44 - Marinai d`Italia
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44 - Marinai d`Italia
Verbigrazia... pensieri in libertà, con licenza de’ Superiori e privilegio ONOREVOLI E MARINAI di Enrico Cernuschi Socio del Gruppo di Savona I eri mattina, 18 gennaio, nel corso della prima colazione, mia moglie mi ha fatto una domanda. Il mezzobusto televisivo di turno stava annunciando, inscatolato davanti a noi e non so con quanta attendibilità, che anche le Forze Armate italiane avrebbero partecipato alla prossima campagna nel Mali. “Ma non devono chiederlo prima al parlamento?”, ha detto, con tono più stupito che indignato. Ero appena alla prima tazza di caffé con, in più, la prospettiva di una giornata quantomeno intensa davanti a me e, lo confesso, ho glissato la risposta. A ripensarci, tuttavia, il giorno dopo, avendo ormai bevuto anche il secondo caffé mattutino (indispensabile per svegliarmi davvero) ritengo sia possibile, per contro, dare una risposta precisa, anche se decisamente non convenzionale, a quel legittimo dubbio. La realtà, infatti, è la seguente: il parlamento non serve a niente in questi casi. 44 Marinai d’Italia Gennaio/Febbraio 2013 Facciamo qualche esempio concreto, tanto per sgombrare immediatamente la fronte da ogni equivoco. Prendiamo, tanto per incominciare, la patria stessa del parlamentarismo, ovvero la Gran Bretagna. In occasione della Grande Guerra, come ha ricordato, qualche tempo fa, lo storico navale statunitense Dwight R. Messimer, e più precisamente il 4 agosto 1914, qualche ora prima, cioè, della dichiarazione di guerra britannica alla Germania, il governo di Sua Maestà rassicurò la Camera dei Comuni, essendo la maggioranza contraria a partecipare a quel nuovo conflitto europeo. I ministri del gabinetto affermarono, infatti, con la dovuta solennità, che si sarebbe trattato soltanto di un’allegra guerra navale (“an happy naval war”) e che le truppe inglesi non sarebbero state mai e poi mai inviate sul continente per assolvere quella che i francesi chiamavano la sale bisogne, ossia la sporca faccenda, della fanteria. Naturalmente i ministri di Re Giorgio V stavano mentendo a man salva visto che non soltanto gli ordini di trasferimento del piccolo British Army a Calais erano già stati emanati, ma che la partecipazione stessa delle truppe britanniche, a titolo di pegno, alla campagna in Francia era stata proprio l’argomento centrale delle trattative in corso con Parigi sin dal 1912 in vista dell’atteso (e auspicato) confronto con i tedeschi. Fu forse proprio perché memore di questo spiacevole precedente (avendo quella guerra devastato, con i propri 900.000 morti britannici, la stessa struttura sociale del Regno Unito) che il governo di Sua Maestà Giorgio VI (quello, per intenderci, del film “Il discorso del Re”) dichiarò guerra alla Germania, il 3 settembre 1939, senza interpellare le camere, in vacanza sin dal luglio di quello stesso anno e non richiamate dall’esecutivo per non complicare le cose nel corso della successiva crisi di Danzica e della da tempo programmata, nuova apocalisse. Ancor peggio, se possibile, andò in Francia. Qui, infatti, il parlamento, figlio della Rivoluzione del 1789, non poteva essere mandato liberamente a giocare col secchiello e la paletta sulle spiagge o a spasso in collina. Consci del fatto che la costituzione della Terza repubblica stabiliva senza equivoci, sin dal 1875, il fatto che soltanto le Camere potevano dichiarare la guerra, i ministri di Parigi preferirono tagliare la testa al toro dichiarando la guerra tout court a Berlino evitando, puramente e semplicemente, qualsiasi dibattito alla Camera e al Senato cui sottoposero, in seguito, in sede di commissione parlamentare ristretta, un banale regolamento amministrativo nelle cui pieghe, dopo una modifica dell’orario delle refezioni scolastiche, faceva capolino, per il totale di una riga e mezzo, la voce “crediti di guerra”. La maggioranza dei parlamentari parlò, sottovoce, di colpo di stato. Il solo che lo fece apertamente, il senatore Pierre Laval, si vide revocata la parola dal presidente dell’assemblea prima ancora di potersi alzare in piedi e tutto finì lì, almeno per il momento. Naturalmente, dopo la débâcle del giugno 1940, la maggioranza dei parlamentari (357 deputati su 544 e 212 senatori su 302) votò i pieni poteri al Maresciallo Pétain e il precedente governo finì sotto processo a Riom. Nel 1945, infine, Laval fu a sua volta processato e fucilato per quegli stessi motivi, a conferma del fatto che quando si comincia una guerra giudiziaria, prima o poi, la pagano tutti allo stesso modo, fatti salvi i magistrati visto che i tre giudici che processarono lui e il Maresciallo erano gli stessi che, dopo aver giurato nelle mani di Pétain, avevano presieduto, a parti invertite, anche la corte di Riom tre anni prima. Se questo è lo stato di servizio delle democrazie in occasione delle maggiori guerre del secolo Ventesimo è possibile immaginare quello delle dittature. Hitler convocò il Reichstag il 1 settembre annunciando l’inizio delle ostilità con la Polonia ricevendo, naturalmente, soltanto un grido unanime, a comando, di “Sieg Heil” (il “vincere” tedesco). Mussolini, più prudente, per quanto fosse formalmente tenuto, in caso di ostilità, a convocare il Gran Consiglio del fascismo (per tacere delle camere), bypassò la procedura (che pure aveva rispettato in occasione della guerra d’Etiopia) limitandosi a 1º settembre 1939, soldati tedeschi rimuovono la barriera di un posto di frontiera fra Germania e Polonia parlare dal balcone (oggi, come allora, questa prassi è definita “democrazia diretta”). Il Gran Consiglio, come è noto, non mancò peraltro di presentargli il conto tre anni dopo, quando ormai la frittata era fatta. Quanto agli Stati Uniti, tempio del popolo sovrano, è peggio che andar di notte. I marinai, destinatari primari di queste pagine, non hanno infatti difficoltà a immaginare cosa si cela dietro l’incidente del Tonchino del 2 agosto 1964. Secondo la versione ufficiale, invero, alle ore 16.00, tre motosiluranti nord vietnamite avrebbero attaccato, in piena velocità, il caccia statunitense Maddox lanciando contro quell’unità i propri siluri da oltre 9.000 metri di distanza, salvo essere prese a loro volta a cannonate dal Maddox senza alcun danno per parte. Sulla base di questa ricostruzione dei fatti, piuttosto improbabile date le modalità di quell’azione, pressoché idiota per delle unità insidiose e condotta a distanze, tali da rendere del tutto inefficace il lancio dei siluri, praticamente sprecati, il presidente Johnson fu autorizzato dal Congresso a condurre per il seguito, senza interferenze parlamentari di sorta, operazioni militari “di rappresaglia” tradottesi, alla fine, tra il 1965 e il 1972, in una pioggia di sette milioni di tonnellate di esplosivo sul Vietnam. Si tratta di una cifra apparentemente anodina se presa da sola. Una volta però che la si confronti con l’unica pietra di paragone utile è possibile tuttavia scoprire, con un certo stupore, che siamo davanti a tre volte il peso degli ordigni scaricati dagli angloamericani sull’Europa tra il 1939 e il 1945 e a cento volte quello con cui la Luftwaffe bersagliò la Gran Bretagna tra il 1940 e il 1945. Per tacere, naturalmente, della contemporanea, fallimentare campagna terrestre combattuta dagli americani e dai sudvietnamiti nelle giungle indocinesi in compagnia di un variegato gruppo di perplessi alleati (tutti accuratamente privi di qualsiasi peso decisionale e destinati soltanto a fornire carne da cannone) comprendente australiani, neozelandesi, tailandesi e sudcoreani. Il quadro finale, piuttosto sconfortante, di questo stato di cose è che i parlamenti servono a poco quando qualcuno, non importa chi, incomincia a sparare. Come diceva uno che, dopotutto, se ne intendeva, ovvero Napoleone: “On s’engage partout et après on voit”, traducibile liberamente in “Prima combattiamo, e poi si vede”. I parlamentari servono, pertanto, soltanto per lodare il vincitore o per condannare lo sconfitto mentre la causa della pace e della difesa degli interessi nazionali può essere meglio servita, per esempio, con assai maggior costrutto, da un capitano di corvetta o da un tenente di vascello dai nervi saldi in grado di gestire (pressoché sempre da soli, dati i tempi necessariamente immediati della propria azione) una crisi improvvisa nel Canale di Sicilia, in Adriatico o uno dei tanti altri bacini in cui operano le nostre navi. Ma questo i nostri lettori lo sanno già benissimo da soli. nnn Marinai d’Italia Gennaio/Febbraio 2013 45