cabinet coloniale

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cabinet coloniale
Storie in corso
Workshop nazionale dottorandi in Storia contemporanea
Napoli, 23-24 febbraio 2006
“Trapianto istituzionale e questione nazionale nell’Amministrazione Fiduciaria Italiana in Somalia
(AFIS, 1950-1960)”
di Antonio Morone *
Storicamente il trusteeship system dello Statuto delle Nazioni Unite riprendeva direttamente la
disciplina dei mandati internazionali della Società delle Nazioni, nella forma come nella sostanza
politica, precipuamente compromissoria. Mandato e trusteeship rispondevano all’esigenza di
contemperare le crescenti spinte verso l’autodeterminazione e l’indipendenza dei popoli colonizzati,
da un lato, e gli interessi imperiali delle potenze coloniali vincitrici, dall’altro. La sconfitta, nella
prima guerra mondiale della Germania e nella seconda dell’Italia, creò un vuoto di potere
nell’assetto coloniale africano, ponendo la questione di come riorganizzare lo status delle colonie ex
nemiche. Le potenze vincitrici non erano disposte ad appoggiare soluzioni definitive, nel senso di
un’indipendenza dei territori, fatto ritenuto pericoloso per l’intero assetto coloniale a livello
mondiale. In effetti sarebbe stato sufficiente concedere l’indipendenza a solo pochi territori perché
anche gli altri incominciassero a reclamarla; la pax colonica non prevedeva cedimenti. I popoli
colonizzati cercarono, invece, di sfruttare la sconfitta della vecchia potenza coloniale per
rivendicare i loro diritti e guadagnare nuovi spazi sulla via dell’autogoverno [K. Robinson, 1965].
La soluzione di compromesso fu allora il mandato internazionale, alla fine della prima guerra
mondiale, e, in una maniera non molto differente, il trusteeship dopo la seconda. Attraverso queste
forme particolari di amministrazione non si negava il diritto all’indipendenza degli ex possedimenti
coloniali nemici, ma più semplicemente, o subdolamente, la si rinviava temporalmente a un
momento futuro, non esattamente definito, perpetuando di fatto un dominio para-coloniale delle
* Dottorato di ricerca in “Istituzioni, idee, movimenti politici nell’Europa contemporanea”, curriculum “Costituzioni ed
amministrazioni” (XVIII ciclo).
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potenze vincitrici. L’argomento giustificativo era scontato e riprendeva direttamente il paradigma
coloniale della missione civilizzatrice dell’Europa in Africa, aggiornandolo ai nuovi obiettivi posti
dalla Carta di San Francisco: i popoli africani non possedevano ancora gli strumenti materiali ed
umani per potersi governare da soli, quindi era necessario un periodo di addestramento e di
preparazione, l’amministrazione fiduciaria appunto. In questo senso il trusteeship non fu una
semplice amministrazione coloniale, il cui scopo al di là della retorica era il dominio, ma una sorta
di “esperimento” amministrativo di cui le Nazioni Unite si facevano garanti, in quanto ad esse era
affidato il controllo sull’operato della potenza fiduciaria durante il percorso di preparazione
all’indipendenza del territorio sotto tutela; questo elemento rappresentava in effetti la principale
innovazione rispetto al passato coloniale in senso proprio [M. Vismara, 1966].
Il caso dell’Amministrazione Fiduciaria Italiana in Somalia (AFIS) presenta delle evidenti
peculiarità rispetto a questo schema generale. Il trusteeship somalo fu l’unico caso in cui il mandato
fiduciario venne affidato alla ex potenza coloniale sconfitta, l’Italia, che nel 1950 non era neppure
ancora membro delle Nazioni Unite, vi entrò solo nel 1955. Questa fattispecie particolare portò in
primo luogo all’approvazione di una disciplina fiduciaria più stringente per il caso somalo rispetto
alle altre amministrazioni fiduciarie storicamente esistite: venne prevista una durata specifica di
dieci anni per il mandato e il suo esito doveva essere l’indipendenza del territorio; condizioni
entrambe poste in termini più vaghi negli altri accordi di tutela dove si evitava di stabilire un
termine preciso per il mandato e si parlava genericamente di autonomia o indipendenza. Fu poi
previsto un allegato all’accordo di tutela, che compendiava i principi del costituzionalismo
occidentale, della democrazia e dei diritti umani su cui si fondavano le stesse Nazioni Unite, al fine
di garantire una volta in più, rispetto ai trascorsi fascisti, la democraticità dell’opera fiduciaria
italiana. Infine fu costituito un organo ad hoc, che non trova eguali nelle altre amministrazioni
fiduciarie, un consiglio consultivo, United Nations Advisory Council of Somalia (UNACS),
formato da un rappresentate colombiano, uno filippino ed uno egiziano, con funzioni di raccordo
verso il Trusteeship Council e di collaborazione verso l’AFIS [R. Meregazzi, 1954].
Al di là delle peculiarità e dei compromessi, il trusteeship system era indirizzato all’acquisizione
di risultati quali l’indipendenza politica, lo sviluppo economico e l’avanzamento socio-culturale
della società autoctona. Dato questo fine, la funzionalità dell’amministrazione fiduciaria fu il
trapianto di istituzioni, appunto politiche, economiche e sociali, e la loro progressiva
africanizzazione, o somalizzazione riferendosi più da vicino al caso qui analizzato, ovvero la
immissione graduale nelle istituzioni trapiantate di personale locale, debitamente formato, in modo
che al momento dell’indipendenza il territorio fosse in grado di reggersi da sé, non solo dal punto di
vista formale ma anche da quello sostanziale [M. Guadagni, 1995]. In particolare l’amministrazione
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italiana procedette alla creazione di una serie di organi di governo periferici e centrali, assemblee
municipali, distrettuali e nazionale, che, dopo una prima fase di sperimentazione, vennero
progressivamente rese elettive. In questo processo si esaurì il graduale passaggio di competenze e di
poteri tra l’amministrazione italiana e l’amministrazione somala in fieri.
L’AFIS durò dieci anni, dal 1° aprile 1950 al 1° luglio 1960, e si concluse con l’indipendenza
politica del territorio e la nascita della Repubblica somala; il raggiungimento degli altri obiettivi fu
più sfumato. Nel corso di questo periodo storico le problematiche che l’amministrazione italiana
dovette affrontare furono molteplici nell’ambito di un processo di costruzione statuale e nazionale
che rappresentava lo scopo intrinseco del trusteeship. La funzionalità dell’istituto si svolse allora
sulla base di un confronto tra amministratori e amministrati nella scelta e definizione di come e
quali modelli istituzionali trapiantare e quali contenuti dare alla somalizzazione. Questo percorso si
riassume principalmente nel rapporto tra nazionalismo somalo e azione amministrativa dell’AFIS,
che seguì però una via preordinata, almeno nei suoi tratti più generali, e dipendente da un controllo
terzo, quello dell’ONU, a differenza che altrove in Africa dove la de-colonizzazione assunse i
connotati di una dialettica diretta tra colonizzati e colonizzatori.
Le risultanze dei documenti ufficiali dell’ONU, incrociate con quelle dei documenti diplomatici
italiani, inglesi e colombiani, hanno tuttavia dimostrato che tale controllo non fu all’altezza delle
premesse. I contrasti che si svilupparono progressivamente all’interno dell’organizzazione
internazionale tra il gruppo delle potenze amministratrici e quello dei paesi anti-colonialisti –
denominazione generale che racchiude propriamente i paesi di nuova indipendenza, il gruppo dei
non-allineati e più in generale il movimento terzomondista, ma, sulla base di logiche asimmetriche,
anche il blocco sovietico e, per certi versi, gli Stati Uniti a dimostrazione di come il colonialismo si
ponesse di fatto in contrasto con le nuove logiche del confronto bipolare – finirono per limitare
l’attività del Trusteeship Council e degli altri organi internazionali deputati al controllo fiduciario.
Nel caso dell’AFIS valse inoltre un contrasto, più volte emerso nel corso del decennio, non solo
all’interno dell’UNACS, ma anche al suo esterno ed in particolare nei rapporti con il Trusteeship
Council.
Il confronto tra amministrati e amministratori non fu necessariamente paritario ed anzi una
pregiudiziale nella scelta delle istituzioni e delle forme costituzionali di matrice europea, ed in
particolare italiana, risulta chiaramente dalle fonti. La ragione è intrinseca all’amministrazione
stessa e tende ad un obbiettivo ulteriore. Da un lato è scontato che l’amministrazione italiana fosse
naturalmente portata ad imporre un modello istituzionale improntato alla propria tradizione politicoamministrativa: centralismo amministrativo, ampia burocratizzazione dell’apparato statale, sistema
elettorale proporzionale, sistema educativo basato sulla lingua italiana e sbilanciato sugli
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insegnamenti teorici a scapito di quelli pratici, ecc. Dall’altro la stessa necessità di un adattamento,
o “acclimatamento”, di cui parla M. Guadagni in astratto [Ibidem], non trovò nella pratica una
particolare rispondenza. La medesima Costituzione della Repubblica somala, predisposta
dall’autorità fiduciaria, risultò per certi versi troppo sofisticata rispetto alla società che riceveva il
trapianto. Fu sotto questo profilo che si evidenziò maggiormente il limite dell’azione italiana e la
resistenza delle istituzioni somale tradizionale – uso questo termine riferendomi alle forme storiche
dell’organizzazione sociale somala – non necessariamente disposte a farsi assorbire nel processo di
trapianto e somalizzazione. Infine, la funzionalità dell’amministrazione fiduciaria non esauriva la
sua portata nella predisposizione e nel raggiungimento dell’indipendenza, dove il valore politico era
sicuramente tutto a favore delle popolazioni locali, ma fu determinante anche per il successivo
assetto delle istituzioni indipendenti, nel quale stava un valore politico aggiunto, non
necessariamente a favore delle popolazioni locali, che si concretizzava nei legami e collocazione
internazionale del neo-indipendente Stato somalo.
* * *
Il nazionalismo somalo ebbe origine all’indomani della seconda guerra mondiale durante
l’amministrazione inglese. La precedente colonizzazione italiana non aveva sviluppato una élite
locale di collaboratori, che in altri contesti africani favorirono la de-colonizzazione (e il neocolonialismo), anzi la politica italiana era andata in senso direttamente opposto, cercando di limitare
ogni sviluppo politico della popolazione locale, che, coerentemente a questo obbiettivo, vedeva
limitata la propria istruzione alla sola quarta classe elementare [G. P. Calchi Novati, P. Valsecchi,
2005]. Con l’arrivo degli inglesi la situazione si capovolse e si assistette ad una liberalizzazione del
sistema politico, in contrapposizione alla cesura fasciata, che portò nel giro di poco tempo alla
nascita di un movimento nazionale, orientato in modo funzionale agli interessi strategici britannici
nella regione; contrario alla possibilità di un ritorno dell’Italia nel paese e sovvenzionato dalla
stessa amministrazione inglese, la British Military Administration (BMA) [G. Rossi, 1980, p. 569].
Il programma nazionale somalo fu fissato nelle sue linee fondamentali fin dal 1943 ad opera della
Somali Youth League (SYL), nella Somalia ex italiana, e nel 1951 dalla Somali National League
(SNL), nel British Somaliland. Gli obiettivi politici principali erano: l’unificazione di tutti i territori
somali; l’abolizione del clanismo e la modernizzazione sociale; lo sviluppo dell’educazione e
dell’economica.
Non mancarono tuttavia alcune evidenti contraddizioni proprio nel rapporto con la nuova
amministrazione inglese. La liberazione dal fascismo ben presto venne intesa dai somali come
liberazione dal colonialismo in senso più ampio e quindi anche da ogni altra ingerenza esterna nel
paese, compresa quella inglese. In particolare i disegni politici di Londra che miravano alla
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creazione di una “Grande Somalia”, attraverso l’unione in un’unica entità statuale di tutti i territori
somalofoni amministrati dalla BMA, - Somalia ex italiana, British Somaliland, Haud ed Ogaden,
questi ultimi due territori, storicamente parte dell’impero etiopico, erano stati trattenuti sotto
amministrazione britannica fin dal 1942 – non corrispondevano in pieno alle aspirazioni nazionali
somale. Il progetto inglese, annunciato ufficialmente da E. Bevin nel giugno del 1946 e fondato su
di un criterio di omogeneità etnico-linguistica, benché a rigore uno Stato somalo in quanto tale non
fosse mai esistito, aveva favorito la formazione di una istanza pan-somala, che però
contestualmente frustrava intrinsecamente poiché non prevedeva l’unione nella “Grande Somalia”
anche degli altri due territori somali, che non si trovavano sotto l’amministrazione della BMA:
Gibuti e la provincia settentrionale del Kenya, Northern Frontier District (NFD). Questa
contraddizione divenne evidente col tempo e finì per deteriorare il rapporto tra nazionalismo somalo
e amministrazione britannica, tanto più dopo che nel 1948, in conseguenza degli sviluppi in sede
internazionale, il progetto inglese di un grande Stato somalo venne accantonato e l’Ogaden fu
restituito alla piena sovranità etiopica; per l’Haud occorrerà attendere il 1954 [S. Touval, 1963].
Resta valida però la considerazione che il nazionalismo somalo, nato su basi di comunanza culturale
e linguistica, si tradusse in istanza precipuamente politica proprio nella rivendicazione dell’unione
territoriale di tutte le terre popolate da genti somalofone [I. M. Lewis, 1963].
Il ritorno dell’Italia in Somalia mentre semplificò il quadro internazionale, chiudendo la
questione della sistemazione delle ex colonie, complicò inevitabilmente quello locale: il rapporto tra
AFIS e SYL si presentava come problematico, con la Lega che fino all’ultimo lottò in sede ONU
contro l’assegnazione del mandato all’Italia. Teoricamente, se si eccettua la variabile del
pansomalismo, che rimase una pregiudiziale non solo durante l’AFIS, ma anche oltre, vi era una
convergenza tra gli altri obbiettivi rivendicati dal movimento nazionale somalo e quelli posti dal
trapianto istituzionale e dalla somalizzazione. Nella pratica, la modernizzazione politica, economica
e culturale, che costituiva una piattaforma comune nella logica dell’indipendenza, venne frenata da
pregiudiziali di carattere politico legate più al passato che al presente o al futuro, da entrambe le
parti, italiana e somala.
Dunque, pur se non mancarono casi in cui la SYL appoggiò le riforme proposte
dall’amministrazione italiana – i verbali delle sedute parlamentari ritrovati in archivio lo dimostrano
in particolare per alcuni progetti di legge come la rappresentanza politica, il voto alle donne, la
limitazione del diritto consuetudinario – in linea più generale, il rapporto tra SYL e AFIS fu
difficile e non mancarono momenti di forte tensione. Le prime fasi dell’amministrazione furono
improntate, da parte italiana, al tentativo di contrastare il predominio leghista nell’ambito del
movimento nazionale somalo, sostenendo i partiti dell’opposizione, riuniti nella Conferenza dei
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partiti verdi, la quale però rimase sempre espressione di una realtà politica locale e contingente; da
parte della Lega, la risposta non fu in tono minore e si susseguirono denuncie, rivendicazioni e
petizioni alle Nazioni Unite, nelle quali la SYL rilevava quelle che a suo giudizio erano tutte le
mancanze o carenze dell’operato italiano. In questo clima era, in effetti, difficile realizzare gli
obbiettivi fiduciari.
Un progressivo avvicinamento tra SYL e AFIS maturò col tempo tra i due segmenti
rispettivamente più avanzati: la fazione moderata della Lega e i quadri di vertice di provenienza
diplomatica dell’amministrazione italiana. Infatti i carteggi esaminati mostrano come l’AFIS fosse
divisa al suo interno in base alla provenienza dei suoi funzionari, Ministero degli Affari Esteri
(MAE) o Ministero dell’Africa Italiana (MAI); i primi più propensi al dialogo, i secondi su
posizioni più arretrate. La svolta avvenne con le prime elezioni amministrative del 1954 e poi, con
maggior vigore, in occasione di quelle politiche del 1956, dove la Lega conquistò una larga
maggioranza. La partecipazione della SYL alle elezioni, per un verso, aveva fatto perdere al partito
il suo connotato “anti-sistema”, entrando nel meccanismo dell’amministrazione fiduciaria, per
l’altro, aveva dimostrato senza dubbio all’amministrazione italiana di essere il primo partito politico
del territorio.
Una collaborazione tra AFIS e SYL fu allora non solo più facile, ma anche imprescindibile:
l’AFIS rinunciava al sostegno ad oltranza delle opposizioni, la Lega accettava le regole del gioco,
entrando nel meccanismo istituzionale e politico posto in essere dall’amministrazione italiana.
Tuttavia alcune pregiudiziali rimasero, altrimenti non sarebbe possibile spiegare la grave crisi che si
consumò tra la fine del 1957 e l’inizio del 1958, in vista delle ultime elezioni del decennio
fiduciario, e che vide riprendere quota all’interno della Lega la corrente più estremista e anti-AFIS.
L’esito fu in favore della continuazione di un rapporto costruttivo tra AFIS e SYL, ma con sforzi
notevoli: l’Italia minacciò di rimettere il mandato all’ONU e la Lega espulse l’ala più estremista del
partito, anti-AFIS e pro-egiziana, la quale nel 1958 diede origine ad una nuova formazione politica
con la denominazione di Greater Somali League. In questa crisi valsero oltre alle variabili locali,
soprattutto quelle internazionali. Come evidenziano le fonti diplomatiche inglesi, la preoccupazione
italiana in loco per lo spostamento su posizioni antagoniste del maggiore partito del territorio
trovava il pieno sostegno della Gran Bretagna che non era disposta ad accettare la crescente
influenza egiziana in Somalia ed in particolare sul futuro partito di governo, a pochi mesi dalla crisi
di Suez. Fu poi l’aiuto economico da concedere al futuro Stato indipendente il maggiore strumento
utilizzato dall’Italia e dai suoi alleati occidentali per far valere le proprie ragioni presso la Lega.
Tuttavia l’opera di costruzione nazionale e statuale dell’amministrazione italiana non può vedersi
solo nella prospettiva del rapporto con la SYL, ma anche in quello con la società somala
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tradizionale. Qui la prospettiva è ribaltata: gli obbiettivi della modernità perseguiti
dall’amministrazione trovano una naturale resistenza da parte delle forze conservatrici legate alle
istituzioni tradizionali somale. L’AFIS si trovò in una situazione particolarmente complessa, poiché
se per un verso occorreva modernizzare tali istituzioni, per l’altro un loro repentino cambiamento
avrebbe verosimilmente portato al caos ed impedito una qualsiasi capacità di governo.
Il contrasto è bene esemplificato nelle parole di Egon Ranshofen-Wetheimer, segretario
principale dell’UNACS, durante un viaggio attraverso il territorio somalo nei primi mesi dell’AFIS:
“La Somalia, salvo le poche isole di progresso [urbano], è ancora allo stato tribalizio, come viene
descritto nel Vecchio Testamento. Esso è tribalizio e nomade non c’è altra organizzazione sociale
indigena che abbia qualche importanza; la pace interna è conservata soltanto mediante l’influenza
che gli italiani hanno sui capi tribù, la maggior parte dei quali sono impiegati in un modo o
nell’altro dall’amministrazione italiana e ricevono piccole paghe. Un’improvvisa distruzione di
questa intelaiatura condurrebbe senza dubbio a guerre fra le tribù; carestia e anarchia generale in
Somalia. L’indipendenza d’altra parte, è impossibile fin tanto che la struttura tribalizia è prevalente.
Il dilemma è pressoché terrificante. L’amministratore italiano, ambasciatore Fornari, che è un uomo
di prim’ordine, deve essere pienamente consapevole di questo ed egli deve essere in condizioni di
non saper come fare a rispettare i termini dell’accordo di tutela e rimaner fedele alla promessa fatta
alle N.U. di rendere i somali indipendenti in 10 anni, da una parte, e di come realizzare prontamente
i cambiamenti politici, economici e sociali che renderebbero questa indipendenza possibile,
dall’altra parte. L’unica via d’uscita è probabilmente quella di sciogliere dal legame tribalizio, per
incominciare, i somali che vivono nelle città, e di minare la struttura delle tribù in maniera tale che
essa divenga soltanto un’ombra introducendo provvedimenti in materia di istruzione, di economia e
di sociale, adeguati al progresso moderno” [ASCM, f. Brusasca, b. 46, f. 262, rapporto
confidenziale allegato alla lettera del 9 settembre 1950 da Fornari a Brusasca, pp. 3-4].
L’amministrazione italiana non poté dunque prescindere, specie all’inizio della sua attività, dal
ricercare l’appoggio delle istituzioni tradizionali somale, in caso contrario la sua capacità di
governo si sarebbe limitata probabilmente al solo contesto urbano e non sarebbe stato possibile
attuare alcun progresso verso la modernizzazione delle zone rurali del territorio somalo. Fu così che
l’AFIS operò su due binari paralleli, quello urbano e quello rurale. Nel primo attuò un trapianto
“diretto” delle istituzioni politiche democratiche e costituzionali, proprio perché le condizioni locali
lo permettevano. Nel secondo, invece, il trapianto fu più complesso e sostanzialmente “indiretto”
nel senso che, data l’inadeguatezza delle condizioni politiche e sociali di base, si cercò non tanto di
impiantare strutture direttamente calate dall’esterno, ma piuttosto di modificare, o meglio di
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“modernizzare”, quelle tradizionali. Nel primo gli interlocutori erano i partiti, nel secondo i capi
tradizionali.
Tuttavia la composizione di questo iato, tra mondo rurale e mondo urbano, riuscì solo
parzialmente e, spesso, unicamente nella misura in cui certi obbiettivi formali andavano conseguiti,
a prescindere, in vista dell’indipendenza e della fine del mandato fiduciario. Così il sistema
elettorale, che in un primo momento fu sdoppiato in diretto nelle circoscrizioni municipali ed
indiretto in quelle rurali, fu unificato forzosamente per le elezioni del 1959, ma con un esito parziale
dato che non fu possibile neppure completare il censimento della popolazione rurale. Le operazioni
di voto procedettero così con una certa dose di approssimazione, affidate alla vernice colorata da
apporre sul pollice dei votanti per distinguerli da coloro che ancora dovevano votare.
Il maggiore ostacolo all’opera di trapianto italiano consistette nell’evidenza che la modernizzare
politica non poteva prescindere da quella sociale ed economica. Una sostanziale limitatezza nei
risultati raggiunti in questi due campi si riprodusse direttamente in quello propriamente politico. La
condizione nomade o seminomade di gran parte della popolazione era un ostacolo oggettivo, in
aggiunta al fatto che nel mondo tradizionale somalo il lavoro nei campi era considerato come
svilente e dunque i tentativi dell’amministrazione italiana di sedentarizzare i nomadi, trasformandoli
in agricoltori, non ebbero grandi risultati. Lo sviluppo economico, in un territorio povero, arido e
scarso di materie prime come la Somalia, parimenti, non diede risultati apprezzabili in un periodo di
tempo oggettivamente breve. Il paese divenne politicamente indipendente nel 1960, ma con un
disavanzo di bilancio nell’ordine dei 5-6 milioni di dollari e, di fatto, con la prospettiva di non poter
prescindere dagli aiuti esteri, al punto che senza di questi non ci sarebbero stati neppure i soldi
necessari per mantenere in piedi le istituzioni politiche ed amministrative appena trapiantate. L’altro
ambito in cui l’Italia attuò un grande sforzo di modernizzazione fu quello dell’istruzione, dove,
ribaltando quella che era stata la sua politica nell’epoca coloniale, i risultati furono migliori che in
altri settori. Rimase però irrisolta la questione dell’alfabetizzazione della lingua somala, di
fondamentale importanza per il processo di costruzione nazionale.
* * *
L’interazione della società tradizionale non fu solo verso l’amministrazione italiana ma anche,
soprattutto, verso il movimento nazionale somalo. Secondo le analisi dell’antropologo inglese I. M.
Lewis, le istituzioni tradizionali somale si caratterizzano per un forte carattere segmentario,
organizzate in forme claniche, legate da un principio di discendenza agnatizia patrilineare e dedite
prevalentemente all’allevamento nomade. I vari clan sono acefali e con una struttura flessibile.
L’organizzazione sociale di questi pastori nomadi si svolgeva in modo chiaramente funzionale alla
stessa ecologia del territorio ed alle esigenze delle transumanze stagionali. Nella regione
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meridionale, dove anche l’ecologia cambia, maggiormente orientata alla coltivazione lungo le rive
dei due fiumi somali, il Giuba e lo Scebeli, esistevano, invece, tipologie di comunità maggiormente
gerarchizzate e strutturate. In questa differenza sociale, produttiva ed ecologica, si riassume la
principale divisione all’interno delle popolazioni somale, rispettivamente, tra samaale e sab [1982].
Il colonialismo utilizzò le differenziazioni claniche per i propri fini di dominio, nella logica del
divide et impera, ponendo i vari segmenti della società tradizionale somala l’uno contro l’altro; in
questo senso si giustificava una prima denuncia delle forme aggregative tradizionali operata dal
movimento nazionale. Come afferma Mohamed Aden Sheikh: “Il colonialismo sfruttò con molta
abilità le contraddizioni interne alla nazione somala al fine di legittimare il suo potere, ecco perché
la Lega mise al primo punto del suo programma il rifiuto del tribalismo” [Mohamed Aden Sheikh e
P. Petrucci, 1994, p. 147]. Un secondo elemento di condanna del mondo tradizionale, fu l’esito
della difficoltà di legare una società, il cui senso di appartenenza e comunanza dipendeva
tradizionalmente dal legame di sangue e dall’istituto del clan (o cabila), a un nuovo concetto di
appartenenza nazionale che, evidentemente, trovava la sua ragion d’essere soprattutto nel
riferimento ad un determinato territorio [I. M. Lewis, 1960].
Tuttavia lo schema di una rigida contrapposizione tra progresso e tradizione non corrisponde a
realtà, anzi il confine tra i due mondi era tutt’altro che definito e rigido. La tesi di un’influenza
diretta del clanismo sul mondo politico, in particolare all’interno della SYL, è sostenuta e
documentata da I. M. Lewis [1980]. Secondo quest’interpretazione la logica delle alleanze claniche
si riprodurrebbe direttamente sul meccanismo di gestione del nuovo potere statuale che si andava
formando attraverso l’opera italiana, non solo negli equilibri di governo, ma anche nella gestione
amministrativa dei vari comparti della macchina statuale. Citando ancora Mohamed Aden Sheikh:
“L’impressione è che, in effetti, le divisioni tribali artificiosamente accentuate nel periodo
coloniale, vengano per certi versi nuovamente incrementate e comunque riprese nella loro essenza
dall’innesto su di esse delle regole della competizione politica in epoca parlamentare. Il clanismo
non solo erose dall’interno le istituzioni democratiche, ma esasperò la lotta politica. SYL e SNL
assolsero bene l’obiettivo dell’indipendenza, ma non ebbero una progettualità politica adeguata al
post-indipendenza. La loro stessa ideologia antitribale ne uscì sconfitta e la rivoluzione e il
socialismo scientifico si proponevano come nuovi mezzi e ideologie per realizzarla [Mohamed
Aden Sheikh e P. Petrucci, 1994, pp. 90-91].
Il riemergere di logiche claniche nell’ambiente politico moderno, non si esaurì nel distorcere le
regole politico-istituzionali, ma ripropose la lealtà clanica in una nuova versione, anch’essa distorta,
rispetto a quello che rappresentava nel mondo tradizionale. Se il sistema clanico era finalizzato al
bene della comunità e a mantenere l’equilibrio delle sue componenti, come è descritto nella
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“democrazia pastorale” di I. M. Lewis [1982], la sua trasposizione nella modernità legava le logiche
tradizionali ad interessi eminentemente di parte. L’appartenenza al clan finì per viziare la logica
dell’appartenenza alla nazione e, di conseguenza, la gestione delle istituzioni statuali. Il prodotto di
questo complesso compendio tra modernità e tradizione è dunque qualcosa di terzo ad entrambi i
poli, riprendendo un espressione di J.-L. Amselle [1999], lo si può definire nei termini di un
“meticciamento”, nel quale il tratto fondamentale era il persistere di pratiche tradizionali, claniche,
ma in funzione di obiettivi moderni, politici.
L’incorporazione del clan nella logica del partito porta, nel momento in cui la SYL è
riconosciuta partito di maggioranza, ad un’interpretazione in termini “perfetti” dell’equazione tra
appartenenza clanica e politica, tra nazione e Stato. La Lega intese il proprio ruolo all’interno del
movimento nazionale in termini assoluti e si erse a garante esclusivo dello Stato come della nazione
somala, al punto di vedere ogni opposizione politica come una minaccia alla nazione e allo Stato ed
indirettamente alla stessa Lega [A. A. Castagno, 1959]. Le opposizioni furono considerate come
forze “anti-sistema” ed escluse dall’arena politica, bloccando il normale gioco dell’alternanza delle
parti, alla base di ogni regime democratico.
Dall’analisi dei documenti italiani questa prospettiva sembra confermata nella misura in cui il
discrimine tra maggioranza ed opposizione è non tanto in termini di obiettivi politici, ma di
appartenenza clanica. Se si guarda ai programmi dei diversi partiti, specie nella fase intermedia e
finale dell’AFIS, il tratto fondamentale è quella di una sostanziale omogeneità dei contenuti politici,
pur con sfumature differenti. Tutti sostengono l’indipendenza, il pansomalismo, la modernizzazione
economica e sociale. La differenza tra le varie forze politiche non può che essere allora nei termini
di appartenenza clanica. Ma questa non agisce più in un contesto tradizionale, il nodo del
contendere è, invece, l’accesso e la gestione della nuova macchina istituzionale che si va
realizzando.
Analizzando le dinamiche della contrapposizione tra SYL, partito di governo, e la Hizbia DigilMirifleh (HDM), il maggior partito politico somalo di opposizione, erede della Conferenza dei
partiti verdi, è vero, come sostiene I. M. Lewis, che questo contrasto riprende direttamente la
tradizionale divisione tra le genti samaale, largamente rappresentate all’interno della SYL, e sab,
che invece componevano prevalentemente l’elettorato della HDM [1982], ma è altrettanto vero che
i termini del contendere sono politici. Di fronte al monopolio istituzionale leghista, la HDM propose
una soluzione federale, a tratti si disse anche separata, per il nuovo assetto statuale somalo, cioè
cercò di creare un proprio ambito istituzionale e politico, in quanto il nazionalismo della
maggioranza non ammetteva spazio per l’opposizione.
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L’interferenza del fattore clanico sul movimento nazionale si svolse anche sul versante esterno,
dove la proiezione unitaria del movimento pan-somalo cedette progressivamente ad un ripetersi di
una logica di parte. Nell’assetto della neonata Repubblica somala, frutto dell’unione tra la Somalia
sotto tutela italiana e il British Somaliland e perciò parziale realizzazione delle istanze pan-somale –
rimanevano infatti territori irredenti tre delle cinque Somalie, producendo una sostanziale discrasia
tra lo Stato e la nazione somala – uno dei maggiori problemi fu non solo quello di integrare i due
sistemi amministrativi, giuridici, economici e politici ereditati dalle due differenti colonizzazioni,
quella italiana e quella inglese, ma fu soprattutto quello di trovare un equilibrio politico tra le due
dirigenze somale di Mogadiscio ed Hargeisa. Il disegno pan-somalo celava profonde separatezze
che ancora una volta riprendevano antiche contrapposizioni tribali ma poste in una prospettiva
sostanzialmente nuova che era quella di dominio politico all’interno del nuovo Stato indipendente.
A riprova di questa interpretazione sta l’ulteriore frustrazione delle istanze pan-somale avvenuta
con l’indipendenza di Gibuti nel 1977: la dirigenza somala locale chiamata a decidere sulla
possibilità di una unione con la Repubblica di Mogadiscio, scelse la via dell’indipendenza separata.
L’inclusività pan-nazionale cedeva all’esclusività di un nazionalismo frutto di logiche meticcie tra
tradizione e modernità.
* * *
L’interazione della società tradizionale verso il movimento nazionale ebbe, infine, un ulteriore
fattore di complessità nel rapporto con le istituzioni religiose. Preliminarmente, occorre distinguere
le relazioni intercorse tra islam e società tradizionale somala in epoca storica, dagli sviluppi
successivi più direttamente legati al nascere del movimento nazionale. Sotto il primo profilo, la
diffusione tra le genti somale della fede islamica sunnita, di rito sciaratico sciafeita – i primi
insediamenti musulmani lungo la costa somala sono del IX-X secolo, ma una reale diffusione
dell’islam in Somalia avvenne solo tra XV e XVI secolo – si connotò per un carattere sincretico
verso i miti e le credenze della religione locale cuscitica del Dio Cielo (Waaq).
Partendo da una differenza di base tra le due religioni, per cui l’islam aveva carattere rivelato, in
contrapposizione a quello immanente della religione cuscitica, il sincretismo operò in modo da
sussumere le divinità cuscitiche nei jinn della tradizione islamica, ovvero spiriti ribelli creati ad
immagine degli uomini. Non vi fu invece un movimento sincretico verso gli angeli, riconosciuti
dalla religione islamica come messaggeri di Dio. Il risultato fu di riprodurre una declinazione in
chiave immanente della religione islamica rivelata. In particolare lo sviluppo del sufismo fu
funzionale al sincretismo somalo, in quanto esso offrì una interpretazione dell’Islam che, pur
preservando l’assoluta supremazia di Allāh, mitigò la sua unicità in favore di più accessibili ed
immediati intercessori. Le varie genealogie somale vennero, così, nobilitate attraverso il riferimento
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a santi sufi. Ciononostante, a livello più generale, la diffusione dell’islam significò anche una
sostanziale condanna del principio di divisione clanica, sulla base dell’uguaglianza di tutti credenti.
[I. M. Lewis, II, 1956].
L’avvento del nazionalismo complicò i termini della questione. Da un lato il movimento
nazionale trovò una convergenza nella condanna del clanismo fatta dalla religione; non fu un caso,
infatti, se tutti i partiti politici somali richiamavano l’islam nel proprio programma. Inoltre la lotta
di resistenza primaria condotta da Muhammad Abdille Hassan, il “Mad Mullah” come veniva
chiamato dagli inglesi, contro la penetrazione coloniale europea nella zona del Nogal tra il 1899 e il
1920, venne assunta come mito fondante del nazionalismo somalo. D’altra parte la religione poteva
anche essere di ostacolo allo sviluppo del nazionalismo in considerazione del rapporto tra valori
islamici e valori politico-nazionali riferiti al processo di modernizzazione: in particolare quando una
determinata questione era considerata di primaria importanza da parte di sheikhs o wadaads e
invece non lo era per le autorità politiche o viceversa, come fu il caso del voto alle donne o delle
tematiche inerenti l’educazione.
In particolare questo valeva per gli esponenti religiosi più conservatori; non fu dunque un caso se
il movimento nazionale ebbe un atteggiamento critico verso l’islam locale, legato al particolarismo
delle turuq, e privilegiò, invece, i rapporti con un islam modernista, che proveniva anche
dall’esterno, attraverso la predicazione degli sheikhs dall’Al Azhar per esempio, e che non era
legato alla rigida instaurazione di uno stato islamico e all’applicazione della sciaria. Infine, anche se
è documentata una certa sovrapposizione tra alcuni simboli o riti religiosi e altrettanti simboli o
cerimonie politiche, specie all’interno della SYL, i politici aderenti a confraternite o direttamente
legati al mondo religioso erano nel complesso pochi [I. M. Lewis, I, 1958], ribaltando la prospettiva
invece di una netta ingerenza del mondo tradizionale laico nelle pratiche partitiche. Dunque nel
complesso si può rilevare una sostanziale convergenza tra movimento nazionale e forze legate alla
religione, ma con alcune importanti limitazioni.
* * *
Secondo S. Touval [1963], alla nascita del nazionalismo somalo contribuirono in particolare tre
fattori: il deliberato incoraggiamento da parte delle autorità coloniali dei sentimenti nazionali somali
nel perseguimento dei propri interessi strategici; il risentimento per le interferenze con il sistema
tradizionale di vita dei nomadi; l’antagonismo religioso, fondato sulla comunanza nella fede
islamica, nei confronti del dominio delle potenze cristiane. Lo sviluppo del nazionalismo, come
cornice di riferimento e di guida delle aspirazioni e dei comportamenti politici, si è poi connotato
come tre cerchi concentrici che vanno, dal più piccolo al più grosso, dal tribalismo al nazionalismo
fino al panafricanismo.
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La centralità dell’elemento tradizionale risulta anche dall’analisi di G. P. Calchi Novati: “I
legami tribali precedono, logicamente e cronologicamente, lo Stato e fanno dunque parte integrante
del nazionalismo e della statualità. Il pansomalismo stesso convive con il senso di appartenenza al
proprio clan o alla propria cabila, secondo un complicato sistema di identità e comportamenti a cui
nessuno è veramente in grado di sottrarsi. Lo spirito di clan, molto più rassicurante di uno Stato
lontano e straniero, si impone sopratutto in coincidenza con i periodi di maggiore sconvolgimento
come le carestie e le guerre. La struttura tradizionale ha mostrato una grande capacità di assorbire le
innovazioni con un minimo di turbative, ma fatica a perpetuarsi con la stessa efficacia in uno Stato
munito di una normativa astratta, impersonale e teoricamente imparziale, che prende via via i
caratteri primordiali o atavistici rilevando profonde contraddizioni interne” [1994, pp. 129-130].
Scontando dunque l’importanza del clan nell’analisi del fenomeno nazionale somalo, la difficoltà
interpretativa sta allora nel porlo nella giusta prospettiva. La risposta della storiografia non è stata
univoca: mentre la scuola londinese di I. M. Lewis ha particolarmente accentuato l’analisi
dell’inferenza clanica sul sistema politico in chiave antropologica, altri autori hanno cercato di
analizzare la storia recente della Somalia attraverso un’interpretazione più attenta ai mutamenti del
divenire sociale [D. Laitin e S. Samatar, 1987], dell’elemento religioso [F. Battera, 2001] o più
propriamente politico [A. A. Castagno, 1959; S. Touval, 1963; G. P. Calchi Novati, 1994].
In questo panorama, la mia indagine si colloca in una prospettiva politica, con una particolare
attenzione all’aspetto istituzionale ed amministrativo. La mancata modernizzazione della società
ricevente o, all’opposto, il mancato “acclimatamento” delle istituzioni trapiantate portò a risultati
parziali nell’operazione di trapianto, tanto che risulta più corretto parlare di “frammenti
costituzionali”, piuttosto che di “innesto costituzionale”. Lo Stato moderno non attecchì sia perché
viziato nelle sue funzioni da un nazionalismo declinato secondo regole claniche, sia perché le stesse
istituzioni non erano in grado di porre il clanismo in una prospettiva costruttiva, limitandosi a
negare la sua esistenza e la sua rilevanza. In questa prospettiva, la storia somala di lungo periodo
tende a imporsi attraverso la resistenza offerta dalla istituzioni tradizionali, anche se in quella di
breve periodo sono state proprio queste medesime a subire un progressivo processo di
snaturamento.
NOTA BIBLIOGRAFICA:
Senza avere qui la pretesa di svolgere una bibliografia esaustiva sulla storia dell’amministrazione
fiduciaria italiana, riporto per estero i riferimenti citati nel testo con alcune aggiunte, sui principali temi di
studio toccati.
Il quadro di riferimento storico della vicenda dell’AFIS e della liquidazione degli ex possedimenti
italiani è trattato con completezza in: G. Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza (1941-1949),
Giuffrè, Milano, 1980. Non esplicitamente citati ma di indiscussa rilevanza sono l’opera in quattro
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volumi di A. Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale, Mondatori, Milano, 1992 (in particolare i voll. III
“La caduta dell’Impero” e IV “Nostalgia delle colonie”) e la più recente monografia di N. Labanca,
Oltremare, Il Mulino, Bologna, 2002.
I riferimenti citati riguardo al trusteeship, disciplina ed evoluzione storica, si trovano in: K. Robinson,
The Dilemmas of Trusteeship, Oxford University Press, London, 1965 e M. Vismara, Le Nazioni Unite
per i territori dipendenti e per la decolonizzazione, Cedam, Padova, 1966. Sull’argomento si vedano
anche: G. Thullen, Problems of the Trusteeship System, Libraire Droz, Genève, 1964 e E. Toussaint, The
Trusteeship System of the United Nations, Stevens & sons, London, 1956. Sul caso particolare
dell’amministrazione italiana: R. Meregazzi, L’amministrazione fiduciaria italiana della Somalia,
Giuffrè, Milano, 1954; Carlo Guido Raggi, L’amministrazione fiduciaria internazionale, Giuffrè, Milano,
1950.
L’analisi storica ed antropologica di I. M. Lewis sulla società somala è raccolta in due testi
fondamentali: A Modern History of Somalia, Longman, London, 1980 e A Pastoral Democracy. A Study
of Pastoralism and Politics Among the Northern Somali of the Horn of Africa, Africana Publishing
Company, New York, 1982 (1st edition Oxford University Press, London 1961). Esiste anche una
traduzione italiana: Una democrazia pastorale, 1983, Franco Angeli Editore, Milano. Maggiori
approfondimenti sulle tesi dell’antropologo inglese rispetto al caso somalo si trovano in diversi articoli:
Sufism in Somaliland: a Study in Tribal Islam, in “Bulletin of the School of Oriental and African Studies
University of London”, part I vol. XVII, 3, 1955; part II vol. XVIII, 1, 1956; Modern Political
Movements in Somaliland, in “Journal of Africa History”, part I July 1958, part II October 1958;
Problems in the Development of Modern Leadership and Loyalties in the British Somaliland Protectorate
and U.N. Trusteeship Territory of Somalia, in “Civilisation”, n. 1, 1960; Pan-Africanism and PanSomalism, in “The Journal of Modern African Studies”, vol. 1, no. 2, June 1963.
Per un approccio storico-politico si veda: Alphonso A. Castagno, Somalia, in “International
Conciliation”, no. 552, 1959; Saadia Touval, Somali Nationalism, Harvard University Press, Cambridge,
1963 e G. P. Calchi Novati, Il Corno d’Africa nella storia e nella politica, SEI, Torino, 1994; del
medesimo autore cito anche il recente volume scritto con P. Valsecchi: Africa: la storia ritrovata,
Carocci, Roma, 2005.
Una particolare attenzione alle dinamiche sociali ed economiche della società somala si trova invece
nel volume di S. Samatar, scritto con D. Laitin Somalia. Nation in Search of a State, Westview Press,
Boulder, Colorado, 1987. Una trattazione specifica sui problemi economici della Somalia durate
l’amministrazione fiduciaria italiana si trova in: M. Karp, The Economics of Trusteeship in Somalia,
Boston University Press, Boston, 1960.
I legami tra società tradizionale somala ed Islam sono trattati da Federico Battera, Storicità e
fenomenologia dell’islam nella Somalia contemporanea, in Enrico Fasana (a cura di) “Le confraternite
musulmane: storia, devozione, politica”, Edizioni Università di Trieste, Trieste, 2001. Del medesimo
autore ricordo inoltre: Politicizzazione ed evoluzione della forma Stato nell’islam periferico: il caso della
Somalia nord-orientale. Dal sultanato Majeerteen a Hobiyo, in Enrico Fasana (a cura di), “Ai confini
degli imperi: nuove linee, nuove frontiere”, Cedam, Milano, 1998 e i due articoli Rapporti fra il
Banaadir, la penisola arabica e l’Africa Orientale, in “Africana”, 1996; Le confraternite islamiche
somale di fronte al colonialismo (1890-1920): tra contrapposizione e collaborazione, in “Africa”, n. 2,
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1998. Sull’islam in Somalia si veda anche: Ali Abdirahman Hersi, The Arab factor in Somali History,
University of California, Los Angeles, 1977 e I. M. Lewis (Ed.) Islam in Tropical Africa, Hutchinson,
London, 1980.
Sul problema dell’istruzione, cultura e lingua somala: Somali Republic, in Helen Kitchen (Ed.), The
educated African, Heinemann, London, 1962 e Hussein M. Adam, Lenguage, National Consciousness
and Identity – The Somali Experience, in I. M. Lewis (Ed.), “Nationalism & Self Determination in the
Horn of Africa”, Ithaca Press, London, 1983.
Altri riferimenti particolari sono: il libro intervista di Mohamed Aden Sheikh e Pietro Petrucci,
Arrivederci a Mogadiscio, Edizioni Associate, Roma, 1994; M. Guadagni, Trapianto e rigetto dei modelli
giuridici (riflessioni per una visione interdisciplinare e antropologica degli area studies), in Elisabetta
Grande (Ed.), Transplants Innovation and Legal Tradition in The Horn of Africa, L’Harmattan Italia,
Torino, 1995; J.-L. Amselle, Logiche meticce. Antropologia dell’identità tra Africa e altrove, Bollati
Boringhieri, Torino, 1999 (ed. or. Logiques métisses, Anthropologie de l’identité en Afrique et ailleurs,
Payot, Paris, 1990).
NOTA ARCHIVISTICA:
Le ricerche sono state condotte presso diversi archivi italiani ed esteri. I documenti italiani sono stati
reperiti, non senza notevoli problemi tecnici, principalmente presso il “fondo AFIS” dell’Archivio Storico
del Ministero degli Affari Esteri (ASMAE), presso quello dell’Archivio Storico dello Stato Maggiore
dell’Esercito (SME) e presso il “fondo Brusasca” dell’Archivio Storico di Casale Monferrato (ASCM). I
tre fondi sono citati in base alla loro effettiva consistenza, non necessariamente importanza. Le ricerche
condotte all’ASMAE e all’ASCM hanno prodotto le maggiori informazioni sul versante dell’analisi
politica ed amministrativa dell’amministrazione fiduciaria italiana. Quelle condotte invece presso lo SME
hanno messo in luce la questione legata alla vicenda del “Corpo di Sicurezza della Somalia” e delle
relative testimonianze dei servizi di informazione militari. Più circostanziate e legate a questioni
specifiche le risultanze delle indagini presso il “fondo PCM” dell’Archivio Centrale dello Stato (ACS) e il
“fondo AFIS”, l’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare (USMM).
All’estero l’archivio visitato di maggiore interesse ed importanza è stato il Public Record Office
(PRO), a Londra, ed in particolare i fondi del Foreign Office (FO), Colonial Office (CO), War Office
(WO), Cabinet of Prime Minister (PREM). La mole di informazione custodita negli archivi inglesi si è
rivelata notevole e di facile consultazione. I documenti britannici sono stati un importante campione di
controllo, rispetto alle fonti italiane, con particolare riferimento ai rapporti della BMA, del Consolato
britannico a Mogadiscio e dell’amministrazione coloniale di Hargeisa.
Sul versante del controllo operato dalle Nazioni Unite sono stati analizzati i documenti e le
pubblicazioni ufficiali dell’ONU e, in particolare, i rapporti del Fourth Committe – il sottocomitato
dell’Assemblea Generale che si occupava di trusteeship – del Trusteeship Council e dell’United Nations
Advisory Council of Somalia. Un supplemento d’indagine sul funzionamento di quest’ultimo organo è
stato condotto attraverso l’analisi dei rapporti e della corrispondenza prodotti dal delegato colombiano –
Edmundo De Holte Castello, l’unico dei tre rappresentanti ad aver coperto l’intero decennio dell’AFIS –
attraverso un breve periodo di ricerca presso il fondo del Ministero degli Esteri colombiano, conservato
all’Archivo de la Nacion (ANC) di Bogotá.
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Attualmente sto iniziando alcune ricerche presso enti archivistici egiziani al fine di approfondire il
ruolo dell’Egitto e della sua propaganda nella vicenda dell’AFIS. In particolare mi aspetto di trovare
documenti ed informazioni interessanti per l’economica della mia ricerca nei fondi del Ministero degli
Affari Esteri egiziano al Cairo.
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