Microscultura da indossare

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Microscultura da indossare
FONDAZIONE ACCADEMIA DI BELLE ARTI
“PIETRO VANNUCCI” – PERUGIA
(Pareggiata alle Statali con R.D. 25.06.1940 N.1086)
Corso di Diploma in Scultura
tesi in Storia dell’Arte
MICROSCULTURA DA INDOSSARE
Candidato: Jelena Panjkovic
Relatore: Aldo Iori
Anno Accademico 2006 / 2007
Indice
Introduzione
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BREVE STORIA DEL GIOIELLO
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1. Dall’antichità agli anni Sessanta
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2. Il gioiello contemporaneo
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GIOIELLO D’ARTISTA
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1. Questioni preliminari
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2. Edgardo Mannucci, Materiali come epidermidi mineralizzate
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3. Fausto Melotti, L’occupazione armonica dello spazio
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4. Arnaldo e Giò Pomodoro, Una pulsione distruttiva della forma
perfetta
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5. Giuseppe Uncini, Tra forme e spazio
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6. Intervista con Giuseppe Uncini, Trevi 16 maggio 2007
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“L’EPIDERMIDE” TRA CORPO E GIOIELLO
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1. Comunicare attraverso ornamenti corporei
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2. Ricerca dell’ornamento corporeo come forma d’arte
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3. Il testo di Gabriele DeVecchi – a proposito della relazione tra corpo e
gioiello
2
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Conclusione –
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Bibliografia
L’adorata era nuda e conoscendo il mio cuore
non indossava che i gioielli sonori il cui ricco
fascino le donava l’aria vittoriosa che hanno
le schiave dei mori nei loro giorni felici
quando emanano danzando, il brusio vivo e
beffardo del mondo scintillante di
metallo e di pietre.
Baudelaire “I Gioielli”
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Introduzione
Da millenni l’uomo e la donna si compiacciono nell’ornare il proprio corpo di
gioielli. Scavi archeologici, fondi medievali, corredi di dame rinascimentali,
collezioni private di regnanti contemporanei ci dimostrano che da epoche molto
remote i creatori di gioielli hanno sperimentato forme estremamente moderne.
Malgrado il talento dei creatori, la maggior parte dei gioielli del passato sono oggi
anonimi. Soltanto in periodi più recenti i monili hanno acquisito una firma.
Nel Novecento il valore dell’autore capovolge addirittura l’ordine delle cose e
quasi si sostituisce al valore della materia utilizzata. Ciò accade quando a creare il
gioiello è un artista. A quel punto, per apprezzare il valore del gioiello è
necessario cambiare prospettiva e andare oltre: permettere che un piccolo oggetto
apra le porte di un mondo più ampio, nel quale dobbiamo entrare per
comprenderne il senso.
Mi è sembrato importante analizzare le motivazioni che hanno spinto gli artisti del
ventesimo secolo ad avvicinarsi al mondo delle arti decorative, per dare vita a
interessanti e originali contaminazioni con tradizioni di artigianato, radicate da
secoli. Come è accaduto per la ceramica, anche l’oreficeria in generale e il
gioiello in particolare, hanno suscitato fin dall’inizio del ventesimo secolo un vivo
interesse da parte degli artisti. Questa apertura verso la creazione di monili
d’artista ha permesso di creare un contesto creativo a sé stante, dove la
progettualità dell’artista si intreccia con la manualità dell’orafo, per dare vita a
monili che possono essere considerati a tutti gli effetti delle vere e proprie opere
d’arte; e dove il corpo diventi teatro di un evento estetico.
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Breve storia del gioiello
“L’artista che incide il legno, batte il metallo, modella
l’argilla, scolpisce il suo blocco di pietra, tramanda sino
a noi un passato dell’uomo, un uomo antico senza il quale
non esisteremmo. Non è mirabile vedere tra noi, nell’età
della meccanica, tale ostinata sopravvivenza delle ere
manuali?”
Henri Focillon
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1.
Dall’Antichità agli anni Sessanta
Nell’arco dei secoli il gioiello, nel suo valore, significato e forma si è intrecciato
con la storia del costume e della società del proprio tempo subendo radicali e
stravolgenti evoluzioni nelle tipologie, nelle simbologie e nel valore. Nel corso
dei secoli ha ricoperto di volta in volta, e in alcuni casi anche
contemporaneamente, ruoli differenti: simbolo di magia, esibizione di potere,
appartenenza ad una determinata classe sociale, valore affettivo, legame con
l’aldilà fino a divenire, ai giorni nostri, oggetto di sperimentazioni artistiche che lo
collocano di diritto nell’ambito delle realizzazioni scultoree allontanandolo dalla
categoria delle cosiddette “arti minori” a cui, di fatto appartiene.
L’uso dei gioielli è una costante nei costumi dell’umanità fin dai tempi più remoti:
il desiderio di ornamenti emerge in uguale modo nelle forme di civiltà più
disparate, ognuna delle quali sviluppa un proprio stile originale da cui si
articolano stili ibridi, dovuti a commerci o invasioni. I dati disponibili sui gioielli
dell’antichità si basano quasi interamente sui reperti rinvenuti nelle sepolture o nei
nascondigli utilizzati nei periodi di guerra e inevitabilmente queste fonti non
rivelano che frazioni minime degli stili in voga nei vari periodi. I reperti rinvenuti
hanno comunque permesso di tracciare l’evoluzione degli stili e delle tecniche, a
partire dai semplici ornamenti primitivi fino ai gioielli realizzati dalle sofisticate
civiltà antiche, emerse nel vicino Oriente e in Egitto.
Prima di sviluppare la capacità di forgiare metalli o intagliare pietre le popolazioni
primitive usavano come ornamenti oggetti semplici, reperibili in natura, come
Conchiglie fossili infilate come grani di
una collana, 28 000 a.C.
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semi, bacche e conchiglie. Già nel 30.000 a.C. i cacciatori di varie regioni europee
indossavano pendenti fabbricati con ossa e denti di animali, forse con funzioni di
amuleto per favorire la caccia oltre che il ornamento. Fin dagli albori delle Civiltà,
i gioielli sono stati per l’uomo gli oggetti con i quali ha cercato di compensare le
sue insicurezze fondamentali: la vanità, la superstizione e il desiderio di ricchezza
materiale. Con lo sviluppo della capacità di perforare e di intagliare la pietra, le
varietà di ornamenti si ampliarono e i manufatti più diffusi e più spesso rinvenuti
negli scavi dei vari insediamenti primitivi sono i grani o perline: questa versatile
tipologia di monile era la più apprezzata come ornamento e infatti non si
osservano grandi sviluppi nel corso dei successivi ventimila anni, salvo per la
capacità di ottenere forme regolari o per l’aggiunta di semplici decorazioni
superficiali.
La vera svolta avviene con i progressi compiuti nella lavorazione dei metalli. Il
metallo principale utilizzato nei tempi antichi per i gioielli era l’oro, che per la sua
rarità, per l’inossidabile splendore e per il suo colore fu identificato come il
metallo del Dio Sole e per questa priorità assunse il simbolo diretto della divinità.
Maggior diffusione ha avuto un’altra funzione simbolica e cioè quella talismanica,
anch’essa legata ai caratteri morfologici dei materiali. La funzione talismanica nel
tempo si svilupperà in modo progressivo in ogni individuo e i caratteri simbolici
lasceranno spazio a quelli ornamentali.
Riassumendo, i processi di caratterizzazione del gioiello possono essere
individuati attraverso due momenti: il 1° dalla Preistoria al 3000 A.C. con
carattere simbolico funzione oggettiva a livello pubblico o istituzionale;
il 2°
dall’antica Grecia ai giorni nostri, i cui significati di ornamentazione
individuale portano a perdere completamente il valore simbolico ed evidenziano
l’arricchimento del valore commerciale e delle forme artistiche.
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Dalla civiltà sumera, che prosperò nella Mesopotamia meridionale, risalente al
2500 a.C. provengono alcuni dei più antichi esemplari di gioielli in oro, la cui
Gioielli reali provenienti dalla città sumera di Ur,
2500 a.C. circa, principalmente in oro, lapuslazuli
e corniola, comprendenti l’acconciatura della regina
Pu-Abi, decorata con fiori d’oro, e altri gioielli,
rinvenuti nella sua tomba
finezza indica che gli artigiani del tempo operavano nel solco di una tradizione
ben consolidata e sviluppata. Le forme della gioielleria sumera riproducono
aspetti propri del mondo naturale, vegetale e animale. Le donne portavano sul
capo fasce di foglie d’oro, orecchini, girocolli e collane, bracciali e anelli, mentre
gli uomini erano adornati da orecchini, collane, bracciali e ornamenti pettorali.*
Nell’antico Egitto i gioielli rivestivano un ruolo importante. Particolare
importanza assumevano in relazione ai riti funerari e proprio per questo motivo ne
sono stati rinvenuti in grande quantità. Perfino i poveri venivano seppelliti con
semplici collane. Una caratteristica dominante nel lavoro degli orafi egiziani era
l’uso dei simbolismi di tipo religioso o magico che andavano al di là del mero fine
decorativo e trasformavano i gioielli in amuleti. I simboli più diffusi erano lo
scarabeo sacro, che richiamava il sole e la creazione e l’occhio udjat (ovvero
l’occhio del Dio Horus), che si riteneva offrisse protezione dal malocchio. I fiori
di loto che sbocciavano ogni mattina al sorgere del sole sul fiume Nilo
rappresentavano la resurrezione.
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* rinvenuti nella tomba della regina Pu-Abi. Ben sessantatre membri della
corte erano stati seppelliti insieme alla regina
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Tra gli altri motivi ricorrono le raffigurazioni di varie divinità, i nodi piani e i
geroglifici. Il simbolismo appare evidente anche nell’uso di particolari colori.
Uno dei ventisei ornamenti pettorali o
pendenti rinvenuti nella tomba di
Tutankhamon (1336 – 1327 a.C. circa)
Secondo quanto enunciato dal Libro dei morti il colore blu rappresenta il cielo
notturno, il verde simboleggia nuova crescita e resurrezione mentre il rosso
rappresenta il sangue e quindi l’energia e la vita.
Con la grande scoperta della Tomba di Tutankhamon, avvenuta nel 1923, fu una
chiara testimonianza che il Sovrano amava concedere ai suoi dignitari, alla Corte
e a particolari sudditi onorificenze in oro, collari, maschere, bracciali. Ogni
persona o oggetto che circondava la persona del faraone doveva risplendere di
bellezza e offrire valori simbolici che innalzassero il bene della vita, l’eternità, la
protezione dalle avversità.
Più a ovest, nell’isola mediterranea di Creta, era già ben consolidata nel 2500 a.C.
la civiltà minoica, il cui centro si trovava all’estremità orientale dell’isola, intorno
Pendente d’oro del periodo minoico
medio, XVII secolo a.C.
a Mochlos, dove abili artigiani utilizzavano oro importato per fabbricare semplici
diademi, pendenti e spilloni per capelli sormontati da una margherita, ricavata da
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sottili lamine metalliche. Sono disponibili poche notizie relative al periodo
minoico medio (2000 – 1600 a.C.) durante il quale il territorio venne devastato da
terremoti. I reperti del periodo tardo – minoico (1600- 1100 a.C.) evidenziano
l’uso di nuovi materiali, quali il lapislazuli e la faìence* , nonché di nuove
tecniche quali la filigrana e la granulazione semplice, oltre all’adozione di motivi
egiziani.Nel 1100 a.C. iniziò il declino dell’impero miceneo e il sofisticato
artigianato fu oscurato per vari secoli, fino al revival greco iniziato intorno all’850
a.C.
Nei periodi arcaico e classico (600 – 330 a.C.) l’attività degli orafi greci fu
limitata dalla ridotta disponibilità di oro. Il periodo ellenistico, che va dal 330 al
27 a.C. fu invece assai ricco d’oro e di gioielli. Una delle principali caratteristiche
dell’arte orafa ellenistica è la policromia, che si avvale di pannelli di pietra dura
colorata o di vetro o smalto tagliati in forme particolari. I tagliatori seguivano i
temi e gli stili della scultura contemporanea, incidendo le pietre con trapani ad
arco o a ruota, polvere abrasiva e punte di diamanti per le linee fini. I cammei,
scolpiti a rilievo, avevano unicamente funzioni decorative ed ebbero origine in
questo periodo. Il motivo più diffuso fu il nodo di Ercole o nodo piano, posto
Nodo di Ercole, parte di un diadema, II
secolo a.C. ,
granati, smalti e filigrana
principalmente al centro di diademi, collane, bracciali e anelli. Un altro motivo
molto apprezzato per i bracciali e gli anelli erano i serpenti d’oro i cui corpi si
avvolgevano a spirale intorno al braccio o al dito.
* dal nome francese della città di Faenza. È il nome con cui spesso si identifica la maiolica.
Nel campo dell’archeologia il termine indica spesso la ceramica smaltata.
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Tra le arti orafe più sofisticate dell’antichità si colloca quella degli etruschi, la cui
civiltà raggiunse l’apice tra il 700 e il 500 a.C. La loro fama è legata soprattutto
all’impareggiabile padronanza della difficile tecnica della granulazione, che gli
orafi usavano per creare motivi sulle superfici dei monili d’oro. La granulazione
Dettaglio di un orecchino etrusco a perno,
decorato con granulazione, filigrana e intarsio, VI
secolo a.C.
era stata usata anche da civiltà precedenti, ma non con la delicatezza e la
precisione tecnica tipica degli orafi etruschi. Le piccolissime sfere d’oro (a volte
non superiori a 0,14 mm di spessore) venivano probabilmente fabbricate
riscaldando fino al punto di fusione una miscela di limatura d’oro e di carbone
polverizzato.* Gli orafi etruschi impiegavano anche con splendidi risultati le
tecniche della filigrana e dello sbalzo.
La disponibilità di oro fu molto ridotta per secoli tra romani e l’uso nell’arte orafa
era fortemente scoraggiato. Solo a partire dal periodo imperiale (dal 27 a.C.)
cominciarono a essere disponibili quantità rilevanti d’oro: inizialmente i romani
adottarono gli stili della Grecia ellenistica, recentemente conquistata, ma presto
svilupparono un proprio stile, caratterizzato da montature semplici e pesanti con
grande uso di gemme colorate.
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* descritto dallo scrittore romano Plinio, vissuto nel I secolo d.C.
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L’oreficeria romana dal I al IV secolo d.C. è chiaramente rappresentata nei ritratti,
sia tridimensionali che dipinti, inclusi nelle mummie romano – egiziane, che
attestano l’apprezzamento per i bracciali a serpente, indossati a coppie, collane,
anelli, orecchini con gemme. Gli anelli erano molto diffusi e vigeva già a Roma la
Ritratto dal sarcofago di una mummia
romano – egiziana, 130 d.C. circa
consuetudine di sigillare con un anello la promessa di matrimonio. Le opere tardo
– romane costituiscono la base per lo stile del successivo primo periodo bizantino.
L’impero bizantino era ben fornito quanto a materie prime per l’arte orafa, grazie
alle risorse minerarie auree dei Balcani, dell’Asia Minore e della Grecia. La
società bizantina era ieratica e rigorosamente regolamentata in ogni suo ambito e
poiché i gioielli simboleggiavano rango e prestigio sociale, si tentava, mediante
leggi suntuarie, di limitarne la disponibilità. Ciascun cittadino, sia maschio sia
femmina, era autorizzato a indossare un anello d’oro, ma l’uso più ampio dell’oro
e delle pietre preziose era
tendenzialmente riservato alla corte e al clero. I
bizantini traevano ispirazione dall’eredità classica, dalla cristianità e dalle
influenze orientali derivanti dalla vicinanza dei territori asiatici. Nella capitale le
attività orafe erano attentamente controllate: secondo quanto previsto dal codice di
Giustiniano i materiali più raffinati dovevano essere riservati ai laboratori interni
al palazzo, nei quali abili artigiani – che si succedevano di generazione in
generazione per privilegio ereditario – producevano gioielli per l’imperatore, la
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sua famiglia e la corte nonché preziosi destinati come doni di corte a personaggi
influenti o governanti stranieri in visita.
Ornamento pettorale d’oro sul quale sono
montate monete e un medaglione con
ritratto, la metà del VI secolo
La forma più tipica bizantina è probabilmente quella costituita da una pesante
fascia, corredata da un medaglione decorativo montato su cerniere da un lato e
con la chiusura sull’altro lato. Le simbologie della cristianità sono ricorrenti e i
pendenti a forma di croce (alcuni con funzioni di reliquiario) sono i primi a essere
diffusi e apprezzati.
Concludendo l’arte bizantina il cui concetto di spiritualità portò un ordine estetico
nuovo in tutto il mondo cristiano ebbe vasta diffusione in parte dell’Italia, in tutta
la penisola balcanica, in Russia e in Egitto, si concluse con la conquista e il
saccheggio dei crociati nel 1204.
Anche nell’Europa medioevale i gioielli continuarono a rivestire importanza sia
per gli uomini sia per le donne e furono anche prodotte per i bambini versioni
ridotte dei modelli destinati agli adulti, ornandole con vetri colorati invece delle
gemme. Gli stili medievali sono suddivisibili in tre fasi cronologiche : durante
Spilla a stella d’oro ornata con smeraldi, ametiste
e perle, realizzata a Verona o Venezia nel 1325 1350
l’Alto Medioevo, dall’800 al 1200 circa, l’influsso principale è quello della corte
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bizantina. Verso la fine del XIII secolo lo stile gotico, che già dominava
l’architettura europea, si estende anche all’arte orafa: questo stile perdurerà per
tutto il resto del periodo medioevale, ma dal 1375 circa le forme appaiono più
raffinate e morbide, con una maggior enfasi sull’ornamento naturale. Questa fase
dura almeno fino alla seconda metà del XV secolo, quando l’influenza
rinascimentale inizia a estenderci dall’Italia al resto d’Europa, apportando anche
nuovi stili all’arte orafa. L’oro continua a essere considerato il metallo più
prezioso. Le pietre preziose non venivano scelte semplicemente in base al colore o
alla rarità, ma anche in considerazione delle proprietà terapeutiche e spirituali loro
attribuite. Tali qualità erano riconosciute da tutti i ceti sociali ed erano oggetto di
considerevoli studi. Verso la fine dell’XI secolo Marbodio, vescovo di Rennes, in
Bretagna, scrisse l’importante Liber Lapidum (Libro delle pietre), ispirato a varie
fonti pagane precedenti, dove descriveva in versi latini la qualità magiche di circa
sessanta pietre. Per fare un esempio lo zaffiro apportava molti benefici a chi lo
indossava: la protezione fisica, la capacità di superare la paura e l’invidia,
favoriva la pace e la riconciliazione, guariva gli occhi e mal di testa. L’opera di
Marbodio si diffuse largamente tra monaci, orafi, medici e farmacisti in tutta
l’Europa medievale e costituì la base di molti successivi trattati sulle proprietà
delle pietre. Tipici tra i gioielli medioevali erano i reliquiari a forma di pendenti: il
cristallo di rocca, materiale prezioso e trasparente al contempo, era l’ideale. Un
Reliquiario francese a pendente
realizzato con un flacone di
cristallo di rocca, 1300 circa
altro tipo di gioiello di carattere religioso era il medaglione Agnus Dei, realizzato
in cera sulla quale veniva incisa l’immagine dell’Agnello di Dio e il nome del
papa in carica. Questi medaglioni erano molto apprezzati soprattutto per il valore
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spirituale e le proprietà protettive loro attribuite, tra cui il potere di cancellare i
peccati, aumentare la devozione, proteggere da incendi, naufragi, tempeste,
aggressioni diaboliche e inoltre salvaguardare le donne durante il parto.
Il Rinascimento è un periodo di grande splendore e “rinascita” culturale, sociale
ed economica. Dopo un lento avvio nei primi anni del XV secolo, la gioielleria
rinascimentale prodigò uno straordinario repertorio di oggetti preziosi tra i più
spettacolari della storia della gioielleria. L’arte orafa durante il rinascimento fu
considerata alla stessa importanza della scultura e della pittura. Non esisteva la
distinzione, a noi consueta, tra arti minori e maggiori. Era naturale per artisti come
Botticelli o Donatello dedicarsi all’oreficeria. Era infatti consuetudine che pittori e
scultori facessero il loro apprendistato anche presso le botteghe orafe. Al concorso
Lorenzo Ghiberti,
dettaglio della porta del Battistero, Firenze
per la seconda porta del Battistero di Firenze nel 1401 i principali concorrenti
erano orafi e orafo sarà il vincitore, Lorenzo Ghiberti. Ma l’orafo più noto è
Benvenuto Cellini (1500-1571). L’autobiografia di Cellini e i trattati da lui scritti
offrono un prezioso scorcio dell’epoca e testimoniano la sua prolificità di
artigiano. Nessuno dei gioielli da lui realizzati è sopravvissuto e l’unica traccia
rimasta è l’acquerello raffigurante un grande fermaglio per piviale che Cellini
realizzò per conto del papa Clemente VII nel 1530- 1531 e che fu poi fuso alla
fine del XVIII secolo. Nell'Europa settentrionale questa combinazione artista –
orafo era più rara: le eccezione nota è il pittore di Norimberga Albrecht Durer
(1471- 1528), il cui padre era orafo, che realizzò alcuni gioielli.
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I motivi più ricorrenti, usati nella gioielleria, erano i soggetti classici e mitologici
adatti ad esprimere sentimenti d’amore attraverso la loro simbologia conosciuta e
studiata in tutti gli ambienti colti. L’adattamento al classicismo, è necessari
rilevare, solo di natura figurativa e non stilistica poiché la gioielleria dell’epoca
classica era poco nota. Continuarono ad essere utilizzati i soggetti religiosi.
Nel ‘600 nasce lo stile d’arte che definiamo con lo termine Barocco, che significa
ridondante, privo di primeggi di equilibrio e severità formale. In effetti per tutto il
1600 la gioielleria prodotta si era appesantita con forme floreali e decorative e
Collana di fiocchi in oro smaltato con
diamanti, perla e zaffiro,
probabilmente francese, 1660 circa
molteplici pietre. Il fiocco è uno dei motivi più diffusi e deriva probabilmente dai
nastri con i quali un tempo si fissavano i gioielli. Tuttavia di questo periodo non
abbiamo grandi e notevoli testimonianze perchè le continue guerre di questo
secolo avevano impoverito molti corti, inoltre era uso smontare i gioielli
recuperando le pietre per ricrearne degli altri, è chiaro che molti oggetti di certe
mode e stili venivano a scomparire lasciando solo testimonianze grafiche nei
disegni.
Intorno agli anni trenta del XVIII secolo, a Parigi, ebbe origine lo stile Rococò
che influenza le arti decorative di tutta l’Europa con la sua asimmetria,
osservabile nell’aggraziata fluidità dei fiori e delle piume realizzati con le gemme
e dei motivi a foglia che predominano fino agli anni ottanta. A fine settecento la
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Rivoluzione francese impose mode e comportamenti e suggerì ai gioiellieri un
ricco repertorio iconografico. L’immagine della ghigliottina, ad esempio, fu di
Bouquet russo; diamanti e smeraldo,
1760 circa
gran moda, per la produzione di orecchini, e indossandoli, venivano espresse le
proprie ideologie politiche.
Durante il XIX secolo si assiste in campo orafo ad una proliferazione di stili,
motivi e progressi tecnici. La peculiarità dell’ottocento è quella di essere stato un
secolo dominato dall’eclettismo in campo artistico e di aver visto, contrariamente
a ciò che era accaduto precedentemente, non lo svolgersi progressivo di uno stile
dominante, ma la compresenza e proliferazione di stili di diversa natura e
provenienza.
Dalla metà del secolo le importanti scoperte archeologiche influiscono
profondamente sullo stile dei gioielli dando luogo alla reintroduzione di un
repertorio di forme, ornamenti e tecniche perduti da lungo tempo: nasce così il
nuovo “stile archeologico”. Il più importante laboratorio di oreficeria in questo
Cofanetto di Castellani contenente gioielli in stile
romano antico, donata dalla città di Roma alla
principessa Maria Pia di Savoia in occasione del
suo matrimonio con re Luigi I del Portogallo, nel
1862
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campo fu fondato a Roma da Fortunato Pio Castellani nel 1814 e divenne in breve
il punto di riferimento per tutti gli appassionati di archeologia.
In Francia la produzione e l’uso dei gioielli subiscono una drammatica
interruzione a causa della Rivoluzione del 1789. La considerazione per i gioielli –
visti come simboli tra i più importanti della monarchia e della corte – era
capovolta: possederne indicava l’appartenenza all’aristocrazia e, durante il
periodo del Terrore, anche un paio di fibbie per scarpe di tipo particolarmente
elaborato era un motivo sufficiente per condannare il proprietario alla ghigliottina.
Gli unici ornamenti accettabili erano rozzi pezzi commemorativi. I più diffusi
erano semplici anelli di ferro, recanti iscrizioni patriottiche.
Con la proclamazione dell’Impero, nel 1804, riemersero le attività connesse agli
articoli di lusso e in particolare l’arte orafa. Benché elaborati, i modelli di questo
periodo non appaiono eccessivi, anzi piuttosto compassati e discreti, con ghirlande
d’alloro e greche disposte con geometrica precisione ed equilibrio.
Il periodo intorno alla metà del XIX secolo fu contrassegnato da grandi progressi
scientifici e tecnici. Nel 1859 fu brevettata una macchina per la produzione di
catene, di cui si vantava la capacità di sostituire settanta lavoratori e di ottenere
prodotti più uniformi.
Verso la fine del XIX secolo il movimento dell’Art Nouveau si estese in tutta
l’Europa, rivoluzionando l’architettura e le arti decorative. In nessun campo come
nella gioielleria questo stile ebbe modo di affermarsi. Linee libere fluenti, in netto
contrasto con la rigidità del cinquantennio precedente. Uno degli effetti più
notevoli del movimento Art Nouveau fu il fiorire delle arti applicate, scomparve
Spilla realizzata dall’architetto e disegnatore Josef
Hoffmann, argento con malachite e agata
muschiosa, 1910 – 1911 circa
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per un breve periodo la distinzione tra arti pure ed arti applicate: gli artisti
divennero artigiani, gli artigiani in artisti. I gioielli “artistici” si diffusero
ampiamente, ma questo portò al declino dello stile in quanto gli orafi più
importanti persero interesse e si rivolsero a nuove forme di espressione.
L’Esposizione di Parigi del 1900 fu il centro di questo vivace ed elegante periodo
i cui stili rimasero in voga con pochi cambiamenti fino allo scoppio della prima
guerra mondiale, nel 1914.
Tra la prima e la seconda guerra mondiale emerse lo stile Art Decò* , definito da
motivi stilizzati e geometriche sintesi di varie influenze stilistiche tra cui lo stile
cubista, la Secessione Viennese, l’influenza della tecnologia ecc. In Germania si
esploravano approcci radicali da parte di studenti e insegnanti del Bauhaus*, che
Naum Slutzky
Collana
tubi di ottone cromato, 1960
mirava ad applicare le immagini industriali e tecnologiche al design di qualsiasi
settore. Le teorie del Bauhaus vennero elaborate nell’arte orafa da Naum Slutzky
(1894- 1965), che lavorò principalmente con ottone cromato o argento per
realizzare forme sobriamente geometriche. Quando il Bauhaus venne chiuso dai
nazisti nel 1933 molti studenti e insegnanti fuggirono all’estero, influenzando
considerevolmente lo sviluppo dei moderni stili orafi. Tra il 1939 e il 1945
l’industria orafa europea conobbe un arresto a causa dello scoppio della seconda
guerra mondiale.
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* nome coniato dopo l’esposizione internazionale delle arti decorative e
industriali moderne tenuta a Parigi nel 1925
* l’influente scuola fondata da Walter Gropius a Weimar nel 1919
19
2.
Il gioiello contemporaneo
“La definizione di gioiello contemporaneo comprende tutti i gioielli, né antichi e
né moderni, cioè contemporanei, mentre vorrebbe affermare e comunicare la
distanza che intercorre tra i gioielli “commerciali” e i gioielli tout court* ..”
Gabriele DeVecchi*
Dal 1960 si sono susseguiti nel settore dell’oreficeria considerevoli cambiamenti:
mentre le principali case di produzione internazionali continuano a lavorare con i
metalli preziosi, sulla base degli stili evoluti dai decenni precedenti, si fa strada
l’innovazione, principalmente per mano di singoli artisti – artigiani addestrati
nelle scuole d’arte. In molti casi, più che di attività commerciali, si tratta di
espressione artistica, ma in ogni caso di una sfida al concetto di arte orafa, tramite
l’uso di nuovi materiali e forme radicalmente diverse. Molteplici nuove idee si
sviluppano in parallelo nell’arco di un breve periodo – alcune rivoluzionarie quasi
sotto ogni aspetto, altre sotto forma di nuovi stili, evoluti però chiaramente da
tradizioni consolidate. La nuova generazione emergente negli anni sessanta e
settanta contestava il concetto di gioiello e del suo ruolo in società, rifiutando –
come per altre forme d’arte – le convenzioni esistenti. Esplorarono inoltre i
confini tra gioiello e scultura, abbigliamento e anche performance art,
trasformandolo da semplice ornamento a mezzo di sperimentazione artistica. In
Germania questa tendenza si concretizzò con l’apertura, nel 1961, dello
Schmuckmuseum (Museo dei gioielli) a Pforzheim, mentre a Londra fu
organizzata, nello stesso anno, la prima esposizione comprendente i nuovi stili,
con oltre mille oggetti provenienti da 108 paesi.
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* significa letteralmente “in breve”, in modo secco e deciso, e senza preamboli
* In occasione della tavola rotonda AGC a Trieste, 09 novembre 2005
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Sono tanti gli orafi – artisti che hanno preso parte in questa “rivoluzione” di
materiali o forme nel gioiello. Ne citerò soltanto alcuni.
Tra questi Otto Kùnzli (n. in Svizzera nel 1948) è uno dei più interessanti,
controversi e tecnicamente capaci. All’inizio degli anni ottanta le sue grandi spille
di polistirolo ricoperto con carta da parati suscitarono notevoli interrogativi su
Una delle spille realizzate in
diverse serie da Otto Kùnzli nel
1983
quanto un gioiello potesse allontanarsi dalle forme e funzioni previste ed essere
ancora definito tale. Anche Kùnzli non ama l’esibizione della ricchezza: nel suo
monile a cerchietto con la scritta “l’oro vi acceca”, una pallina di vero oro è
completamente nascosta, incorporata in una fascia di gomma nera. Il commento
sociale o politico è ancora più esplicito nel lavoro dell’orafo svizzero Bernhard
Bernhard Schobinger
Collana, 1990
Schobinger (n. 1946), le cui opere comprendono, tra le altre, una collana
realizzata nel 1990 con colli di bottiglia spezzati, infilati in una corda.
L’uso degli oggetti di recupero è un ampliamento naturale della ricerca di
materiali alternativi, inoltre, trattandosi di una forma di riciclaggio, riflette le
attuali tendenze ecologiche. Tra gli orafi che utilizzarono deliberatamente oggetti
“trovati”, dalla metà degli anni sessanta, gli americani Fred Woell (n. 1934) e
21
Robert
Ebendorf
(n.
1938)
realizzarono
pezzi
ispirati
al
collage
o
all’assemblaggio.
Il tema è stato ampiamente studiato, con recenti variazioni da parte dell’americano
Bracciale American Dream, di Roy , segnale
stradale con la scritta STOP, montato in
argento con diamanti e un rubino, 1993
Roy (n. 1962) che include nei suoi ornamenti sezioni ritagliate dalla segnaletica
stradale.
I materiali recuperati in natura, come sassi e conchiglie, sono tuttora gli elementi
alternativi più usati in oreficeria. Non manca lo studio del corpo umano, per
esempio nelle “body – print” di Gerd Rothman che negli anni ottanta ha prodotto
tra l’altro un orecchino fuso sull’impronta del lobo, che si adatta perfettamente al
Gerd Rothman
Anello
argento 1987
vero orecchio, e un anello – sigillo decorato con l’impronta di un pollice.
In Italia, la ricerca orafa di Alberto Zorzi si articola in due linee stilistiche portate
avanti parallelamente: da una parte gioielli nati dal libero e spontaneo gioco di
Alberto Zorzi
La città, 2002
Anello in oro giallo
forme, dall’altra una tendenza costruttivista che dà vita a forme misurate,
calcolate. Questi gioielli, basati sulle principali figure geometriche – rettangolo,
22
triangolo, ma soprattutto sfera – sono contraddistinti da una superficie pulita,
riflettente, e dall’uso di pietre non preziose scelte solo per il loro cromatismo.
Bruno Martinazzi è uno scultore torinese, che ha dedicato gran parte della sua
ricerca artistica alla creazione di gioielli. L’artista si distanzia dal concetto
tradizionale dell’ornamento, trasformando l’oggetto di lusso in mezzo di
comunicazione. Nella fase matura della sua opera il corpo umano diventa
Goldfinger, 1969
Bracciale
Oro bianco e giallo sbalzato e cesellato
dall’artista
protagonista, anzi meglio le singoli parti del corpo, gli occhi le labbra, le dita,
l'ombelico, popolano spille, anelli, collane. Martinazzi dichiara: “Questo operare
penso abbia una valenza etica, penso sia un appello alla ‘totalità’ (posso dire al
trascendente) […] È come se la mia coscienza si venisse a porre in una terra di
nessuno tra esperienza di finitezza e intuizione di totalità. […] Il mio fare
artistico credo che sia il cercare forme da usare al servizio del soprasensibile”.*
Il bracciale Goldfinger evoca proprio l’azione dell’afferrare, dell’aggrapparsi,
manifestando la ricerca interiore dell’uomo verso qualcosa che trascende la
materia.
Molti orafi – artisti in attività fin dal 1960 hanno preferito continuare a esprimere
la propria creatività con i materiali tradizionali, sviluppando vari metodi e
tecniche per la lavorazione dei metalli preziosi. La maggior parte dei più
importanti orafi italiani ha continuato comunque a lavorare con l’oro, a
prescindere dai dibattiti in corso in Europa, e, particolarmente a Padova, si è
sviluppato uno stile astratto, distaccato ed elegante, basato sull’oro opaco e
lucente e quasi sempre privo di gemme. Durante la docenza di Mario Pinton (n.
1919) all’Istituto Statale e Istituto d’Arte “Pietro Selvatico” la città è diventata il
____________________________________________________________
* AA.VV., Bruno Martinazzi. Gioielli 1958 – 1997, Stuttgart, Arnoldsche, 1997
23
più importante centro di oreficeria artistica in Italia.
Fin dagli anni sessanta si discute sul materiale in cui devono essere fatti i gioielli,
come definire i confini e se si tratti o meno di arte. Come nota Enrico Crispolti:
“La considerazione del gioiello contemporaneo non può risolversi soltanto in un
apprezzamento di qualità inventiva formale, plastico – materica ,come del resto
non può neppure risolversi in un riscontro di preziosità materiologica; una
considerazione non formalistica del gioiello contemporaneo comporta infatti una
valutazione dell’opera nella dinamica individuale e sociale del suo uso in atto,
cioè
nella
concretezza
della
sua
destinazione
e
fruibilità,
sia
di
autorappresentatività individuale (gioielli nei quali riconoscersi), sia di una
propria rappresentatività sociale (gioielli attraverso i quali farsi riconoscere,
proporsi).” *
I confini tra gioielli, sculture, performance art e moda sono stati estesi e verranno
continuamente ridefiniti dagli artisti che rifiutano i limiti delle convenzioni. “Un
gioiello è un oggetto prezioso, un oggetto raro, qualcosa che ha un valore e non
sempre un prezzo.” Bruno Munari*
_________________________________________________________________
* In occasione della tavola rotonda AGC a Padova, 18 febbraio 2007
* Bruno Munari, Che cos’è un gioiello, 1978, introduzione a James Rivière,
Gioielli verso il futuro, ed. L’agrifoglio, Milano, 1991
24
Gioiello d’Artista
“Nei gioielli come in tutta la mia arte, io creo ciò
che amo. Essi non sono stati concepiti per giacere
inanimate in cripte d’acciaio, ma sono stati creati
per il godimento dell’occhio, per l’evasione dello
spirito, per stimolare l’immaginazione.”
Salvadore Dalì
25
1.
Questioni preliminari
I gioielli d’artista sono la testimonianza dell’incontro fra due mondi, quello
dell’artista e quello dell’orafo. Due “stili” che trovano un’armonia, e creano un
nuovo, unico oggetto d’arte.
“Non si tratta di puri elementi decorativi, sono emblemi simbolici di una ricerca
creativa fra l’artista e l’artigiano”, come dice Pierre Restany.
L’oro è sempre stato un punto di incontro nel mondo dell’arte. Per qualcuno è un
punto di partenza, per altri rappresenta il proprio microcosmo. Per molti artisti
disegnare un gioiello rappresenta un gioco, poter spaziare con la fantasia anche
nei preziosi materiali e nelle ridotte dimensioni. C’è una volontà di trasferire
l’oggetto d’arte in prezioso monile da portare, quindi un’arte “indossata”, vissuta
in prima persona, dove ognuno prova l’emozione di divenire, col proprio corpo.
Questo dei gioielli d’artista è un settore dell’arte piuttosto inesplorato, anche se
esperienze in questo campo sono state fatte da sempre, ma è soprattutto negli
ultimi anni che si è assistito ad un vero e proprio boom, dato anche il crescente
interesse dimostrato da gallerie, critici, mass – media, fiere, collezionisti e da tutti
gli operatori dell’arte moderna e contemporanea: vi è un moltiplicarsi di
esposizioni, manifestazioni, happening, aste e perfino la nascita di musei
interamente dedicati a questa particolarissima forma d’arte.
Nei primi decenni del Novecento le avanguardie storiche trasformano il “fare
gioiello” nel “fare arte” e aprirono la strada a tutto il filone del gioiello d’artista
che assumerà, nel corso del secolo, un carattere particolare di progetto autonomo,
modello privilegiato di poetica. L’artista è attratto dalla materia preziosa, dagli
stimoli diversi che questa nuova forma di creatività può suscitare. Gli artisti
creatori di gioielli sono accomunati da caratteristiche che li pongono al di fuori
della produzione orafa tradizionale e ne fanno dei testimoni privilegiati della loro
epoca. Innanzitutto, ciò che distingue gli ori d’artista è il loro possedere una
connotazione così decisa da poter attribuire ogni pezzo al suo autore, poiché il
26
legame con la produzione scultorea o pittorica, con il segno distintivo dell’artista
è sempre molto forte.
In generale, i manufatti eseguiti dagli artisti con materie preziose, quindi con una
precisa volontà di fare gioielli, sono rari e nascono in modo non costante. Nella
maggior parte dei casi l’esigenza di produrre gioielli risponde a un impulso che
l’artista avverte come un “episodio laterale” della sua ricerca creativa, rispondente
a sua volta a un movente non certo primario.
La sensazione che il “gioiello” sia stato fondamentalmente trascurato o
considerato puro oggetto ornamentale senza possibilità di valore artistico è
cambiato nel corso della cultura visiva contemporanea. L’interesse verso la
decorazione e l’artigianato assume infatti piena dignità nella ricerca artistica
contemporanea, dai futuristi in poi diverse sono le occasioni di verifica di questa
tendenza: motivi per tappeti, ricami, stoffe, cravatte, lampade, vasi, studi per
arredamenti, eccetera, nonché bozzetti per gioielli e oggetti preziosi di vari
dimensioni. Dal quadro alla scultura, dalla sedia al tappeto, dal vaso al gioiello,
cresce negli artisti contemporanei una precisa volontà di fissare l’insieme
pluridimensionale degli oggetti come segni di un’esperienza totale della vita
quotidiana, visiva, tattile, olfattiva, uditiva.
“Perché questo è il punto”, sottolinea Nello Ponente nell’introduzione alla prima
rassegna del “gioiello d’arte firmata” tenutasi a Torino alla fine degli anni
Sessanta, “l’oggetto d’ornamento è anch’esso la realizzazione concreta, nel
materiale, di un disegno, di un progetto dunque, come ogni altra espressione
artistica. Non meraviglierà affatto, perciò, che artisti moderni abbiano trovato
adeguata espressione (e coerente) nel gioiello, nell’ornamento, e abbiano avuto
la capacità di trasferire in essi, integralmente, la loro problematica e la loro
cultura formale.” *
* Luisa Somaini, Claudio Cerritelli, Gioielli d’Artista in Italia 1945 – 1995, Electa, Milano 1995
27
Non si può, quindi, relegare questa produzione a una “categoria tipologica di un
artigianato secondario”* , citando ancora Nello Ponente, ma bisogna considerarla
come una condizione della coscienza moderna dell’arte, consapevole che la
pratica artistica si nutre di tanti aspetti diversi e convergenti verso un medesimo
piano di ricerca.
Gli artisti mettono a disposizione il loro estro creativo per la produzione di oggetti
d’uso, diciamo pure lo stile riconosciuto, con l’evidente finalità di dotare questi
oggetti di una funzione pratica ed estetica efficace per colui che se ne serve, li
indossa, li trasferisce nel proprio universo quotidiano. Il gioiello d’artista è
un’opera d’arte, da indossare con lo spirito con cui si maneggia una scultura.
Vero è che gli artisti italiani contemporanei, dal 1945 a oggi, hanno spesso
mostrato interesse solo nel disegnare gioielli, lasciando che questi disegni, a volte
solo indicativi, fossero interpretati e realizzati da abili e raffinati gioiellieri come
Danilo Fumanti, Diderico Gherardi e Mario Masenza a Roma o come GEM
Montebello a Milano, soprattutto negli anni Sessanta.
È altrettanto vero che in altri casi, piuttosto rari per la verità, la pratica del gioiello
non è stata più una zona periferica o casuale del lavoro artistico ma una
dimensione interna e conseguente all’ ”immaginazione materiale” e creativa
dell’autore. Questa sensibilità si rivela soprattutto nell’applicazione degli scultori
che, com’è ovvio, hanno sviluppato una maggiore attitudine con le proprietà
materiche delle forme plastiche e con la fisicità delle superfici, e qui l’esperienza
di Arnaldo e Giò Pomodoro (della quale parlerò nel capitolo seguente) negli anni
Cinquanta, e oltre, è senza dubbio illuminante.
“Nella formazione stessa degli scultori spesso la componente di operatività
artigiana è molto forte, e dunque c’è una intenzionalità, e reale possibilità di
notevole autonomia di gestione del lavoro anche nell’ambito orafo”, avverte
Enrico Crispolti nel presentare L’oro della ricerca plastica a Fano nel 1985. “In
questo senso infatti si verifica nell’impegno orafo degli scultori una differenza di
comportamento progettuale a seconda del grado di rapporto operativo consueto
* Ivi
28
con la materia, con i materiali, nell’ambito della propria più tipica ricerca
plastica. È chiaro che chi opera sulla materia direttamente, come propria
abitudine (ma anzi poetica) di lavoro, tenta una soluzione propria anche del
prodotto orafo. Mentre chi intende la scultura come progetto eseguibile sarà più
portato a proporre progetti di gioielli, anziché a realizzare direttamente
gioielli.”*
Gli artisti contemporanei non ricorrono necessariamente all’impiego esclusivo
della materia preziosa; studiano e adeguano alle esigenze della realizzazione di un
ornamento altri metalli e materiali diversi che caratterizzano il loro lavoro. Negli
anni Sessanta e Settanta, e oltre, in sintonia con le diverse avventure estetiche
degli artisti, entrano nel mondo degli ornamenti d’autore, materie inusuali al
gioiello, come il cemento utilizzato da Uncini o il metacrilato colorato impiegato
da Marotta. Non per questo gli ornamenti d’artista entrano a far parte della
bigiotteria. Ornamenti che si giovano delle nuove concezioni artistiche e connesse
materiologie.
Celebri sono i contributi estroversi e le eccentriche interpretazioni offerte dagli
esponenti più originali dell’arte contemporanea, da Picasso a Braque, da Cocteau
a Man Ray, da Ernst a Dalì, da Gonzales a Giacometti, da Arp a Calder, da
Nevelson a Lichtenstein, con gioielli creati dalle forme capaci di stimolare non
solo l’immaginazione ma la sensorialità tutta interna.
Ma io dedicherò l’attenzione solo ad alcuni artisti – scultori italiani che, a mio
avviso, sono più interessanti nel campo del gioiello.
* In occasione della tavola rotonda AGC a Padova, 18 febbraio 2007
29
2.
Edgardo Mannucci
Materiali come epidermidi mineralizzate
L’artista nato nel 1904, a Fabriano, nel 1927 si trasferisce a Roma, dove frequenta
assiduamente lo studio di Quirino Ruggeri e intanto si lega in amicizia con gli
artisti di più alta rinomanza di quegli anni: Martini, Melli, Balla, ecc..
È stato scritto che, in quel periodo romano, Mannucci aveva elaborato un proprio
figurativismo oscillante fra pieno e abbandonato naturalismo.
Nel decennio della guerra riconsiderò, con acuta intelligenza e attenta riflessione
critica, la natura della creatività artistica, i moduli espressivi, lo stile, avviandosi
verso una piena libertà di linguaggio e di invenzione formale. La ricerca si
concluderà attorno agli anni Cinquanta, con esiti di totale passaggio dal figurativo
all’astratto. Nel 1949 Mannucci veniva onorato con il conferimento del premio di
scultura, alla prima mostra dell’arte non figurativa dell’Art – Club.
Le valenze della sua opera; senza fare distinzione tra quelle che sembrano
coinvolgerci fisicamente nello spazio che assorbono
o di quelle – come le medaglie, i gioielli e i disegni – che si possono tenere sulla
palmo della mano, o si leggono a distanza di libro, è nella intensità esistenziale
della espressione ed il suo espandersi in armonia. Di fronte ad ogni sua opera
siamo portati a sottolineare l’aspetto immediato e violento dell’emblematico. È
chiaro – come è stato ripetuto dai suoi critici – che Mannucci descrive quello che
avviene dopo la fiammata atomica e che le sue sculture sono il
30
reperto tratto dall’orrendo silenzio privo di ogni segnale. Ma bisogna ancora
leggerlo, nell’ordine della profezia, nei segni della misura e talvolta della grazia
raffinata, motivazioni che sono il riflesso della vita: il superamento di ogni
possibile sconfitta nel nome dell’umano destino. È lo stesso Mannucci che, con la
sua abituale schiettezza, ce lo rivela: “Penso di portare avanti (…) il discorso
sulla nuova cultura creata sia da Hiroshima che dallo sbarco sulla luna. Perché
per me la cultura è la vita”.*
Galassie infernali o nuclei oscuri della materia, vento atomico, scorie, scheletri del
paesaggio, la stessa follia della violenza, non disperdono mai in Mannucci il cuore
Spilla, 1979
Argento, lamina battuta
e fili fusi dall’artista, zaffiri
della vita perché si sottomettono alla fede del creare, alla necessità di
rappresentare la grandezza del vivere: il cuore stesso dell’essere.
Edgardo Mannucci che si forma al Museo Artistico Industriale di Roma, è tra i
primi a saldare direttamente il metallo con la fiamma. Gli anni della ricerca, lo
vedono sviluppare le prime Idee con un procedere immaginativo per molti versi
vicino a quello di alcuni componenti del gruppo “Origine”, in particolare di Burri,
come sottolinea Emilio Villa che più tardi lo presenta alla Biennale di Venezia del
1956, dove espone come medaglista. Villa coglie nel suo lavoro “preziose
coincidenze tra i modi insorgenti da regioni puramente automatiche (scolature di
Spilla, 1958
Argento martellato
e fuso dall’artista, turchese
31
__________________________________________________________________
* Valerio Volpini (a cura di), Mannucci, catalogo della mostra, Stamperia Belli, Pesaro 1982
fonderia, frammenti caotici, materiali come epidermidi mineralizzate, o come
piaghe; fortuiti splendori dell’oro, dell’argento, del bronzo e degli smalti) e le
urgenze della meditazione costruttiva”.*
L’artista inserisce lamine e scorie di bronzo in una tramatura spaziale di fili
d’ottone impreziosita dall’innesto di frammenti di vetro colorato, in funzione di
nucleo germinante, punto di sviluppo di energia della materia. Cerca il contrasto
cromatico con l’impiego di materiali diversi e di patine. Negli stessi anni lavora ai
suoi primi gioielli in oro e argento, ottiene grumi di materia da portare come un
Spilla, 1966
Oro, lamina martellata
e fili fusi dall’artista, turchese
ciondolo di scavo, salda fili d’oro e d’argento fusi alla lastrina che completa con
pietre dure. Mannucci si dedica alla realizzazione di gioielli a partire dalla fine
degli anni Quaranta: la prima occasione è data dalla commissione del re
dell’acciaio Thompson che gli porta una medaglia di Picasso e gli chiede la
realizzazione di un bracciale in oro; ma è poi Masenza che lo invita a proseguire
questa attività collaterale alla scultura.
Mannucci lavora direttamente i metalli senza porre tra essi gerarchie di valore
intrinseco che possano influire sulla tensione immaginativa che prelude alla
creazione dell’opera: lavora la pepita d’oro sullo stesso bancone di refrattario,
passando semplicemente a un cannellino più fine per la fiamma.
32
* Ivi
Tuttavia nell’esperienza di lavorazione sperimentale dell’oro trova forse origine il
suo istinto per la “dizione preziosa della materia” *, come sottolinea più volte
Crispolti.
Nel 1962 Gordon Bailey Washburn, nel presentare le Idee dell’artista, invitato con
una sala personale alla Biennale di Venezia, non dimentica di ricordare la sua
produzione orafa: “La sua opera”, scrive, “fa tornare alla memoria tutta la
storia dell’artigianato italiano e specialmente degli Etruschi che amavano i
ricchi contrasti di struttura sviluppando al loro tempo un costante opporsi di
superfici granulate con superfici lisce, e che preferivano l’oro a tutti gli altri
‘colori’”.*
Nei gioielli di Mannucci si trova il riscontro della sua evoluzione artistica: dai
grumi di materia informe, alle spille e ai ciondoli improntati a un più lirico
disegnare
nello
spazio,
attorno
al quale
ruota
un
piccolo
universo.
Successivamente l’artista introduce una nozione d’ordine, avvertibile nella più
controllata impaginazione degli elementi compositivi: salda su diversi piani
superfici martellate e arricchite da grafie che si distendono lungo traiettorie
originate dal fiorire di grosse pietre.
__________________________________________________________________
* In occasione della tavola rotonda AGC a Padova, 18 febbraio 2007
33
* Francesca Romana Morelli (a cura di), Ori d’Artista. Il gioiello nell’arte italiana 1900 – 2004,
catalogo della mostra, Silvana Editoriale, Milano 2004
3.
Fausto Melotti
L’occupazione armonica dello spazio
Fausto Melotti nasce a Rovereto (Trento) nel 1901. Fin dal 1928, quando ottenne
il diploma di scultore all’Accademia di Brera, a Milano, e fu libero da discipline e
principi scolastici, l’artista scoprì la sua strada personale e i veri principi che
l’avrebbero regolata. Tuttavia solo con molto ritardo il mondo dell’arte arrivò a
riconoscere il significato profondo della sua opera. Fu nel 1966, alla XXXIII
Biennale di Venezia, che la scultura di Melotti destò per la prima volta l’interesse
di un pubblico più vasto. Ciò che conta in Melotti è la sua concezione, tutta
particolare, dello spazio. Occupa senza dubbio una delle posizioni di punta tra gli
scultori che, all’identificazione di scultura e spazio o all’identificazione dello
spazio come entità plastica a sé stante, hanno dato il maggiore contributo.
Melotti ha scoperto che la dimensione dello spazio possiede una sua autonomia
emozionale ed espressiva. Carlo Belli (il cugino di Melotti) racconta che a
Firenze, intorno al 1918, egli aveva iniziato la scoperta della scultura
rinascimentale da questa osservazione dell’artista davanti al David di Donatello:
“Vedi che silenzio circola intorno ad essa”. Questa osservazione ci offre la chiave
per penetrare nel mondo di Melotti. Il silenzio si “vede” e “circola” intorno alla
scultura: il silenzio equivale quindi alla dimensione stessa dello spazio. Spazio
imperturbato, dimensione dell’assolutezza.
Oltre allo “spazio melottiano” per poter intendere il suo
lavoro bisogna tenere conto del talento musicale di Melotti.
Come afferma lui stesso: “Lentamente la musica mi ha
richiamato, disciplinando con le sue leggi, distrazioni e
divagazioni, in un discorso equilibrato”. La musica in
quanto sintesi estrema di tempo e di spazio.
34
Spesso Melotti ha bisogno di due livelli nelle sue sculture: di un “sotto” e di un
“sopra”. Non fa partire quasi mai la scultura dal suolo o da una base di sostegno.
Preferisce un’impalcatura leggera che tiene sollevata in alto la scena dove si
svolge la rappresentazione. Il contatto con la terra è ridotta al minimo e, senza
peso come sono, queste sculture rispondono a quell’idea di Melotti per cui è
venuto il momento di liberare la scultura dal suo peso secolare, dalla sua gravità.
“Eliminare il piacere, il gusto della materia. Nella scultura, ciò che conta è
l’occupazione armonico dello spazio”* , dichiara l’artista. Per Melotti lo spazio
prescinde dalla materia, è realtà di valore universale, costituente essenziale dello
spirito: la sua nozione si realizza attraverso la speculazione geometrica. Sono gli
intervalli di spazio che producono un effetto a volte armonico e a volte
disarmonico. Lo spazio che è nelle distanze fra gli oggetti, nella relazione fra linee
e forme. Si tratta di silenzi indispensabili in queste opere e le tensioni, quando si
verificano, sono fra le piccole aste fatte con materiali minimi,
i triangoli, i cerchi, le strisce, le piccole lune, le reti
metalliche.
Così Melotti andava contro anche ai fondamenti della scultura
di Brancusi, che aveva dato il massimo valore alla materia, al
lavoro manuale sulla materia e ai volumi chiusi. Preferiva
parlare di modulazione, invece che di modellazione. Rifiuta la modellazione, in
quanto espressione diretta delle dita. E anche questo indica che l’arte per lui è
qualcosa che appartiene all’intelletto e non ai sensi, una scienza; “…tutto il nostro
sforzo consiste nell’insegnare il piccolo eroismo di pensare con il proprio
cervello”.*
Tutte le sfaccettature dell’opera di Melotti sono passaggi, corridoi attraverso i
quali le cose eludono loro stesse, come la musica quando diventa scultura, o come
la scultura quando diventa musica. Transizioni non fluide ma che consistono di
intervalli di un viaggio, di trasparenze, di trame, di filtri, di grate, attraverso cui è
lo spazio stesso a fluire.
__________________________________________________________________
35
* Vanni Bramanti, A.M. Hammacher (a cura di), Melotti, catalogo della mostra, Electa Firenze,
Firenze 1981
* Bruno Passamani (a cura di), Fausto Melotti. Opere 1935 – 1977, catalogo della mostra,
Vallagorina – Arti Grafiche R. Manfrini S.p.A, Calliano (Trento) 1977
Dopo questa premessa che è inevitabile per capire tutto il lavoro dell’artista, ora
mi dedico alla sua produzione “minore”, e cioè ai gioielli, che non si distanziano
tanto dalla sua scultura.
I primi gioielli creati da Fausto Melotti, negli anni quaranta, sono una serie di
collane in ceramica smaltata o terracotta realizzate per la moglie. Sono collane di
fascino antico e di grande semplicità, formate da grossi grani di ceramica con
colori che rinviano a quelli delle pietre dure: il verde – azzurro del turchese, il
Collana, 1950 circa
Ceramica smaltata, ottone
rosso del corallo, il blu del lapislazzulo. È questo infatti il periodo in cui l’artista
si dedica con passione all’esecuzione di opere, appunto, in ceramica. Intorno al
1959 l’artista si rivolge verso un nuovo materiale, l’ottone, con il quale comporrà
d’ora in poi gran parte delle sue sculture. L’ottone è infatti facilmente lavorabile e
permette all’artista di realizzare quelle opere dalle linee lunghe e sottili specifiche
della sua produzione. La caratteristica della malleabilità è propria anche dell’oro,
che viene per questo adoperato dallo scultore per opere come La pioggia, 1966, I
magnifici sette, 1983, La piuma, 1973 e Tre tempi, 1971 in oro e argento.
Il fluire della creatività fantastica e giocosa di Melotti viene dunque facilmente
assecondato dalla semplicità di lavorazione di questi materiali. Sovente l’ottone
viene anche colorato o accostato a parti di stoffa, legno, carta o creta. Notevoli la
collana del 1966 con pettorale di fili di ottone lavorati a matasse ordinate: un
36
modo di disegnare direttamente sul corpo eleganti orditure in material e povero, e
quella con pendente quadrato a griglia metallica, pensato invece per una continua
oscillazione sollecitata dai movimenti del corpo, in modo da proiettare un’ombra
Collana, 1973
Argento
sempre diversa sul vestito. Nel 1971 Melotti si diverte a disegnare alcuni gioielli
per donne eleganti e bizzarre. Curiosi orecchini a ricciolo che riprendono,
amplificandolo, il sinuoso andamento dell’anatomia, e nuvole d’oro da portare
sulla testa, gomitoli di fili sottili come capelli. Le forme dei gioielli derivano,
Studio per orecchini a ricciolo, 1971
Matita su carta
soprattutto, dalle sue sculture: griglie metalliche, riccioli, ellissi, fili attorcigliati,
lune, cerchi o triangoli. In particolare Equilibri del 1959 diviene la base per la
spilla in ottone dipinto del 1973.
37
4.
Arnaldo e Giò Pomodoro
Una pulsione distruttiva della forma perfetta
Fino alla soglia degli anni sessanta la collaborazione tra i due fratelli è talmente
stretta (alcuni gioielli sono realizzati a quattro mani), da rendere poi difficile
riconoscere l’intervento di ciascuno autore.
Arnaldo Pomodoro nasce a Morciano di Romagna, Rimini, nel 1926. Dopo gli
studi di architettura, Arnaldo, come suo fratello Giò, esordì come disegnatore,
decoratore ed artigiano del metallo. Creava monili, pezzi astratti di oreficeria,
piccole sculture in oro e argento che lasciavano intravedere valide premesse per
una nuova scultura, lontana dalle forme tradizionali. Il percorso artistico di
Arnaldo Pomodoro comincia proprio con la progettazione dei gioielli che egli
realizza con la tecnica della fusione all’osso di seppia. “Se ben ricordo la prima
esperienza in questo campo risale al tempo della scuola, intorno al 1949- 1950”,
ricorda Arnaldo,” All’Istituto d’Arte di Pesaro ho provato a sbalzare il rame per
la borchia di una fibbia. L’ho regalata a una ragazza di Padova che l’ha fatta
vedere a un orafo della sua città. Questo signore, di cui non mi ricordo il nome,
mi ha suggerito di provare con l’oro e l’argento, mi ha spinto ad apprendere le
tecniche della lavorazione dei metalli. Durante queste esperienze ho scoperto gli
ossi di seppia. La tecnica che poi è diventata fondamentale per tutto il mio
lavoro. Anche oggi realizzo le mie sculture, lavorando sul negativo per ottenere
un positivo.”*
Assieme al fratello Giò e a Giorgio Perfetti, che si uniscono a lui in questo tipo di
produzione, organizza a Pesaro una mostra presso la casa Rossini. Il gruppo, che
si definisce 3P, ottiene in questa occasione un importante successo.
38
* Luisa Somaini, Claudia Cerritelli, Gioielli d’Artista in Italia 1945 – 1995, Electa, Milano 1995
Per il suo passaggio all’arte plastica fondamentale è il trasferimento, nel 1954, a
Milano dove comincia a frequentare l’ambiente artistico di Brera, in particolare
Lucio Fontana, Enrico Baj, Umberto Milani, Emilio Scanavino, ecc. Le prime
sculture, a metà degli anni Cinquanta, sono rilievi modellati nel ferro, stagno,
piombo, argento, cemento e bronzo. La sua scrittura è costituita da segni astratti.
L’uso di questi materiali testimonia la ricerca e la volontà
di Arnaldo di sperimentare nuovi mezzi formali e
espressivi. Dalla frontalità del rilievo si passa, negli anni
Settanta, alla complessità spaziale e materica della forma
a tutto tondo. L’ispirazione di questo periodo deriva dalle
forme perfette di Brancusi. La perfezione della forma
provoca in lui, anche sotto l’influenza del mondo
tecnologico e dell’action painting di Jackson Pollok, una pulsione distruttiva. La
sua forma è ridotta all’essenzialità volumetrica della sfera, del cubo, del cilindro,
del cono, del parallelepipedo e di altri solidi euclidei nettamente tagliati e iterati in
schiere o segmenti di schiere rettilinee o circolari. Sembrano ingranaggi di
misteriosi macchinari nascosti nell’interno di massicci contenitori (globi, colonne,
cubi, dischi) e resi parzialmente visibili dagli squarci e dai tagli che rompono le
liscie superfici di questi. Dalla capacità di associare in perfetta coerenza di stile
tali crepitanti microstrutture a una monumentalità nota anche nelle grandissime
dimensioni dei suoi bronzi nasce l’originalità delle creazioni di Arnaldo.
Nel 1956 i due fratelli sono invitati a partecipare alla Biennale di Venezia, dove
partecipano con trentina di gioielli ognuno. Nel catalogo vengono presentati da
Marco Valsecchi che scrive: “Un ornamento, diciamolo pure; non nascondono
Arnaldo Pomodoro
Bracciale, 1958
Oro bianco e giallo
39
difatti di essere oreficerie, gioielli. Ma sono anche una ‘scrittura’, al modo di
certe striature del marmo, di certe venature addentellate delle foglie, imprevedute
come capricci della natura, che invece legano insieme la sostanza e le danno
forma. L’equilibrio è al millesimo, si regge anzi all’imponderabile, come penso
siano sulla carta le prime idee di un’architettura, che subito trovano la loro
regola, il numero d’oro della proporzione. Gioielli così rompono di colpo la trita
consumazione dei modi tradizionali e affermano, tra l’astratto e il surreale, un
ordine misuratissimo e al tempo stesso fantasioso che si avvale anche di una
consumata sapienza artigianale. Nulla di più improbabile che essi siano anche
prime idee, primi studi per una scultura nuova che vada maturando su queste
insolite ‘figure’ intraviste dalla fantasia nei regni al di là del nostro quotidiano
mondo figurativo.” *
L’anno dopo la loro partecipazione alla Biennale curano la sezione dedicata alla
lavorazione dei metalli preziosi alla Triennale. Sono ancora loro a essere
coinvolti, a diverso titolo, nella nuova esperienza di edizioni in serie di gioielli
d’artista, avviata a Milano da Giancarlo Montebello con Teresa Pomodoro nella
seconda metà degli anni Sessanta, divenuta presto di livello internazionale. È
questo il tempo di un nuovo ritorno di interesse nel campo della progettazione
dell’ornamento d’artista, segnalato anche dalla “Prima mostra del gioiello d’arte
firmato”, organizzata a Torino nel 1969. L’intento dichiarato è quello di rinnovare
le forme del gioiello italiano tuttora ancorate a canoni ottocenteschi.
Arnaldo Pomodoro
Spilla, 1964 – 1965
Oro giallo e bianco
__________________________________________________________________
* Luisa Somani, Claudia Cerritelli, Gioielli d’Artista in Italia 1945 – 1995, Electa, Milano 1995
Negli anni Sessanta Arnaldo e Giò procedono nelle loro ricerche sperimentali
40
nell’oreficeria e nella scultura lungo traiettorie analoghe.
Tra la progettazione del gioiello e quella della scultura, si stabilisce nel tempo una
circolarità di immaginazione. “La progettazione nel piccolo formato ha generato
Arnaldo Pomodoro
Ornamento, 1968
Collana e connessi
Oro bianco e giallo
il mio linguaggio nella scultura”, ammette Arnaldo, e poi aggiunge “talvolta la
scultura ha portato con sé la realizzazione di un gioiello.”* Arnaldo prosegue
nella progettazione del gioiello e realizza importanti spille, collane, anelli, per lo
più in oro rosso, arricchendo le fusioni nell’osso di seppia con l’aggiunta di fili
martellinati a formare straordinarie, sontuose concrezioni di materia preziosa,
organizzata in raggiere o in complesse strutture a frammento in crescita ed
espansione, in cui inserisce rubini e brillanti. L’artista è tuttavia aperto anche ad
altre suggestioni: crea per esempio un’elegante collana che nasconde e custodisce
dischi di madre – perla, e collane e orecchini, meno legati alla originaria matrice
informale, come accade in Ornamento, del 1968, che si inserisce nella tipologia
del gioiello che entra in un più complesso rapporto con il corpo.
“Nel fare il gioiello guardavo all’arte etrusca, all’arte africana. Non mi
interessava il gioiello moderno che sovente era frutto della maldestra
stilizzazione di quello classico, ma studiavo l’ornamento barbarico, tribale,
primitivo.” *, dichiara Arnaldo Pomodoro.
__________________________________________________________________
* Francesca Romana Morelli (a cura di), Ori d’Artista. Il gioiello nell’arte italiana 1900 – 2004,
catalogo della mostra, Silvana Editoriale, Milano 2004
* Ivi
41
La produzione di Giò (nato a Orciano di Pesaro, nel 1930) è invece connessa in un
primo tempo alla progettazione delle superfici in tensione e si avvale di una
Giò Pomodoro
Bracciale, 1970
Oro giallo e bianco, smalti
maggiore sensibilità dell’artista per l’elemento organico. L’artista in seguito è
maggiormente interessato allo studio dell’ornamento rituale. È attratto dai dettagli
degli elementi che circondano, arricchiscono, spiegano e facilitano la vita
dell'uomo, dalle armi agli utensili, dai dettagli architettonici alle insegne e agli
ornamenti del vestire. In un testo del 1971, Ornamenti, l’artista ripercorre i
molteplici ed eterogenei spunti dai quali è possibile far nascere le forme di
un’opera. Si crea così nella sua produzione una contaminazione tra figure antiche
e moderne, tra suggerimenti di tipo intellettuale e naturale. Oltre ai consueti
materiali preziosi, Giò Pomodoro, sceglie di realizzare gioielli anche in marmo
Giò Pomodoro
Ornamenti
marmo nero del Belgio
nero del Belgio, con il quale esegue anche una numerosa serie di sculture.
“Continua sperimentazione mi porta, fra forme, tecniche e materiali della
scultura e dell’oreficeria, senza separare le due discipline così vicine e
intimamente legate, da sempre.” , ammette Giò Pomodoro in un testo nel marzo
1995, e aggiunge ancora “Valgono ancora oggi purtroppo le discriminazioni del
42
passato, l’uso delle definizioni fra arti basse e arti alte, che tanti guasti culturali
hanno operato e che io rifiuto fermamente, oggi come nel passato.” *
__________________________________________________________________
* Luisa Somaini, Claudio Cerritelli, Gioielli d’Artista in Italia 1945 – 1995, Electa, Milano 1995
43
5.
Giuseppe Uncini
Tra forme e spazio
La ricerca formale di Uncini da sempre si muove tra equilibrio della costruzione e
scelta di materiali; ferro, acciaio, cemento armato e mattoni pieni. Materiali poveri
e “severi”. E prima ancora, negli ultimi anni Cinquanta quando dipingeva e
poneva le basi di ciò che sarebbe stato il suo percorso futuro, erano addirittura
materiali occasionali, di fortuna. Lo ricorda lui stesso in un testo spesse volte
citato: “I miei materiali erano cartoni, compensati, meglio se masonite, cellotex,
ecc. (tele e colori erano lussi che non potevo permettermi, per fortuna) e come
colori usavo terre di ogni tipo, tufo, polvere di marmo e di carbone, cenere,
segatura, calce, cemento, insomma tutto quello che mi capitasse sottomano
purché economico, pratico e di sapore non complicato”. *
L’artista di Fabriano, dov’è nato nel 1929,
utilizza la forza coesiva della materia per
raccontare ciò che è alla base della vita,
l’armonia tra pieno e vuoto, presenza e
assenza.
Uncini
è
ormai
giunto
alla
conclusione che il vuoto, inteso come mancanza di materia, non esista, si tratta
semmai di una inadeguatezza dello sguardo. Quindi il problema va affrontato nei
termini di sostanza, non percepibile dai sensi, ma esistente. L’abbandono della
materia alla seduzione dello spazio ne addomestica la forza. Ora invece sono qui a
parlare dei gioielli creati da Giuseppe Uncini: oggetti per definizione preziosi,
fatti di materiali costosi, nati storicamente per “adornare” e per recitare un ruolo
ben definito, quello di comunicare lo status di chi li indossa.
_____________________________________________________________
* G. Uncini, Lettera a Maurizio Fagiolo, nel catalogo della mostra Didattica, Modigliani
(Forlì) 1975, ripubblicato in G.M. Accame, Uncini, Istituto Geografico De Agostani,
Novara 1990, p. 248 e in B. Corà, Giuseppe Uncini. L’immaginaria misura, p. 24, nel
catalogo della mostra omonima da lui curata in Palazzo Fabroni, Pistoia 2000.
44
Ai gioielli Uncini si dedica, in parallelo alla scultura, sin dal tempo avventuroso
dei suoi primi cementi armati, nel 1958, e ai gioielli ha lavorato costantemente
Collana, 1968
Argento, cemento
fino al 1988, l’anno in cui scomparve quel gioielliere creativo e audace che era
Mario Masenza, per il quale lavoravano, insieme a lui, molti altri artisti romani,
da Afro a Capogrossi, da Turcato a Consagra.
Uncini racconta come nacque in lui la prima idea di creare un gioiello. Il luogo è
apparentemente occasionale: è lo studio – laboratorio di un dentista amico, che
Uncini vede lavorare intorno alle protesi per i clienti. “Lavorava a cera persa”,
ricorda artista, “e io fui affascinato da quella tecnica antica, che sapevo risalire
agli Etruschi. Trovai in quella tecnica lo stesso senso di attesa che vivevo nel fare
la gettata di cemento; lo stesso senso di sospensione che mi coglie ancora quando
attendo di vedere ciò che uscirà dalle casseforme. Da allora ho sempre
continuato a fare gioielli, ad avere questo ‘vizietto’. Diventò per me quasi una
seconda attività”.*
Fu così che nacquero i primi gioielli; pochi e sperimentali, ma gioielli speciali
Spilla, 1959
Argento, quarzo
__________________________________________________________________
* Ada Masoero, G. Uncini. Pensare con le mani, catalogo della mostra, Edizioni Galleria
Fumagalli, Bergamo 2002
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forti e sommessi proprio come le grandi sculture di Uncini, di cui costituiscono
una sorta di “controcanto”. Gioielli soprattutto eseguiti in argento, e in un argento
quasi sempre brunito; “perché è così simile nell’apparenza al ferro”, spiega
Uncini; con poche accensioni d’oro e, talvolta, qualche minuscolo diamante. “E i
diamanti”, dice, “sono lì non per arricchire o impreziosire, ma per essere piccoli
colpi di luce, lievi barbagli. Per rendere con discrezione il mio lavoro il più
possibile vicino alla natura del gioiello”. Materiali preziosi, dunque, quelli usati
da Uncini, ma accompagnati da un’attenzione costante a rifuggire dal lezioso:
“Sono piccole sculture da indossare”, dice, “più ‘gentili’ dei miei cementi ma
strettamente legate a quelli, anche nel processo creativo”.* E ancora nel 1995
dichiara: “C’è parallelismo tra la mia attività di scultore e quella di ‘gioielliere’?
Direi di sì. Naturalmente tenendo conto del diverso spirito delle due cose.
Ritengo che il gioiello non debba essere una semplice riproduzione, in piccolo, di
una scultura (anche se qualche volta mi è capitato di farlo) perché non sempre le
forme e i modi dell’artista sono trasferibili, adattabili, alle esigenze di un
gioiello. Per dirla in breve, il gioiello va indossato, la scultura no! Nel realizzare
gioielli lo scultore segue piuttosto lo spirito e l’evoluzione del suo lavoro, ed è
quest’ultimo che si inserisce nel dibattito culturale del tempo”.*
Delle grandi sculture conservano infatti non solo il
sentimento di attesa che precede la visione del lavoro finito,
ma anche l’impaginazione rigorosa, l’equilibrio formale
alto e severo. In essi però l’argento opaco prende il posto
del cemento e quello brunito fa le veci del ferro, che “cuce”
Collana, 1968
Argento, cemento
e struttura i rapporti interni. Talvolta, poi, lo iato fra due
lastrine d’argento trattenute dalle minuscole grappe
__________________________________________________________________
* Ivi
* Luisa Somaini, Claudio Cerritelli, Gioielli d’Artista in Italia 1945 – 1995, Electa, Milano 1995
46
metalliche è occupato da una lamina d’oro, lavorata in modo da acquisire una
scorza d’albero.
In un altro la luce dell’oro allude allo spazio vuoto che si apre in uno
Spaziocemento miniatura, in un altro ancora evoca i tondini dei suoi recentissimi
Muri di cemento. Il rapporto di queste piccole sculture con
le grandi è dunque strettissimo. “Mi chiedo se il gioiello
possa aver influenzato in qualche modo la mia scultura:
credo
che
avendo
fatto
gioielli
e
opere,
contemporaneamente, per molti anni, le due esperienze
abbiano contato l’una per l’altra. La scultura si è
trasferita nel gioiello tenendo conto il più possibile del suo specifico; il gioiello
forse ha portato nella scultura un affinamento nei rapporti di spazialità,
un’attenzione maggiore nel dosaggio delle materie, del colore…
Del resto nulla cade nel vuoto, tutto quello che si fa serve a portare avanti un
pensiero.” *
__________________________________________________________________
* Ivi
47
6.
Intervista con Giuseppe Uncini
Trevi, 16 maggio 2007
Quando realizzò il suo primo gioiello?
Nel 1958, mentre facevo le prime sperimentazioni con il cemento. Ricordo bene, i
primi gioielli io li feci subito per il gioielliere Masenza di Roma.
Cosa ha significato per Lei la figura di Mario Masenza?
Con Masenza avevo un rapporto molto amichevole. Lui non era solo un
gioielliere, era anche un collezionista d’arte. Dopo la sua scomparsa nel 1988,
sostanzialmente, ho avuto qualche rapporto con suo figlio, che faceva lo stesso
lavoro, ma poi il suo negozio, famoso laboratorio, fu svaligiato dai ladri e il
figlio chiuse. Dopo di che ho fatto qualche gioiello, per qualche amica,
occasionalmente; ho fatto anche una serie di mostre dei gioielli, perché mi aveva
ripreso voglia di farli, di riprovare…ma dopo la scomparsa di Masenza né feci
pochi.
Come mai sentì questo bisogno di esprimersi anche nella forma di un gioiello?
Ho cominciato quasi per scommessa. Cioè, mi è capitato di avere un amico
odontotecnico, che faceva le fusioni, la modellazione dei denti. Io guardavo lui
come faceva e siccome sono un po’ maniaco delle tecniche, dei modi, ho
cominciato a modellare la cera, fondere con l’oro e così nacque il gioiello.
48
Quindi i gioielli li ha realizzati sempre con questa tecnica?
Si, sempre in cera persa, mai con altre tecniche.
I gioielli sono legati alla Sua scultura?
Sono soltanto legati alla scultura. Tanto è vero, non credo che sia neanche troppo
giusto fare i gioielli come piccole sculture, da un punto di vista di costume del
gioiello, però quello degli artisti è quasi inevitabile che sia così. Del resto, a me
del gioiello come costume, non mi interessa proprio niente. Per me il gioiello è
una scultura portatile.
Dunque, realizzando i gioielli non tiene conto del corpo in modo particolare, ma li
vive più come cosa a se stante?
Si, li vivo più come microscultura. Ho fatto sempre i gioielli parallelamente al
momento della scultura. Quando modificavo la scultura, modificavo i gioielli.
Quando inserisce il cemento in un gioiello, questo cemento è a contatto con la
pelle o dietro c’è una lastra di metallo?
Prima di tutto, quando ho fatto i gioielli con il cemento, quasi sempre chi li
doveva indossare si spaventava. Anche
mia moglie ha una collana con il
cemento, ma non la mette mai. Era più una trasgressione pensare al cemento, non
oro, pietre preziose, ma il cemento come arte povera davvero. Ma poi dietro il
cemento non toccava mai la pelle, perché dietro passavano dei fili, delle
armature di metallo, dunque non c’era questo contatto con il cemento.
49
Creare i gioielli Lei l’ha definito “vizietto”, perché non lo considera un’attività
“seria” come la scultura?
Seria si, ma “vizietto” perché ogni tanto ho bisogno di farlo. Magari perché sono
stufo di fare la scultura, poi perché, a seconda quello che sto facendo nella
scultura, penso al gioiello e se coincide la scultura a un eventuale gioiello, allora
magari provo a farlo.
Dunque, questa forma d’atre non la considera l’”arte minore”?
No, è un arte sua, bella, precisa. Con le sue regole e con i suoi modi. Però la cosa
difficile per me è passare da una grande dimensione della scultura a un'altra
dimensione tecnica, che non è solo perché è piccola, ma perché occorre
rispettare tutte altre regole, per ottenere i risultati. È come un atleta che corre
100 m e poi deve fare la maratona.
C’era anche il mercato dei gioielli?
Si, molto. Anzi, il gioiello, per alcuni anni della mia vita, mi ha aiutato a vivere.
.
50
“L’epidermide” tra corpo e gioiello
“Come sensibile puro, il corpo non può significare.
L’indumento assicura il passaggio dal sensibile al senso.”
G.W.F. Hegel
51
1.
Comunicare attraverso ornamenti corporei
È ben noto che l’uomo – sin dai primordi della sua apparizione sulla Terra – ha
sempre avvertito il bisogno, l’urgenza addirittura, di adornare il proprio corpo;
non solo, ma di rivestirlo, più ancora che di abiti, di “segni”, di amuleti, di
emblemi, in una parola di elementi che aggiungessero nella corporeità dei valori
magici, mitici, simbolici.
Questo impulso prepotente a modificare il proprio corpo con l’aggiunta di
qualcosa che lo “sublimasse” – e che poteva essere costituito da un tatuaggio
come da trofeo di penne, da un orecchino come da un pendaglio inserito nelle
narici – è quello che troviamo espresso in un modo ancora oggi esemplare nel
gioiello, e nelle infinite varietà dello stesso.
Il ruolo che esercita l’uso dei vestiti, ornamenti, varia enormemente da una società
all’altra. Molte popolazioni, come ad esempio gli Indigeni australiani e gli Indiani
della Sud America, vanno quasi del tutto nudi, ma altri, come i Baganda
dell’Africa orientale, devono essere completamente coperti, dal collo alle caviglie.
Gli ornamenti includono oggetti svariati, come orecchini, collane, bracciali o
bastoncini introdotti in perforazione del naso e delle labbra, pettini e altri
“oggetti” portati nei capelli. Il corpo può essere decorato con colori o con crete, o
tatuato con disegni complicati. Alcune popolazioni, il colore della cui pelle è
troppo scura per poter mostrare un tatuaggio, si adornano il corpo con disegni in
rilievo ottenuti con lunghe e profonde cicatrici.
Anche i criteri del pudore variano; fra gli Indiani Haida, una donna difficilmente
si turba per la sua nudità, ma arrossisce violentemente se è vista priva del “labret”,
un ornamento del labbro.
In molte società, specialmente in quelle che vivono in regioni dai climi tropicali,
gli ornamenti possono essere completamente indipendenti dal vestito ed avere una
importanza addirittura maggiore. Molti gruppi dedicano gran parte del loro tempo
e delle loro fatiche per preparare gli ornamenti per il proprio corpo.
52
Quindi, la stretta interdipendenza tra la persona, l’amuleto e l’ornamento prezioso
ci è nota fin dall’antichità. Il possesso di oggetti per la protezione della persona o
di determinati gioielli con qualità difensive e benefiche, stabilisce, infatti, una
relazione preferenziale tra chi li indossa e i poteri che rappresentano, in virtù del
potenziale magico che li contraddistingue.
Prima ancora, dunque, del suo valore economico dovuto al metallo o alle pietre
preziose, è il valore mitico e simbolico quello che sta alla base d’ogni ornamento
corporeo umano. L’umanità ha mostrato il proprio corpo alla storia come una
pagina viva. Il gioiello è un frammento di spazio, un fenomeno che appartiene all’
”architettura del corpo”. In tale contesto il gioiello svolge un ruolo essenziale:
diviene il “dettaglio significante” e nel contempo il catalizzatore visivo di tutto un
sistema comunicativo che ha come centro il corpo umano. Diventa un oggetto
sensibile, una realtà viva che entra in contatto diretto con la vita della persona a
cui appartiene. Ed è, nello stesso tempo, la proiezione visibile della personalità di
chi lo indossa, un efficace rivelatore di come l’ “Io” si ponga nei confronti della
società, rispetto alle convenzioni sociali.
Quando si indossa un gioiello si può rispondere a molteplici bisogni: ostentare la
propria condizione economica, omologarsi alle tendenze dominanti, ai dettami
della moda, oppure affermare la propria individualità.
53
2.
Ricerca dell’ornamento corporeo come forma d’arte
“Nell’arte moderna il gioiello ha un significato nuovo: non è soltanto un
ornamento con un senso naturalistico o allegorico, ma il mezzo con cui si pone
l’opera in contatto diretto, fisico con la persona. Si ritrova così, su un altro piano,
il valore dedicatorio e quasi rituale che il gioiello ha avuto nelle società
primitive.” * Palma Buccarelli
Come detto nei capitoli precedenti, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta si
assiste a una rinascita del gioiello inteso come libera espressione artistica, aperta
alle personali interpretazioni e sperimentazioni di forme, materiali e tecniche. Nel
gioiello di ricerca, l’idea tradizionale di preziosità viene rifiutata, la scelta dei
materiali non ha limitazioni ma diventa subordinata esclusivamente all’intenzione
creativa dell’artista. Le tipologie, le forme, le dimensioni mostrano un
cambiamento, un’alterazione dovuta a una nuova sensibilità nella concezione del
rapporto fra gioiello e corpo. Non si tratta più di semplici accessori, complementi
dell’abbigliamento, ma segni riconoscibili di una determinata personalità e del suo
universo creativo. Il nuovo gioiello è espressione, come lo può essere un quadro,
una scultura, un’architettura, ma diversamente da questi deve essere indossato e
quindi stabilire un contatto molto più intimo con la persona che lo sceglie e si
identifica con la poetica di cui è portatore. Il corpo assume una maggiore
consapevolezza della sua potenzialità come efficace mezzo di comunicazione di
contenuti alternativi rispetto ai canoni della tradizione e della possibilità di
lanciare una sfida ai codici di comportamento prestabiliti.
* Palma Buccarelli, La Galleria Nazionale d’arte moderna, Roma, Libreria dello stato, 1973., p.84
54
“Il corpo vivente ha il potere di far perdere alle cose il carattere d’oggetto per
integrarle alla sua vita, quasi suoi prolungamenti.” * U.Galimberti
Il corpo rappresenta il mondo non nascondendosi nelle vesti, ma esponendosi con
una varietà di vesti, ornamenti, che riproducono la varietà degli aspetti del mondo.
Il corpo diventa una specie di teatro di un evento estetico, acquistando così una
forza simbolica, e nel contempo rendendo evidente la scala dimensionale del
gioiello e la relazione con il corpo. L’artista, infatti, tende a utilizzare il corpo a
proprio vantaggio, astraendo il gioiello dal suo abituale destino di decorazione, e
sovvertendo le “regole del gioco”, è l’oggetto che diviene il soggetto. Questa è la
logica del gioiello. È un opera d’arte che si rapporta al corpo invece che allo
spazio. Guardare, apprezzare, capire questi “oggetti” non basta. Sono stati pensati
per essere indossati e prendono vita solo quando si completano con la personalità
di chi li indossa. Chi ama questi gioielli è appassionato d’arte e indossandoli crea
con questi un forte legame, diventando esso stesso protagonista dell’espressione
artistica. Non li sceglie per dimostrare il proprio “potere d’acquisto”, ma per
sottolineare la propria sensibilità verso l’arte.
Umberto Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano 2005, p.291
55
3.
Il testo di Gabriele DeVecchi - a proposito della relazione tra corpo e
gioiello:
… Il gioiello è un manufatto che vive in simbiosi fisica e mentale con il corpo per
estenderne le capacità di relazione soggettiva e collettiva, terrene e sovrannaturali.
In altri termini, si tratta di un artefatto che indossato trasforma e rimodella il corpo
e la sua immagine, cioè una delle protesi umane proprie alle pratiche mimetiche
da sempre utilizzate dall’uomo per esibirsi o celarsi proponendosi come altro da
sé. Le ragioni del mascheramento sono molteplici. Possono essere legate a riti
iniziatici o propiziatori, scaramantici o apotropaici; travestimenti per divenire
invisibili in un determinato contesto; segni di appartenenza e di status sociale e
culturale; fattori di una identità soggettiva in grado di estendere senso di
sicurezza, stimolare coraggio, aiutare a star bene con sé e con gli altri.
Vari sono gli esempi di rielaborazione del corpo: colli allungati con l’apposizione
successiva di collari, orecchini pensati per aumentare le dimensioni del lobo,
cicatrici che testurizzano la pelle in varie parti del corpo. Tutte pratiche che in
qualche modo hanno generato il gioiello come oggetto sostitutore e comunicatore.
Potremmo suddividere le pratiche di rimodellazione del corpo in permanenti o
temporanee. Il primo caso oggi attiene alla chirurgia plastica, al fitness che sono
con altre tecniche raffinati e indolori eredi di deformanti strumenti di costrizione;
il secondo, quello transitorio e mutabile, è un retaggio del tatuaggio, del pearcing
e del trucco, strumenti mimetici che si sono nel tempo suddivisi nei vari
specialismi creativi dell’indosso quali l’abbigliamento e i suoi accessori, il
maquillage e affini, il gioiello.
Gioiello e corpo non svolgono soltanto funzione mimetica e sostitutiva, ma sono
anche protesi comunicative che condizionano il gesto e la postura istintiva e
appresa della persona: il linguaggio del corpo. Separato dal corpo, il gioiello
rimane una esercitazione plastico – formale in miniatura da contemplare,
probabilmente una microscultura e non un gioiello. Le caratteristiche e il
56
dimensionamento anatomici, ergonomici, metrici, e ponderali, tattili e visivi
diventano centrali nel gioiello affinché possa sviluppare il suo compito di
estendere e facilitare la capacità di intrattenere processi di interrelazione e
trasmettere i significati dei comportamenti e dei gesti individuali e sociali.
Il gioiello può anche essere portatore della funzione di segno, sempre legato al
corpo, ma con connotazioni di appartenenza sociale, evidenziando lo status
symbol, militare o associativo, economico o settario, erotico o trasgressivo,
confessionale o laico ecc.
Penso ai gradi delle divise, all’odierno pearcing, a spille, spilloni da giacca, a
medaglie premio, insegne cavalleresche e affini, ai segni zodiacali e a tutte le
creazioni condizionate più dal contenuto simbolico che orientate alla gestualità e
di comportamenti della persona.
Poiché il gioiello è protesi del corpo, ogni corpo è persona e ogni persona è
diversa, siamo indotti a concludere che un gioiello non può essere un gioiello se
non è unico…
In occasione della tavola rotonda AGC, 25 settembre 2005 a Trieste
57
Conclusione –
Perché spesso gli artisti hanno sentito il bisogno di materializzare la propria
ricerca anche nella forma di un gioiello?
Perché, nonostante siano l’espressione di un artista, i gioielli vengono considerati
l’arte “minore”?
Queste, e tante altre domande, non permettono di concludere un argomento così
ampio, curioso e ancora molto aperto. Con questa tesi, che è soltanto una ricerca
iniziale, posso concludere, per adesso, con l’idea ossia con l’opinione, che gli
artisti spesso avvertono il bisogno di trasmutare la propria ricerca in forma di un
ornamento corporeo, perché c’è desiderio di relazionare la propria arte
direttamente con il corpo. Di inserire la propria arte nella reale vita di un
individuo, di farla vivere e relazionarsi con il mondo delle persone, fuori le mura
di uno spazio espositivo o di una collocazione architettonica. In questo modo
l’opera d’arte viene indossata e in stretto collegamento con la persona che la
indossa, viene vissuta.
Suppongo che sia ancora considerata arte “minore” perché nella maggior parte dei
casi l’esigenza di produrre gioielli risponde a un impulso che l’artista avverte
come un “episodio laterale” della sua ricerca. Forse perché poche persone
riescono a “captare” un’opera d’arte nella forma di un gioiello. O forse perché ci
vuole coraggio ad essere “indossatore” di un’opera d’arte.
Concludo, con l’aspirazione, che una forma d’arte così antica e così importante
per la storia, ritrovi il suo valore. Che l’interesse si concentri sulla proposta di una
nuova concezione dell’oggetto gioiello che, al di là di aprioristiche e discutibili
gerarchie fra le arti, può essere espressione di ricerca di alta qualità.
58
“Il gioiello contemporaneo potrebbe costituire,
nell’essenza visiva di un microcosmo poetico,
la ‘gioia’ estetica degli occhi dell’intelletto e
trasmettere un segnale di cultura e di pensiero.”
Carlo Lorenzetti, 1995
59
Bibliografia
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atti del convegno di studio, Marsilio Editori, Venezia 2003
- Lenti Lia (a cura di), Gioielli in Italia. Il gioiello e l’artefice. Materiali, opere,
committenze, atti del convegno di studio, Marsilio Editori, Venezia 2005
- Lenti Lia, Liscia Bemporad Dora (a cura di), Gioielli in Italia. Sacro e profano.
Dall’antichità ai giorni nostri, atti del convegno di studio, Marsilio Editori,
Venezia 2001
- Phillips Clare, Gioielli. Breve storia dall’antichità a oggi, Rizzoli – Skira,
Ginevra – Milano 2003
- Cisotto Nalon Mirella (a cura di), Pensieri preziosi 2. Gioielli senza confini,
catalogo della mostra, Casa editrice Il prato, Padova 2005
- Cisotto Nalon Mirella (a cura di), Pensieri preziosi 3. Assemblaggi, geometrie,
mito e memoria, catalogo della mostra, Casa editrice Il prato, Padova 2006
- Centrodi Giuliano, Virtuoso Daniel (a cura di), Orodautore. Omaggio a Piero,
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- Morelli Francesca Romana (a cura di), Ori d’Artista. Il gioiello nell’arte italiana
1900 – 2004, catalogo della mostra, Silvana Editoriale, Milano 2004
- Somaini Luisa, Cerritelli Claudio, Gioielli d’Artista in Italia 1945 – 1995,
Electa, Milano 1995
- Volpini Valerio (a cura di), Mannucci, catalogo della mostra, Stamperia Belli,
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- Bramanti Vanni, Hammacher A.M. (a cura di), Melotti, catalogo della mostra,
Electa Firenze, Firenze 1981
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