impressione è che nel 2011 si sia cercato di tappare le falle del sistema di vigilanza e prevenzione, vittima di una carenza cronica di uomini e mezzi. Le gambizzazioni: elemento che ha caratterizzato tanti fatti di cronaca del 2011. Il 2 febbraio, infatti, un uomo viene ferito da un proiettile in via di Tor Pagnotta, in zona Esposizione: a sparargli due uomini in sella a uno scooter che avrebbero fatto fuoco dopo averlo rapinato del portafogli e del cellulare. Passa meno di una settimana e a Roma, in via di Torrevecchia, avviene l’ennesimo omicidio: con un colpo in testa viene freddato Mario Maida, un meccanico, ucciso forse per una faida familiare iniziata nel 2005 con l’omicidio del nipote, Andrea Bennato. Maida era stato condannato a 12 anni nel 2008 ma era stato rimesso in libertà: «Da sei anni nessuno lo proteggeva più», dissero in quartiere. Mentre il 21 febbraio tocca a Marco Zioni, pregiudicato romano ucciso a Montespaccato da due killer in scooter per problemi legati probabilmente a un bambino conteso. E non passa un mese che gli inquirenti capitolini hanno a che fare con l’ennesimo cadavere. Il 5 marzo, il corpo di un uomo di circa 30 anni e probabilmente dell’Est Europa, viene rinvenuto sul ciglio della strada a Torvajanica (Roma), tra via Ponente e via Monreale. E se sono gli omicidi a fare notizia, le più numerose sono proprio le gambizzazioni: i killer affiancano in scooter la vittima ed esplodono raffiche di colpi in pieno giorno. Una prassi che ha aperto anche il 2012, con un agguato ai danni di un ex esponente dei Nar, ferito a Tivoli mentre il giorno successivo, a Roma, venivano uccisi Zhou Zeng – un cinese di 32 anni, titolare di una filiale di Money Transfer – e la sua bambina di nove mesi. Obiettivo dei rapinatori, pare, l’incasso dell’attività di trasferimento di denaro all’estero. Pochi giorni dopo, l’8 gennaio, una notizia che non raggiunge le cronache nazionali ma è legata in qualche modo a un omicidio che scosse la Capitale nel luglio 2011: muore suicida il cugino di Flavio Simmi, Davide, trovato impiccato nel suo appartamento in via della Cisterna, zona Trastevere. Mentre il 24 gennaio viene ucciso in pieno giorno l’immobiliarista Antonio Maria Rinaldi, 64 anni, freddato nel garage condominiale in via del Fontanile Arenato, alla Pisana. L’uomo era già noto alle forze dell’ordine per un precedente del 1998, legato agli stupefacenti. Tre giorni dopo, il 27 gennaio, viene ucciso a colpi di pistola e poi bruciato Salvatore Polcino, 52 anni. Il suo corpo viene ritrovato nelle campagne della periferia romana, a Borgo Santa Fumia. Per il delitto vengono fermati un 21enne di Ardea (Rm) e altri due pluripregiudicati originari della Calabria e della Sicilia. Accoltellamenti. E nel mese di novembre 2011, nella Capitale si registrano altri due ferimenti all’arma bianca (il 10 e il primo del mese). Un altro accoltellamento avviene il 14 ottobre nel garage di un supermercato romano, senza vita resta Fabio Severini, di 43 anni. Vicende minori che con difficoltà sono arrivate alle cronache nazionali ma hanno contribuito a rendere Roma 39 | giugno 2012 | narcomafie È il ritorno delle Erinni? intervista a Otello Lupacchini Roma 40 | giugno 2012 | narcomafie di Fabio E. Torsello Omicidi, eco lontane di criminali mai scomparsi dalla scena romana, sparatorie che ormai in pieno giorno sconvolgono la Capitale. In molti sussurrano il nome della banda della Magliana. Stanno tornando? Per capirlo, «Narcomafie» ha incontrato il magistrato che ha destrutturato la banda, Otello Lupacchini. Musica in sottofondo, la scrivania piena di carte e una libreria con decine di volumi su terrorismo, crimine organizzato e filosofia, il giudice ha tracciato una panoramica del fenomeno: De Pedis e sodali, sembrano ormai relegati a meri protagonisti di un “Romanzo criminale” che poco o nulla ha a che vedere con la realtà attuale. Gli omicidi dello scorso anno e del 2012, per cui più volte è stata chiamata in causa la banda della Magliana, in quale quadro criminale si inscrivono? Potrebbe sembrare una banalità, ma occorre ribadirlo con forza: Roma è ormai un territorio conquistato dalla criminalità organizzata. Capitale e provincia detengono il triste primato in tutto il Lazio per il numero degli omicidi volontari, delle estorsioni, del riciclaggio e del reimpiego di denaro in attività illecite. Detto questo, goldonianamente, veniamo a dire il merito. Nel corso dell’ultimo decennio, sono avvenuti a Roma e Provincia svariati fatti di sangue ascrivibili a scontri e contrasti nell’ambito del crimine organizzato e che hanno coinvolto personaggi, in qualche misura, già partecipi delle vicissitudini della Banda della Magliana. In proposito, se si vogliono evitare fuorvianti semplificazioni e suggestive interpretazioni degli avvenimenti, occorre convenire su un punto: la liquidazione giudiziaria di quel sodalizio è avvenuta nel periodo a cavallo del 1993. Oggi, dunque, non si può più parlare di riemersione, quasi si trattasse di un fiume carsico, della Banda della Magliana, né come realtà associativa né come fenomeno criminale, fortemente e specificamente caratterizzato, perché ormai esauritosi definitivamente: ci troviamo piuttosto di fronte alle gesta di sopravvissuti della vecchia organizzazione, scampati al processo o magari alla condanna o, comunque, tornati in libertà, dopo carcerazioni più o meno lunghe. In ogni caso, non può tacersi che i numerosi fatti di sangue verificatisi negli ultimi anni a Roma e nel suo hinterland, divenuti numerosissimi, sia per quel che attiene agli omicidi sia per quanto concerne gli episodi di “gambizzazione”, negli ultimi due anni, così per le modalità esecutive come per le caratteristiche soggettive delle vittime, sono maturati a seguito di contrasti insorti tra gruppi rivali. Essi, se di certo hanno contribuito ad accendere i riflettori su una provincia da “Romanzo criminale”, tuttavia sono inequivocabilmente sintomatici della vastità del fenomeno della delinquenza organizzata che inquina ormai irrimediabilmente il tessuto sociale, economico e, dunque, lato sensu politico, della Capitale, al punto che non esito a definire criminale, prima che non più tollerabile, perché mai disinteressato, qualsiasi tentativo di rimozione del problema semplicemente negandolo, magari ignorandolo o, peggio, diffondendo un’immagine mistificata del fenomeno, attraverso meccanismi di comunicazione tanto più rassicuranti quanto più truffaldini. È doveroso, insomma, riconoscere che Roma attira le organizzazioni criminali, mafiose e non, sia perché Roma è una piazza commerciale di primo piano nello scenario nazionale, specie, ma non soltanto, per quanto riguarda il consumo di droghe, sia perché è il centro del potere politico e qui vengono prese le grosse decisioni sui grossi investimenti e sui grandi appalti. Dopo l’arresto di Michele Senese, come è cambiata la scena criminale a Roma? Sarà stato senza dubbio un caso, ma a seguito dell’arresto di Michele Senese si è assistito a una recrudescenza dei crimini violenti, al centro dei quali troviamo oltre a incensurati o piccoli malavitosi anche, se non soprattutto vecchie conoscenze degli annali criminali. E molto spesso, se non sempre, accade che gambizzazioni, ferimenti, omicidi consumati o tentati, con contorno di minacce anonime, pestaggi e sequestri di persona, vengano liquidati alla stregua di regolamenti di conti fra malavitosi, di avvertimenti, di esplodere improvviso di vecchi e mai sopiti rancori, magari anche di vendette per fatti di corna. Qualcuno, malignamente, insinua tuttavia che sia in atto una guerra in cui si contrappongono coloro che combattono per la conservazione di vecchie leadership e chi, invece, lo fa per imporre una nuova governance delinquentesca. Come si pongono le “grandi mafie” nei confronti di questi omicidi? Diciamo innanzi tutto che è in atto un processo di evoluzione della criminalità organizzata dinamico e al passo con i tempi. Il tessuto cittadino di Roma è strategico per il rifugio dei latitanti, ma è anche terreno fertile per mercati illeciti più sofisticati, quali appalti pubblici e imprenditoria piratesca, attraverso la nuova tecnica del leverage buy out. Il traffico della droga e della prostituzione come pure il gioco d’azzardo 41 | giugno 2012 | narcomafie e Novella sono orientate verso il settore degli appalti pubblici. In un simile fervore d’affari è evidente che si sviluppino gli appetiti e che, per riempire gli spazi che si liberano, possa scatenarsi la guerra di tutti contro tutti. La recente sparatoria di Spinaceto è sembrata a molti una trappola. Chi era la vittima? È plausibile parlare di un complotto? Più che di complotto, nella morte di Angelotti vedo una sorta di nemesi: quando venne ucciso Enrico De Pedis, si disse che qualcuno avesse propiziato l’incontro, in via del Pellegrino, fra Renatino e Angelotti, per trattare una partita di gioielli, consegnando in tal modo la vittima agli assassini. Chissà che quello stesso qualcuno non abbia sussurrato ad Angelotti che c’era a Spinaceto un campionario di gioielli in partenza per una mostra al di là delle Alpi, traendolo così al campo del massacro. La sensazione, e sottolineo sensazione, visto il valore esiguo della posta in gioco, è che le Erinni possano essere tornate a riprendersi il posto lasciato una volta alle Eumenidi. L’estate di sangue. E la scia di omicidi e ferimenti ha caratterizzato anche l’estate romana. Il 20 settembre, nel quartiere di San Basilio, viene ucciso Ennio Lupparelli, di 68 anni, il giorno prima, in zona Portuense, viene gambizzato un pregiudicato romano di 32 anni (ai soccoritori ha racconterà di essersi ferito da solo). Pochi giorni prima, il 16 settembre, alcuni killer avevano tentato di uccidere un pregiudicato romano di 46 anni, in via Ferruccio Mengaroni (zona Tor Bella Monaca), mentre il giorno precedente un giovane di 21 anni era stato ferito a colpi d’arma da fuoco in zona Laurentino, in via Pico della Mirandola. Ma a fare scalpore, il 23 agosto 2011, è stato l’omicidio di Eduardo Sforna, un giovane incensurato di 18 anni, pioniere della Croce rossa italiana che lavorava come fattorino in una Roma sono i business principali. La mappa dello spaccio è suddivisa secondo i quartieri e le borgate: San Basilio, Tor Bella Monaca, Termini e San Lorenzo; nella lista figurano anche i quartieri del Pigneto, Montesacro, Tor Vergata ed Ostia. L’aeroporto di Fiumicino è sempre più spesso luogo di arrivo di corrieri di droga. La prostituzione è presente su tutta la Capitale anche nelle zone più centrali, ma con una forma diversa: le prostitute si trasformano in escort ben vestite ed eleganti. Gli affari li curano personalmente attraverso il passaggio di biglietti da visita. Le strade dove si riscontra una maggiore concentrazione di prostitute sono Via Salaria, via Prati Fiscali, viale Palmiro Togliatti, Villaggio Olimpico, via Cristoforo Colombo, Piazza dei Navigatori in primo luogo. Poi via Tiburtina, via Portuense, via Aurelia, via di Malagrotta. E in centro storico: via Marsala (soprattutto trans), via Urbana e piazza degli Zingari nell’area di Santa Maria Maggiore, via Emanuele Filiberto, l’Aventino, le vie attorno a Caracalla e a Piramide. Tra i nuovi soggetti criminali spiccano i sodalizi stranieri, che gestiscono fette importanti del mercato criminale, ma i settori strategici restano saldamente in mano alle organizzazioni criminali tradizionali: le mani della criminalità organizzata toccano ad esempio il settore degli appalti pubblici e l’allarme è stato lanciato proprio dai rappresentanti di categoria dei costruttori di Roma. L’altro aspetto del fenomeno è quello degli appalti senza gara, il cui apparente clientelismo legato a fazioni politiche potrebbe nascondere capitale criminale. La camorra ha tentato di entrare anche negli appalti dei mondiali di nuoto al Foro Italico di Roma. Ma anche le ’ndrine dei Gallace Roma una città molto più violenta di “capitali” storiche di mafie e agguati come Napoli o Palermo, dove ormai “non si spara più”. Roma 42 | giugno 2012 | narcomafie pizzeria a Morena: i killer fecero irruzione nel locale sparando a bruciapelo al giovane. La notte precedente, nel quartiere di Centocelle, un marocchino era stato ferito a colpi di pistola. Mentre il 13 dello stesso mese, Stefano Suriano, uno stalker di 36 anni con precedenti penali, era stato ucciso presso un distributore di benzina nel quartiere di San Basilio. E il 9 agosto, nella zona di Cerveteri, era stato ammazzato – a scopo di rapina – Mario Cuomo, di 62 anni. Andando a ritroso, l’estate di sangue si apre con l’omicidio – il 5 luglio 2011 – di Flavio Simmi, gestore di un “compro oro” e figlio di Roberto, un gioielliere già indagato per fatti relativi alla banda della Magliana e poi prosciolto. Simmi viene ucciso con nove colpi di pistola – una vera e propria esecuzione – attorno alle 9 di mattina, in via Grazioli Lante, zona Prati, mentre era in macchina. Vano il suo tentativo di fuga. Le fotografie della sparatoria ritraggono il corpo del giovane – già vittima di un ferimento nel febbraio precedente – riverso con le gambe ancora incastrate al posto guida. Cinque giorni dopo, il 10 luglio, al Tiburtino veniva ferito un altro pregiudicato romano, Giulio Saltafilippi: se la caverà con un proiettile nell’addome. Mentre il 27 luglio tocca a Simone Colaneri, ucciso a colpi di 44 Magnum in un agguato a Torrevecchia, alla periferia di Roma. Detto “il teppista”, aveva 30 anni e alle spalle un lungo curriculum criminale. Ci sono poi gli episodi “minori”. Il 20 giugno a Quarto Miglio, in un campo, un pastore di 78 anni, Sabatino Onofri, viene trovato morto, ucciso a bastonate. Il 14 giugno, il 47enne Marco Calamanti viene aggredito in strada a San Basilio e ucciso con un colpo di crick in testa, per questioni di debiti. Lo stesso giorno, a Tor Sapienza, Paolo Mistretta, 24 anni, in preda a un raptus uccideva a coltellate la nonna e feriva la sorella. Mentre il 7 giugno a Cinecittà il 24enne Stefano Salvi massacrava la nonna della fidanzata e cercava di scioglierla nell’acido. L’omicidio di Rafael Coen. Un omicidio di cui si è parlato appena sui quotidiani è quello del 74enne pensionato ebreo Rafael Coen trovato morto il 14 giugno 2011 nell’androne di casa in Via Lanciani, colpito con una stilettata – da alcuni definita “da professionisti” – al cuore. C’è poi la strage di Cecchina, con due omicidi e due ferimenti, avvenuta il 29 maggio 2011 per motivi probabilmente legati alla droga: un commando fa irruzione in un appartamento e apre il fuoco sui presenti, uccidendo il marocchino Rabii Baridi e Fabio Giorgi. E sempre a maggio viene ucciso – in via Vittoria – un agente immobiliare di 41 anni. Gli omicidi non mancano neanche ad aprile. In via Col di Lana, davanti al teatro delle Vittorie e a poche centinaia di metri da dove pochi mesi dopo sarebbe stato ammazzato Flavio Simmi, l’8 aprile viene infatti freddato Roberto Ceccarelli, imprenditore di 45 anni con gravi precedenti penali e il cui nome compariva nell’operazione Capricorno connection del 2003. Un’indagine che portò in carcere estremisti di destra ed esponenti di un clan siciliano minore, specializzato nel traffico di stupefacenti. Mentre a marzo la capitale viene scossa da una macabra scoperta: il cadavere di una donna privo di testa, braccia e gambe, viene ritrovato in un campo nei pressi dell’Ardeatina: chi l’ha uccisa – secondo gli inquirenti – potrebbe aver utilizzato una motosega per mutilare il corpo, prelevandone poi gli organi in modo quasi chirurgico. Tra le ipotesi, quella del satanismo o di un feticista. L’omicidio è rimasto tutt’ora senza colpevole. Due dei trentatré omicidi, un benzinaio a Cerenova (caso ancora irrisolto) e un pensionato a San Basilio, infine, sono il tragico risultato di rapine, in un periodo che ha contato un aumento di colpi a danno degli esercizi commerciali (3-4 al giorno solo nei supermercati, secondo quanto comunicato da Sos-Impresa/Confesercenti) e un generale aumento delle rapine dell’11% rispetto all’anno precedente. È il 28 aprile scorso le cronache nazionali tornano a parlare della Roma violenta. Nel corso del tentativo di rapina ai danni di due gioiellieri, infatti, viene ucciso Angelo Angelotti, 62 anni, già appartenuto alla banda della Magliana e coinvolto nell’omicidio di “Renatino”, Enrico De Pedis. Feriti nell’agguato i complici, Giulio Valente e Stefano Pompili. Decisiva la reazione dei due gioiellieri – Luca e Andrea Polimadei – che, vedendoli armati, hanno ingaggiato una sparatoria prima ancora che i rapinatori potessero esplodere un colpo. A bordo dell’auto i fratelli Polimadei portavano un campionario da 75mila euro. Chi ordina chi riscuote Reato che da sempre caratterizza la capitale, l’usura è andata trasformandosi negli anni. Dal singolo “cravattaro” di quartiere si è passati a strutture più organizzate con clan e “famiglie” che hanno fatto rete e diviso i compiti. Non mancano le “sentinelle” nei quartieri, che attraverso il passaparola indicano da chi trovare denaro facile. In un periodo di crisi economica per famiglie e imprese di Fabio E. Torsello Roma 43 | giugno 2012 | narcomafie 44 | giugno 2012 | narcomafie Roma «La vera notizia è che in questi anni Roma è diventata la capitale dell’antiusura. Oltre agli sportelli dislocati nei diversi Municipi della città, ci sono associazioni come la Salus populi romani, l’Adiconsum, l’Ambulatorio antiusura, l’Agisa, la Comunità ebraica e altre ancora che quotidianamente si prodigano per offrire aiuto a persone sovraindebitate o vittime di usura». Luigi Ciatti, delegato del sindaco per l’emergenza racket e usura di Roma Capitale e fondatore dell’ambulatorio antiusura insieme a Tano Grasso, va subito al punto: non bisogna negare il problema ma riconoscere che esiste una via d’uscita e una rete a cui rivolgersi per chiedere aiuto. Aziende nel mirino degli usurai. Secondo i dati del Campidoglio, al 31 dicembre 2011 sono state 2.152 le persone che nel 2011 si sono rivolte agli sportelli antiusura del comune di Roma, con un incremento del 16,2% rispetto al 2010: 45% lavoratori dipendenti (e quindi famiglie), 26% imprenditori e 20% pensionati. Minima – pari al 9% – la percentuale di quanti si sono rivolti agli usurai pur non percependo alcun reddito. Quasi tutti – l’84% – con problemi di sovraindebitamento, mentre solo il 16% di quanti si sono rivolti agli sportelli antiusura si è dichiarato vittima del reato in senso stretto. Una percentuale bassa che non deve ingannare. Secondo Confesercenti, infatti, nel Lazio sarebbero almeno 28mila i commercianti vittime di usura, un sommerso che – se paragonato alle denunce – dà la tara della difficoltà degli usurati a far emergere il fenomeno. «Il numero delle vittime è molto più alto rispetto ai censimenti ufficiali – spiega Fausto Bernardini, presidente di Confesercenti-SosImpresa Lazio – e il sovraindebitamento sta crescendo in modo esponenziale. Immutata negli anni anche l’impossibilità di accedere al credito: come garanzia non bastano più le proprietà e gli immobili ma viene valutata la capacità reale dell’azienda o dell’imprenditore a restituire il debito». Un dato confermato anche da Erino Colombi, presidente della Confederazione nazionale dell’artigianato (Cna) di Roma, che sottolinea come in molti casi le banche boccino le pratiche «nonostante i fondi messi a disposizione dai Confidi e una percentuale molto bassa di insolvenze, con garanzie che sfiorano il 100% del prestito erogato dall’istituto di credito». E il bacino delle aziende in difficoltà – carne da macello per gli usurai – è vastissimo. Secondo il rapporto sull’usura nella Capitale presentato da Confesercenti/SosImpresa nel settembre scorso, infatti, nel 2010 la media nazionale di procedure di insolvenza da parte delle imprese è stata di trenta al giorno, undicimila nell’intero anno. Aziende che fanno gola alla criminalità organizzata, sempre pronta a subentrare con quote societarie finanziando chi è sull’orlo del fallimento. E l’usura romana, secondo Confesercenti, si sta specializzando. «Sul campo – spiega ancora Bernardini – ci sono due tipi di usurai: quelli di quartiere – comunque minoritari – e la grande criminalità organizzata. I primi lucrano sugli interessi, i secondi mirano a impossessarsi dell’attività quando l’imprenditore non riesce più a pagare il debito e in questo modo entrano nel canale legale tramite l’usura». Il giro d’affari dell’usura nel Lazio è stimato in tre miliardi di euro. E spesso a indicare l’usuraio cui rivolgersi sono gli stessi creditori che ben conoscono la rete sommersa del finanziamento “facile”. Sconti, in cambio di favori. «Ad aggravare la situazione – spiega ancora Ciatti – vi è che, a differenza di qualche anno fa, l’usura colpisce fasce sociali incapaci di affrontare la crisi economica e le sue conseguenze. Quando ho iniziato a occuparmi di usura – prosegue – nel 1996, agli sportelli si rivolgevano quasi esclusivamente commercianti, imprenditori e artigiani, soggetti che si caratterizzano per avere un flusso di denaro incostante. Adesso il 50% delle richieste di aiuto proviene da famiglie, lavoratori dipendenti e pensionati». E le testimonianze raccontano di creditori che chiedono “favori” alle loro vittime, in cambio di sconti sulla cifra da versare: la possibilità di nascondere in casa grosse quantità di droga, ospitare clandestini o intestarsi beni e società. Un modo di fare che – spiegano da SosImpresa/ Confesercenti – abbassa il rischio di denuncia per gli usurai in quanto la vittima percepisce se stessa come complice e quindi “a rischio” in caso di operazioni da parte delle forze dell’ordine. Il clan Casamonica. Quella dell’usura romana è una rete ben implementata e messa a sistema con altre attività illecite come il mercato della droga. E nella Capitale il business fa capo alla storica famiglia dei Casamonica. A fine gennaio, nel quartiere romano della Romanina, le forze dell’ordine hanno arrestato 39 persone con l’accusa di associazione finalizzata al traffico degli stupefacenti, un business funzionale a far entrare soldi da reinvestire nell’usura. Secondo quanto appurato dagli inquirenti, tra via Devers e vicolo Barzilai era stata formata una sorta di Scampia romana, con vedette posizionate sui tetti e strade appositamente “ridotte” da fioriere e ingombri, in modo da tenere d’occhio qualsiasi accesso. Lo spaccio al dettaglio di cocaina e hashish era affidato alle donne. L’autorità giudiziaria ha disposto il sequestro preventivo dei beni riconducibili agli arrestati per cinque milioni di euro, tra immobili (ville, terreni, 16 abitazioni), 36 autovetture, 20 orologi di pregio, un borsa piena d’oro, 135mila euro in contanti, 28mila euro in titoli e conti correnti, depositi bancari e postali. Nelle sfarzosissime abitazioni trasformate in supermarket della droga, il camino era sempre acceso: in caso di operazioni di polizia tutto doveva essere bruciato. E gli “esattori” dei Casamonica erano dietro a un’altra organizzazione dedita all’usura smantellata nel settembre del 2010 da un’operazione della Dda di Roma, culminata con l’arresto di undici persone tra insospettabili professionisti, camorristi e alcuni esponenti della banda della Magliana, 23 indagati e numerose perquisizioni. Il giro usuraio – secondo quanto è emerso dalle indagini – era funzionale alle truffe messe a segno dall’organizzazione che aveva già incassato cinquantamila euro di caparra per la vendita del palazzo della Questura in via di San Vitale, così come avevano venduto la casa del calciatore Marcus Cafu e dell’ex presidente della Lazio, Sergio Cragnotti, e una partecipazione ai magazzini Coin di via Cola di Rienzo a Roma. Anche in questo caso, grazie alla complicità di insospettabili professionisti – un avvocato e un commercialista – proponevano affari d’oro alle vittime che si illudevano di poter acquistare un’auto o una casa alle aste giudiziarie e passavano all’indebitamento e al tunnel dell’usura. Lungo l’elenco di quanti erano caduti nella rete: piloti, esponenti delle forze dell’ordine, medici, imprenditori, impiegati di Acea e Telecom e anche nomi noti, come lo scomparso attore Pietro Taricone. Al vertice dell’organizzazione, un “coordinamento” con i rappresentanti di tutti i nuclei storici della criminalità romana, dai Casamonica alla camorra, fino ad arrivare alla storica banda della Magliana, ai quali si è arrivati con l’inchiesta sull’omicidio di Umberto Morzilli, freddato il 29 febbraio 2008 a Centocelle per un regolamento di conti. Il secondo livello, invece, era formato da professionisti mai toccati da alcuna indagine che avevano il compito di “intercettare” le potenziali vittime. Sempre nel luglio dello scorso anno, un’altra operazione – che ha visto coinvolti alcuni ex esponenti della Banda della Magliana – ha portato a undici ordinanze di custodia cautelare e a una cinquantina di perquisizioni. Un centinaio le vittime dell’usura – tra cui anche un carabiniere e un poliziotto – e oltre centomila euro di giro di affari settimanale. Altra famiglia nomade – originaria dell’Abruzzo – che da sempre pratica l’usura nella capitale è quella del clan dei Di Silvio, attiva soprattutto nella periferia (nei quartieri di Torre Roma 45 | giugno 2012 | narcomafie La rotta dei money transfer intervista al Generale Leandro Cuzzocrea Roma 46 | giugno 2012 | narcomafie Una fitta rete di filiali che permette l’invio di denaro all’estero in modo molto più semplice e immediato rispetto alle banche: sono i Money Transfer, terminali da cui gli stranieri spediscono le rimesse presso i loro Paesi d’origine. Pur senza criminalizzare un’intera categoria, numerose sono le operazioni della Guardia di finanza che hanno scoperto irregolarità e procedure non rispettate da parte di mittenti e titolari delle agenzie. Per capire come si possa riciclare denaro e mascherare da rimesse veri e propri pagamenti, «Narcomafie» ha intervistato il Generale Leandro Cuzzocrea, Comandante del nucleo speciale della Polizia valutaria della Guardia di finanza. La rete money transfer è cresciuta in modo esponenziale in Italia negli ultimi anni: quali sono i territori a più alta densità di agenzie in Italia? C’è una differenza tra Nord e Sud? Qual è il numero totale delle agenzie di invio di denaro all’estero? Le agenzie di money transfer sono notevolmente aumentate negli ultimi anni, basti pensare che tra il 2002 e il 2010 c’è stato un incremento percentuale di oltre il 1.400%, essendo il numero di iscritti passato da 2.202 a oltre 34mila. Oggi gli agenti in attività finanziaria (compresi quelli che esercitano attività diverse dal money transfer) sono oltre 75mila, di questi, circa 5mila sono società. Riguardo alla ripartizione territoriale, la concentrazione maggiore di agenti in attività finanziaria si registra a Roma, Napoli e Milano. Rischio riciclaggio: quale la comunità che – in base alle indagini eseguite – ha fatto registrare più violazioni della legge antiriciclaggio nel 2011? I dati relativi alle violazioni alla normativa antiriciclaggio accertate dalla Guardia di finanza nel 2011 evidenziano una situazione sostanzialmente invariata rispetto all’anno precedente. Nell’ultimo biennio, infatti, i soggetti verbalizzati, per violazioni penali e amministrative al D.Lgs. n. 231 del 2007, sono quasi 9mila. Nel corso del 2011 la Guardia di finanza ha effettuato 296 ispezioni antiriciclaggio nei confronti di agenti in attività finanziaria che hanno consentito di accertare la commissione di oltre 150 violazioni di tipo amministrativo e penale. Non disponiamo di dati precisi su quali siano le comunità che hanno infranto le norme con maggiore frequenza, ma possiamo ragionevolmente affermare che nella realizzazione degli illeciti sono coinvolti, con ruoli e responsabilità diversi, la persona che invia il denaro, l’agente e l’intermediario finanziario, quest’ultimo responsabile di non aver intercettato e conseguentemente bloccato le operazioni illecite. Una possibile relazione potrebbe essere quella tra numero di violazioni e volumi trasferiti e oggi il Paese che registra il maggior numero di invii è la Cina: solo nel 2010 sono partiti con questa destinazione oltre 1 miliardo e 800 milioni di euro. Le maggiori operazioni nel 2011 a livello nazionale: sequestri, entità del volume di denaro riciclato... Tra le tante e diversificate operazioni condotte dalla Guardia di finanza nel 2011 nell’ambito della prevenzione e della repressione dei fenomeni di riciclaggio possiamo ricordarne due. La prima, che origina da un’attività amministrativa di prevenzione, è quella del Nucleo speciale di polizia valutaria: al termine di un’ispezione antiriciclaggio, eseguita nei confronti di un intermediario finanziario, sono stati denunciati, presso 81 procure della Repubblica, 246 agenti money transfer per non aver effettuato l’adeguata verifica della clientela. L’altra operazione, denominata “Cian ba”, è stata eseguita dal Comando regionale della Toscana. Rappresenta lo sviluppo di una precedente operazione, “Cian liu”, e ha portato al sequestro di oltre 25 milioni di euro nei confronti di imprenditori ed amministratori di imprese cinesi denunciati per vari reati, tra cui trasferimento fraudolento di valori, frode fiscale ed occultamento dei titolari effettivi delle operazioni finanziarie. Con quale meccanismo si ricicla il denaro e con quali finalità? Penso al finanziamento del terrorismo, al pagamento fittizio di merce contraffatta, ecc... I meccanismi sono sostanzialmente due e consistono nel frazionare gli invii, così da portarli tutti al di sotto del limite legale o nell’attribuire gli stessi a soggetti assolutamente ignari, di cui si dispongono i relativi dati anagrafici, o a soggetti che consapevolmente si prestano a ciò. Spesso abbiamo riscontrato una combinazione di questi meccanismi fraudolenti. C’è da dire che, sotto il profilo della regolamentazione, i presidi sono stati nel tempo rafforzati, abbassando progressivamente il limite di denaro contante che può essere inviato attraverso i money transfer. Questo limite, che ha subito alterne vicende – in origine 5.000 €, poi 12.500€, poi ancora 5.000€, 2.000€ – è stato di recente portato a 1.000€. Le finalità perseguite sono varie: inviare verso la madrepatria i guadagni lecitamente conseguiti in Italia ma sottratti alla tassazione nazionale, inviare somme frutto di attività illecite condotte in Italia ovvero ancora pagare merce contraffatta o sostanze stupefacenti. Riguardo al terrorismo, o più correttamente, riguardo al finanziamento del terrorismo, occorre fare un discorso diverso e rappresentare che il fenomeno è strutturalmente diverso rispetto al riciclaggio, avuto riguardo sia ai volumi trasferiti, sia all’origine delle somme. La nostra esperienza ci dice, infatti, che nel caso del riciclaggio le somme sono sempre molto considerevoli, mentre il terrorismo viene finanziato anche con piccole “donazioni” che non sono necessariamente il provento di attività illecite, ma il guadagno di somme accumulate legalmente o raccolte presso i fiancheggiatori delle cellule terroristiche da associazioni con apparenti finalità filantropiche o culturali. Altra significativa differenza è che il riciclatore vuole occultare l’origine illecita delle somme, il finanziatore del terrorismo, invece, vuole coprire la finalità ultima dell’invio. Come risolvere alla radice il problema della parcellizzazione degli invii? La problematica non può essere ricondotta a lacune nel sistema di regolamentazione che peraltro, come ricordato, è stato oggetto di ripetuti interventi legislativi. Una importante e recente riforma, più volte auspicata dalle Autorità, ha ulteriormente rafforzato i presidi del sistema money transfer. Ancora più recentemente la Banca d’Italia ha emanato un provvedimento che impone agli intermediari finanziari che svolgono l’attività di money transfer di dotarsi di procedure informatiche che consentano di monitorare in tempo reale le operazioni effettuate anche attraverso la rete degli agenti e collaboratori esterni e di bloccare quelle anomale. Le maggiori criticità sono dovute principalmente ad uno scarso livello di compliance di molti operatori. Se questa è la diagnosi, allora la possibile cura potrebbe essere quella di ricorrere ad una massiccia dose di “antibiotici” rappresentati da ulteriori controlli e da campagne di sensibilizzazione sui rischi economici, legali e reputazionali legati ad un uso distorto di questo sistema che, per altri versi, assolve ad una fisiologica funzione economica e sociale. Angela, la Rustica e Tor Bella Monaca) e nella provincia di Latina (nei territori di Pantanaccio, Gionchetto e Campo Boario) dove è nota per essere il braccio armato della famiglia malavitosa dei Ciarelli. Proprio nel sudpontino, secondo i dati della fondazione Wanda Vecchi, a rischio usura sono soprattutto gli agricoltori, i più colpiti dalla crisi tra quanti operano nel cirocondario di Latina. Solo nell’ultimo anno, la Fondazione Vecchi ha effettuato 530 colloqui per un totale di circa 150 utenti, e ha erogato attraverso le banche convenzionate oltre venti prestiti per una media di 10mila euro ciascuno, cui si aggiungono sedici mutui erogati nei confronti di chi rischia di perdere la propria casa. I territori più colpiti, il triangolo tra Sabaudia, Fondi e Terracina. Lo strozzinaggio quotidiano. Non per forza l’usura è legata a clan o mafie. Nel maggio del 2011, infatti, la Guardia di finanza di Roma ha stroncato un giro di prestiti a strozzo da 12 milioni di euro, con tassi d’interesse fino al 4.552% annuo. Gli arrestati erano soggetti titolari di attività economiche nonché liberi professionisti operanti in tutto il Lazio (principalmente a Roma), in Abruzzo e nelle province di Pescara, Chieti, L’Aquila, Teramo, Latina, Rieti, Siena, Bologna, Piacenza e Viterbo. Pochi mesi prima, nel marzo 2011, era stata sgominata un’organizzazione composta da padre, figlio e due coniugi, tutti nullafacenti ma dotati di grandi disponibilità finanziarie che taglieggiavano un imprenditore sottraendogli denaro a ritmi di cinquemila euro al giorno. Gli inquirenti, però, non sono riusciti a provare l’esistenza di un “ombrello” criminale nella regia delle operazioni. Mentre è del 2010 la notizia di un sequestro di persona in pieno centro, ad opera di tre usurai provenienti dal quartiere del Tufello. Un piccolo imprenditore del quartiere Prati, vittima di un giro di prestiti a strozzo, venne preso in ostaggio e rilasciato solo dopo il pagamento di 35mila euro da parte della famiglia. Nella zona della Casilina, infine, nell’ottobre 2010 sono finiti in manette un architetto, un imprenditore e due pregiudicati: oltre trenta vittime e diversi milioni di euro di denaro e giro d’affari. Roma 47 | giugno 2012 | narcomafie Roma 48 | giugno 2012 | narcomafie Serbatoi a secco Il corpo della Polizia di Stato è sotto organico. A denunciarlo il sindacato di categoria, che sottolinea la pericolosità nel lasciare scoperte estese zone periferiche della città: a beneficio della criminalità di ogni tipologia di Fabio E. Torsello Nella Capitale mancano almeno duemila agenti delle forze dell’ordine. A comunicare il dato è il SilpCgil che sottolinea come i rinforzi inviati nei mesi scorsi dal ministero dell’Interno, all’indomani dell’ondata di omicidi che ha sconvolto la capitale tra le fine del 2011 e l’inizio del 2012, siano solo dei palliativi di breve durata: finito il periodo decretato per il trasferimento, gli agenti torneranno nei loro distretti di appartenenza. Ad oggi Roma soffre una carenza di organico e posti di Polizia che compromette irrimediabilmente la vigilanza sul territorio, per non parlare dei mezzi e dei ritardi nella manutenzione: spesso gli agenti sono costretti a usare la stessa volante su più turni per mancanza di vetture. A colpire, però, è anche la distribuzione dei commissariati, con le periferie romane quasi del tutto “scoperte” e il centro cittadino che da solo ha sei commissariati (su un totale di 36). Con una superficie di 14,3 chilometri quadrati e una popolazione residente di 129.861 persone - secondo i numeri forniti dal Silp-Cgil - il I Municipio ha una densità di un agente ogni 232 persone, un dato che si scontra con una realtà ben più problematica come quella del IV Municipio (Fidene/ Serpentara): 97,2 chilometri quadrati di territorio, 202.281 cittadini, un solo commissariato e un agente ogni 2.248 persone. E non va meglio nel VIII Municipio (Casilino): un solo posto di polizia e un agente ogni 2.100 abitanti. Mentre la zona della Magliana/viale Marconi, una delle più popolose della Capitale, fa contare appena un agente ogni 1.900 persone. E la situazione non migliora neanche sul fronte della presenza sul territorio: si passa dai 32,9 poliziotti per chilometro quadro del I Muni- cipio ai 2,4 poliziotti per chilometro quadro del IV Municipio. Una sproporzione che rende evidente come tagli e accorpamenti abbiano negli anni penalizzato le fasce più esterne della città, lasciando scoperte intere porzioni di territorio, zone in cui fare prevenzione è quasi impossibile. In totale, nella capitale mancano almeno duemila agenti effettivi. Parlare di lotta alla criminalità con numeri di questo tipo è quantomeno azzardato. A differenza delle forze di polizia, infatti, le cosche hanno uomini, mezzi e strumenti finanziari quasi illimitati con cui da tempo hanno permeato il tessuto cittadino della Capitale. «L’incremento delle unità di polizia – spiega Claudio Giardullo Segretario Generale del Silp-Cgil – c’è stato nell’ordine delle duecento persone ma non con trasferimenti, bensì con personale aggregato: quando finirà l’aggregazione gli agenti torneranno nelle sedi di provenienza. Si è trattato di un provvedimento di emergenza mentre Roma ha bisogno di riforme strutturali per quel che riguarda la sicurezza. La città – prosegue Giardullo – sta pagando ancora lo scotto dei tre miliardi di tagli lineari fatti dal governo Berlusconi. E l’esecutivo Monti non ha previsto alcun piano che determini una svolta rispetto agli orientamenti del governo precedente». Su tutto aleggia la spada di Damocle della spending review che potrebbe ulteriormente prevedere tagli alla sicurezza. Tra le ipotesi, infatti, la chiusura di un numero impreciso di “uffici di Specialità” (Polfer, Polizia Postale, ecc...) che andrebbe a gravare anche sulla situazione della Capitale. «Un conto è ragionare sulla razionalizzazione delle risorse – prosegue Giardullo – altro è operare tagli indiscriminati di presidi e personale sul territorio: accorpare gli uffici significa calare sulla città una rete a maglie sempre più larghe. Ad oggi – sottolinea – siamo davanti a una insufficienza conclamata delle forze di polizia, a fronte di problemi di sicurezza cresciuti in modo evidente negli ultimi anni». E si tratta del traffico di droga, del gioco d’azzardo e degli omicidi. «Grazie anche alla flessibilità che stanno dimostrando le organizzazioni criminali – conclude il segretario del Silp-Cgil – è cresciuta la presenza delle mafie in zone che non sono a tradizionale presenza mafiosa”. E per rendersi conto dell’infiltrazione nella regione, basta recuperare i dati dei sequestri avvenuti nel Lazio negli ultimi mesi. Al 9 gennaio scorso l’Anbc (Agenzia Nazionale per l’amministrazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata) indicava in 574 i beni confiscati nel Lazio. Di questi il 53,3% sono presenti nel comune di Roma e il 77,5% nel complesso della provincia. Seguono le province di Latina e Frosinone. In soli quattro mesi (da ottobre 2011) si è registrato un incremento pari all’11%. Fondamentale, infine, la questione delle scorte: il personale è insufficiente e accade che alcune volanti in servizio di pattugliamento in città vengano dirottate per proteggere personaggi ritenuti a rischio. “Il vero problema - spiega ancora Giardullo - non è nella fase dell’assegnazione delle scorte ma nel successivo processo di valutazione, per cui in pochi casi le scorte vengono revocate anche quando non sussistono più le condizioni di rischio. E nel nostro Paese spesso si fanno pressioni per conservare le scorte anche quando le forze dell’ordine certificano il cessato pericolo”. Roma 49 | giugno 2012 | narcomafie Roma 50 | giugno 2012 | narcomafie Emanuela, la verità occultata Perché fu rapita la giovane cittadina del Vaticano? Chi furono i mandanti? Quali le responsabilità di Enrico De Pedis? Dopo trent’anni dalla scomparsa, il trasferimento della salma del boss della Magliana da Sant’Apollinare e l’incriminazione di Monsignor Vergari segnano la volontà di fare definitamente luce su uno dei più gravi misteri italiani? di Angela Camuso «Enrico De Pedis aveva contatti in Vaticano diretti tramite qualche monsignore… ma c’era chi, come Flavio Carboni, ci stava proprio dentro al Vaticano…io posso dire che monsignor Vergari aveva contatti con De Pedis; che padre Franco (monsignor Gianfranco Girotti, ndr) aveva rapporti con De Pedis. Renatino aveva modi da boss imprenditoriale, sapeva che doveva costruire il suo futuro con le pubbliche relazioni. Lui era uno che in tribunale era capace di prendere il cappotto del suo legale e metterglielo sulle spalle, di allungargli il fazzoletto... è morto incensurato e ha ammazzato più gente di me; ha fatto le stesse rapine che ho fatto io… Come ha fatto a morire incensurato? De Pedis ci sapeva fare… lui la domenica mi veniva a prendere a casa… andavamo a mangiare le paste da “Andreotti” a Testaccio, su via Ostiense, poi magari andavamo a mangiare il pesce a Ostia, oppure al centro, al “Bolognese”… e lui la domenica si attaccava al telefono e chiamava il fior fiore degli avvocati di Roma, con quei suoi atteggiamenti che io non avrei mai avuto. Era referente. Diceva: “Avvocato, professore, ha ricevuto il regalo?”… Già si stava costruendo il futuro, mentre io il futuro non lo vedevo lui se lo costruiva con questi contatti... Per questo era di una noia mortale… Non si faceva neanche una canna! Ma così si preparava agli avvenimenti che sognava. Si immaginava, perché no, con qualche incarico in Parlamento, magari come Sottosegretario o presidente di qualche cosa...». Giugno 1983, la scomparsa. Così, in un’intervista registrata a chi scrive, disse a febbraio del 2010 il pentito Antonio Mancini, detto l’Accattone, sull’ex compagno di delitti ed ex amico – Mancini fu tra quelli che brindarono alla sua morte – di Enrico De Pedis detto Renatino, senz’altro il personaggio più famoso e più inquentante della banda della Magliana, il cui nome è tornato prepotentemente alla ribalta delle cronache in questi giorni, allorchè su decisione della procura di Roma, nell’ambito delle indagini sulla scomparsa misteriosa della quindicenne cittadina vaticana, Emanuela Orlandi, figlia del postino personale di Papa Wojtyla, è stata riesumata la sua salma, scandalosamente sepolta, a fianco di illustri rappresentanti della cristianità e della cultura italiana, all’interno della cripta della basilica di Sant’Apollinare, maestoso esempio di architettura cinquecentesca sull’omonima piazza, la stessa del conservatorio vaticano che frequentava Emanuela e da cui la ragazza fu vista uscire, in anticipo rispetto all’orario di fine della sua lezione di flauto, proprio il pomeriggio in cui fu rapita, 22 giugno 1983, dopo aver confidato a un’amica di avere appuntamento con un tale che si era presentato come un rappresentante della ditta di cosmetici Avon. Da De Pedis a Simmi. Enrico De Pedis fu colui che inaugurò il nuovo stile, imprenditoriale, della ciminalità organizzata romana che negli anni che seguirono la sua morte, fino a oggi, si rivelò vincente. Proprio a causa delle sue ambizioni sfrenate di riscatto sociale il bandito finì la sua carriera all’età di 36 anni, ucciso per vendetta e per invidia su volere dei suoi ex compagni da un proiettile che gli trapassò la gola mentre si trovava, quel 2 febbraio del ’90, a concludere affari con un antiquario in via del Pellegrino, dietro piazza Campo De Fiori, all’epoca quartier generale degli usurai e luogo dove pullulano ancora oggi, come testimoniano indagini recenti, esercizi commerciali che dietro una facciata di legalità apparente ricettano preziosi, trafficano droga e prestano a strozzo denaro. Non a caso il 33enne Flavio Simmi, rampollo di una famiglia di gioiellieri storicamente legati alla banda della Magliana e con un negozio “Compro Oro” proprio nella zona di Campo de Fiori, è stato ammazzato un anno fa, da due killer in moto, per motivi ancora oscuri, mentre usciva di casa dalla sua abitazione a Prati, tra i quartieri più signorili della capitale, in compagnia della bella moglie, la quale grazie a una conoscenza diretta con l’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi era tra le addette dell’ufficio stampa di Palazzo Grazioli. Soldi e odore di morte. La realtà supera spesso la fantasia in questa storia infinita della banda della Magliana. E questo sebbene prima il romanzo, poi il cinema e la tv, abbiano con maestria trasfigurato quei feroci banditi e le loro imprese, esaltando i primi e riducendo le seconde a una saga nazional popolare. Invece al puzzle dei misteri d’Italia mancano ancora troppi tasselli. E tanti pezzi che Roma 51 | giugno 2012 | narcomafie Roma 52 | giugno 2012 | narcomafie riguardano il famigerato gruppo criminale romano stanno da tempo nel mucchio, senza che nessuno trovi soluzione al gioco di incastri. Di certo le indagini dell’ultima ora e fatti gravi di sangue, accaduti di recente, testimoniano che la banda della Magliana, se con questo termine si intende la “mafia romana”, è una realtà del presente di cui è intriso l’ambiente criminale capitolino: oggi come ieri fatto di assassini, trafficanti e rapinatori da una parte – alcuni di loro, peraltro, già membri della vecchia banda e nonostante l’età avanzata ancora al “lavoro” – e criminali finanziari dall’altra, questi ultimi in contatto, più o meno diretto, con un sottobosco popolato da personaggi “puliti” ma solo di facciata che si infilano invisibili tra i meandri dei settori immobiliare, del commercio e della sanità e maneggiano denaro che puzza di morte facendolo scorrere invisibile tra i mille rivoli della burocrazia romana, grazie anche al potere della corruzione. Il passato riaffiora. Non a caso, un personaggio come Enrico Nicoletti, già “banchiere” della banda, oggi ultrasettantenne, è stato arrestato per ben due volte nel giro dei soli ultimi due anni, peraltro per reati identici a quelli per i quali è finito nel passato in carcere in numerose occasioni e cioè per estorsione, usura, riciclaggio nonchè associazione mafiosa, anche se poi quest’ultima accusa è sempre decaduta in sede di dibattimento, come già avvenne per tutti gli imputati al maxiprocesso alla banda che si concluse nel 2000 e che riconobbe alla gang soltanto lo status della semplice associazione a delinquere. Allo stesso modo, un altro del gruppo specializzato nel riciclaggio degli assegni, Giuseppe De Tomasi, detto il Ciccione, è finito un anno fa in galera con l’accusa di gestire un grosso giro di usura che andava avanti da anni ma che è stato scoperto dalla polizia, inspiegabilmente, a quasi un ventennio di distanza dall’ultima indagine che coinvolse il vecchio bandito, libero di deliquere indisturbato fin quando qualcuno ritenne doverso andare a spulciare nei suoi affari. E che dire di Raffaele Pernasetti, detto Er Palletta, storico braccio destro del famoso Enrico De Pedis, condannato in primo grado a quattro ergastoli, in secondo grado a trent’anni e uscito l’anno scorso in semilibertà con il permesso accordatogli dal tribunale di Sorveglianza di andare a lavorare in un ristorante famoso di Testaccio, ‘Oio a Casa mia’, gestito da un parente e indicato dal collaboratore di giustizia Dario Marsiglia come luogo dove si tenevano ancora nel vicino 2003 i summit di mala? Non ha suscitato particolare scandalo neppure la notizia che Massimo Carminati, il neofascista associato a pieno titolo alla banda, processato e assolto per l’omicidio di Mino Pecorelli e oggi benestante commerciante di vestiario e autovetture, sia finito in questi giorni all’interno dell’inchiesta sul calcioscommesse a fianco di esponenti del clan camorristico dei Senese, anche loro storici alleati della gang. Anche la recente fine, sventurata, di un bandito di spessore come Angelo Angelotti, colui che 22 anni fa attirò De Pedis nella trappola mortale, è un evento che riporta la memoria a un passato da cui la capitale sembra non riesca più a staccarsi. Angelotti è morto ammazzato lo scorso 28 aprile all’età di 65 anni, sotto i colpi di pistola di un gioielliere romano vittima di una tentata rapina. Non era neanche un anno che il bandito era uscito dal carcere. Ed era tornato ad abitare nel suo quartiere, Tor Marancia, dove non aveva fatto fatica e reinserirsi nel tessuto criminale della città. Un favore al cardinale Poletti? Com’è noto, a ipotizzare un nesso tra la sepoltura di Enrico De Pedis a Sant’Apollinare e la scomparsa di Emanuela Orlandi fu una telefonata fatta nel 2005 alla trasmissione televisiva “Chi l’ha visto?”, da parte di un anonimo poi individuato attraverso una perizia fonica come il figlio dello storico collaboratore di De Pedis, Giuseppe De Tomasi, anche lui in seguito finito nell’inchiesta sul sequestro di Emanuela perché riconosciuto come il telefonista “Mario”, l’uomo che a pochi giorni dalla scomparsa chiamò a casa Orlandi, per depistare, sostenendo di avere informazioni sulla sorte della ragazza. «Se volete scoprire qualcosa sul caso Orlandi, andate a vedere chi è seppellito nella basilica di Sant’Apollinare e il favore che all’epoca fece Renatino al cardinale Ugo Poletti», erano state le parole del telefonista a “Chi l’ha visto?”. E poco tempo dopo era arrivata in procura un’altra sconvolgente deposizione sul caso, quella della donna che fu l’amante di De Pedis nei primi anni 80, Sabrina Minardi, ex prostituta. Anche Sabrina Minardi dirà di riconoscere nella voce di “Mario” quella del bandito Giuseppe De Tomasi. E riferirà che Emanuela era stata rapita dagli uomini di De Pedis e tenuta prigioniera in un sotterraneo al quartiere Monteverde che il suo Renatino utilizzava come nascondiglio, un labirinto di cunicoli da cui si accedeva passando per la casa di alcuni amici di Danilo Abbruciati, un altro dei capi della Magliana, morto durante l’attentato al vicepresidente del Banco Ambrosiano, Roberto Rosone, e tra quelli della banda più vicino alla mafia siciliana e ai servizi segreti deviati: era Abbruciati che teneva i contatti col cassiere di Cosa nostra, Pippo Calò, con Roberto Calvi e con i faccendieri Francesco Pazienza, il consulente piduista dei servizi segreti militari e con Flavio Carboni, altro personaggio sempreverede della storia oscura di questo Paese, processato e assolto, com’è noto, per l’omicidio di Roberto Calvi. Marcinkus, lo Ior e le ragazze. L’ex amante di De Pedis accennò anche al movente del sequestro di Emanuela Orlandi: a quanto le avrebbe rivelato Renatino, il rapimento era stato voluto dall’arciverscovo Marcinkus, all’epoca presidente dello Ior. Il quale peraltro, proprio in quei giorni, si era trovato alle prese con il crack dell’Ambrosiano: «… La decisione era partita da alte vette… come se avessero voluto dare un messaggio a qualcuno sopra di loro. Era lo sconvolgimento che avrebbe creato la notizia», spiegherà Minardi. Sempre a proposito dell’arcivescovo Marcinkus, racconterà la testimone che era stata lei stessa ad accompagnare a casa del prelato ragazze disponibili, anche per assecondare il suo segretario, quest’ultimo a dire di Sabrina con un debole per le minorenni. De Pedis, secondo la sua ex amante, ogni tanto andava a casa di Marcinkus con borsoni zeppi di banconote, frutto del riciclaggio dei sequestri: «Mi ricordo – dirà – che Renato portava sempre delle grosse borse di soldi a casa. Sa, le borse di Vuitton, quelle con la cerniera sopra. Mi dava tanta di quella cocaina, per contare i soldi dovevo fare tutti i mazzetti e mi ricordo che contò un miliardo e il giorno dopo lo portammo su a Marcinkus». Il sotterraneo a Monteverde descritto dalla testimone, con annesso bagno murato, verrà effettivamente trovato dalla polizia, in via Pignatelli, vicino all’ospedale San Camillo. Ma non sarà scoperta alcuna traccia del passaggio in quei luoghi della ragazza rapita. Eppure una conferma, anche se generica, di un coinvolgimento della banda nel rapimento, arriverà in procura con le parole del pentito Antonio Mancini: «Si diceva in carcere che la ragazza era robba nostra. Che l’aveva presa uno dei nostri», dirà il pentito ai magistrati, che all’epoca del sequestro era detenuto. La pista Calvi. Anche l’Accattone, riascoltando la voce registrata del telefonista “Mario”, riconoscerà quella del fedelissimo di De Pedis. E durante un secondo interrogatorio in procura l’ex bandito farà anche il nome di uno dei possibili esecutori materiali del rapimento: quello di Libero Angelico, tipo freddo e spietato, uno che agli esordi rapinava blindati e una volta aveva assassinato un complice che si era impossesato del bottino, gli aveva sparato a bruciapelo mentre questo era seduto sulla poltrona del barbiere. In una successiva deposizione, a quanto riferirà lo stesso Accattone a chi scrive durante un’intervista, l’ex bandito illuminerà i magistrati sulle motivazioni del sequestro, con argomentazioni che in parte confermeranno i racconti, piuttosto confusi, di Sabrina Minardi. Dirà Antonio Mancini: «La Orlandi è opera della banda della Magliana, di quelli di Testaccio. Io di questo ne sono sicuro… Io sapevo perché dovevo saperlo perché erano voci che giravano tra noi del gruppo…Le ragioni già le ho dette e le ripeto oggi… per una questione di denaro che si collega all’attentato a Rosone, quando Abbruciati gambizza quello del Banco Ambrosiano perché si diceva che bisognava addolcire Rosone visto che metteva i bastoni tra le ruote a Calvi per recuperare i soldi che la banda – e non solo la banda, ma anche la mafia e altri poteri criminali finanziari – aveva investito su Calvi… Poi c’era stata l’impiccagione di Calvi… perché Calvi, terrorizzato, aveva cominciato a ricattare il Vaticano… e si era fatto pericoloso e allora uomini collegati al Vaticano dicono… bisogna eliminare Calvi perché ci sta creando dei problemi… e visto e considerato che nonostante queste pressioni i soldi non tornavano o quanto meno non tornavano tutti, allora, per far Roma 53 | giugno 2012 | narcomafie 54 | giugno 2012 | narcomafie Roma capire che chi aveva investito, cioè de Pedis, non si sarebbe fermato davanti a niente ... stabilirono di portare via questa ragazzina…». Ricordi e minacce: l’ombra di Marcinkus. Maurizio Abbatino detto Crispino, anche lui in cella quando Emanuela sparì, durante un’intervista Rai, negherà ogni coinvolgimento della banda della Magliana nel caso Orlandi: «Sono sicuro – dirà il pentito nel 2008 – che la banda della Magliana non c’entra niente con il caso Orlandi. Abbiamo fatto un sacco di cose orrende e gravi, non credo che mai nessuno sia arrivato a sequestrare una ragazzina». Soltanto un anno dopo, però, Abbatino cambierà la sua versione dei fatti. Confermando alla procura di aver saputo anche lui che la banda era implicata in quel misfatto: «c’era di mezzo un grosso prestito – dirà – fatto allo Ior da parte di quelli della Magliana ed Emanuela era stata scelta quasi per caso, come arma del ricatto». Aggiungerà qualche tassello a questo quadro agghiacciante Sabrina Minardi in una seconda deposizione davanti ai magistrati: Marcinkus, dirà ancora l’ex amante di De Pedis, si era invaghito della ragazza. «Io arrivai al bar del Gianicolo con una macchina... Renato mi aveva detto che avrei incontrato una ragazza che dovevo accompagnare al benzinaio del Vaticano… Arriva ’sta ragazzina: era confusa, non stava bene, piangeva… rideva. All’appuntamento c’era uno che sembrava un sacerdote… prese la ragazza… Poi io, dopo che ebbi realizzato chi era, dissi: “A Renà, ma quella non era...”. E lui: “Tu, se l’hai conosciuta, è meglio che non la riconosci. Fatti gli affari tuoi”. La Minardi dirà anche che durante il sequestro l’Arcivescovo Marcinkus si era presentato nella casa dove la giovane era segregata per violentarla brutalmente. Era una villa a Torvajanica e Sabrina Minardi, che era lì, aveva sentito la ragazzina urlare. «Io stessa insieme a De Pedis e Sergio (ovvero l’autista di Renatino, n.d.r.) portai la ragazza nella casa al mare. Doveva restare solo un giorno ma è rimasta 15 notti... De Pedis mi disse di farmi gli affari miei». Nulla osta per il “benefattore” De Pedis. Renatino non beveva, non fumava, non sniffava.Nell’88, due anni prima di essere assassinato, si era sposato con Carla Di Giovanni (10 anni più grande di lui, figlia dell’allora ex Presidene dell’Istituto Case Popolari) nella basilica di Sant’Apollinare. «Il giorno in cui ci sposammo – racconterà Carla Di Giovanni in un’intervista – mio marito mi indicò la cripta cimiteriale, in fondo alla navata sinistra e mi disse: “Quando mi tocca, piuttosto che al campo santo preferirei che mi mettessero qui”». E in effetti dopo i funerali, il corpo di De Pedis fu portato al cimitero comunale del Verano e lì tumulato, ma dopo qualche giorno fu trasferito nella cripta, secondo il volere del defunto. Era stato il rettore della basilica, monsignor Piero Vergari, ad accontentare Renatino. Lo aveva conosciuto in carcere e i due erano diventati amici: a quanto dirà lo stesso sacerdote De Pedis frequentava spesso la basilica e tutte le volte lo andava a trovare. Vergari, oltre che amministratore di Sant’Apollinare, dal ’78 prestava la sua opera come volontario a Regina Coeli, lavorava a fianco del cappellano titolare. Quest’ultimo, all’epoca, era padre Gianfranco Girotti, anche lui diventato monsignore: un prete accusato dai pentiti della banda, ma poi prosciolto da ogni accusa, di essere il postino clandestino dei detenuti, quello che faceva arrivare nelle celle droga e altri oggetti proibiti in cambio di “offerte per la Chiesa” Il cappellano Girotti divenne poi reggente della Penitenzieria Apostolica mentre Vergari, il rettore di Sant’Apollinare, fu mandato a lavorare presso la Nunziatura. A conferire quegli incarichi fu il cardinale Ugo Poletti, all’epoca vicario generale di Roma nonché presidente della Cei. Sensibilizzato da una lettera di monsignor Vergari, fu proprio Poletti a dare il nulla osta che esaudì il desiderio dell’ambizioso De Pedis. «Eminenza Reverendissima – fu la presentazione che Vergari fece al superiore di quel bandito assassino – il defunto è stato generoso nell’aiutare i poveri che frequentano la Basilica, i sacerdoti ed i seminaristi e in suo suffragio la famiglia continuerà ad esercitare opere di bene, soprattutto contribuendo nella realizzazione di opere diocesane...». Alla lettera Vergari volle allegare una nota di benemerenza: «Si attesta che il signor De Pedis, nato in Roma Trastevere il 15-5-1954 e deceduto a Roma il 2-2-1990 è stato un grande benefattore dei 55 | giugno 2012 | narcomafie Le responsabilità di Monsignor Vergari. La sepoltura avvenne senza clamore, la vedova pagò le spese del sepolcro, che costò 37 milioni di lire e fu eseguito da una ditta convenzionata con la Santa Sede. Accanto alla tomba di De Pedis quella di Giacomo Carissimi, il più grande compositore musicale del ’600. A Carla Di Giovanni furono date in consegna le chiavi del cancello di accesso alla cripta e la donna le restituì nel ’97, quando un articolo de «Il Messaggero» rese pubblico lo scandalo facendo partire un’indagine da parte della Direzione investigativa antimafia per anni rimasta senza sbocchi, fin quando la questione tornò alla ribalta con la riapertura delle indagini sul caso. «Il vero motivo per cui De Pedis fu seppellito nella basilica è strettamente connesso al mistero della scomparsa di Emanuela Orlandi – dichiarerà a sorpresa, pubblicamente, due anni fa il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, titolare delle indagini sul caso Orlandi –. E a differenza di quanto la famiglia ha fatto intendere con le sue dichiarazioni pubbliche, non fu De Pedis a chiedere di essere seppellito lì: perché abbiamo le prove che quel bandito alla morte non pensava affatto». Anche la moglie di De Pedis, interrogata sulla questione in procura, finirà per ammettere che quella ricostruzione data alla stampa non era esattamente la verità, sostenendo quindi di essere stata lei ad aver avuto l’idea di quella sepoltura, per rendere onore all’amato defunto e di averne così parlato col reggente della basilica, don Vergari. Ma Vergari, per motivi oscuri, dirà ai pm il contrario, confermando l’iniziale versione dei fatti così come raccontata dalla vedova ai giornali. Fatto sta che a maggio scorso i magistrati hanno deciso di iscrivere nel registro degli indagati Monsignor Vergari per il sequestro di Emanuela Orlandi. Il prete è stato formalmente accusato di aver organizzato il rapimento insieme ad altre quattro persone e cioè alla stessa ex amante di De Pedis, Sabrina Minardi, di fatto rea confessa del delitto, all’uomo ritenuto l’autista di Renatino e cioè tale Sergio Virtù – inguaiato pure da un’intercettazione del 2009, in cui dava a intendere alla propria amante di aver preso parte al misterioso rapimento – nonché ai presunti carcerieri della ragazza, due malavitosi che all’epoca della scomparsa di Emanuela gravitavano attorno ai Testaccini di De Pedis e chiamati Angelo Cassani, detto nell’ambiente Ciletto e Gianfranco Cerboni, soprannominato Giggetto. Mirella Gregori: maggio 1983. Nel battere la pista di un rapimento a sfondo sessuale, eseguito dalla mala all’ombra del Cupolone, i magistrati hanno deciso pure di accostare, unificando i fascicoli d’inchiesta, il caso Orlandi a quello, ugualmente irrisolto, di un’altra ragazzina sparita a Roma, all’età di 16 anni, il 17 maggio del 1983, cioè quaranta giorni prima della scomparsa di Emanuela: Mirella Gregori, figlia dei titolari di un bar vicino alla stazione Termini, via Montebello angolo via Volturno, dunque non cittadina vaticana ma tuttavia vista – e forse adocchiata, secondo chi indaga – almeno una volta nei sacri palazzi, dal momento che la giovane si era recata con la scolaresca un anno prima di sparire per un incontro con Karol Wojtyla, tant’è che una foto-ricordo di quell’evento, con Mirella sorridente accanto al Pontefice, era rimasta affissa Roma poveri che frequentavano la basilica e ha aiutato concretamente tante iniziative di bene che sono state patrocinate in questi ultimi tempi, sia di carattere religioso che sociale. Ha dato particolari contributi per aiutare i giovani, interessandosi specialmente alla loro formazione cristiana e umana». Roma 56 | giugno 2012 | narcomafie in bacheca per diversi mesi nella sede dell’ Osservatore Romano. Anche Mirella fu quasi sicuramente adescata da qualcuno che le aveva ispirato fiducia, perchè uscì di casa dopo aver risposto al citofono e ai genitori disse, mentendo, di avere appuntamento con amici che invece si trovavano altrove. Per questo da subito si ipotizzò un movente sessuale del rapimento. E già all’epoca si insinuò il sospetto che questo fosse maturato in ambienti contigui a quelli ecclesiastici: un’ipotesi fatta non solo da parte degli investigatori italiani ma anche dalla polizia della Santa Sede come dimostrato, se non altro, da una vecchia intercettazione telefonica. L’allora vicecapo della vigilanza vaticana, Raoul Bonarelli, era infatti entrato nelle indagini in qualità di sospettato perché la madre di Mirella aveva intravisto un uomo che somigliava al poliziotto parlare in più di un’occasione con sua figlia e una sua amica in un bar sotto la loro abitazione. E Bonarelli, che comunque uscì pulito dall’inchiesta, perché la madre di Mirella durante il confronto in procura non lo riconobbe, fu ascoltato dagli investigatori di allora mentre parlava con sua moglie dopo essere stato convocato in tribunale per quella faccenda, dicendo queste parole: “È uscito sul giornale di uno della sicurezza del Papa, quello che aveva adescato la figlia al bar, pensa un po’ ... Il parroco deve aver fatto il mio nome... Per me è uno di quelli che stava lì intorno in quel periodo... che ce ne ha avuti 3 o 4 di questi praticoni il prete, no?». Bonarelli fu di nuovo ascoltato negli anni 90 anche sul caso Orlandi dal giudice Rando, quando ancora era aperta la prima indagine che seguiva la pista del terrorismo internazionale legata all’attentato al Papa. Ma il giorno prima dell’interrogatorio, un’intercettazione documenta che Bonarelli fu imbeccato dal suo capo, che gli disse: «Che sai di Orlandi? Niente! Non dirlo, eh... che è andata alla Segreteria di Stato». Il fu Renato De Pedis. La notizia clamorosa dell’incriminazione di monsignor Vergari per il sequestro Orlandi è stata data all’indomani dell’apertura della tomba di Enrico De Pedis, avvenuta su ordine della procura di Roma il 14 maggio del 2012, dopo che sulla spinta degli appelli accorati, alle autorità italiane e vaticane, fatte dal fratello della ragazza scomparsa, Pietro Orlandi, l’annosa questione di quella sepoltura era arrivata in Parlamento, con un intervento del ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri, la quale, dopo aver studiato i vecchi documenti che nel ’90 autorizzarono il trasferimento della salma del boss nella basilica, si è accertata che di fatto la tumulazione nella cripta avvenne senza la pur prevista autorizzazione del Viminale, bensì soltanto con un via libera del Comune, il cui ufficio preposto, per errore o mala fede, definì all’epoca, erroneamente, Sant’Apollinare territorio inviolabile del Vaticano, quando in realtà la basilica è stata sempre sotto la giurisdizione italiana. La Santa Sede già nel 2010, in risposta alle polemiche per il silenzio imbarazzante, aveva dato il suo nulla osta alla riesumazione del cadavere di Renatino. Tuttavia, solo due anni dopo questa è stata ordinata dai magistrati capitolini, dunque con un ritardo enorme apparentemente inspiegabile se non fosse stato che gli inquirenti, più volte, abbiano affermato che la riesumazione nulla di utile avrebbe aggiunto alle indagini sul caso e che soprattutto non c’era alcun motivo per sospettare che nella cripta, al posto di De Pedis, ci fossero i resti della ragazza. Come si voleva dimostrare l’apertura della tomba è stato un evento sì emozionante, ma alla fine alquanto deludente. Lì dentro altri non c’era che il Fu Renatino col vestito del funerale, blu scuro, la cravatta e la camicia bianca, ormai ingiallita e la pelle del viso ancora parzialmente integra, anche se la faccia era ormai irriconoscibile. Dalle mani quasi intatte è stato possibile prelevare le impronte digitali e i risultati degli esami hanno fugato ogni dubbio. All’interno della cripta, anche se in un luogo diverso da quello dove Renatino riposava, sono state trovate, ammassate, 200 ossa, quasi tutte di persone morte centinaia di anni fa. Qualcuna, però, è recente, di gente defunta da 30 anni, proprio quando Emanuela sparì. La fine del giallo è attesa entro l’estate, quandi la procura renderà pubblici i risultati degli esami del Dna che si stanno svolgendo su quelle ossa. Per l’autunno, invece, è attesa la discovery di tutte le carte sulla nuova inchiesta per la scomparsa di Emanuela. altarisoluzione 58 | giugno 2012 | narcomafie La battaglia di Cherán Cherán è un paese di circa ventimila anime adagiato sulle montagne dello stato di Michoacán, nel centro del Messico. Si trova a più di duemila metri sul livello del mare ed è circondato da boschi che, negli ultimi anni, si sono andati assottigliando. La storia recente di Cherán ci offre un esempio dell’esasperazione della popolazione messicana nei confronti del crimine organizzato, ma anche della forza che possiamo avere se ci organizziamo contro le mafie. Gli abitanti di Cherán sono indigeni purépechas che, come tutte le nazioni indigene d’America, hanno un rapporto speciale e intimo con quella che chiamano Pacha Mama, la Madre Terra. I nativi americani comprendono in modo spirituale Testo e foto di Emma Volonté 59 | giugno 2012 | narcomafie 60 | giugno 2012 | narcomafie la connessione presente tra la natura e gli esseri umani, relazione difficile da afferrare per la nostra concezione giudaico-cristiana, secondo cui solo gli essere umani hanno un’anima. Per i purépechas, al contrario, i boschi e le fonti d’acqua sono vivi e sacri, e vanno pertanto amati e difesi. Da tempo i talamontes, come si definiscono i tagliaboschi illegali, avevano preso di mira le foreste che circondano Cherán. Le elezioni municipali del 2007 crearono una spaccatura all’interno del paese, e i tagliaboschi approfittarono delle tensioni per portarsi via tonnellate di legna: dai dieci ai venti camion al giorno attraversavano le strade del paese, carichi di pini e querce. Dal 2008 ad oggi, a Cherán sono stati abbattuti 28mila ettari di foresta, l’80% della superficie totale. (A pag. 62 segue articolo di approfondimento) altarisoluzione 61 | giugno 2012 | narcomafie altarisoluzione - approfondimento 62 | giugno 2012 | narcomafie Sulle barricate Spietati tagliaboschi nello stato di Michoacán stanno devastando il territorio. Dietro di loro, i disegni di criminali organizzati che sul contrabbando di legname fanno affari d’oro. Ma la popolazione non ci sta Durante l’insurrezione i bambini avevano smesso di andare a scuola perché la criminalità organizzata minacciava attentati e gli insegnanti decisero di fare lezione intorno ai falò di Emma Volonté Quando il crimine organizzato, molto presente nello Stato di Michoacán, si rese conto degli introiti che potevano derivare dal commercio clandestino di legna, volle la sua fetta di torta. Secondo uno studio della Banca mondiale dal titolo “Giustizia per i boschi. Migliorando gli sforzi della giustizia penale per combattere il disboscamento illegale”, a livello planetario la vendita illegale di legna genera introiti per una cifra compresa tra i 10 e i 15 miliardi di dollari. In Messico, la maggior parte dei proventi derivati dal commercio della legna finisce nelle casse del crimine organizzato. Parte di questo denaro – continua lo studio – viene utilizzato per pagare funzionari corrotti a tutti i livelli di governo: locale, statale e federale. Le leggi di protezione delle risorse boschive in Messico non vengono applicate proprio a causa della corruzione, ma anche dei problemi di coordinamento tra le autorità, e la probabilità che un depredatore forestale messicano venga sanzionato è una delle più basse del mondo: si parla di meno di un arresto ogni cento tagliaboschi clandestini. Non talamontes qualunque. Gli uomini del crimine organizzato dello Stato di Michoacán, appartenti al cartello denominato La Familia Michoacana, hanno saputo approfittare di questa situazione di impunità generalizzata mettendosi all’entrata del bosco di Cherán e chiedendo 1.000 pesos (circa 60 euro) ai tagliaboschi per ogni camion che usciva, offrendo in cambio protezione nei confronti della popolazione locale. La tensione tra i tagliaboschi e gli abitanti di Cherán era infatti palpabile. «Vivevamo il disboscamento delle nostre foreste per opera dei talamontes, ma non avevamo capito che dietro di loro c’era il crimine organizzato. Poi, visto che la situazione continuava e che si trattava di una vera e propria devastazione, abbiamo iniziato a pensare che non potevano essere talamontes comuni. Così abbiamo indagato e abbiamo scoperto che dietro di loro c’era gente armata, appartenente a un cartello del narcotraffico», racconta a «Narcomafie» José Merced Velázquez, abitante di Cherán. La sorgente d’acqua. Il conflitto esplose quando i tagliaboschi iniziarono ad abbattere gli alberi secolari che proteggevano la sorgente che rifornisce d’acqua tutto il paese: il 15 aprile 2011, alle 6 del mattino, un gruppo di donne e giovani bloccarono con pali e pietre tre camion dei tagliaboschi. Fermarono cinque di loro per consegnarli alle autorità e, nello scontro, una persona ricevette una pallottola nella testa. La popolazione riuscì comunque a cacciare i criminali, che nella fuga incendiarono il bosco. «L’insurrezione è iniziata perché i criminali toccarono la nostra più grande sorgente d’acqua – spiega José Merced Velázquez –. A quel punto abbiamo reagito: per noi purépecha il bosco e l’acqua sono sacri, perché sono le fonti della nostra vita. Consideriamo la natura come parte di noi stessi, quando toccarono la zona dove si genera l’acqua ci siamo sentiti come se ci avessero attaccato. Abbiamo reagito come gli essere viventi che siamo, in relazione all’acqua e all’aria. Da tempo parlavamo di fare qualcosa per fermare i talamontes, ma l’insurrezione si è data in modo spontaneo: la gente iniziò a bloccare i camion che passavano per il paese, inizialmente furono le donne, poi ci siamo aggiunti tutti». «Di fronte all’umiliazione che viveva la nostra comunità e all’inerzia da parte del governo, che non agiva contro i talamontes malgrado le nostre denunce, noi donne abbiamo dato vita alla lotta per la difesa dei boschi, della nostra casa che è Cherán – racconta Alicia –. La storia della nostra comunità è frequente in Messico, dove i popoli nativi vengono spogliati delle loro risorse naturali e dei luoghi sacri che i nostri avi ci hanno lasciati in eredità, e che noi vogliamo lasciare ai nostri figli e nipoti». Anche Angelina ricorda il coraggio che la mosse in quei giorni: «Non eravamo più liberi di uscire in strada ed avevamo paura per i nostri bambini. Abbiamo iniziato a parlare fra noi per decidere il da farsi, e un giorno abbiamo preso in mano i bastoni. Ora siamo liberi e non abbiamo più paura». Barricate in paese. Il 15 aprile 2011, dopo aver cacciato la criminalità organizzata, la gente di Cherán ha costruito barricate alle tre entrate del paese, per impedire il passaggio dei tagliaboschi. José Merced Velázquez racconta come la comunità si è organizzata per difendersi: «Ancora oggi c’è una barricata a ogni entrata, siamo pronti per qualsiasi eventualità. La nostra priorità è assicurare la sicurezza di tutti, e lo abbiamo fatto creando posti di vigilanza in tutto il paese, che poi abbiamo chiamato “falò”: sono fuochi intorno ai quali ci riuniamo riscaldati dalla legna». Sono stati creati centinaia di falò in tutta Cherán, per permettere a chi vigilava le strade di ripararsi dal freddo pungente della montagna michoacana. I falò si sono presto convertiti in luoghi di aggregazione e interscambio, in una comunità che nella sua coesione ha trovato la forza per lottare contro un potere che a molti sembra invincibile. Il fuoco ha inoltre un significato particolare nella cultura purépecha, come spiega a «Narcomafie» Jurhamuti José Velázquez Morales: «In lingua purépecha si parla di khurikhua k’erhi, il grande fuoco, elemento creatore e generatore di vita, luce, pace e dialogo. Per noi il fuoco ha una grande importanza, è sempre presente nelle feste e nei rituali, ad esempio in quelli relativi alla medicina tradizionale o nei matrimoni. Parhankua è il falò, il fuoco sul piano mondano, intorno a cui possiamo dialogare e condividere, addirittura imparare: quando c’è stata l’insurrezione i bambini avevano smesso di andare a scuola perché la criminalità organizzata minacciava attentati, e i maestri e le maestre hanno deciso di fare lezione intorno ai falò. Intorno alla parhankua i bambini imparano anche la nostra lingua purépecha, che si sta perdendo, o attività che sono state assorbite nel processo di acculturazione occidentale, come fare legna o preparare pietanze locali. Il fuoco ha quindi per noi un significato storicosociale molto importante, e oggi acquista una valenza in più: lo abbiamo ripreso nel nostro processo di organizzazione contro la criminalità, lo utilizziamo per proteggerci, per tenerci allerta e caldi. È diventato la cellula del nostro movimento, intorno al falò parliamo della nostra lotta e di ciò che succede nelle nostre famiglie». La comunità ha organizzato ronde per proteggere la foresta dai tagliaboschi, in 18 hanno perso la vita negli scontri con il crimine organizzato. L’ultimo episodio si è registrato il 18 aprile scorso altarisoluzione - approfondimento 63 | giugno 2012 | narcomafie Niente elezioni contro la corruzione altarisoluzione - approfondimento 64 | giugno 2012 | narcomafie Oggi la criminalità organizzata e i camion pieni di legna non passano più per il paese, ma continuano ad operare – seppur in modo ridotto – nei boschi che la circondano. La comunità organizza ronde per proteggere la foresta dai tagliaboschi, sono diciotto gli abitanti di Cherán morti negli scontri con il crimine organizzato. L’ultimo episodio si è registrato il 18 aprile scorso, quando un gruppo di venti persone impegnate in lavori di riforestazione fu vittima di un’imboscata: due persone vennero ferite e altre due trovarono la morte. Nello stesso luogo, il mese precedente, undici persone furono sequestrate. Gli impresari dell’avocado. Il commercio illegale di legna non è l’unico affare che la criminalità organizzata sta facendo alle spalle degli abitanti di Cherán: una volta abbattuti gli alberi, la zona viene bruciata e si converte in terreno adatto alla coltivazione. Non a caso, negli ultimi anni sono spuntati impresari che chiedono l’utilizzo dei terreni per seminare piante di avocado, coltivazione molto comune nello Stato di Michoacán. La gente di Cherán sostiene che gli “impresari dell’avocado” lavorano in accordo con il crimine organizzato e criticano la scelta di coltivare questa pianta perché ha bisogno di molta acqua, non è adatta al tipo di suolo ed è destinata all’esportazione invece che al consumo interno. Un momento importante nella storia di Cherán fu il novembre 2011. Si sarebbero dovute tenere le elezioni locali, ma la comunità decise di non lasciare entrare i candidati alla presidenza municipale: «Abbiamo deciso di non celebrare le elezioni perché il sistema elettorale messicano propizia la corruzione e fa vincere chi in realtà ha perso. Il presidente municipale di allora era colluso con la criminalità organizzata, che lo proteggeva in cambio della sua connivenza: abbiamo denunciato i criminali alle autorità molte volte, ma non hanno mai fatto nulla», denucia José Merced Velázquez. Inoltre, secondo la gente di Cherán, i partiti promuovono l’individualismo e dividono la comunità, creando tensioni tra persone di differente affiliazione politica. Il crimine organizzato approfitta di queste divisioni per portare avanti il disboscamento clandestino della foresta. Una volta cacciati i partiti, gli abitanti di Cherán decisero di governarsi “per usi e costumi”: elessero le loro autorità attraverso il sistema assembleario con cui i loro avi gestivano la cosa pubblica prima della conquista da parte degli spagnoli, che imposero lo Stato-nazione e la democrazia rappresentativa. Per evitare che i partiti politici collusi con la criminalità organiz- zata tentassero di organizzare altre elezioni, invalidando il processo politico portato avanti dagli abitanti di Cherán, questi chiesero al Tribunal Electoral del Poder Judicial de la Federación (l’organo federale incaricato di risolvere le controversie in materia elettorale) di indire un referendum per chiedere alla popolazione se volesse governarsi “per usi e costumi” o attraverso il sistema costituzionale. La legge non contempla esplicitamente il diritto dei popoli indigeni di governarsi secondo il sistema tradizionale, ma il Messico ha ratificato dei trattati internazionali che regolano la materia. In particolare, la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Popoli indigeni e il Convegno 169 dell’Oil, che stabilisce diritti in capo ai popoli nativi sul proprio territorio e sulla propria forma di governo, prevedendo il rispetto, da parte dello Stato e le sue istituzioni, dei costumi e del diritto consuetudinario indigeno. «La normativa internazionale ci ha permesso di appellarci al Tribunal Electoral del Poder Judicial de la Federación, e la sua sentenza fu una sopresa per tutti – prosegue José Merced Velázquez –. Noi indigeni messicani siamo abituati a vedere le istituzioni sempre dalla parte dei potenti, ma quella volta il tribunale ci diede ragione, stabilendo il nostro diritto ad eleggere le autorità attraverso il sistema “per usi e costumi”. Al referendum solo otto persone hanno votato a favore del sistema partitario, e le elezioni secondo il sistema tradizionale purépecha si sono svolte il 22 gennaio. Fu una festa, il riconoscimento legale delle nostre autorità è stata una grande vittoria: ora abbiamo un governo collettivo, non individuale e personale, e le istituzioni statali e federali devono rivolgersi a tutte le dodici persone che ne fanno parte. Abbiamo anche cacciato l’esercito e la polizia imposta dal governo, e ora noi stessi eleggiamo chi si occupa di garantire la sicurezza nel paese». Non più i corrotti poliziotti messicani, spesso collusi con la criminalità organizzata, ma persone scelte dagli abitanti di Cherán, in base alla loro affidabilità e rigore morale. La storia di Cherán ha ispirato altre comunità messicane a cui la criminalità organizzata non permette una vita serena. Lo scorso giugno la gente di Huamuxtitlán, nello Stato di Guerrero, ha liberato diciassette persone sequestrate dal cartello de Los Zetas e ha fermato sei dei suoi membri. Il sindaco e le altre autorità di Huamuxtitlán, assicurano gli abitanti, sono collusi con la criminalità organizzata. Lugano Gerardo Cuomo dovrà essere giudicato ancora una volta dalla Corte d’Appello di Bari che, dopo averlo assolto per due volte in tre anni (febbraio 2008 e gennaio 2011) dall’accusa di associazione mafiosa, sarà chiamata a giudicarlo per la terza. Lo ha deciso nei giorni scorsi la Corte di Cassazione che ha annullato con rinvio ai giudici baresi la sentenza con cui la stessa Corte d’Appello aveva stabilito che Cuomo, uno dei quattro «broker» internazionali – titolari di una licenza che consentiva l’importazione in Montenegro di 25mila casse di tabacchi lavorati esteri al mese –, non avesse mai fatto parte della «Tobacco Connection». Per Cuomo, napoletano d’origine, ma operativo in Svizzera, occorrerà un terzo giudizio di merito (sul perché sarà necessario attendere le motivazioni del Supremo Collegio). Cuomo dovrà tornare in aula per difendersi dall’accusa di avere fatto parte della presunta Colombia, scoperti cimiteri clandestini Bogotà Accompagnata da un capo paramilitare smobilitato, una delegazione dell’Unità di giustizia e pace della procura generale colombiana ha localizzato 180 fosse nelle località di Unguía e Necoclí, situate, rispettivamente, nei dipartimenti nord-occidentali di Chocó e Antioquía. Secondo le indicazioni di Freddy Rendón Herrera, alias El Alemán, già capo del Bloque Elmer Cárdenas delle Autodifese unite della Colombia (Auc), conterebbero almeno 150 cadaveri di persone assassinate da diversi squadroni della morte di estrema destra un tempo attivi nella regione Urabá. Rendón ha dichiarato che si tratta di vittime del conflitto interno uccise tra il 1995 e il 1999. Ma nelle fosse di Necoclí sarebbero stati occultati anche i corpi di diversi membri dei più temuti squadroni, dalla Casa Castaño, che prende il nome dagli storici fondatori delle Auc, al fronte Arlex Hurtado e al Bloque Bananero. El Alemán e i membri del suo fronte, oltre 1500, deposero formalmente le armi tra l’aprile e l’agosto 2006. Fra il 2003 e il 2006 furono in totale 32mila, sulla carta, i paramilitari smobilitati come risultato. rassegna stampa internazionale “Tobacco connection”, annullata assoluzione a Cuomo associazione mafiosa che, secondo la Dda di Bari (e alcune sentenze), tra il 1996 e il 2000 avrebbe introdotto in Puglia dal Montenegro mille tonnellate al mese di tabacchi, riciclando denaro in Svizzera. Le sigarette venivano importate in Montenegro (il Governo imponeva una tassa di 55 dollari per cassa), stoccate dalla «Zetatrans», società a partecipazione pubblica, e introdotte illegalmente in Italia via mare da contrabbandieri pugliesi e campani che gestivano i loro affari dalla latitanza dorata nel Montenegro. Le sigarette, una volta giunte sulle coste a bordo di motoscafi, venivano immesse sul mercato nero. I pagamenti dei fornitori venivano effettuati in Svizzera dove il denaro veniva trasportato in contanti tramite corrieri a bordo di auto piene di lire, dollari e franchi svizzeri. Già nel primo rinvio i giudici avevano rispedito tutto a Bari affinché una diversa sezione riesaminasse la questione Cuomo. In quell’occasione era stato suggerito ai giudici di merito di rivalutare le prove per Cuomo partendo dalla presunta riconducibilità di alcune sue società in contatto con la Zetatrans, alla sua «qualità di fiduciario della Philip Morris in Svizzera e di concessionario del governo montenegrino per l’importazione». a cura di Stefania Bizzarri 65 | giugno 2012 | narcomafie 66 | giugno 2012 | narcomafie è stato ben fatto», ha stimato la cronista. Patrucic ha anche aggiunto che questi documenti dimostrano chiaramente che la Prva Banka ha commesso numerose infrazioni. L’inchiesta scoppia in un momento di forte crisi finanziaria del Paese. Il debito pubblico montenegrino sfiora 1,5 miliardi di euro: una spirale che potrebbe presto portare il Montenegro alla bancarotta, considerando inoltre che il Paese segue i criteri di stabilità dettati del trattato di Maastricht perché utilizza l’euro, pur senza averne mai avuto un’autorizzazione formale. Montenegro: Prva Bank, il bancomat del clan Djukanovic Podgorica Documenti confidenziali metterebbero in luce le strette relazioni della famiglia di Milo Djukanovic, ex primo ministro del Montenegro e attuale presidente del partito politico al potere (Dps), con la banca «Prva» (“Prima” ndr), i cui azionisti di maggioranza sono parenti prossimi di Djukanovic stesso. Un’inchiesta condotta congiuntamente dalla Bbc e dall’«Organized crime and corruption reporting project» (Occrp) dimostra che la maggioranza dei fondi depositati sui conti di questa banca proviene da capitali pubblici e che i due terzi dei prestiti accordati dalla stessa sono stati destinati a Milo Djukanovic, a collaboratori prossimi e a familiari. L’inchiesta di Occrp ha dimostrato che lauti presititi sono stati erogati anche alle società legate al faccendiere Stanko Subotic, accusato in Italia di traffico di sigarette, e Darko Saric, trafficante di stupefacenti latitante dal 2010. Milo Djukanovic e i dirigenti di Prva Banka si sono rifiutati di rispondere alle domande dei giornalisti. Miranda Patrucic, giornalista dell’Occrp, afferma che la famiglia Djukanovic e i suoi collaboratori si servivano della banca «come un distributore di contanti». Miranda Patrucic per tre anni ha seguito l’attività della Prva Banka:« Il fatto che alti funzionari non si siano pronunciati in pubblico né abbiano contestato l’autenticità o l’esattezza dei dati indica che il nostro lavoro Mafia balcanica, album di famiglia Sarajevo Naser Kelmendi è nato a Pec, in Kosovo, 55 anni fa. Dopo la guerra si è stabilito a Sarajevo. In dieci anni ha costruito «un vero impero criminale», secondo le stime dei servizi segreti bosniaci. Noto all’Interpol, Naser Kelmendi è stato recentemente iscritto sulla «lista nera» degli Stati Uniti perché sospettato di transazioni finanziarie derivanti da capitali accumulati grazie al traffico di droga. Naser Kelmendi non è mai stato giudicato da un tribunale bosniaco, tuttavia, insieme al fratello e i figli, è sospettato di differenti crimini: traffico di droga e armi, contrabbando di sigarette, riciclaggio e usura. Il clan formerebbe una delle più potenti reti criminali dei Balcani e costituerebbe il canale principale del transito di droga in Europa via ex Yougoslavia. Negli anni i servizi segreti sono riusciti a costituire un voluminoso dossier sul clan Kelmendi, al quale sarebbero legati importanti personalità della Bosnia-Herzegovina, del Kosovo e del Montenegro. In questo vero e proprio album di famiglia delle reti criminali balcaniche ritroviamo Naser Oric, già capo della difesa bosniaca a Srebrenica; Nihad Bojadzic, ex colonnello dell’Esercito di Bosnia-Herzegovina; Ekrem Luka, businessman del Kosovo, Ramush Haradinaj, ex primo ministro kosovaro. Tra questi nomi figura anche quello di Fahrudin Radoncic, neoministro dell’Interno di Bosnia. Anche se Radoncic ha smentito di intrattenere qualsiasi tipo di relazione con Naser Kelmendi, un’inchiesta condotta nel 2010 dal Centro per il giornalismo investigativo di Sarajevo (Cin) provava la vicinanza dei due attraverso la conclusione di affari comuni nel settore immobiliare tra Zenica e Sarajevo, dove Kelmendi possiede l’hotel di lusso “Casa Grande”. I rapporti di Fahrudin Radoncic con il crimine organizzato ritornano dunque di attualità nel momento della sua investitura a ministro della Sicurezza, ma non sono una sorpresa. Nel 2010 un cablogramma dell’ambasciata degli Stati Uniti lo definiva un «magnate dei media, potente, corrotto e vendicativo». Sempre secondo il documento «Radoncic era in procinto di ottenere un ruolo politico per evitare di essere condannato a causa delle sue attività illegali». Installarsi al posto del ministero di Sicurezza potrebbe essere già un buon inizio. Quito L’Ecuador sta diventando un paese sempre più “attraente” per il narcotraffico e il riciclaggio di denaro proveniente da attività criminali a causa della sua prossimità con i principali produttori e consumatori di cocaina e alla sua economia “dollarizzata”. «Il fatto di avere come vicini due paesi che producono droga come Colombia e Perù ha fatto sì che i ‘narcos’ abbiano cominciato a utilizzare l’Ecuador come teatro dei loro affari o per il trasporto degli stupefacenti», ha avvertito il direttore dell’Unità di analisi finanziarie (Uaf), Gustavo Iturralde. In più, aver adottato il dollaro, nel 2000, ha spinto anche il riciclaggio, reato peraltro non codificato fino al 2005. I settori più esposti al riciclaggio, che secondo Iturralde arriva a rappresentare il 3% del Prodotto interno lordo nazionale (in totale pari a 21,5 miliardi di euro), sono l’edilizia, l’industria automobilistica e le piccole cooperative che ricevono e inviano il denaro degli emigrati. Altro motivo di preoccupazione per le autorità del paese andino, è la presenza dei cartelli della droga messicani: sebbene, secondo l’Uaf, non si siano ancora stabiliti in Ecuador, lo utilizzano da tempo per i loro traffici. A dimostrarlo, tra l’altro, ha contribuito anche l’incidente aereo avvenuto la scorsa settimana quando un velivolo messicano che volava a bassa quota si è Turchia, soluzione per il popolo curdo? Ankara La deputata turca Leyla Zana, nota per le sue posizioni filo curde, è convinta che il premier Recep Tayyip Erdogan risolverà la questione curda. «Non ho mai perso la speranza in lui», ha detto la Zana in un’intervista al quotidiano «Hurriyet», pubblicata oggi. «La persona che è a capo del più forte governo nella storia (del paese, ndr) è in grado di dimostrare la volontà e il potere di risolvere la questione – ha detto la Zana –. Credo ci riuscirà». Nell’intervista la Zana conferma quanto scritto pochi giorni fa dal direttore di «Hurriyet», Murat Yetkin, in un editoriale in cui sosteneva che «la scena politica del paese sta convergendo rapidamente verso la cooperazione (tra i due maggiori partiti) sul problema cronico dei curdi». Il 6 giugno scorso il premier Erdogan ha ricevuto il capo del Partito repubblicano del popolo (Chp, maggiore forza dell’opposizione), Kemal Kilicdaroglu, per discutere con lui di una soluzione definitiva alla questione curda. La proposta di Kilicdaroglu di creare una commissione mista in parlamento per redigere una road map per la soluzione del problema curdo è stata accolta da Erdogan, il quale ha sottolineato inoltre che «intende collaborare con il Chp» anche nel caso in cui il partito filo curdo per la pace e la democrazia (Bdp) e il Partito del Movimento nazionalista (Mhp) decidano di non prendere parte alla commissione. «La posizione assunta da Erdogan – scrive Yetkin – è stata una vera sorpresa e rappresenta la prima opportunità nella storia della Turchia per trovare un consenso sul problema curdo che ha causato oltre 40 mila morti negli ultimi tre decenni». L’Mhp e il Bdp, nel frattempo, hanno annunciato di non voler aderire alla commissione parlamentare. È quindi probabile che saranno i due maggiori partiti, Giustizia e sviluppo (Akp) e Partito del popolo repubblicano (Chp, erede di quello fondato dal padre dei turchi, Mustafa Kemal Ataturk) a creare una “grande coalizione” per risolvere il problema curdo. Secondo Yetkin, «l’intera regione potrebbe beneficiare di una soluzione della questione curda e la responsabilità è nelle mani di Erdogan e Kilicdaroglu». Nel frattempo Erdogan ha annunciato l’intenzione del governo d’introdurre lezioni facoltative di lingua curda nelle scuole a partire dal prossimo anno. «Il curdo sarà insegnato come materia facoltativa se ne fa richiesta un numero sufficiente di studenti. È un passo storico», ha affermato Erdogan in un discorso tenuto in parlamento ai deputati dell’Akp. L’introduzione del curdo nelle scuole fa parte della nuova riforma dell’istruzione in Turchia, che permetterà agli studenti di scegliere le scuole religiose islamiche e studiare la religione musulmana come materia facoltativa. rassegna stampa internazionale Ecuador nelle mire dei narcos messicani schiantato a terra nella provincia nord-occidentale di Manabí: a bordo, oltre ai corpi dei due passeggeri, messicani, è stata trovata una valigia contenente un milione e mezzo di dollari. a cura di Stefania Bizzarri 67 | giugno 2012 | narcomafie 68 | giugno 2012 | narcomafie La ricerca dei figli dei desaparecidos Argentina chiama Italia Nel nostro paese potrebbero trovarsi figli di desaparecidos argentini, cresciuti da famiglie che hanno tenuto nascoste le loro origini. Una campagna lanciata dalla Rete per il diritto all’identità raccoglie l’appello delle nonne di Plaza de Mayo: madri che mai più rivedranno i figli torturati e uccisi, ma che sperano di trovare i propri nipoti Foto di Anvica di Viviana Pansa 69 | giugno 2012 | narcomafie Sono 395 i figli di desaparecidos che ancora mancano all’appello delle “Abuelas de Plaza de Mayo” rilanciato in Italia dalla Rete per il diritto all’identità, gruppo di associazioni, ong, onlus e istituzioni pubbliche che promuovono anche nel nostro paese la campagna per la ricerca di giovani desaparecidos. Le mamme argentine dei cittadini torturati ed uccisi nel periodo della dittatura militare credono infatti nella possibilità che alcune delle famiglie che hanno ricevuto neonati sottratti a desaparecidos siano emigrate in Europa e in particolare in Italia, visti i vincoli che intercorrono tra i due paesi, in seguito al default economico del 2001 e al difficile contesto economico e sociale ad esso associato. Storia di Estela. C’è dunque la possibilità che in Italia vivano figli, oggi trentenni o trentacinquenni – la dittatura militare governò il Paese sudamericano dal 1976 al 1983 – che non conoscono la loro vera identità e storia, o che sospettino di non appartenere al nucleo familiare in cui sono cresciuti. Proprio a loro è rivolta la campagna messa in campo con il sostegno della Commissione per il diritto all’identità (Conadi) della Repubblica Argentina e annunciata nei giorni scorsi in una conferenza stampa alla Camera dei Deputati. Un’iniziativa organizzata in occasione dell’arrivo in Italia di Estela Carlotto, donna simbolo della battaglia dell’associazione delle nonne di Plaza de Mayo, di cui è presidente. Accompagnata dal parlamentare argentino Horacio Pietragalla, anch’egli figlio di desaparecidos e di origine italiana, Estela Carlotto ha incontrato il 29 maggio scorso il Comitato per i diritti umani della Camera, a cui sono state rivolte alcune richieste per l’identificazione di vittime della dittatura e il sostegno a questa nuova iniziativa che ha portato già al ritrovamento di 105 tra i nietos sottratti. La vicenda di Estela è raccontata nel film Verdades verdaderas. La vita de Estela, proposto recentemente in prima visione italiana al Nuovo Cinema Aquila di Roma: sposata con Guido Carlotto, imprenditore la cui famiglia era originaria di Arzignano (Vi), subì, oltre al sequestro del marito, rilasciato dietro riscatto, la scomparsa della figlia, Laura Estela, la quale prima di essere uccisa partorì, nell’ospedale militare di Buenos Aires, il 26 giugno del 1978 – come riporta il sito internet della onlus 24 marzo (http://www.24marzo.it), da tempo impegnata a fianco dei familiari delle vittime della dittatura argentina – il figlio Guido, a tutt’oggi non ancora ritrovato. Un legame a filo doppio. Sarebbe sufficiente rileggere i nomi di questa drammatica vicenda familiare per comprendere come la storia dell’emigrazione italiana in questo paese si confonda sino a diventare un tutt’uno con la storia più recente del popolo argentino. «Se l’emigrazione italiana all’estero ha costituito una delle parti più rilevanti della nostra storia nazionale, la nostra collettività emigrata in Argentina ne ha certamente vissuto le pagine più drammatiche», ha affermato nel corso della conferenza stampa Fabio Porta, deputato eletto nella cir- coscrizione Estero. Ma è forse solo scorrendo i nomi di coloro che si sono costituiti parte civile nei processi celebrati dal Tribunale di Roma a carico di alcuni esponenti dei vertici militari delle dittature latinoamericane (come Alfonso Podlech, procuratore militare ai tempi di Pinochet, o Emilio Eduardo Massera, capo di Stato maggiore della Marina militare argentina) che prendono corpo i risvolti concreti di questa fusione. Risvolti che sono ferite aperte nella memoria di un popolo e non solo. Di uno Stato, ma non solo. Per questo anche l’Italia è chiamata oggi a fare la sua parte. Perché sia fatta giustizia, ma anche per contribuire alla ricerca della verità su quei fatti, perché non si dica, oggi come allora, che i figli dei desaparecidos sarebbero stati in realtà “nascosti all’estero” e le rivendicazioni di queste nonne senza fondamento. Illazioni che Tonio Dell’Olio, di Libera Internazionale, afferma di aver ascoltato ancora l’anno scorso nel corso di una consultazione promossa dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine. L’Argentina tiene a far sapere al mondo che sta facendo la sua parte, così come ha sottolineato Carlos Cherniak, responsabile dei diritti umani per l’ambasciata argentina a Roma, e come dimostra il sostegno alla campagna della Commissione per il diritto all’identità del governo argentino. Ma il salto di qualità nella riuscita e per la reale portata di questa battaglia è affidato ancora una volta all’impegno della società civile. Per info: www.retexi.it. Donna simbolo della battaglia dell’associazione delle nonne di Plaza de Mayo, Estela Carlotto ha incontrato il 29 maggio scorso il Comitato per i diritti umani della Camera, a cui sono state rivolte alcune richieste per l’identificazione di vittime della dittatura e il sostegno a questa nuova iniziativa che ha portato già al ritrovamento di 105 tra i nietos sottratti 70 | giugno 2012 | narcomafie criminalità e dintorni cronachesommerse di Andrea Giordano Instabile Libia A breve distanza dalle elezioni – rinviate a luglio – che dovrebbero darle una nuova assemblea costituente, la Libia è teatro di attentati e violenze estremiste, indici dell’elevata instabilità che regna nel Paese otto mesi dopo la sua “liberazione”. Attacchi a catena sono stati portati a termine a Bengasi: un veicolo dell’ambasciata del Regno Unito è stato di recente colpito da un razzo anticarro. All’inizio di giugno un ordigno è stato fatto esplodere di fronte alla sede diplomatica degli Stati Uniti. In maggio, erano stati attaccati gli uffici del Comitato internazionale della Croce Rossa (la medesima organizzazione è stata colpita anche pochi giorni fa a Misurata), mentre in aprile una bomba era stata scagliata contro un convoglio della missione Onu in Libia. Sempre a Bengasi, focolaio della ribellione dell’anno scorso contro il regime di Gheddafi, sono stati notati nell’ultimo mese miliziani a bordo di pickup con vessilli neri jihadisti, e centinaia di ex ribelli armati sono scesi in piazza chiedendo l’istituzione della legge islamica (Sharia). Ai primi di giugno anche l’aeroporto di Tripoli è stato preso d’assalto per una giornata da uomini della milizia Al Awfiya, in segno di protesta per il rapimento del loro leader. L’ordine è poi stato riportato da altri miliziani – appartenenti alle Forze rivoluzionarie della cittadina di Zindan – che agiscono su mandato delle autorità libiche. Nella capitale, come pure a Bengasi, gruppi di islamisti armati hanno devastato tombe e luoghi santi della comunità sufi. Ad oggi in Libia è stata reintegrata nelle nuove, embrionali forze di sicurezza solo una piccola parte degli ex ribelli ancora in armi, e molte zone sono ancora controllate da milizie. A Derna, ad esempio, sono avvenuti numerosi scontri tra fazioni armate ed attentati, tra cui quello – fallito – ai danni di Abdel Hakim al Hassadi, potente leader dei ribelli ed ex jihadista in Afghanistan quale membro del Lifg (Gruppo combattente islamico libico): questo gruppo armato tentò di rovesciare Gheddafi negli anni Novanta, allineandosi poi ad Al Qaeda nel 2007, prima del ripudio di tale posizione nel 2009, anno del suo scioglimento definitivo. A Derna sarebbe però presente anche un nuovo emissario di Al Qaeda, Abdul Basit Azuz, con 300 uomini e un campo di addestramento. A Zintan, gli uomini di una milizia che vigila sulla prigionia del figlio di Gheddafi, Saif al Islam, hanno arrestato insieme alla sua interprete l’avvocato di una commissione della Corte penale internazionale in visita al detenuto, con l’accusa di aver tentato di recapitare a Saif un messaggio inviatogli da un suo ex braccio destro ora ricercato dalle autorità libiche. Aree remote nel sud della Libia sono teatro di accesi scontri tribali. E intanto prosegue il contrabbando di armi (predate al caduto regime) verso l’Egitto, o verso il Mali e la Nigeria. Eppure, in un Paese quasi tutto di fede sunnita, la componente religiosa islamica – persino in ciò che resta delle organizzazioni radicali e jihadiste represse in ogni modo dallo scomparso dittatore – rappresenta l’unico, decisivo elemento di riunificazione e di creazione identitaria, e sarà alla base di qualunque nuova realtà politica: il problema è vedere se quest’ultima in futuro vorrà e potrà combattere l’estremismo e il potere delle milizie, retaggio del suo passato e del suo stesso presente. Nello scorso agosto Mustafa Abdel Jalil, leader del Consiglio nazionale transitorio al potere in Libia, ha indicato la Sharia come il principale elemento della futura legislazione del Paese. I Fratelli musulmani libici, a lungo perseguitati sotto Gheddafi, hanno dato vita al partito Giustizia e Costruzione, che di certo svolgerà un ruolo-chiave nello sviluppo civile del Paese. Lo stesso vale per Ali al Sallabi, chierico islamico – in passato imprigionato dal regime ma poi da esso usato come mediatore con il LIFG – vicino all’élite politico-religiosa del Qatar, grande finanziatore e sostenitore logistico della ribellione libica. Ha inoltre creato il Partito nazionale Abdel Hakim Belhaj: l’ex comandante ribelle del Consiglio militare di Tripoli è anche un ex leader del Lifg, detenuto nelle carceri di Gheddafi per sei anni dopo essere stato consegnato al regime dalla Cia, che lo aveva “prelevato” a Bangkok nel 2004 con la complicità dell’intelligence del Regno Unito (contro il cui governo Belhaj ha ora sporto causa). Le cancellerie occidentali temono l’arrivo al potere degli islamisti libici, e solo il tempo dirà a quale tipo di nuovo Stato essi offriranno il loro contributo. 71 | giugno 2012 | narcomafie Con i loro occhi Libera inaugura insieme a «Narcomafie» una nuova collana di quaderni: strumenti agili e pungenti su temi che alternano analisi e attualità. Ecco la prefazione della prima uscita: una ricerca sulla percezione del fenomeno mafioso da parte dei giovani Come fanno i giovani a capire cos’è la mafia ed il tipo di criminalità analoga (’ndrangheta, camorra…) se non ne sono toccati direttamente, se l’agire criminoso risulta “invisibile” alla loro esperienza diretta e non coinvolge la loro quotidianità, le loro relazioni, le loro famiglie? Quali sono le fonti di informazione a cui attingono per rappresentarsi il fenomeno mafioso, perché possano dotarsi degli strumenti per capire, trovare le motivazione di approfondire, ed eventualmente fare scelte di impegno? Molti ragazzi ne sanno poco delle “mafie” e solo per vago sentito dire. Le conoscenze risultano approssimative e frammentate. È giunto alle loro orecchie qualcosa di Falcone e Borsellino, fatti accaduti prima che loro nascessero; oppure sono stati presi dal clamore di qualche più recente e spettacolare operazione delle Forze dell’ordine, con la cattura di un boss latitante da anni. Può essere la cronaca televisiva, più che i quotidiani, a fornire le notizie che spesso rimbalzano loro addosso, e non vengono quasi mai elaborate, senza che si riesca ad ancorare l’informazione all’analisi critica, e meno ancora all’interpretazione storica del fenomeno. I sentimenti e il coinvolgimento emotivo sono più facile preda della fiction, dei film e degli sceneggiati televisivi, che, con i propri linguaggi e spesso con l’ambiguità con cui vengono proposti i personaggi di mafia , “aprono” a diverse e contraddittorie identificazioni, senza chiari distinguo tra le persone, le loro storie e le loro tragedie personali da una parte e la gravità degli atti commessi dall’altra. Le rappresentazioni nell’immaginario mentale giovanile, indotte dalle narrazioni che hanno per oggetto la mafia, sono molteplici: possono suscitare fascino come inorridire, creare confusione quanto dare adito a giudizi manichei e semplificatori, captare adesioni emotive o suscitare difese e rifiuti, indurre identificazioni con gli “eroi negativi” o, viceversa, con le vittime, con chi combatte la mafia e fa resistenza. L’antimafia sociale. Ad uscire dall’impasse si presta ed è di aiuto un lavoro capillare, dal basso, vis-a -vis, che è il percorso educativo proposto dal movimento dell’antimafia sociale, di cui Libera è una delle espressioni. La ricostruzione e la memoria storica fornite dall’educazione antimafia rivestono un ruolo essenziale: si ricostruiscono fatti, si contestualizzano gli eventi, si mettono in rapporto i fenomeni, si connettono i diversi piani di analisi (economicosociali, culturali e politici), si distinguono gli aspetti oggettivi dalle biografie personali e familiari, si dà parola ai congiunti e parenti delle vittime, si trasmette e si fa toccare con mano il dolore. Parlare con chi si è ribellato, ascoltare di prima mano le loro storie e le loro sofferenze è altrettanto importante quanto frequentare i luoghi e partecipare alle attività dei costruttori di alternative, di chi lavora nei beni confiscati, esposti alle difficoltà e alle volte anche ai rischi, persino le rappresaglie, che coinvolgono quei luoghi e l’impegno che vi è esercitato. Per essere efficace con chi la ascolta, la narrazione dell’antimafia sa che deve saper tener Segnali di Leopoldo Grosso, vicepresidente del Gruppo Abele Segnali 72 | giugno 2012 | narcomafie lontano il pericolo della retorica, e riuscire a diventare il risultato di un impegno, di una partecipazione attiva e di un coinvolgimento personale, di un percorso di protagonismo che consente la graduale “autocostruzione di una propria consapevolezza”, così come gli autori la definiscono nella loro ricerca. L’educazione antimafia corre tuttavia il rischio di essere minoranza e di essere solo una voce tra le altre. Inoltre, siccome non è la più forte, può non essere la più convincente. I motivi sono diversi: perché non riesce a diventare organizzazione capillare nei diversi territori, per il metodo “autoritario” con cui a volte può essere proposta, per la mancanza di motivazioni soprattutto da parte di chi compete suscitarle. La pratica quotidiana di resistenza all’ingiustizia e alla prevaricazione. È la “mafiosità”, come ribadisce spesso Nando dalla Chiesa, che rende possibile la mafia. La mafiosità è costituita da una cultura e da atteggiamenti che comportano, nei contesti sociali e nelle relazioni che li compongono,la condivisione di modalità, anche minuscole, di prevaricazione e di violenza, di omertà e convenienza pelosa. Ciò avviene in tanti “normali” episodi di vita quotidiana: in strada, a scuola, sul lavoro, a volte anche a casa e in famiglia. La mafiosità è una cultura pervasiva, che sa approfittare dei vantaggi ed evitare gli svantaggi, propria del comportamento di chi “non cerca grane” e “si fa i fatti propri”, che sacrifica il proprio senso civico ed il reclamo di giustizia ad un più comodo “non vedo, non sento, non parlo”. Anche il più semplice “tirarsi fuori”, non significa essere neutrali e fare la scelta di non schierarsi, ma essere comunque complici, direttamente o indirettamente, e per di più complici volontari. Nella quotidianità si può essere vittime, testimoni e anche attori, di piccoli episodi di sopraffazione e di violenza. Se si subisce una qualche aggressione altrui, ci si difende e si tenta di ridurne i danni. Spesso, a episodio concluso, si tace e si tiene nascosto dentro di se l’insulto di cui si è stati vittime: “umiliati e offesi”, quasi come se ce ne si debba vergognare. Se si è testimoni, la tentazione è farsi da parte, è praticare indifferenza (anche quando non la si avverte nelle proprie corde), per timore di diventare vittime a propria volta, per “evitare grane”. Ci si può sentire in colpa e si ricorre alla ricerca di teorie giustificatorie, che fungano da alibi morali e che mettano a posto la coscienza. Se si è attori, si può aver agito volontariamente, oppure con atti involontari o semi-volontari. In questi casi si può rimanere condizionati dal gruppo di amici (si era presenti, ma non si è partecipato attivamente al “fattaccio”, poiché si è rimasti come paralizzati dalla contraddizione tra non essere da meno degli altri, ma non esserne convinti), oppure la “cosa” commessa sembra irrilevante (una raccomandazione, “lo fanno tutti”). In caso di volontarietà manifesta si può essere preda della propria impulsività o invece interpretare il ruolo del sopraffattore dominante. In qualsivoglia delle situazioni delineate è etico porsi delle domande e cercare, possibilmente non da soli, le possibili risposte. Come si agisce e si reagisce in determinate situazioni-verità, ha molto a che fare con la propria identità personale, come soggetti emotivi e morali, prima ancora che come soggetti razionali e cognitivi. Le dimensioni identitarie che vengono chiamate in causa nella scelta comportamentale hanno a che fare con la vigliaccheria e il coraggio, l’opportunismo e la considerazione degli altri, l’egocentrismo e l’empatia. Le radici dell’antimafia sociale si innervano e passano inevitabilmente per le scelte personali di ognuno, hanno a che fare con i propri singoli vissuti e rispondono alla coscienza di sé. La risposta alla domanda “da che parte sto?” ha molto a che fare con la propria identità personale e la sua costruzione. L’importanza di essere gruppo. Le domande non dovrebbero essere solo personali. Non si dovrebbe essere lasciati soli a decidere. Essere insieme nel fare le scelte, confrontarsi, rincuorarsi, sostenersi nel portarle avanti e nell’essere coerenti, è un aiuto indispensabile. Altrimenti si è l’eccezione, si esce dall’ordinarietà, dalla condivisione di un orizzonte comune, dal reciproco senso delle cose, e si è proiettati su un registro più drammatico, nella dimensione dell’extra-ordinarietà, dell’azione al di fuori della “normalità”, contigua alle categorie dell’epico e dell’eroico: l’esatto contrario di ciò di cui si ha bisogno oggi per rendere ordinaria, e non eccezionale, l’antimafia sociale. Essere gruppo, in un percorso educativo e formativo, significa confronto continuo, mettere a nudo e analizzare i propri dubbi al cospetto dei dubbi degli altri, cercando di rispondere insieme a interrogativi difficili. Essere gruppo, nella pratica di resistenza alla mafiosità, significa fare massa critica, costituire una forza di impatto, riconosciuta e considerata. Insieme si conosce l’“invisibile”, insieme si propongono e si “contagiano” comportamenti più coraggiosi, insieme si riesce a essere coerenti e dare maggiore solidità e continuità alle proprie azioni. Insieme si fanno progetti, ci si propone e ci si espone, insieme si diventa parte attiva del movimento dell’antimafia sociale. La ricerca-azione. Fare inchiesta è una pratica di conoscenza della realtà di cui ogni organizzazione che si muove nel sociale ha costante e continuo bisogno. È un accompagnamento all’azione che consente di verificare impressioni, di modificare percezioni e rappresentazioni del fenomeno che possono soffermarsi solo sugli aspetti che si impongono con più evidenza, trascurandone altri, più sotterranei, che più impercettibilmente ma con un’azione più carsica, finiscono per imporsi a distanza, con un effetto sorpresa e dal risultato spiazzante. Fare inchiesta è costringere il pensiero, spesso errabondo e utopico, a fare un esame di realtà: con la finalità di ri-tarare di continuo pratiche, percorsi, proposte, e di possedere sempre una piena consapevolezza dei limiti che accompagnano tutto ciò che, con fatica, si riesce a fare e non fare. Cercare di sapere e evitare di supporre di sapere quello che non si sa, oltre che atto di intelligenza, è anche pratica di umiltà. È porsi in un rapporto tra pari con le persone, gli studenti e i ragazzi con cui si intende iniziare dei percorsi comuni. Conoscersi vuole dire anche creare legami, premessa indispensabile per porre le basi a una intrapresa che, grande o piccola che sia, richiede attestazione di reciprocità. È per tutto questo che si ringraziano, con affetto sincero, Ludovica Ioppolo, Francesca della Ratta-Rinaldi, Giuseppe Ricotta e, con loro, tutte le altre persone che hanno collaborato per i risultati della significativa ricerca “Coi loro occhi: l’immaginario mafioso tra i giovani”. Segnali 73 | giugno 2012 | narcomafie 76 | giugno 2012 | narcomafie La scuola contro la mafia di Marika Demaria «Un uomo d’altri tempi – racconta Andrea Camilleri nella prefazione – per i modi e le espressioni. Ebbi anche la certezza che fosse un uomo giusto». Antonino Caponnetto – successore di Rocco Chinnici alla guida del pool antimafia e dell’Ufficio istruzione a Palermo – viene ricordato anche con queste parole dalle persone che lo hanno conosciuto, amato e stimato, nei pensieri che fanno da corollario al fumetto dei giovani autori Luca Salici e Luca Ferrara Antonino Caponnetto. Non è finito tutto, pubblicato dalla casa editrice Round Robin con il patrocinio della fondazione Antonino Caponnetto. La struttura del fumetto è particolare. Le strisce iniziali raccontano uno degli ultimi discorsi pubblici del giudice istruttore Rocco Chinnici, ma in quelle immediatamente successive si ricordano le stragi di Capaci e di via D’Amelio per poi raccontare l’efferatezza di quel 28 luglio 1983, quando fu ucciso proprio Chinnici. Di fatto la narrazione si sviluppa su due piani e quello sincronico (relativo ai ricordi di Antonino Caponnetto) si interseca con quello diacronico che con un ulteriore flash back riporta al 1982 e all’omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa per poi ripercorrere vent’anni di storia d’Italia, della mafia e dell’antimafia. Luca Salici e Luca Ferrara, attraverso le proprie matite, rievocano fatti eclatanti come le dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta, il blitz di San Michele, gli arresti di Vito Ciancimino e dei fratelli Nino e Ignazio Salvo, la stesura delle carte che condurranno all’apertura, nel 1986, del maxi processo. E ancora: gli omicidi di Ninnì Cassarà e di Beppe Montana, oltre ai veleni della vicenda dei “professionisti dell’antimafia”. Nel 1988, la svolta. Antonino Caponnetto sancisce che «bisogna partire subito dalle scuole, confrontarsi con i giovani e cercare di cambiare questa cultura di morte», tornando a percorrere la strada battuta dal generale dalla Chiesa quando iniziò ad andare nelle scuole per parlare con gli studenti. Storico – e ben ricordato sulle pagine del fumetto – uno degli ultimi discorsi che il giudice 77 | giugno 2012 | narcomafie di adozione fiorentina indirizzò proprio a un folto gruppo di giovani durante un incontro in una scuola: «Non chiedete mai favori o raccomandazioni, le leggi vi accordano dei diritti, sappiateli esigere, chiedeteli con fermezza, con dignità, senza piegare la schiena, senza abbassarvi al più forte, al più potente, al politico di turno. Ragazzi, godetevi la vita, innamoratevi, siate felici ma diventate partigiani di questa nuova resistenza». Sono queste le parole conclusive del fumetto, che accompagnano il lettore verso la frase celebre di Antonino Caponnetto – «La mafia teme più la scuola che la giustizia» – e in diverse pagine costellate da tracce di memoria affidate, tra gli altri, a Maria Falcone, sorella del giudice ucciso il 23 maggio 1992, che ricorda di «aver incontrato per la prima volta Caponnetto nel 1985, al matrimonio di Giovanni e Francesca (Morvillo, an- che lei rimasta uccisa nella strage di Capaci, nda) e il suo insegnamento: divulgare nelle scuole gli ideali di Falcone e Borsellino». Il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso lo dipinge come «il capo perfetto» mentre il sociologo Nando dalla Chiesa mette in risalto una peculiarità di Antonino Caponnetto: «Saper comprendere senza invidia la crescita delle persone più giovani, colui che auspica di essere supe- rato dai suoi allievi: sono pochissime le persone così». Nel fumetto Antonino Caponnetto. Non è finito tutto si fa riferimento anche alla celebre frase che Caponnetto pronunciò all’indomani della strage di via D’Amelio: «È finito tutto». Chi attraverso il proprio contributo ha voluto ricordare il giudice nisseno ha sottolineato con forza che quelle parole furono dette in un momento di massimo sconforto e dolore ma che non fosse tutto finito Caponnetto l’ha dimostrato continuando il proprio impegno nell’antimafia, che dal 16 giugno 2003 si è ulteriormente concretizzato con la nascita della Fondazione a lui dedicata. Luca Salici Luca Ferrara Antonino Caponnetto. Non è finito tutto Round Robin pagine 152 euro 15,00 documentario L’avvelenata: cronaca di una deriva Il 14 dicembre 1990 la motonave Rosso si arenò sulla spiaggia delle Formiciche ad Amantea, in provincia di Cosenza. Prima del suo ultimo viaggio l’imbarcazione – ribattezzata Jolly Rosso – era stata affittata dal governo italiano per trasportare rifiuti tossici dal Libano all’Italia ed era conosciuta come la “nave dei veleni”. All’epoca i cittadini furono rassicurati circa l’eventuale pericolosità del carico della nave: non vi era nulla di nocivo. A distanza di vent’anni però, nella valle del fiume Oliva, furono ritrovati 90 mila metri cubi di rifiuti nocivi. Il documentario L’avvelenatacronaca di una deriva di Claudio Metallo restituisce questa vicenda alla memoria collettiva, arricchita con testimonianze. Le immagini sono di Maurizio Marzolla, Ma- ria Tarzia e Gabriele Morabito (quelle relative alla nave sono state girate da Amerigo Spinelli), con musiche originali di Carmine Senarcia. L’autore ha così commentato il suo lavoro: «L’avvelenata rispecchia noi calabresi avvelenati, arrabbiati, per quello che è stato fatto alla nostra terra. Siamo avvelenati nel senso che viviamo in mezzo a veleni che non abbiamo prodotto noi». libri Pelle di serpente SHARE le segnalazioni del mese a cura di Marika Demaria 78 | giugno 2012 | narcomafie Chiedersi se i governi siano attenti e consapevoli verso la reale situazione del paese che devono governare, fotografandone la situazione economica e lavorativa. È questo uno degli obiettivi del libro scritto da Maurizio Campisi, dal titolo quanto mai eloquente. Un tuffo in una realtà – l’America Latina – che, secondo i dati ufficiali di vari organismi, registra l’indice di povertà estrema attorno al 45% della popolazione, cioè 250 milioni di persone. Un’analisi documentata e attenta, che conduce ad una riflessione applicabile ad ogni settore e ad ogni Stato: «La responsabilità di un cambiamento ricade esclusivamente sulla capacità di reazione e organizzazione dei singoli individui». Maurizio Campisi, Pelle di serpente. Lo sfruttamento infinito di America Latina e delle sue risorse, Editorial Intangibile, (www.editorialintangible.com) Fuego «Chi ha dato fuoco al centro sportivo di via L. mi abita a due passi, ha sempre vissuto nella parallela dalla mia casa. Io li conosco molto bene, più o meno da quando sono nato. Sono gli stessi che da trent’anni stabiliscono il prezzo e il quantitativo della coca che deve essere venduta nelle piazze di Milano». L’ebook di Giuseppe Catozzella, già autore del fortunato Alveare (Rizzoli), torna a raccontare le vicende criminali legate al capoluogo lombardo: strani fenomeni di “autocombustione”, minacce, intimidazioni, incendi dolosi. E l’omertà delle persone che, di fronte al fuoco appiccato dalla malavita, preferiscono tacere piuttosto che denunciare. Cosa Nuova ciatori ad arrestarne l’avanzata» spiega l’autore. Il titolo – Cosa Nuova – richiama alla Cosa nostra siciliana, ma le pagine del libro ben delineano le diversità tra le due organizzazioni criminali. Il giornalista Andrea Apollonio accompagna il lettore “alla scoperta dei feudi della ’ndrangheta” (come recita il sottotitolo) con l’intento di far conoscere una figura troppo spesso non considerata. Si tratta dei militari dello Squadrone Cacciatori di Calabria: «L’Italia ancora non li conosce, nonostante l’assalto mafioso al Nord parta da qui, e siano i Cac- Giuseppe Catozzella, Fuego, Feltrinelli (ebook a 0,99 euro su www.feltrinelli.it) Andrea Apollonio, Cosa Nuova, Pellegrini Editore 79 | giugno 2012 | narcomafie mostra appuntamenti Lezioni Civili Vent’anni dopo Fino al prossimo 19 luglio, presso il palazzo di giustizia di Milano, sarà possibile visitare una mostra dedicata al ventennale delle stragi di mafia di Capaci (23 maggio) e via D’Amelio (19 luglio). La mostra è stata allestita dall’Associazione nazionale magistrati in collaborazione con l’associazione Libera. Per ulteriori informazioni è possibile contattare il coordinamento milanese dell’associazione all’indirizzo [email protected]. Due mesi di dibattiti, confronti, testimonianze, proiezioni di filmati: “Lezioni civili” in ricordo di Falcone e Borsellino è un’iniziativa organizzata da Libera in collaborazione con la provincia di Roma. La storia dei due magistrati nel ventennale della loro morte permette di rendere omaggio anche ad altre vittime della mafia, attraverso ospiti quali Attilio Bolzoni, Francesco La Licata, Giovanni Bianconi, Franco La Torre, Simona dalla Chiesa, Gian Carlo Caselli, Giancarlo De Cataldo, Piero Grasso. Molti i temi trattati: dagli uomini abbandonati dallo Stato nella lotta alla mafia ai giornalisti minacciati e uccisi dalla criminalità organizzata, passando per il ruolo delle fuoricatalogo donne di mafia e dell’antimafia. La serata conclusiva – la kermesse è iniziata lo scorso 21 maggio – si celebrerà il 17 luglio a Roma, alla presenza di Giuseppe Pignatone, Procuratore capo della Repubblica a Roma; Corradino Mineo, direttore di Rainews 24; Nicola Zingaretti, presidente della Provincia di Roma; don Luigi Ciotti, presidente e fondatore di Libera; l’attore Giorgio Tirabassi, il quale leggerà la lettera che Paolo Borsellino scrisse in occasione del trigesimo dell’amico e collega Giovanni Falcone. Il programma completo è scaricabile dal sito www.libera.it a cura di Elena Ciccarello La verità è fuori catalogo Più che di un libro, questa volta parliamo di una storia. La storia di un mistero che rischia di finire fuori catalogo, per sempre. La storia di un giovane urologo siciliano che è stato trovato morto il 12 febbraio 2004, nella sua casa di Viterbo. Si chiamava Attilio Manca. Lo hanno trovato con due buchi nel braccio, il setto nasale deviato e lividi su tutto il corpo. Sul pavimento della sua stanza s’era creata una pozza di sangue. Per i magistrati Attilio Manca è morto di overdose, iniettandosi da solo un mix fatale di eroina e tranquillanti. Una ricostruzione che non convince tutti, neppure il giudice di Viterbo che più di una volta respinge la richiesta di archiviazione presentata dai pm. Non ci crede la famiglia, l’avvocato e neppure molti giornalisti. Anzitutto perché Attilio era mancino e difficilmente sarebbe riuscito a bucarsi sul braccio sinistro. Poi perché aveva addosso i segni di una colluttazione, rimasti senza spiegazione. Infine, perché era un medico bravo, e nel suo paese, Barcellona Pozzo di Gotto (Me), lo conoscevano tutti. Aveva studiato a Parigi e sapeva eseguire delicate operazioni in laparoscopia. Attilio, raccontano i familiari, era andato l’ultima volta nella Francia del sud nell’autunno del 2003, «per assistere a un intervento chirurgico». Un’operazione delicata, come quella cui si sottopone negli stessi giorni, e proprio a Marsiglia, il superlatitante Bernardo Provenzano, uscito dall’Italia sotto falsa identità. Per i magistrati si tratta di una semplice coincidenza. La morte dell’urologo è un caso di droga e null’altro. Lo ha ribadito il procuratore capo di Viterbo Alberto Pazienti, anche durante la conferenza stampa indetta l’8 giugno scorso: la pista mafiosa è esclusa. L’unico rinvio a giudizio sarà chiesto per la donna che avrebbe venduto ad Attilio la dose. Una lacunosa ricostruzione dell’accaduto cui familiari e amici non intendono rassegnarsi. Intanto anche il libro che racconta questa storia ha rischiato di finire fuori mercato, ad opera dei legali di alcuni personaggi citati nel testo, che hanno diffidato la casa editrice Terrelibere dal continuarne la pubblicazione e alcune librerie di Sicilia dal tenerlo in vetrina. Per fortuna senza riuscire nell’intento. Joan Queralt, L’enigma di Attilio Manca, terrelibere.org, 2010 80 | giugno 2012 | narcomafie Se il razzismo è istituzionale Gli sbarchi di migranti di queste ultime settimane a Lampedusa e sulle altre coste italiane (pugliesi e calabre), le “vivaci” proteste registratesi in diversi Centri di identificazione ed espulsione (Cie) da parte di stranieri ivi “detenuti” e, di nuovo, la “costruzione della paura” ad opera di alcuni esponenti politici sui “clandestini” che arrivano a “milioni” nel nostro paese ripropongono l’esigenza di una riforma dell’intero impianto normativo sull’immigrazione e l’adozione di politiche basate più sull’integrazione (meglio parlare di “interazione”) e sul governo di tale fenomeno che sulle espulsioni e sulle detenzioni. Le migrazioni, vale la pena ricordarlo ancora, sono l’espressione di una profonda iniquità sociale globale, fatta di sfruttamento, ingiustizia, ipocrisia, oppressione, che potrà attenuarsi solo se si riuscirà a colmare le differenze notevoli tra paesi ricchi e paesi poveri. Il generoso – ma ipocrita – slogan che, di tanto in tanto, sentiamo ripetere da qualche avventato personaggio politico (“aiutiamoli ma a casa loro”), dovrebbe essere cambiato in quello più vero di “non danneggiamoli nei paesi in cui vorrebbero vivere liberamente e dignitosamente”. Le continue discriminazioni verso gli stranieri, anche quelle lessicali (come “clandestino”, “vucumprà”, “zingaro”, “extracomunitario”), le esternazioni xenofobe e razziste di alcuni noti esponenti politici, parlamentari e rappresentanti istituzionali hanno sicuramente stimolato, in un recente passato, comportamenti di intolleranza e di violenza per la “presa” che hanno sulla gente comune. A questo “razzismo istituzionale” (sul punto suggerisco la lettura dell’interessante libro di Clelia Bartoli “Razzisti per legge”, Editore Laterza, 2012), fenomeno che in Italia è ancora poco studiato, concorrono, poi, tutti quegli atteggiamenti, consapevolmente o inconsapevolmente, discriminatori, tenuti da una certa burocrazia pubblica che, fornendo un servizio, dovrebbe garantire i diritti di tutti i cittadini in egual modo. In attesa di una politica europea comune (e coerente), che riesca a “go- di Piero Innocenti vernare” l’immigrazione, ancora in questi primi cinque mesi del 2012 abbiamo la conferma che i sistemi restrittivi non fanno certamente diminuire la pressione migratoria irregolare, né, tantomeno, inducono i trafficanti di esseri umani a ridurre l’offerta di tali “servizi”. Alla data dell’8 giugno, gli sbarchi sulle coste italiane sono stati 78, per un totale di 2.880 migranti. A Lampedusa, che è sempre l’approdo più vicino alle coste nord africane, sono stati soccorsi ben 938 stranieri. L’esigenza di una riapertura del centro di accoglienza nell’isola è stata sollecitata da oltre due mesi anche dal sindaco. Sulle coste pugliesi e calabre sono sbarcati, rispettivamente 727 e 454 persone provenienti, per lo più, dalle coste greche, turche, egiziane. A questi dati del “versante marino”, vanno sommati i 3.469 stranieri irregolari rintracciati dalle forze di polizia sul territorio nazionale. Per alcuni di questi (234) è scattato il “rimpatrio” in virtù di accordi di riammissione con alcuni paesi, altri (564) sono stati “respinti” o espulsi/accompagnati (451) alla frontiera. Per 1.741 si sono adottati i normali provvedimenti amministrativi espulsivi non immediatamente esecutivi. Due sono, a mio parere, gli aspetti di maggiore preoccupazione sul- lo scenario dell’immigrazione: il primo è costituito dalla rete di criminali che trafficano persone e che si va sempre più rafforzando (in questo senso anche il Dipartimento informazioni per la sicurezza, nella relazione presentata al parlamento a marzo 2012); il secondo sono le sconcertanti dichiarazioni, rilasciate il 14 marzo, nel contesto di una riunione pubblica dall’ex ministro dell’Interno Maroni, secondo cui “forse con i migranti abbiamo esagerato” e “ci abbiamo un po’ marciato” (sic!). Maroni, sin dal giugno 2009, è stato il ministro dei “respingimenti” in mare (giudicati illegali con la recente sentenza del febbraio 2012 della Corte europea sui diritti umani) di centinaia di migranti provenienti dalla Libia, che avrebbero potuto richiedere asilo politico se fossero stati messi nelle condizioni di poterlo fare, e che sono stati riconsegnati alle autorità libiche per essere sottoposti ai trattamenti più vili e degradanti che si possano immaginare. Valutino i lettori se il “dubbio maroniano”, ora che non è più ministro della Repubblica è meritevole di rispetto o debba essere considerata l’ennesima vergogna leghista. numero 6 | 2012 | 3 euro Mensile | Anno XX | Poste italiane S.p.A | SPED. IN A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L.27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 1 DCB | To. ISSN 1127-9117 numero 6 | 2012 Caso Orlandi, riciclaggio, bande criminali e usura a Roma PECCATI CAPITALI SOMMARIO 3 | L’EDITORIALE La tecnica non può sostituire la politica di Livio Pepino 4 | MAFIA E POLITICA Amministratori sotto tiro di Matteo Zola 9 | IL RILANCIO DEI CURSOTI Il piano del boss di Dario De Luca 58| ALTARISOLUZIONE La battaglia di Cheran testo e foto di Emma Volonté 64 | L’APPROFONDIMENTO Sulle barricate di Emma Volonté 65 | OCCIDENTI Rassegna stampa internazionale a cura di Stefania Bizzarri 68 | LA RICERCA DEI FIGLI 12 | I GIORNI DELLA CIVETTA Brevi di mafia a cura di Marco Nebiolo Argentina chiama Italia di Emma Volonté 4 | MAFIA E POLITICA Tutti i guai del governatore di Alessia Candito 70 | CRONACHE SOMMERSE Instabile Libia di Andrea Giordano 23 | NUOVE RESISTENZE “Io non ho paura“ di Laura Galesi 71 | SEGNALI Con i loro occhi di Leopoldo Grosso 20 | ATTENTATI SUI BENI CONFISCATI Come l’araba fenice di Marika Demaria 74 | SEGNALIBRO La scuola contro la mafia di Marika Demaria 26 | COSE NOSTRE In memoria di don Diana di Marika Demaria 78 | SHARE Le segnalazioni del mese a cura di Marika Demaria 28 | STROZZATECI TUTTI Falcone e il coraggio di Marcello Ravveduto 80 | L’OPINIONE Se il razzismo è istituzionale di Piero Innocenti 27 | ROMA di Emilio Fabio Torsello Lo spazio conteso Cronologia della mattanza Chi ordina, chi riscuote Serbatoi a secco Emanuela, la verità occultata di Angela Camuso DEI DESAPARECIDOS