Relazione Dott.ssa V. Filice

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Relazione Dott.ssa V. Filice
 Benessere e Dieta Mediterranea. Strategie di prevenzione dell’obesità nella popolazione
sedentaria. Nutrirsi è diverso che mangiare!
Da un punto di vista scientifico, si definisce DIETA MEDITERRANEA la dieta abitualmente
consumata nell’ Italia Meridionale e Insulare e in Grecia durante gli anni ’50.
La dieta mediterranea tradizionale è caratterizzata dall’abbondanza di alimenti vegetali, quindi
ortaggi, verdure oltre che frutta, cereali, legumi. Come fonte di proteine di origine animale si
prediligono le carni bianche, pesce (soprattutto azzurro) e il condimento per eccellenza è
rappresentato dall’OLIO EVO (extra vergine d’oliva), possibilmente come condimento a crudo.
Facendo un paragone con le abitudini alimentari del passato, studi effettuati in precedenza (da
Cassese L, Salerno, 1955) hanno dimostrato come esse siano cambiate nel tempo, relativamente al
contesto socio-economico del tempo. In particolare, nello studio in esame viene riportato che le
statistiche risalenti al Regno di Napoli nel 1811, l’alimentazione quotidiana di una famiglia
composta da cinque persone era costituita da pane (2 kg), una minestra di verdure o patate, talvolta
con pesce fresco o salato, frutta, vino e come unica fonte di grassi l’olio d’oliva.
Si evince, quindi, che il concetto di benessere è strettamente collegato alla dieta mediterranea, che
rappresenta quindi un modus vivendi e operandi del nostro vivere quotidiano. Essa, infatti, implica
un notevole apporto di fibra e carboidrati, un alto contenuto di grassi monoinsaturi derivanti
dall’olio EVO e da una bassa percentuale di grassi saturi, nonché dell’uso costante di prodotti
stagionali e del territorio. In particolare, tale alimentazione determina un apporto percentuale dei
seguenti principi nutritivi:
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Carboidrati: 55–60% del totale;
Proteine: prevalentemente di origine vegetale, 10-12% del totale ;
Grassi: inferiori al 30%, con buona prevalenza di monoinsaturi;
Fibra alimentare: abbondante;
Apporti contenuti di sodio (sale), elevati di potassio ed altri minerali;
Elevato contenuto in antiossidanti (vitamine C ed E, carotenoidi, polifenoli).
È ormai noto, pertanto, che seguire un tale regime alimentare, che dovrebbe essere inteso come uno
stile di vita innato per le nostre abitudini, ha effetti favorevoli nella prevenzione di molte condizioni
patologiche quali obesità, diabete, iperlipidemia, ipertensione, aterosclerosi, alcuni tipi di tumori.
La dieta mediterranea, pertanto, in associazione ad una quotidiana attività fisica, rappresentata
anche solo da una passeggiata veloce, rappresenta essa stessa un strategia contro l’obesità, legata
quest’ultima al cambiamento delle abitudini alimentari ed ai concetti di mangiare e nutrirsi.
«Gli animali si nutrono, l’uomo mangia e solo l’uomo intelligente sa mangiare» così citava
Anthelme Brillat-Savarin in uno dei suoi più celebri aforismi, nel 1825. Questo estratto pone delle
riflessioni attuali: molte delle patologie sopracitate sono strettamente associate al “cosa” mangiamo
e al “come” ed in entrambi i casi il modus di alimentarsi si è discostato dai buoni principi della
dieta mediterranea. Le statistiche correnti raccontano un quadro generale preoccupante: •
16 ottobre 2014 - Secondo il rapporto Osservasalute 2013, che fa riferimento ai risultati
dell’Indagine Multiscopo dell’Istat emerge che, in Italia, nel 2012, più di un terzo della
popolazione adulta (35,6%) è in sovrappeso, mentre una persona su dieci è obesa (10,4%).
Come negli anni precedenti, le differenze sul territorio confermano un gap Nord-Sud in cui
le Regioni meridionali presentano la prevalenza più alta di persone obese (Puglia 12,9% e
Molise 13,5%) e in sovrappeso (Basilicata 39,9% e Campania 41,1%) rispetto a quelle
settentrionali (obese: Liguria 6,9% e PA di Bolzano 7,5%; sovrappeso: Liguria 32,3% e PA
di Bolzano 32,5%).
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La percentuale di popolazione in eccesso ponderale cresce all’aumentare dell’età e, in
particolare, il sovrappeso passa dal 15,8% della fascia di età 18-24 anni al 45,8% tra i 65-74
anni, mentre l’obesità dal 2,8% al 15,9% per le stesse fasce di età. Nelle età più avanzate il
valore diminuisce lievemente (sovrappeso 42,5% ed obesità 13,2% nelle persone over 75)
rispetto alla fascia di età precedente. Inoltre, la condizione di eccesso ponderale è più diffusa
tra gli uomini rispetto alle donne (sovrappeso: 44,2% vs 27,6%; obesità: 11,3% vs 9,5%).
[…….] Tratto dal Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute
dell'Istituto Superiore di Sanità.
I numeri hanno un determinato valore e soprattutto contestualizzarli significa attribuire a quegli
stessi numeri un significato preciso: i dati sopra riportati mostrano come proprio nelle Regioni del
Centro- Sud dell’Italia, “culla della vecchia dieta mediterranea”, le abitudini alimentari siano così
cambiate da determinare una notevole percentuale di obesità e sovrappeso nella popolazione,
relativamente anche alle varie fasce d’età.
Un ruolo importante, inoltre, è giocato anche dalle modalità di cottura a cui vengono sottoposte le
materie prime. La cottura degli alimenti serve a renderli commestibili, ammorbidendo o rompendo
gli involucri cellulosici o di tessuto connettivo, in modo da aumentare la digeribilità, l’appetibilità
oltre che la conservabilità dell’alimento. La tipologia di cottura attraverso il calore, infatti,
determina un abbattimento microbiologico per inattivazione delle attività enzimatiche e quindi
l’alimento diventa nel contempo “igienicamente sano”, favorendo la decomposizione organica e la
morte di patogeni termolabili. La cottura, d’altra parte, implica anche una serie di modificazioni a
carico delle sostanze nutritive, che, se da un parte ne aumenta la digeribilità, dall’altra implica un
depauperamento della percentuale attiva presente nell’alimento. Sono pertanto da prediligere
tecniche di cottura quali la lessatura e la cottura a vapore, tipologie semplici che assicurano la
distruzione dei batteri patogeni (ma non di spore e tossine), vista l’alta temperatura che si raggiunge
(100-120 °C), anche se la cottura a vapore permette di trattenere una maggiore percentuale di Sali
minerali e vitamine che altrimenti si disperderebbero nell’acqua di cottura. Anche altre tecniche di
cottura permettono un abbattimento dei possibili batteri patogeni presenti negli alimenti, come la
grigliatura e la frittura, con le quali si raggiungono temperature oltre i 120°C. L’attenzione, in
questi casi, deve essere massima. Durante la grigliatura, se si protrae la cottura fino alla formazione
di zone carbonizzate, si va incontro alla formazione di sostanze cancerogene. Allo stesso modo, la
frittura deve essere condotta con l’uso appropriato di oli (preferire quello di olio di oliva EVO,
dotato di un punto di fumo) e tenendo sotto controllo la temperatura di cottura, onde evitare la
formazioni di sostanze tossiche, come l’acrilamide, fortemente cancerogena. La formazione di
acrilamide negli alimenti si verifica come conseguenza di una reazione nota come la reazione di
Maillard, reazione chimica tra un amminoacido (componente principale della proteina) e uno
zucchero come glucosio, fruttosio o lattosio.
Il calore è richiesto per dar inizio alla reazione di cottura che determina una cascata di
modificazioni chimiche che alla fine scaturiscono nel “rosolarsi” del cibo e nella formazione di una
serie di odori e sapori messi insieme. Queste componenti insieme danno il caratteristico aspetto e
sapore del cibo cotto. La formazione della stessa acrilamide è solo parzialmente conosciuta dato che
la reazione di Mailard è una delle reazioni chimiche più complicate che si verificano nel cibo.
Tuttavia, la formazione e la concentrazione di acrilamide nei cibi appare essere dipendente dal tipo
di alimento, di temperatura e dalla lunghezza del tempo di cottura. In generale, i farinacei (per
esempio il pane, le patate) che devono essere cotti ad alte temperature e per lunghi periodi di tempo
contengono maggiori livelli di acrilamide.
Gli studiosi sono comunemente d’accordo nel ritenere che gli alimenti contenenti alti livelli di
acrilamide siano quelli fritti, fritti in abbondante olio o cotti al forno, come torte, pane e patate
fritte. Il comitato congiunto di esperti sugli additivi alimentari (JECFA, Expert Committee on Food
Additives) riporta che gli alimenti che contribuiscono maggiormente al consumo totale di
acrilamide per la maggior parte dei paesi sono le patatine (16-30%), patatine croccanti (6-46%),
caffè (13-39%), dolci e biscotti (10-20%) e pane e panini/toast (10-30%). Altri alimenti
contribuiscono meno del 10% sul totale. L’assunzione di acrilamide all’interno dell’UE varia fra
0,3-1,4 microgrammi per kg di peso corporeo al giorno, e in base alla dieta nazionale. Fino ad ora
non sono stati trovati livelli di acrilamide in alimenti che sono stati bolliti, cotti o cucinati al vapore.
Questo si può spiegare con la temperatura massima di queste tecniche, che non supera i 100°C, e
dall’assenza di una reazione di rosolatura.
Questo dimostra che il concetto di benessere è un concetto ampio e in cui più fattori contribuiscono
nell’instaurarsi di tale condizione: alimentazione, scelta delle materie prime e relative cotture,
attività fisica rappresentano alcune delle componenti strategiche preventive contro l’insorgere di
stati patologici anche gravi.
Dott.ssa Valentina Filice