Dicembre, tempo di calendari

Transcript

Dicembre, tempo di calendari
UN VIAGGIO LUNGO UN ANNO
Testi: Enrico Galasso
Foto: Mauro Mazzucco e Renata Locatelli
Per il 2000 erano in commercio calendari assolutamente ottimi e vivamente consigliati: le
generose curve della Marcuzzi di ottobre sono un ottimo modo di celebrare 30 giorni, passati per
la maggior parte, a lavorare: rallegrano e consolano Ma il Gruppo Mexicana Maya Breve Galasso
(ridenominatosi Gruppo meno sassi più mare) voleva di più; e così è nato un calendario diverso,
un calendario che vuole stimolare – associando immagini e commenti - a ritrovare tra le rotondità
della memoria dodici momenti di un viaggio intenso ed indimenticabile. Il calendario, in tiratura
limitata, è andato ormai esaurito; per il grande pubblico, ne riproponiamo testi e foto.
GENNAIO
A volte capita che un capogruppo decida il viaggio in Messico illuminato da una puntata
di “Turisti per caso”, e che rimanga così impressionato dai posti visitati da Patrizio
Roversi e la moglie Susy da convincere tutto il gruppo, in una via crucis, a ripercorre le
tappe degli infallibili catodici eroi.
A volte è lo stesso capogruppo a desistere dall’afflato emulativo (sveglia alle 4 per
assistere all’alza bandiera nella Piazza dello Zocalo di Mexico City), altre volte è il
gruppo a ridimensionare le epiche gesta cantate dalla televisione (cena al Normita di
S. Cristobal, non così eccezionale come cantato sulla RAI). Altre volte, invece, lo
spunto si rivela avvincente, come quando si decide di modificare l’itinerario del
giornalino di AnM inserendo l’ora di trekking al tempio sulla sommità del massiccio del
Tepotzteco; la Susy ci ha dedicato mezza puntata, celebrando il sito dove nacque
Quetzalcòatl come luogo di numerosissimi avvistamenti UFO (OVNIS per i Messicani).
Sarà la presenza di un gruppo stile New Age che canta, sarà lo splendido panorama
che domina la vallata, ma l’atmosfera ha effettivamente qualcosa di magico, che ripaga
la salita bella tosta nella foresta per arrivare qui in cima, salita che il gruppo, non
ancora in overdose da siti archeologici, ha percorso baldanzosamente (esclusi i
beneficiati dalla fulminea esperienza della maledizione di Montezuma…).
(A proposito, niente male il sito http://www.turistipercaso.it/…..)
FEBBRAIO
I gradoni delle piramidi sono una costante di questo viaggio: si salgono e si scendono
sotto il sole cocente, sotto la pioggia, ma sempre con il fiatone. Una volta inerpicatisi
in cima ci aspettano due grandi soddisfazioni: la prima, uno spettacolo sempre
suggestivo, con la visione dall’alto del complesso archeologico; la seconda, ben più
meschina, guardare i compagni che salgono ancora (nello stato d’animo mirabilmente
immortalato dal Poeta: “ E come quei che con lena affannata/ uscito fuor del pelago a
la riva/ si volge a l'acqua perigliosa e guata/ così l'animo mio, ch'ancor fuggiva/ si
volse a retro a rimirar lo passo/ che non lasciò già mai persona viva”).
Le piramidi rappresentavano il collegamento tra uomini e dei, e per questo i
costruttori si devono essersi ingegnati a farle il più possibile faticose, con i gradoni di
altezza giusta per segare le gambe, proprio per far ben comprendere come è ardua la
strada che porta in cielo. Imponenti le piramidi di Teotihuacan, tanto che gli Atzechi,
che trovarono la città già abbandonata, pensarono che fosse stata abitata dai giganti.
Meno grandiose, ma ugualmente suggestive Chichen Itzà, con la piramide di El Castillo
(il calendario maya in pietra, con 365 gradini, tanti quanti i giorni dell’anno); Uxmal,
con la stupenda piramide del Mago – dalla pianta ovale ed il profilo elegante - così
chiamata perché la leggenda racconta sia stata costruita da un mago in una sola notte;
la mitica Palenque, immersa nella foresta, nella quale si trova la “stele dell’astronauta”
che nasconde i segreti degli incontri tra maya ed extraterrestri…
MARZO
In un viaggio come il Mexicana Maya Breve il bus diventa la propria casa. Prende il
nostro odore, si riempie di noi e delle nostre cose.
L’impatto con il nostro mezzo è stato ostile: un carrozzone massiccio, assolutamente
avverso ad ogni concessione all’aerodinamicità, bianco e verde, senz’aria condizionata,
con un autista, che dovrebbe essere la mente nel corpo del bus, dotato dello stesso
senso di orientamento di un pinguino all’equatore. Ma pian piano il carrozzone è
divenuto nostro amico e compagno di viaggio: vi abbiamo mangiato (mitici i pranzi a
base di sacchetti di patatine piccanti e coca cola, per non perdere tempo nei lunghi
trasferimenti), giocato, e abbiamo, soprattutto, cantato, attingendo allo sterminato
repertorio delle nostre coriste. Quando cantavamo il gigantesco carrozzone si animava
con noi, condivideva la nostra felicità. E poi abbiamo sofferto con lui, quando gli è
esplosa la gomma il secondo giorno; quando gli si sono arroventati i freni nella discesa
di Chichicastenango, diffondendo nell’abitacolo un odore assolutamente poco
rassicurante; quando ha percorso, quasi a passo d’uomo, la sconnessa caretera per
Tikal. Ci siamo perfino abituati al nostro autista, Antonio, “corazon de demonio”, che
riusciva ad invischiarsi in viuzze incredibili, facendosi odiare per il tempo perso, ma
strappandoci sempre un moto di ammirazione per come riusciva a venir fuori con
manovre improbabili a filo di muro.
Penso che le ore in bus non siano tempo buttato, anzi siano molto importanti. Primo
perché permettono di recuperare la dimensione del viaggio: viaggiare non è
raggiungere fulmineamente un posto, il teletrasporto dell’Enterprise del capitano Kirk
è la morte del viaggio. Il viaggio non è vedere Copan, è anche arrivare a Copan.
Secondo, perché mettono a nudo, in maniera impietosa, la coesione di un gruppo; si può
essere in 18 su di un carrozzone scassato, con un autista che girovaga indeciso e guida
con una lentezza esasperante, ed essere felici, cantando o inventandosi giochini (le
mitiche partite alla peppa!). E si può essere in 6, su un bus nuovo di pacca con un
ottimo autista, a guardarsi in cagnesco, incazzati neri (forza Martina!).
APRILE
Chichicastenango.
Non è possibile resistere alla frenesia che cattura nel più famoso mercato del
Guatemala. La successione dei banchi crea un labirinto di viuzze, nel quale ci si aggira
alla ricerca del Minotauro fregandosene bellamente del gomitolo di Arianna.
Si continua a girare in tondo in questo frullato di colori, di voci, di odori, fermandosi a
gustare un’immagine, scattando qualche foto e cimentandosi in contrattazioni infinite
per portare a casa un pezzo di questa tela di colori in movimento. Una vocina ci dice
che un tappeto proprio no, non lo si può comprare. “Per non parlare di quelle due
maschere di legno alte mezzo metro …” insiste la nostra coscienza, ammonendoci
severa nelle vesti dell’addetta all’imbarco bagagli Lufthansa. Ma poi…
Tra i banchi ogni tanto si incontra qualche compagno di sventura, preda del demone
degli acquisti, e ci si rallegra del fatto che anche lui ha comprato all’inverosimile. Ma è
un acquistare che non riesco a condannare come consumistico, non è lo sfoggio
dell’opulenza dell’occidentale ricco; è una partecipazione al rito del mercato, che si
consuma nell’acquisto di cose di valore tutto sommato modesto. Forse sono
eccessivamente indulgente, ma le maschere ed il tappeto che la benevolenza
dell’addetta Lufthansa ha fatto arrivare a casa mia mi guardano con approvazione…
MAGGIO
Arriviamo a Zinacantàn sotto la pioggia; in paese c’è la festa di S. Lorenzo. Per
descrivere quello che abbiamo visto dentro la chiesa (nella quale non è possibile
filmare né fotografare, a pena di multa ed arresto!) ci vorrebbe un maestro del
colore, uno di quegli scrittori che sanno rendere vivide immagini che ai più tolgono solo
il fiato, tipo Zolà del “Ventre di Parigi”. Immaginatevi una chiesa di paese come tante
altre. Davanti una calca di persone in costumi coloratissimi, quasi a fare la guardia
all’ingresso. Ora entrate, facendovi largo.
Dentro la chiesa è illuminata da centinaia e centinaia di candele e attraversata da
nastri di tutti i colori; ovunque mazzi di fiori, uomini e donne con vestiti coloratissimi,
che pregano, anzi parlano, con i santi, sottovoce, spesso piangendo, in piedi o seduti sul
pavimento ricoperto di aghi di pino, dimostrando una familiarità nel rapporto con il
divino, e nello stesso tempo un coinvolgimento carnale, trepidante, emotivo;
l’atmosfera è resa ancor più straordinaria da una banda di paese, che, in un angolo
della chiesa, suona delle marcette con trombe e tromboni.
Incredibile, indescrivibile, indimenticabile. E’ un tripudio di sensazioni sonore, visive
ed olfattive che stordisce!
LUGLIO
La lancia scivola sul fiume, immersa nell’oscurità, mentre rientriamo da Rio Dulce da
Livingston.
Sembra uno di quegli scenari descritti nei romanzi di Salgari, quando è finita la
battaglia e lo scrittore crea per i suoi eroi il migliore degli scenari possibili. E’ tutto è
perfetto: l’aria fresca, il soffio della barca che scivola sull’acqua, la luna. Anche la
cena è di quelle che dovevano fare Yanez e Sandokan: una “megatritata” di tapado, un
pesce intero cotto nel latte di cocco, mangiato sul molo di una casa sul fiume.
Nessuno parla. Ci godiamo semplicemente questo momento magico, con la pancia piena
e la mente sgombra.
GIUGNO
Arriviamo a S. Antonio Palopo, prima tappa del tour del lago Atilan, con una lancia
lentissima; giro del paese, qualche foto alle donne locali in costume, qualche acquisto.
Sembra proprio la classica gita turistica fuoriporta.
Ma prima di imbarcarci passiamo davanti ad un campetto di calcio, dove,
agguerritissime, dirette da un arbitro, si fronteggiano due squadre. I giocatori hanno
un’età media di sei anni, e trasmettono un allegria contagiosa: tutti dietro alla palla, a
folate, a grappoli di bambini che si creano e sciolgono in continuazione. Una squadra è
in evidente difficoltà, il campo in discesa impedisce un’efficace interdizione a
centrocampo.
Ai lati – sugli spalti - le coetanee (le donne dei calciatori?), tutte con il costume locale,
osservano in silenzio: mancava il tifo, ma siamo arrivati noi a fare la torcida. La
pressione offensiva della squadra che gioca in discesa si concretizza in un goal,
ovviamente in mischia.
E’ un bel quadretto, noi, i bambini, il lago. Forse si potrebbe dire che la stessa scena la
si può trovare senza andare tanto lontano, magari nella periferia delle nostre città.
Appunto. Fa piacere ogni tanto dedicarsi a qualcosa di normale, spezzare i ritmi che il
turista si impone nell’ansia di vedere tutto e nella consapevolezza che in questi luoghi,
con ogni probabilità, non tornerà più. E’ un lusso fermarsi, e proprio per questo fa
piacere concederselo ogni tanto, anche solo per incitare i bambini come se fossimo
loro vicini di casa, o per condividere con i locali la paura che si prova – in un normale
giorno di festa - sulla “ruota della fortuna” montata per la festa del paese al paesino
di Sololà: un gigantesco ruotone di acciaio con cabine, cigolante e fatiscente, che gira
- manovrato da due quindicenni – ad una velocità folle (mi sono preso una caga che
neanche gli atterraggi con Aeroflot!) .
AGOSTO
Copan!
E’ stato così difficile raggiungerla, così complicati sono stati i problemi affrontati alla
vigilia, che solo il fatto di esserci arrivati è un motivo di gioia.
Siamo stanchi per la levataccia alle 4 del mattino, per le lunghe ore trascorse pigiati
sulla corriera pubblica - in un tripudio di donne, contadini con machete, vecchi, bambini
pulcini e quant’altro – e poi sballottolati sul pick up, per le formalità della dogana
honduregna. Ma essere arrivati qui giustifica tutto.
Copan, con le steli dei sovrani; colossi di pietra dagli sguardi alteri. Non siamo soli, c’è
qualche altro turista, ma la magia del luogo è tale che mi sembra di essere qui con
John Stephens e Frederick Catherwood, quando all’inizio dell’ 1800 hanno riscoperto il
maggior centro astrologico Maya sepolto dalla giungla. Catherwood era rimasto
affascinato dalle sculture di pietra, e le aveva raffigurate in disegni che evocano quasi
le stesse emozioni degli originali, perchè l’esploratore vi ha trasfuso tutta la gioia
della scoperta e le difficoltà affrontate, dalla fatica per liberare la città dalla giungla
alla lotta con la malaria.
Copan, con il suo campo della pelota: sarà la magia del luogo o forse la stanchezza, ma
sembra, sedendosi sul prato e chiudendo gli occhi, di sentire ancora sospese nell’aria
la tensione, l’eccitazione delle partite, che non erano solo un gioco, ma la lotta per la
vita, perché il capitano della squadra perdente veniva sacrificato agli dei. Come disse
Giò “Non c’è posto che ti porta lontano come un luogo dove è passata la storia. La
storia e tutti i morti che si porta dietro e i suoi fantasmi, lontani e sconosciuti” .
SETTEMBRE
A me le dogane mi inquietano. Mi turba il fatto che il mio spostamento di pochi metri
sia condizionato dalla valutazione, insindacabile ed inappellabile, di un Tizio in divisa.
Con il mio passaporto in mano mi tornano alla mente vecchi film di spie bloccate al
Muro di Berlino, rivivo l’ansia di “Fuga di mezzanotte”.
In un Mexicana Maya Breve si passano tante frontiere e ci si abitua ad un rito dalle
regole oscure, facendosi una ragione del fatto che è inutile consultare guide e
relazioni: le prescrizioni ed i pedaggi cambiano fulmineamente, a seconda
dell’ispirazione del doganiere, che può chiedere 10 a chi ti precede e 20 a chi segue, e
che aspetta la tua offerta per evitare la fumigacion dei bagagli (che dovrebbe essere
la disinfestazione adottata per evitare la diffusione dei parassiti della frutta, di cui è
incerta l’efficacia, ma certa la puzza che ci ammorberebbe per giorni), senza capire il
blocco psicologico che deve superare un italiano appena uscito dalla cronaca di Mani
Pulite, che lo ha ammaestrato sulle nozioni di concussione e corruzione.
L’apoteosi della frontiera è a Copan, dove, in poche ore, si prova il brivido di passare
dal Guatemala all’Honduras e poi dall’Honduras al Guatemala. Il controllo ha una veste
formale di tutta serietà, ma il doganiere ha un sorriso negli occhi, quasi a rassicurarti;
sembra dirti: “Guagliò, nun te preoccupà, è solo un gioco”. E per fartelo capire ti
mette sul passaporto il timbro doganale meno serio del mondo, con scritto “Recuerdo
de Copan”!
OTTOBRE
Siamo arrivati tardi, ma non abbiamo voluto rinunciare ad entrare nel parco
archeologico di Tikal: ci abbiamo fantasticato troppo per aspettare domani.
Raggiungiamo a passo di corsa la piazza Major, con i due impressionanti templi
piramide uno di fronte all’altro. In questa piazza prende forma esattamente l’ “idea
platonica” di un sito Maya; quell’idea che ci siamo formati con letture, documentari,
film; quell’ “idea”, conservata in noi e completata dalla nostra immaginazione, si fa
concreta qui, ora. E’ quasi un deja vue; è così aderente a quello che ci immaginavamo
che sembra di esserci già stati. Saliamo in cima alla piramide, e giunti lì, scoppia il
temporale. Nella penombra delle ultime ore di luce piove sulla foresta e sui templi di
Tikal, ed un gruppo di persone, in silenzio, riparate dentro la costruzione sulla sommità
della piramide, guarda la pioggia, ascolta il suo rumore, ed ha l’impressione che
l’illusione sia perfetta, perché questa pioggia li porta, per un breve ed intenso istante,
ad un’altra giornata di centinaia di anni fa, ad un'altra identica pioggia sui templi e
sulla foresta di Tikal.
NOVEMBRE
Caraibi! Ideale relax dopo le tappe forzate tra siti maya; relax particolarmente
apprezzato se il gruppo si è ribattezzato –S+M (Meno Sassi Più Mare)!
La nostra fatica ora è quella di spostarci dalla sabbia del bagnasciuga all’acqua
azzurra, liberandoci del sudore e della stanchezza. I ritmi qui sono incredibilmente
placidi; ne sa qualcosa chi ha ordinato ad un chioschetto due hot dog: due giovani
fanciulle di colore (qui la popolazione è quasi tutta nera) iniziano a prepararli davanti a
noi, e quando una ha finito, con assoluta nonchalance, lo porta alla bocca e se lo
addenta! Probabilmente la nostra richiesta le aveva fatto venire fame!
Organizziamo gite a isolotti con palme e sabbia bianca da film, godendoci fondali
coloratissimi, ed inseguendo, in un acqua caldissima, squaletti, mante e pesciolini.
Ma perché la sensazione più intensa in Belize me la regalano le serate a guardare le
stelle? Le stelle sono uguali in tutti i cieli del mondo, mi dico.
Ma qui c’è una calma, una malinconia del tutto particolare, che ci spinge, tutte le sere,
a partecipare a questo incantesimo, distesi sulla passerella di legno del molo di Cayo
Caulker o sulle amache, lontani anni luce dal rimpianto di un qualsivoglia
rincoglionimento catodico.
DICEMBRE
Per me il gruppo è il cuore del viaggio; lo stesso viaggio, con compagni diversi, dà
emozioni completamente differenti.
Il MEXICANA MAYA BREVE agosto ’99 si è creato all’aeroporto di Francoforte;
come sempre quello dell’ “incontro” è un momento intenso, carico, teso. E’ spesso il
momento delle prime delusioni e quello delle speranze; il momento dei giudizi sbagliati
e dei timori. Chi mi troverò come compagni di viaggio? In giro c’è gente strana, ma tra
chi viaggia c’è gente ancor più strana. E tra i partecipanti di Avventure a volte si
colgono vette di stranezza che lasciano senza risposte e con una sola domanda: “Ma
questo che ci fa qui?!”.
Dinanzi al gruppo per la prima volta in seduta plenaria, un capogruppo un po’ intimorito
da 17 (diciassette!) partecipanti ha esordito col collaudato “Discorso della Corona”:
“per viaggiare in gruppo ci vogliono delle regole, ma visto che di regole da seguire ne
abbiamo tutto l’anno, limitiamoci a due: siamo puntuali e non incazziamoci”.
Penso che la puntualità non sia altro che una delle facce del rispetto, forse quella che
si vede di più in un viaggio che ha tempi serrati, scanditi da centinaia di appuntamenti.
Per quel che riguarda l’incazzatura, in un viaggio come questo le occasioni sono
infinite: ci si può incazzare quasi per tutto, rovinando a il viaggio a sé ed agli altri.
Dopo tre settimane mi sono ritrovato all’aeroporto di Francoforte, e lì, quando i due
romani sono corsi verso il gate del volo per Roma e gli altri per quello diretto a Milano,
ho avuto netta la sensazione che il viaggio fosse finito, quella sensazione,
sperimentata tante volte, che una parentesi della nostra vita si sia chiusa, che i
momenti vissuti come gruppo siano alle spalle, che si torni ad essere, magari amici, ma
lontani e diversi, e comunque mai più, “quel gruppo”, nemmeno nei prossimi viaggi
insieme e nei raduni.
E questo gruppo è stato splendido: era difficile trovare 17 persone che sapessero
viaggiare, che fossero puntuali, che non si incazzassero, e che rispettassero le altre
centinaia di regole non codificabili che rendono una persona un buon compagno di
viaggio ed un gruppo un buon gruppo; averle trovate costituisce per me un notevole
debito con la fortuna.