La più alta espressione di Eros

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La più alta espressione di Eros
ISTITUTO STATALE D’ISTRUZIONE SUPERIORE
Liceo Scientifico “E. Fermi”
“Il bacio”
La più alta espressione di Eros
… e di fronte all’estasi
di un bacio,
la luna
abbassa le palpebre
per non turbarne
l’incanto ...
Giuseppina Scaffidi Mangialardo
Anno Scolastico 2009-2010
Frase in copertina di Luigi Locapo
INDICE.
INTRODUZIONE
ARTE : Il Bacio di Klimt e il Bacio di Hayez.
LATINO : Apuleio - Amore e Psiche.
ITALIANO : Gabriele D’Annunzio – Il Piacere.
STORIA : Il Primo dopoguerra – Biennio Rosso – Fascismo.
FILOSOFIA : Kierkegaard – Aut Aut e lo stadio estetico.
INGLESE : Oscar Wilde – Il Ritratto di Dorian Gray.
GEOGRAFIA : Venere – Il pianeta dell’Amore.
INTRODUZIONE
Che cosa è un bacio? Se lo chiedessimo a Edmond Rostand, probabilmente, ci
direbbe:
Un baiser, mais à tout prendre, qu’est-ce?
Un bacio, ma dopo tutto, cos’è?
Un serment fait d’un peu plus près, une promesse
Un giuramento fatto da vicino, una promessa
plus précise, un aveu qui veut se confirmer,
più precisa, una confessione che chiede conferma,
un point rose qu’on met sur l’i du verbe aimer;
un apostrofo rosa messo tra le parole t’amo;
c’est un secret qui prend la bouche pour oreille,
un segreto che usa la bocca come orecchio,
un instant d’infini qui fait un bruit d’abeille,
un istante d’infinito che ha il suono di un'ape,
une communion ayant un goût de fleur,
una comunione col gusto di un fiore,
une façon d’un peu se respirer le cœur,
un modo per respirare un po’ di cuore,
et d’un peu se goûter, au bord des lèvres, l’âme!
e un po’ del gusto dell’anima a fior di labbra!
Tecnicamente, il bacio è stato definito nel XIX secolo, dal medico statunitense
Henry Gibbons, come “l’accostamento anatomico di due muscoli orali orbicolari in
uno stato di contrazione”. Molti dicono sia la più grande espressione di sensualità, di eros …. Ma cos’è l’Eros?
L’eros è la potenza primordiale che
domina l’uomo, conducendolo dove vuole e, a volte, anche in rovina. Ha una forza indomabile, irresistibile, legata al desiderio che oltrepassa la volontà individuale di uomini e dei! Eros come sogno,
desiderio, fantasia segreta! Eros come istinto, pulsione viscerale, lontana dalla
logica e dalla razionalità. È sufficiente
che due schiene si sfiorino, in modo fortuito, per un attimo, o che una mano si
poggi involontariamente sulla tua, una
bocca socchiusa, una scollatura, un bot1
tone sbagliato … tutto questo è l’Eros.
Prende forma e subdolamente s’impadronisce di te, ti dà fuoco, e inizi a pensare a cose inimmaginabili. Piccoli estratti da una pellicola di fantasia che rimangono impressi nella mente, come ricordi realmente vissuti.
Nelle religioni dell’antica Grecia, è il Dio dell’amore, del desiderio che attrae
e unisce gli esseri viventi e coscienti, in vista di un reciproco bisogno di completamento, una forza “più forte della gravità”1. La sua natura è paradossale.
Nell’amato, infatti, si ricerca contemporaneamente l’identico e il differente,
l’altro se stesso e l’individuo diverso da sé, la fusione senza residui e il rafforzamento della propria personalità. Costituisce una delle passioni più potenti e
sconvolgenti. È gioia incostante, che ha bisogno di continue rassicurazioni, espansione di se stessi oltre i vincoli della mortificante quotidianità. Sensazione
di crescita, di arricchimento e di liberazione. Allo stesso tempo, però, se non adeguatamente ricambiato, l’amore rappresenta anche un tragico fattore di distruzione e di autodistruzione. In rapporto al piacere sessuale, esso assume il
carattere dell’eros, che si manifesta in un movimentato gioco di seduzione, in
cui ci si sottrae per concedersi e ci si concede per sottrarsi.
Scavando nella storia dell’amore, saltano fuori i suoi innumerevoli volti. Per
Omero, era pura forza: l’attrazione irresistibile che due persone sentono uno per
l’altro e che può portarli a perdere la ragione. Per Esiodo, l’Eros diventa un dio,
che non ha ancora la classica rappresentazione del fanciullo paffuto, che vola
scoccando frecce d’amore, ma si presenta come una divinità primordiale, antica
come Gea (la terra) stessa. Non è il figlio di Afrodite, ma il suo compagno di
ogni momento.
1
Da “La spada nella roccia”, produzione Walt Disney
2
ARTE
Ogni individuo si relaziona col bacio in maniera soggettiva e gli attr ibuisce importanza e significati personali, spesso influenzati dalle pr oprie esperienze. Così, dalle opere analizzate in seguito, emerge con facilità il significato di bacio per l’artista.
Il bacio di Klimt: passione oltre il limite umano
Ecco l’amore che non si accontenta di possedere la mente, il corpo e
le attenzioni dell’essere amato, ma
pretende d’impregnarne l’esistenza
con la propria, in una fusione di
carne, sangue e di pensieri. Un amore che supera la dimensione fisica
per elevarsi all’assoluto intreccio di spiriti tra due creature che mettono da parte
la vita reale per rifugiarsi e realizzarsi nel loro mondo intimo e segreto. Gustav
Klimt (Vienna, 1862-Neubau, 1918) rappresenta, nell’opera “Il bacio”, questo
scambio erotico e spirituale (Fig. 2). La compenetrazione totale fra i due corpi
testimonia l’unione di anime. L’andamento delle linee, curve o spigolose, esprime rispettivamente la morbidezza femminile e la virilità maschile. La coppia si struttura su uno schema piramidale ambientato su uno sfondo dorato (ricordo classico da cui l’autore ha preso spunto in una visita a Ravenna ai mosaici
bizantini) che assume una prevalenza inedita e assoluta, funzionale ad accogliere e racchiudere il momento estatico dell’amore che riesce a estraniare i soggetti
dalla realtà; in contrasto con quest’ultimo, il prato fiorito ai piedi dei due amanti li lega simbolicamente alla terra, scoprendo, quindi, il tema della sintesi tra
cielo e mondo, realtà e utopia.
Quello dell’autore è uno stile bidimensionale dove si fondono elementi naturali, geometrici e astratti. È curioso notare che Klimt abbia vestito i suoi personaggi con la tunica che era solito portare, come a render più evidente che il bacio rappresentato non è un bacio qualunque, ma un bacio che indossa le sue
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stesse vesti, un bacio personale, manifestazione dell’intimità dell’artista, che ha
origine dalla quotidianità di una vita che si evolve lentamente, giorno dopo
giorno, relazionandosi col mondo esterno. Una veste, dunque, intrisa di quotidianità, di vita e che testimonia il passare del tempo e degli eventi che insieme
partecipano alla formazione del “sentimento” soggettivo del bacio.
La donna è completamente dedita e abbandonata all’uomo, mentre
quest’ultimo è proteso in avanti in atteggiamento di forza protettiva e tenerezza
nei confronti della persona amata. Particolari espressivi quali l'estrema definizione delle mani maschili, nodose e affusolate al contempo, a contrasto con il nitore della diafana pelle della giovane innamorata, attribuiscono all'uomo
un’identità di approdo, di porto sicuro in cui potersi abbandonare, languidamente espresso dallo stato estatico della donna, finalmente libera di esprimersi
nella sua fragilità femminile, con una mano morbidamente appoggiata sulla nuca maschile e l'altra in cerca di un tenero sostegno come in una carezza, rimettendosi a lui interamente. Rapiti in estasi, gli innamorati spiccano al centro della
tela con tutta la forza espressiva del decorativismo simbolico e allegorico di
Klimt, in uno sfondo che sembra il riverbero del fulgore dell'oro dei corpi; neppure il prato fiorito, con la sua vivace policromia, riesce a catturare lo sguardo.
Questo è pienamente assorto nella contemplazione del gesto stesso e del biancore della donna, la quale, appagata dall’amore di colui che ama, concede magnificamente i suoi sensi, sentimenti ed emozioni, in un abbraccio totale e incondizionato. L’equilibrio dell’unione è, allo stesso tempo, perfetto e precario,
armonico e inquieto, specchio di un’epoca sospesa tra illusioni e certezze, dove
l’amore sembra l’unico baluardo in cui rifugiarsi.
Gli amanti raffigurati sono lo stesso Klimt e la sua compagna Emilie Floge:
isolati dal mondo in una fusione che è sensuale e spirituale, i due protagonisti
del dipinto celebrano il trionfo del potere dell’eros, capace di sconfiggere i conflitti tra uomo e donna, persona e natura. La passione è la chiave di lettura di un
quadro il cui fascino risiede nell'inafferrabilità e indefinibilità, in una perfetta,
simbolica ed eterna unione, di quel vago che l'avvolge, di cui si percepisce l'essenza ma non la sostanza. Mondo onirico, dunque, dove cessano i contatti con
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l'esterno e in cui il non-tempo scaturisce dalla fissità del gesto incastonato tra i
preziosismi bizantineggianti, assolutezza stellare dello sfondo, astrattezza coloristica delle vesti, in un clima di totale estraniazione dal mondo, che ognuno di
noi desidererebbe vivere con la persona amata.
“Il bacio” di Hayez: politica e passione
“Il bacio” di Francesco Hayez (Venezia, 1791-Milano, 1882), in Fig. 1,
mostra, secondo i canoni del Romanticismo italiano, un’assoluta attenzione verso i concetti di naturalezza e
sentimento (l’amore individuale), ma
soprattutto verso gli ideali risorgimentali (l’amore per la patria). Ciò che colpisce immediatamente l’osservatore è
l’enorme sensualità che scaturisce dall’abbraccio dei due amanti: questo legame
è tanto forte che riesce ad annullare ogni contrasto, come quello tra il freddo celeste della veste della donna e i colori caldi dell’abito dell’uomo, che ha le gambe messe in modo tale da assecondare la significativa inclinazione del corpo
femminile. L’uomo, mentre bacia la sua amata, appoggia la gamba sul gradino:
Hayez, con questo particolare, comunica l’impressione che egli stia per andare
via, e dà maggiore enfasi al bacio. La scelta dell’artista di celare i volti dei giovani conferisce importanza all’azione, mentre le ombre, che si possono scorgere
dietro il muro, nella parte sinistra del quadro, indicano un eventuale pericolo.
Non si deve, però, dimenticare il reale significato storico dell’opera: Hayez,
attraverso i colori (il bianco della veste, il rosso della calzamaglia, il verde del
cappello e del risvolto del mantello e, infine, l’azzurro dell’abito della donna),
vuole rappresentare l’alleanza tra Italia e Francia avvenuta nel 1858 con i patti
di Plombierès. Bisogna anche ricordare che questo quadro fu presentato
all’Esposizione di Brera del 1859, a soli tre mesi dall’ingresso di Vittorio Emanuele II e Napoleone III a Milano.
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L’intera scena, a giudicare dagli abiti e dall’architettura, si svolge in
un’ambientazione medioevale ma, in realtà, essa è immersa nel presente a causa
del significato e del soggetto iconografico (il bacio) assolutamente nuovo. Il
pubblico dell’epoca interpretò subito questo quadro in termini politici, vedendovi rappresentato l’addio alla donna amata da parte di un patriota costretto
all’esilio: l’opera rappresenta l’attimo terribile del distacco tra due giovani condannati a una separazione piena di tragici enigmi. L’ombra che sale le scale è il
segno che il giovane è pronto a fuggire, quindi il bacio rappresenta l’addio. Nel
dipinto le figure sono disegnate con una precisione e nettezza di contorni propri
della pittura classica, ma il loro atteggiamento appassionato, l’abbandono languido della donna e il piegarsi su di lei dell’uomo, creano un’atmosfera intensa
e commossa. L’attenzione per i dettagli (v. le pieghe della veste, i riflessi della
stoffa) conferisce al dipinto un grande realismo: il vestito della donna appare,
da un lato, turgido e corposo, dall’altro trasparente e morbido. Lo scopo di Hayez in questa raffigurazione è trasmettere il sentimento di amore, il desiderio e
l’irrequietezza popolare per quello che sarà il Regno d'Italia: la passione emerge
vivamente da questo quadro, coniugando perfettamente la profonda partecipazione alle vicende esterne e lo slancio emozionale nella dimensione degli innamorati, i quali si compenetrano e comprendono nell’abbraccio. Il bacio è un
emblema del rapporto tra uomo è donna, ma altrettanto rilevante è la sublimazione della missione civile dell’uomo che non può rinunciare a difendere ciò
che gli sta più a cuore oltre la sua amata: la patria.
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Fig. 2 "Il bacio" di
Gustav Klimt. Olio su tela,
180 x 180 cm. 1908.
Fig. 1
“Il bacio” di
Francesco Hayez. Olio su
tela, 112 × 88 cm. 1859.
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LETTERATURA LATINA
Apuleio: Metamorfosi e Amore e Psiche.
Esistono numerose e affascinanti
storie di passione amorosa che travolge e trasforma i protagonisti,
plasmando il loro destino. Una delle opere più interessanti a riguardo
sono le “Metamorfosi” (“Metamorphoseon libri”) di Lucio Apuleio
(Madaura, 125 d.C. - 180 circa), parzialmente autobiografiche e composte da
undici libri, noti fin dall’antichità anche con il nome di “Asinus aureus”
(“L’asino d’oro”).
Il genere cui il testo rimanda, definito “romanzo”, manca in realtà di una fisionomia definita e appare come il risultato di stili diversi cui si aggiunge
l’indispensabile rapporto con le fabulae Milesiae per quanto concerne il carattere
erotico – licenzioso di alcuni episodi. Vi sono anche sottotrame nate da leggende popolari e l’elemento magico con il quale si scontra e viene ribaltata la logica
di vita dei singoli personaggi. Il protagonista narra la sua trasformazione in asino: l’intera vicenda assume i caratteri del racconto esemplare; perciò, Apuleio,
apprezzabilmente, non calca mai la mano su quanto vi è di scabroso nel suo
romanzo. Prova della serietà moralistica dell’opera è la funzione di elemento
strutturale svolta dalla curiositas di Lucio che conduce il personaggio alla rovinosa trasformazione, dalla quale sarà liberato solo dopo una lunga espiazione,
culminata in un notevole cambiamento di vita.
Emblematico è il caso della bella favola di “Amore e Psiche”, che occupa addirittura due libri; essa assume un valore fondamentale nei confronti del destino di Lucio e, come il resto delle Metamorfosi, ha un significato allegorico: Cupido (identificato con il greco Eros, signore dell’amore e del desiderio), unendosi a Psiche (cioè l’anima), le dona l’immortalità; la donna per giungervi deve affrontare innumerevoli prove, tra cui quella di scendere agli inferi per purificar9
si. Anche la posizione centrale della favola nel testo originale aiuta a capire ciò
che lega questo “racconto nel racconto” con l’opera principale; infatti, è facile
scorgere in tale favola una “versione in miniatura” dell’intero romanzo, offrendone la corretta decodificazione.
Come Lucio, anche Psiche è una persona “simplex et curiosa” che compie
un’infrazione, viene duramente punita e, solo in seguito a molte peripezie, potrà raggiungere la salvezza. Tale storia, esposta da Apuleio, nonostante la sua
tradizione millenaria, conserva intatto il suo fascino e ci fornisce l’esempio di
un amore vissuto al massimo della potenza e dell’intensità: i due protagonisti,
attratti da una forza irresistibile, divengono l’emblema del sentimento puro, al
quale tutti dovremmo ispirarci.
La favola di Amore e Psiche è stata variamente interpretata nel corso del
tempo: il cristiano Fulgenzio ne trasse il mito dell’incontro tra l’Anima e il Desiderio. La storia stupisce non solo perché dalla sua interpretazione deriva quella di tutte le “Metamorfosi”, ma anche per la straordinaria capacità evocativa
delle parole preziose, per la suggestione che ogni verso riesce a creare
nell’animo del lettore mediante una perfetta musicalità e grazie alle connotazioni implicite nei dialoghi tra i personaggi.
L’autore, appartenente a un tempo così antico, riesce nel delineare una forma
di passione così impetuosa, totalizzante e assoluta, dalla quale è impossibile
fuggire. Eros e Psiche, seppur di natura assai diversa, riescono a innamorarsi in
modo sincero e sentono di appartenersi reciprocamente e di dover fare tutto
quanto si possibile per realizzare il sogno della loro unione, affrontando anche
le prove più ardue; il loro sforzo, alla fine, sarà ricompensato e l’amore trionferà.
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Psiche è una bellissima principessa che causa l’invidia di
Venere; quest’ultima invia suo
figlio Eros perché la faccia innamorare dell’uomo più brutto e avaro della Terra, così da
ricoprirla di vergogna. Il dio
dell’Amore, però, s’innamora
della mortale, la trasporta al
suo palazzo e le impone che
gli incontri avvengano al buio
per non incorrere nelle ire della madre. Ogni notte Eros va alla ricerca di Psiche: i due bruciano la loro passione in un amore che mai mortale aveva conosciuto. Psiche è dunque prigioniera nel castello di Eros, legata da un tormento che le travolge i sensi. Una notte, istigata dalle sorelle e pronta a tutto, la donna decide di vedere il volto del
suo amante mentre egli dorme.
Sed cum primumluminis oblatione tori se-
Ma non appena il lume rischiarò l’intimità del
creta claruerunt, videt omnium ferarum mi-
letto nuziale, agli occhi di lei apparve la più
tissimam dulcissimamque bestiam, ipsum
dolce e la più mite di tutte le fiere, Cupido in
illum Cupidimen formonsum deum formon-
carne e ossa, il bellissimo iddio, che soavemen-
se cubantem, cuius aspectu lucernae quo-
te dormiva e dinanzi al quale la stessa luce del-
que lumen hilaratum increbruit.
la lampada brillò più viva.
È questa bramosia di conoscenza a esserle fatale: una goccia cade dalla lampada e ustiona il suo sposo, il quale va via mentre Venere scaglia la sua punizione, sottoponendo Psiche a diverse prove.
Hem audax et temeraria lucerna et amoris vile
Ohimè audace e temeraria lucerna inde-
ministerium, ipsum ignis totius deum aduris,
gna intermediaria d’amore, proprio il dio
cum te scilicet amator aliquis, ut diutius cupitis
d’ogni fuoco tu osasti bruciare quando fu
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etiam nocte potiretur, primus invenerit cuban-
certo un amante a inventarti per godersi
tem, cuius aspectu lucernae quoque lumen hila-
più a lungo, anche di notte il suo deside-
ratum increbruit.
rio.
L’ultima e la più difficile consiste nel discendere negli inferi e chiedere alla
dea Proserpina un po’ della sua bellezza: Psiche medita addirittura il suicidio, e
arriva molto vicina a gettarsi dalla cima di una torre. Però, improvvisamente, la
costruzione si anima e le indica come assolvere la sua missione. Durante il ritorno, mossa ancora dalla sua curiosità, aprirà l’ampolla (datala da Venere) contenente il dono di Proserpina, il sonno più profondo.
Cupido[…] diutinam suae Psyches absen-
Cupido […] non sopportando più a lungo la lon-
tiam tolerans per altissimam cubiculi quo
tananza di Psiche, era fuggito da un’altissima fi-
cohibebatur elapsus fenestram refectisque
nestra della stanza dove lo tenevano rinchiuso e,
pinnis aliquanta quiete longe velocius provo-
volando più veloce del solito sulle ali rinvigorite
lans Psyche accurrit suam detersoque somno
dal lungo riposo, accorse dalla sua Psiche.
Ancora una volta verrà in suo aiuto Amore, che la risveglierà dopo aver rimesso a posto la nuvola soporifera. Solo alla fine, lacerata nel corpo e nella
mente, riceve l’aiuto di Giove. Mosso da compassione, il dio fa in modo che gli
amanti si riuniscano: Psiche diventa una dea e sposa Amore. Il racconto termina
con un grande banchetto con tutti gli dei invitati, al termine del quale i due giovani godono dei piaceri amorosi; da tale unione nasce un figlio, Piacere, identificato dai latini con Volupta:
Sic rite Psyche convenit in manum Cupidinis
Così Psiche andò sposa a Cupido, secondo giuste
et nascitur illis maturo partu filia, quam Vo-
nozze e, al tempo giusto, nacque una figlia, che
luptatem nominamus
noi chiamiamo Voluttà.
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ITALIANO
Gabriele D’Annunzio – “Il Piacere”
“Vestendosi per il pranzo, ripensava: – Ieri, una grande scena di passione, quasi
con lacrime; oggi una piccola scena muta di sensualità. E a me pareva ieri d'essere
sincero nel sentimento, come io era dianzi sincero nella sensazione. Inoltre, oggi
stesso, un'ora prima del bacio d'Elena, io avevo avuto un alto momento lirico accanto a Donna Maria. Di tutto questo non riman traccia. Domani certo, ricomincerò. Io
sono camaleontico, chimerico, incoerente, inconsistente. Qualunque mio sforzo verso l'unità riuscirà sempre vano. Bisogna omai ch'io mi rassegni. La mia legge è in
una parola: NUNC. Sia fatta la volontà della legge.
Rise di sé medesimo. E da quell'ora ebbe principio la nuova fase della sua miseria
morale.”
Gabriele D’annunzio, “Il piacere”
Con queste parole, Andrea Sperelli (protagonista del più importante romanzo di Gabriele D’Annunzio, “Il Piacere”) commenta gli ultimi avvenimenti: egli
aveva incontrato Elena in teatro, e nonostante avesse già una relazione con
Donna Maria, l’aveva baciata; questo aveva provocato, in entrambe le donne,
gelosia. La sera stessa Elena lo “attacca”, dapprima facendolo salire sulla sua
carrozza, non appena Maria se ne va, e poi baciandolo appassionatamente.
“Il Piacere” e il suo protagonista Andrea Sperelli introducono nella cultura
italiana di fine Ottocento la tendenza decadente e l’Estetismo. Come affermò
Benedetto Croce, con D’Annunzio “risuonò nella letteratura italiana una nota, fino
ad allora estranea, sensualistica, ferina, decadente”, in contrapposizione al naturalismo e al Positivismo che in quegli anni sembravano aver ormai conquistato la
letteratura italiana, con la pubblicazione del “Mastro Don Gesualdo” di Giovanni Verga. Per uscire dai canoni del Naturalismo, D’Annunzio inaugura un
tipo di prosa psicologica, che avrà in seguito un grande successo e gli permetterà di indagare gli errori e la contrarietà della vita. Egli inventò uno stile immaginoso e appariscente di vita da “grande divo”, con cui nutrì il bisogno di sogni,
di misteri, di “vivere un’altra vita”.
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Andrea Sperelli prende le mosse da Des Esseintes, aristocratico, protagonista
del romanzo “Controcorrente” di Joris- Karl- Huysmans, che rifiuta la mediocrità del mondo ritirandosi a vita privata in una splendida villa, fatta di arte e letteratura per ritrovare se stesso, anche se poi abbandonerà il rifugio per problemi psichici. Sperelli è uno scrittore amante del bello, che ha due donne.
L’immaginario della donna ne “Il Piacere” si lega a quello del Decadentismo: oscilla tra la seduzione sessuale e passionale di Elena Muti, esponente di
una cultura mediocre, dell’eros, dell’istinto carnale, espressione di piacere e lascivia, che ricorre spesso ai versi di Goethe (poeta sensuale), e la sanità spirituale e quasi mistica di Maria Ferres, colta, intelligente e sensibile all’arte e alla
musica, legata alla famiglia e in particolare alla figlia Delfina, molto religiosa,
che nel corso del romanzo assume una natura quasi misteriosa, passionale e inafferrabile, ricorrendo ai versi di un poeta malinconico, quale Shelley. La contrapposizione ricorre anche nel nome: Elena Muti ricorda Elena di Troia colei
che fece scoppiare la guerra di Troia, Maria Ferres invece è associata la madre
di Cristo, la spiritualità. La donna, però, non deve essere concepita come un
personaggio autonomo, ma piuttosto come lo specchio del conflitto interno
dell’uomo, tormentato dalla volontà di auto affermarsi e di dominare l’altro. È
un processo d’identificazione, che conduce dapprima a una sovrapposizione
sentimentale e poi allo scambio dell’una e dell’altra.
“Egli era quasi giunto a non poter più separare nell’idea di voluttà, le due donne.
E come pensava diminuita la volontà del possesso reale dell’una, così anche sentiva tutti i suoi nervi ottusi quando, per una stanchezza dell’immaginazione, egli
trovavasi innanzi alla forma reale immediata dell’altra”
Gabriele D’Annunzio, “Il piacere”
Infatti, nel momento in cui sta per possedere Maria Ferres, gli sfugge il nome
di Elena Muti, così Maria fugge via inorridita. Con questo romanzo l’artista
vuole celebrare la sconfitta di fronte al mondo dominato dalla materialità, infatti, lui cerca di elevarsi col bello, con un amore spirituale, ma cede alla materiali14
tà. Insomma, Andrea diventa una figura intermedia tra il superuomo e l’inetto,
che ha perso il dominio di sé, la propria genuinità, la facoltà di agire senza ambivalenze e di godere a pieno i piaceri agognati. Però la sua eccezionalità ha
anche un risvolto negativo: è sempre e comunque destinato al fallimento.
Approfondimento: La vita di Gabriele D’Annunzio
Gabriele D’Annunzio nasce a Pescara il 12 marzo 1863 da famiglia borghese, che vive grazie alla
ricca eredità dello zio Antonio D’annunzio. Compie gli studi liceali nel collegio Cicognini di Prato,
distinguendosi sia per la sua condotta indisciplinata che per il suo accanimento nello studio unito a
una forte smania di primeggiare. Già negli anni di collegio con la sua prima raccolta Primo vere,
pubblicata a spese del padre, ottiene un precoce successo, in seguito al quale inizia a collaborare ai
giornali letterari dell’epoca. Iscrittosi alla facoltà di Lettere, si trasferisce a Roma, dove, senza portare a termini gli studi universitari, conduce una vita sontuosa, ricca di amori e avventure. In breve
tempo il giovane D’Annunzio diviene figura di primo piano della vita culturale e mondana romana.
La sua prima opera in prosa fu la novella Terra Vergine (1882) che insieme a Il libro delle Vergini e
San Pantaleone costituirà la raccolta delle Novelle della Pescara (1902). Queste novelle sono ambientate in un Abruzzo primitivo, dove in una natura rigogliosa e sensuale esplodono passioni primordiali, soprattutto sotto forma di un erotismo vorace e di una violenza sanguinosa. Quindi in queste novelle è presente un regionalismo veristico, ma con temi decadenti; infatti, il verismo cerca di
essere oggettivo nella sua descrizione societaria, mentre lui vuole vedere lo scatenarsi di forze irrazionali e primitive che sono estranee al gusto documentario, agli interessi sociali e alla visione positivistica del Verismo.
Durante la fase dell’estetismo, per quanto riguarda la poesia, scrisse Intermezzo di rime (1883),
Isotteo (1886) e Chimera (1890); mentre per quanto riguarda la prosa scrisse Il Piacere, che celebra
la nascita e la fine dell’estetismo. Alla fase dell’estetismo segue la fase della bontà durante la quale
scrive romanzi, suggestionati dal romanzo russo, come Giovanni Episcopo (1891) e L’innocente
(1892), e una raccolta poetica, Il Poema paradisiaco (1893), dove esplica di recuperare l’innocenza
dell’infanzia, di ritornare alle cose semplici e agli affetti familiari. D’Annunzio negli anni novanta
legge Nietzsche cogliendo da lui il rifiuto del conformismo borghese, l’esaltazione dello spirito
“dionisiaco” (Dioniso era il dio greco dell’ebbrezza), ma soprattutto il mito del superuomo: auspica
uno stato forte in cui emerga un’aristocrazia di eccellenza guidata da un grande uomo, affermando
che le masse offrono spontaneamente i polsi ai vincoli. Il superuomo è espressione di una classe sociale, l’alta borghesia, che si esprimerà nel fascismo. Egli si farà interprete di questa parte della società. I romanzi del periodo superomistico sono Trionfo della morte (1894), Le vergini delle rocce
(1895), Il fuoco (1900) e Forse che si forse che no (1919). Inoltre scrive tante opere teatrali innovative, che esprimono ideali perseguiti da molta gente, e qualcuna anche per l’attrice Eleonora Duse, il
suo amore più famoso. Il messaggio di queste opere è che l’Italia è destinata a imperare sui mari, e
sottomettere gli altri stati. Scrive numerose opere teatrali con l’intento di raggiungere più persone
possibili, per seminare il suo «verbo». A causa dello stile di vita che conduce, finisce con
l’indebitarsi talmente tanto da doversi rifugiare in Francia, per poi tornare all’inizio della prima
guerra mondiale. Riacquista un ruolo di primo piano tenendo accesi discorsi interventisti e partecipando a varie e ardite imprese belliche, ampiamente autocelebrate. Durante un incidente aereo viene
ferito ad un occhio. A Venezia, costretto a una lunga convalescenza, scrive il Notturno, edito nel
1921. Nonostante la perdita dell’occhio destro, diviene eroe nazionale partecipando a celebri imprese, quali la beffa di Buccari e il volo nel cielo di Vienna. Il volo su Vienna fu compiuto il 9 agosto
da una squadriglia di apparecchi, che lanciarono sulla città migliaia di manifesti, in cui si leggeva
«Viennesi! Imparate a conoscere gli italiani. Noi voliamo su Vienna, potremmo lanciare bombe a
tonnellate. Non vi lanciamo che un saluto a tre colori: i tre colori della libertà».
Finita la guerra, poiché gli alleati non volevano riconoscere l’annessione di Fiume all’Italia, presso gli interventisti si diffuse l’idea di aver subito una «vittoria mutilata». I nazionalisti inasprirono le
tensioni e D’Annunzio, uno dei capi delle «radiose giornate di maggio», tornò alla ribalta con
un’azione spettacolare: l’occupazione di Fiume. Nonostante le varie reliquie della sua gloriosa vita,
il vecchio esteta trascorse una malinconica vecchiaia sino alla morte avvenuta il primo marzo del
1938.
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Approfondimento storico: Il primo dopoguerra
Il dopoguerra italiano fu attraversato dalle stesse tensioni e dagli stessi problemi che avevano
segnato le vicende degli altri principali Stati belligeranti. La guerra era stata finanziata soprattutto con l’emissione di prestiti, con un conseguente forte incremento del debito pubblico;
l’inflazione era cresciuta in misura direttamente proporzionale all’emissione abnorme di carta
moneta. In Italia molti furono delusi e scontenti:
Delusi e scontenti furono i nazionalisti interventisti che avevano voluto la guerra, perché
sostenevano che l’Italia dalla vittoria sull’Austria non aveva ricavato i vantaggi aspettati (=
vittoria mutilata): infatti, alla Conferenza di Parigi, fu stabilito che all’Italia fossero assegnate la Dalmazia e la Lorena, mentre Fiume che era una città italiana e che secondo il trattato di Londra (stipulato dal nostro paese per allearci con le potenze dell’Intesa) era nostra
di diritto per il principio della nazionalità, fu assegnata, invece, alla Jugoslavia.
Delusi erano i reduci di guerra, contadini e operai ai quali non erano stati dati né terre né
posti di lavoro promessi, e ora vagavano nella più nera miseria, disoccupati in cerca di un
lavoro qualsiasi.
Allo sbando era tutta la popolazione per la crisi agricola, debito enorme dello Stato e una
grande epidemia, la febbre spagnola, che creò quasi più vittime della stessa guerra.
I grandi proprietari terrieri, invece, erano intimoriti perché guardavano con grande preoccupazione i contadini e gli operai, agitati e mossi dalla situazione sociale ed economica e i
ceti medi i quali vedevano ogni giorno diminuire i loro stipendi.
Gli storici affermavano che la prima guerra mondiale era stata più che una guerra, una Rivoluzione, una guerra di massa, che aveva mutato i rapporti tra gli uomini. Infatti, ora il popolo cominciava a essere cosciente del proprio ruolo: i reduci si scrivevano ai sindacati, alle associazioni, ai partiti, facevano sentire la propria voce; i sindacati, facevano sentire il loro peso con scioperi sempre più frequenti. Anche il sistema elettorale cambiò: le formule politiche che avevano
segnato l’età giolittiana erano tramontate definitivamente nei tre anni di guerra. Tra il 1919 e il
1922 non ci fu più una coalizione di partiti in grado di dare stabilità all’esecutivo, di gestire con
lucidità la difficile transizione verso la pace. Prima del 1919, in genere, i candidati erano imposti
dal governo o concorrevano “da soli”; alle elezioni del 1919 i Partiti proposero proprie liste votate dalla massa anonima del popolo. Non esisteva più solo il Partito dei liberali ma ora c’era un
Partito Socialista, sempre più agguerrito e organizzato, e un nuovo partito comprendente diverse
classi sociali, sostenuto dai Cattolici, il Partito Popolare. Nelle elezioni del 1919, il Partito Socialista e il Partito Popolare ottennero più consensi. Si crearono così dei governi di area liberale,
che però si dimostrarono molto deboli: prima il governo Orlando, poi il governo Nitti, il governo
Giolitti, il governo Bonomi, il governo Facta e infine, nel 1922 il governo Mussolini che instaurò
la dittatura fascista.
Il Biennio rosso.
I delusi dalla guerra, soprattutto contadini e operai, appoggiati dal Partito Socialista, spingevano per una soluzione di tipo socialista, mentre gli industriali, soprattutto i costruttori di armi, i
proprietari terrieri e i nazionalisti irredentisti appoggiavano soluzioni di destra: un governo forte
che portasse l’ordine sociale e controllasse le masse. Il primo tentativo di sovvertire lo stato e
l’ordine sociale fu compiuto proprio dalla sinistra con il >.
Nel dopoguerra tutto il mondo del lavoro era in subbuglio: gli operai proclamavano frequenti
scioperi, e gli impiegati e i contadini erano in agitazione. Mentre i primi nuclei comunisti, appoggiarono un nuovo tipo di lotta: l’occupazione delle fabbriche. Gli operai si autoproclamarono
guardie rosse e presidiarono con le armi gli stabilimenti. In questo modo gli occupanti volevano
dimostrare che ormai la classe operaia era maturata e pronta a sostituire la classe borghese. Invece, questa nuova forma di lotta portò due conseguenze importanti:
• aumentarono le divisioni nel Partito socialista, tanto che, nel Congresso di Livorno del 1921,
i comunisti fondarono il Partito comunista italiano, perché, al contrario dei socialisti, non volevano salire al potere attraverso libere elezioni e riforme, ma con la rivoluzione;
• poiché, proprietari terrieri e ceti borghesi volevano un governo forte, che tenesse a bada il
movimento di contadini e operai, i ricchi proprietari terrieri sostennero un nuovo movimento,
i Fasci di Combattimento, fondato nel 1919 da Benito Mussolini. Si faceva strada, insomma,
la soluzione di destra che sarebbe stata poi attuata dal Fascismo.
16
Il Fascismo
Il Partito fascista fu fondato nel 1919 da Benito Mussolini, ex socialista
interventista, ed era caratterizzato dalla dittatura di un partito unico, dal nazionalismo e dal corporativismo. Il Fascismo prese il nome dai fasci, verghe
degli antichi littori romani, simbolo di potere e di dignità, che divennero
“insegne” e “simboli” del movimento fascista, insieme a “teschi”, “pugnali”
e “camicie nere”. Politicamente, Mussolini e i suoi seguaci si contrapponevano a Giolitti, avversari del Partito Popolare e del Partito Socialista e del
Movimento Operaio. Godevano dell’appoggio di borghesi e proprietari terrieri, di coloro cioè che temevano le rivendicazioni di contadini e operai;
furono tollerati dallo stato e dal re, dalla polizia, dall’esercito e in principio
persino dalla Chiesa cattolica. Fu così che l’avventura di un manipolo di
persone, si trasformò nella dittatura che dominò in Italia dal 1922 al 1943.
Nella storia del Fascismo, si possono individuare varie fasi:
Prima fase - dalle origini alla marcia su Roma (1919-1922). È la fase in cui i primi fasci
di combattimento si organizzarono, ottenendo l’appoggio degli industriali e dei proprietari
terrieri, e s’imposero con la violenza sulle masse “rosse”, cattoliche e “popolari”. Nel Novembre 1921 il Movimento dei Fasci si trasformò in Partito Nazionale Fascista. Ormai il
Fascismo si presentava come il “Partito d’Ordine” e cominciò a essere ben visto non solo
dagli industriali, per la violenta lotta che i Fascisti avevano intrapreso contro gli operai, ma
anche dai ceti medi e da un numero sempre maggiore d’intellettuali. A questo punto, Mussolini capì di poter aspirare al potere: il 28 ottobre 1922 organizzò la marcia su Roma per
impadronirsi del governo della penisola. Di fronte all’avanzata di questo esercito di scalmanati, il Presidente del Consiglio, Luigi Facta, chiese al re lo stato di assedio, che avrebbe bloccato, con l’esercito, le strade di accesso alla capitale, ma il re Vittorio Emanuele III,
interpretando lo stato d’animo della media e grande borghesia, non firmò il documento: le
squadre fasciste entrarono, così, liberamente a Roma.
Seconda fase - Mussolini capo del governo (ottobre 1922 - maggio 1924). Il re invitò
Mussolini, per l’indomani della marcia su Roma, a formare un nuovo Governo. Così cominciò l’avventura dittatoriale per l’Italia. In principio il duce adottò una linea politica
moderata; ma in realtà l’obiettivo di Mussolini era di rendere il suo partito, l’organo centrale dello Stato.
I primi provvedimenti chiesti Mussolini, furono i seguenti:
• concessione da parte del Parlamento dei pieni poteri al Governo;
• approvazione di leggi favorevoli a industriali, proprietari terrieri e Chiesa cattolica;
• legalizzazione delle camicie nere, trasformate in seguito in Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN);
• istituzione del Gran Consiglio del Fascismo che avrebbe dovuto consigliare l’operato
del Governo.
• riforma del sistema elettorale mirata all’ottenimento della maggioranza dei consensi per
il Partito Fascista. Con il nuovo sistema, nelle elezioni del ’24, il “listone” fascista ebbe
una maggioranza assoluta ottenuta però tramite brogli e minacce a candidati ed elettori.
Terza fase - la dittatura (maggio 1924 – 25 luglio 1943). Alla riunione del nuovo Parlamento, il 30 maggio 1924 il deputato socialista Giacomo Matteotti denunciò i brogli e il
clima di violenza che avevano accompagnato le elezioni: dieci giorni dopo fu ucciso da
squadristi fascisti. L’opinione pubblica si sdegnò tanto vivamente che il regime sembrò in
pericolo; ma il re, non intervenne. Intanto Mussolini si assunse tutta la responsabilità di
quanto era avvenuto e decise di emanare delle leggi eccezionali, le fascistissime, che in realtà trasformarono il suo potere in regime dittatoriale e totalitario: “Tutto dentro lo Stato,
nulla fuori lo Stato, nulla contro lo Stato”.
L’impronta dittatoriale segnò subito sia la politica interna sia la politica estera. Per quanto riguarda la politica interna Mussolini fece emanare subito le leggi fascistissime, secondo le quali il
Capo del Governo rispondeva del suo operato solo al Re e non al Parlamento; venivano aboliti
tutti i partiti, tranne quello fascista; era introdotta la censura sulla stampa; si abolivano e impedivano associazioni politiche e sindacali che non fossero fasciste; s’istituiva il Tribunale Speciale
per la difesa dello Stato, con lo scopo di giudicare gli oppositori; si dichiarava fuori legge lo
sciopero; veniva introdotta la pena di morte.
17
Tutto questo significò un enorme rafforzamento del potere esecutivo e l’esautoramento del
Parlamento. Il consolidamento del fascismo tra ’22 e il ’26 non sarebbe potuto avvenire in modo
così compiuto, se esso non avesse goduto dell’appoggio delle forze economiche, i cui interessi
furono massicciamente sostenuti dal governo all’insegna di un produttivismo privatistico. Dal
1926 iniziò l’inquadramento sistematico di bambini, ragazzi e giovani dei due sessi nelle organizzazioni dell’Opera Nazionale Balilla (ONB). Il credo della gioventù era racchiuso nella formula «crescere, obbedire, combattere», la quale divenne il credo stesso che il fascismo imponeva a tutti gli italiani. Fu organizzata una campagna capillare per la diffusione delle nuove idee:
stampa e radio furono soggette al più stretto controllo e alla censura più rigorosa. Il dittatore volle ristabilire gli usi dell’antica Roma, perciò, in sostituzione della normale stretta di mano, impose il saluto romano, egli stesso si fece chiamare “Duce”, cioè comandante. In quest’opera
d’indottrinamento fascista e di potere industriale, il Duce, però, incontrò alcuni ostacoli. Per esempio l’esercito, la burocrazia e la magistratura simpatizzavano più per la monarchia che per la
dittatura. Ma l’ostacolo più grande era costituito dalla Chiesa cattolica, la quale, in un primo
momento aveva accolto volentieri alcuni provvedimenti fascisti a suo favore; ma, quando il regime abolì associazioni e movimenti cattolici, si manifestarono seri momenti di tensione. Mussolini capì subito che non si poteva ignorare che il 90% della popolazione italiana fosse cattolica e
obbedisse al Papa, in quel periodo Pio XI. Così propose alla Chiesa un accordo e l’11 febbraio
1929 Mussolini e Pio XI firmarono i Patti Lateranensi: il trattato sanciva il consenso alla piena
sovranità del Papa sulla Città del Vaticano e a considerare la religione cattolica come “religione
di Stato” mentre, in cambio, la Chiesa riconosceva il Regno d’Italia, con Roma capitale. Contemporaneamente, in un concordato tra Stato e Chiesa, venivano concessi alla Chiesa la piena
libertà di culto, gli effetti civili al matrimonio religioso, l’introduzione dell’insegnamento religioso nelle scuole, la garanzia della sopravvivenza e dell’autonomia dell’Azione Cattolica. Ottenendo quel “riconoscimento” - sempre negato dai governi dell’Italia liberale dopo il 1870 - Mussolini riuscì a consolidare il suo prestigio interno e internazionale.
Sull’onda della popolarità acquistata, un mese dopo, il 24 marzo 1929, il regime chiamò gli italiani alle urne per votare, in un “plebiscito nazionale”, la nuova Camera fascista. Inoltre, per
risolvere il contrasto tra le classi creò lo Stato corporativo: emanò la Carta del lavoro, che regolamentava i rapporti di lavoro e istituì per ogni ramo dell’attività produttiva una Corporazione
nella quale erano presenti, in egual di numero e con parità di diritti, rappresentanti sia
d’imprenditori, sia di lavoratori. Poiché le parti erano in condizioni di parità, in caso di scontro,
chi risolveva era lo Stato. Con l’istituzione delle Corporazioni Mussolini intese risolvere la questione sociale, ma in realtà la soluzione si dimostrò a tutto vantaggio degli imprenditori perché i
padroni erano principali sostenitori del fascismo e quindi, nelle controversie di lavoro, i gerarchi
fascisti avrebbero sempre favorito gli interessi degli imprenditori.
Nella politica estera, Mussolini desiderava che l’Italia apparisse all’Europa e al resto del mondo come un paese forte e militarmente preparato. Il dittatore mirava a ottenere un’espansione
dell’Italia nel Mediterraneo; una delle tappe dell’espansionismo fu l’occupazione militare
dell’Etiopia con la relativa guerra: il generale Badoglio, in pochi mesi, riuscì a conquistare
l’Etiopia. Ma quest’ultima faceva parte della Società delle Nazioni, perciò, quando l’imperatore
denunciò l’oppressione italiana, la Società delle Nazioni fu costretta a emanare provvedimenti
restrittivi contro l’Italia, vietando a ogni Paese di esportare in Italia materie prime, come petrolio
e carbone, e prodotti industriali. Ma, tra le 52 nazioni che avevano approvato le sanzioni, soltanto Francia e Inghilterra le osservarono, conseguentemente, la Società delle Nazioni perse credibilità e il Fascismo ne uscì ancora una volta rafforzato. Fu in questo periodo che Mussolini si avvicinò alla Germania e alla dittatura nazista di Hitler.
18
FILOSOFIA
“Aut- Aut” e lo stadio estetico.
L’opera più importante di Søren Kierkegaard, Aut- Aut (in danese Enten-Eller),
tratta ed esplora le prime due modalità
esistenziali: la vita estetica e la vita etica.
Pubblicato in due volumi nel 1843 sotto
lo pseudonimo di Victor Eremita, AutAut descrive due stadi del cammino della
vita, uno edonistico, improntato sulla vita
mondana, sul piacere, sull’indifferenza nei
confronti dei principi e dei valori morali;
l’altro basato sul dovere etico e sulla responsabilità, con la conseguente rinuncia
dei beni materiali per intraprendere una
vita religiosa. La parte che tratta della visione estetica della vita è scritta sotto
forma di saggio breve, con figure retoriche e allusioni, e discute argomenti estetici quali la musica, la seduzione, il dramma e la bellezza. Lo stadio estetico è rappresentato dalla figura del Don Giovanni che vive il valzer dell’istante, che si
gode solo il piacere immediato e passeggero, trascorrendo una vita senza impegni e senza compromessi. I piaceri sono molti (dalle ricchezze, alle donne), ma
anche il piacere intellettuale o della disperazione come forma di distacco dal
mondo. Per Kierkegaard è una vita che sfugge dalla scelta guidata dell’istante.
Il limite del Don Giovanni è la noia che incombe ogni volta che si avverte, anche
inconsapevolmente, l’insufficienza di una vita che è incompleta e solo apparentemente gioiosa. Esaurite tutte le possibilità di piacere, si passa così dalla noia
alla disperazione.
L’esteta vive immediatamente il rapporto con la vita come godimento e come
rappresentazione del godimento. Privo di contenuti reali e soggettività, vive
19
nell’orizzonte della possibilità infinita, senza mai compiere il movimento della
realizzazione. La sua personalità è perciò dispersa nella molteplicità: l’unità del
suo Io è illusoria ed evanescente. Non si rivela mai al mondo, non getta mai la
maschera: si rappresenta e si mostra come un enigma, del quale rimane egli
stesso costantemente prigioniero. La sua vita è priva di durata, perché si esaurisce nella fermezza d’istanti successivamente dileguanti. Quindi egli rimane
sempre ciò che è, senza poter divenire. La sua sfera è il gioco, l’immaginazione,
e la sua vita è come un teatro.
Kierkegaard rappresenta l’estetico nei due miti letterari di Don Giovanni e
Faust e nel personaggio del seduttore Johannes, che il filosofo crea fondendovi
elementi della propria esperienza autobiografica.
Don Giovanni rappresenta il potere e il piacere della seduzione immediata,
che allinea le proprie conquiste, una accanto all’altra, come un’indefinita successione d’istanti. È la pura forza dell’eros, il cui mezzo espressivo ideale è la
musica di Wolfgang Amadeus Mozart.
Faust, invece, incarna il gioco della conoscenza. Il patto demoniaco con Mefistofele costringe Faust alla ricerca inesausta della conoscenza assoluta e, quindi,
a dubitare di tutto, a non potersi fermare di fronte a nulla. Anche Faust è seduttore, ma di una sola donna, Margherita, poiché nel potere assoluto sopra una
donna (che egli conquista grazie alla sua superiorità intellettuale) egli trova un
“momento di presente”, un “istante di riposo” di fronte al nulla che lo minaccia
e che il suo scetticismo continuamente gli ripresenta.
Johannes, infine, si colloca,
nell’arco della seduzione estetica,
al polo opposto rispetto a Don
Giovanni. Il suo diario - Il Diario
del seduttore, che rese celebre
Kierkegaard - racconta la trama
sottile in cui egli avvolge la giovane Cornelia per conquistarla e
20
“Ciò che io sono è un nulla; questo procura a
me e al mio genio la soddisfazione di conservare la
mia esistenza al punto zero, tra il freddo e il caldo,
tra bene e male, tra la saggezza e la stupidaggine,
tra qualche cosa e il nulla come un semplice forse.
Paradossale è la condizione umana. Esistere significa «poter scegliere»; anzi, essere possibilità. Ma
ciò non costituisce la ricchezza, bensì la miseria
dell'uomo. La sua libertà di scelta non rappresenta
la sua grandezza, ma il suo permanente dramma.
Infatti, egli si trova sempre di fronte all'alternativa
di una «possibilità che si» e di una «possibilità che
no» senza possedere alcun criterio di scelta. E
brancola nel buio, in una posizione instabile, nella
permanente indecisione, senza riuscire a orientare
la propria vita, intenzionalmente, in un senso o
nell'altro.”
(Aut Aut)
poi abbandonarla. La seduzione diviene forma di scrittura, forma letteraria. Johannes non gode del possesso, ma della rappresentazione della conquista; anzi,
evita il possesso perché la riuscita della seduzione mette fine al piacere, e la fine
del piacere implica, in qualche modo, l’impegnarsi con la realtà, mentre ciò che
interessa è l’idea, l’immaginazione. La categoria estetica, in cui Johannes vive, è
quella dell’interessante: è categoria della riflessione, perché in essa il soggetto
non guarda ai contenuti, ma ai modi, non vive e non gode delle cose, ma della
loro anticipazione e del loro ricordo. Egli trasforma il suo desiderio e la sua seduzione in un’opera d’arte:
“Introdursi in immagine nell’intimo di una fanciulla è un’arte, uscirne fuori in
immagine è un capolavoro”
La vita di Kierkegaard
Søren Kierkegaard, unanimemente considerato precursore e fondatore dell’esistenzialismo
moderno, nacque nel 1813 dalla relazione fra il
padre Michael, commerciante, uomo profondamente religioso e la cameriera che aveva
sposato dopo la morte della prima moglie. Lo
stesso Kierkegaard descrisse la sua infanzia
come un’età infelice: un ragazzo fragile fisicamente, sottoposto dal padre a un’educazione
cristiana. Si iscrisse alla facoltà di teologia
dell’università di Copenaghen terminando gli
studi nel 1840, dopo dieci anni. In seguito alla
morte della madre e di tre fratelli nel giro di
due anni, interpretate come una punizione per
una colpa commessa, si allontanò dal padre e
cominciò la sua crisi di sfiducia nella religione.
La sua riflessione filosofica si caratterizza per
l’attenzione rivolta al concetto di esistenza:
l’esistenza urta col negativo dell’esclusione, è
una forma di scopertura che si lega al possibile,
e il possibile è angoscia. Fondò e diresse una
rivista, il “Momento”, in cui si lanciò contro la
burocratizzazione e la mondanizzazione della
Chiesa ufficiale, accusata di tradire lo spirito
cristiano più autentico. Morì nel 1855, colto da
una paralisi.
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LETTERATURA INGLESE
“… La ragazza rise di nuovo. Nella sua voce c’era la gioia di un uccellino in gabbia.
Gli occhi colsero la melodia e la riversarono splendendo; si chiusero per un attimo,
come per nascondere il segreto. Quando si riaprirono, su di loro era passata l’ombra di
un sogno. La saggezza delle labbra sottili le parlava dalla poltrona consunta, le consigliava prudenza prendendola a prestito da quel libro delle vigliaccherie il cui autore
scimmiotta il buon senso. Sybil non la ascoltava, era libera nella prigione della passione. Il suo principe, il principe azzurro, era con lei. Aveva chiesto alla memoria di riprodurglielo, aveva mandato la sua anima a cercarlo e questa glielo aveva riportato. Il
suo bacio le ardeva sulle labbra, le sue palpebre erano calde del suo respiro…”2
Questa è un piccolo estratto dall’opera più importante di Oscar Wilde, “The
Picture of Dorian Gray”. Il protagonista, Dorian Gray, un bellissimo ragazzo, desidera fondere insieme arte e vita. E quasi ci riesce attraverso la storia d’amore
con Sybil Vane, una bravissima e bellissima attrice. Dorian se ne innamora
quando la vede recitare in teatro, interprete di Giulietta. Un’interpretazione
talmente riuscita da convincerlo di avere trovato in Sybil Vane colei che esprime, nel mondo, lo spirito trascendente dalle cose. Per lui è indispensabile che lei
sappia continuare nel miracolo di una simile interpretazione. Ma, purtroppo, le
sue aspettative vengono deluse: ignorando che Dorian si fosse innamorato proprio della sua arte e del suo talento, Sybil rinuncia a quell’arte per stare con lui.
Dorian, deluso, la lascia e Sybil si uccide dal dolore.
Nella parte dell’opera sopra trascritta, Sybil Vane riporta alla mente il ricordo del suo principe azzurro e del bacio ricevuto, unico contatto fisico vissuto tra
i due innamorati.
2
Citazione dell’opera “Il Ritratto di Dorian Gray”.
22
The Picture of Dorian Gray
“The picture of Dorian Gray” is the only
published novel by Oscar Wilde and was
considered an immoral book. The novel
tells the story of Dorian, a handsome young
man who is retracted by a famous painter
Basil Hallward attracted by his beauty. On
this particular day, Basil is accompanied by
Lord Henry, one of his close friends, who is
very fascinated by Dorian aspect. When
Dorian sees his picture he's impressed by
the perfection of his beauty and so he expresses the desire to remain young forever.
Alarmed by Dorian’s reaction to his painting, Hallward tries to destroy it, but Dorian stops him and takes the picture
home with him. Then Dorian and Lord Henry become friends and under his influence the protagonist embarks on a life of vices and sensual gratifications, letting his portrait bears the weight of his corrupt and corrupting soul. Dorian begins to frequent the theatre, where he meets a brilliant actress, Sybil Vane, who
falls in love with him, but Dorian, fallen in love of her artistic life, cruelly rejects
her, when she renounces her art to be with him, saying that it was only on stage
that she fascinated him. After Dorian sees an expression of cruelty, appeared on
the face of the portrait, he resolves to return to Sybil, but it’s too late: Sybil has
killed herself. Years later, Dorian, now totally corrupted by committed evil, but
still as youthful as ever, lets the elderly Basil Hallward see the actual hideous
face of the portrait and then kills him to prevent him from revealing his secret.
Unfortunately, this is only the beginning: to keep Dorian’s secret, several other
people have to die. But the portrait becomes more and more gruesomely ugly,
representing his crimes, and Dorian finally realizes the horror of his actions. He
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decides to destroy the portrait and to begin a new life. But, in doing that, he
kills himself. At this point, the portrait is magically restored to its original image of Dorian’s youthful perfection while the real Dorian’s features in death become those of a hideous, disgusting old man.
This novel, expression of extreme Decadents is a really mystery’s story, deeply allegorical and full of symbolic meanings, centered on the theme of the
double, typical of the psychological horror stories (Stevenson). The picture
represents Dorian's double side, the dark side that is the symbol of immorality,
of dirty conscience and also of Victorian middle class. On the other side, Dorian,
with his pure innocent appearance, represents the Victorian bourgeois hypocrisy. The Picture of Dorian Gray is considered one of the last works of classic gothic
horror fiction with a strong Faustian theme. It deals with the artistic movement
of the decadents, and homosexuality, both of which caused some controversy
when the book was first published. However, in recent times, the book has been
regarded as one of the modern classics of Western literature.
The Preface to The Picture of Dorian Gray is considered a manifesto of the
Aesthetic movement, expressing Wilde’s ideas on art in general. His Aestheticism will have a profound influence on the work of others, including Gabriele
D’Annunzio.
Oscar Wilde Biography.
Oscar Wilde was born and grew up in Dublin, the son of an influential Anglo-Irish family. His father was a famous doctor and his mother was a translator and a nationalist poet. After graduating in classical studies at Trinity
College, Dublin, Wilde won a scholarship to Magdalene College, Oxford,
where he became familiar with Aesthetic work of Walter Pater and John
Ruskin. After travelling in Italy and Greece, he settled in London and became
a popular and eccentric dandy who charmed everybody with his wit and brilliant conversation. He established himself as a spokesman for the school of
“art for art’s sake”, a movement whose supports considered art to be a selfenclosed and autonomous realm. In 1882 Wilde gave a one year lecture tour
in America, famously saying on his arrival in New York: “I have nothing to
declare but my genius”. He then spent several months in Paris where he meet
Zola, Balzac, Hugo and Verlaine. The previous year he had published his
first volume of poems. His famous novel is “The Picture of Dorian Gray”. In
the spring of 1895, however, his popularity declined when he was arrested
and sentenced to two years’ hard labor. He spent two years in prison for homosexual acts. After his release in 1897 Wilde emigrated to France, where he
lived in poverty and obscurity under an assumed name.
24
GEOGRAFIA ASTRONOMICA
Venere: il pianeta dell’amore.
Se è vero che “tutto quanto può contenere
l’amore si può dire con un bacio”, non si può
discutere del bacio senza parlare di lei, Venere, divinità mitologica dell’amore e della bellezza, e con lei il pianeta Venere, che le è stato dedicato per la sua folgorante lucentezza,
secondo solo alla Luna per luminosità nel
cielo notturno.
Venere deve la sua luminosità non solo alla sua vicinanza al Sole, ma anche
alla “piccola” distanza che lo separa dalla Terra: è infatti il pianeta più visibile.
Venere condivide con la Terra numerose caratteristiche, come dimensioni, densità, massa e posizione nel sistema solare; per questo è spesso indicato come il
pianeta “gemello” della Terra. Per via di questa somiglianza, si spera che uno
studio più approfondito del pianeta Venere possa fornire ai geologi anche una
migliore comprensione della storia del nostro pianeta. Molte volte il pianeta
dell’amore viene scambiato, da chi sogna guardando le stelle col naso all’insù,
per una stella, perché, dopo la Luna, è l’oggetto più luminoso del cielo notturno. Questa sua caratteristica è data dalla spessa e densa atmosfera che riflette il
75℅ della luce ricevuta dal Sole e che ai nostri occhi appare come la luce emessa
da un astro.
L’atmosfera è costituita da:
96,4 ℅ di diossido di carbonio,
3,4℅ di azoto,
0,01℅ di vapore acqueo in media
e da meno di venti parti per milione di ossigeno.
Com’è facile notare, i suoi componenti sono estremamente diversi da quelli
dell’atmosfera terrestre e quindi se ne deduce che l’atmosfera di Venere non
permette a nessuna forma di vita di svilupparsi e riprodursi. L’alto tasso di ani25
dride carbonica causa un elevatissimo effetto serra, dal quale deriva l’elevata
temperatura del pianeta (temperatura superficiale media pari a 737 K).
Venere è avvolta da una filtra coltre di nubi, impenetrabile alla luce visibile;
tuttavia, la sonda Magellano e gli strumenti radar posti sulla Terra hanno prodotto un’accurata mappatura della superficie venusiana, che ha rivelato una topografia molto diversificata, con caratteristiche intermedie tra quelle della Terra
e quelle di Marte. Per compiere rilevamenti di questo tipo, i radar hanno inviato
impulsi di microonde, in direzione della superficie venusiana, e, grazie alla misurazione dell’intervallo di tempo necessario perché gli impulsi ritornassero alla sorgente, è stato possibile risalire alla quota, cioè all’altitudine, dei corpi che li
hanno prodotti, e distinguere perciò montagne e avvallamenti. I dati raccolti
hanno confermato che i principali processi geologici in atto su Venere sono fenomeni di vulcanismo basaltico e di deformazione tettonica. La bassa densità di crateri da impatto suggerisce inoltre che questi due fenomeni abbiano conosciuto
un periodo d’intensa attività in un passato geologico piuttosto recente. Circa
l’80℅ della superficie di Venere consiste in stratificazioni di flussi lavici solidificati. Alcuni canali scavati dalla lava si estendono per centinaia di chilometri e
uno di questi serpeggia lungo il pianeta per ben 6800 km. Sono state identificate
migliaia di strutture vulcaniche e si tratta per lo più di piccoli vulcani a scudo,
sebbene siano stati mappati oltre 1500 vulcani con un diametro superiore a 20
km. Uno di questi è Sapas Mons, che ha un diametro di 600 km ed è alto 2400
m. Molti flussi lavici ricordano quelli dei vulcani a scudo hawaiani, ma, nel caso
di Sapas Mons, sembrano essere fuoriusciti dalla sommità, anziché da bocche
secondarie lungo i fianchi. In altri casi si è trovato che i flussi lavici originano da
brevi e frequenti eruzioni sommitali e da lunghe ma rare eruzioni sui fianchi.
Solo l’8℅ della superficie di Venere è costituito da altopiani simili alle aree
continentali della Terra. Mentre l’attività tettonica su Venere sembra provocata
da flussi di materiali che continuamente risalgono in superficie e sprofondano
all’interno del pianeta. Anche se i moti convettivi del mantello sono tuttora attivi, un processo analogo alla terrestre tettonica a placche, in grado di rigenerare
ciclicamente uno strato di litosfera, non sembra aver contribuito all’attuale to26
pografia della superficie venusiana. Da com’è stato possibile osservare, Venere
non è il gemello della Terra, anzi è molto diverso dal nostro pianeta sotto tanti
aspetti, nonostante alcune caratteristiche macroscopiche simili. I dati in nostro
possesso non sono inoltre sufficienti per ipotizzare una somiglianza più sostanziale in un’epoca passata.
Fig. 3 Le nuvole tossiche di Venere.
Fig. 4 La superficie di Venere
Fig. 5 Particolare della superficie di Venere.
Fig. 6 La sonda Magellano.
27