UNO ------------ Yarmouth Il capitano George Manby

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UNO ------------ Yarmouth Il capitano George Manby
UNO
-----------Yarmouth
Il capitano George Manby era giunto all’età di
quarant’anni senza aver dato alcun significativo contributo alla vita. La sua infanzia e adolescenza erano
trascorse tranquille a Yarmouth. Nulla da segnalare riguardo alla sua carriera militare in Marina. Giunto
alla soglia della mezz’età, si era ritrovato carico di debiti. A parte un episodio occorso nel 1800 – quando si
era presentato, con gli occhi fuori dalle orbite, al Ministero della Guerra, per offrirsi come “attentatore
alla vita” di Napoleone, offerta che il ministro garbatamente declinò – nulla lasciava presagire, in Manby,
un candidato all’immortalità. I colleghi andavano dicendo, cinicamente, che l’unica ferita che poteva esibire gli era stata inferta in un duello alla pistola.
La morte dell’ammiraglio Nelson nella battaglia
navale di Trafalgar, nel 1805, cambiò tutto questo.
Manby era stato compagno di scuola di Nelson e nutriva per lui (sebbene non fossero amici) un grande
affetto. E decise di passare all’azione. Ispirato dall’esempio dell’eroe e impressionato dal cordoglio del
vasto pubblico per la sua morte, Manby si convinse
che l’opportunità migliore, per lui, se voleva acquistare fama, era quella di salvare delle vite, in particolare le vite della gente di mare. L’unica esperienza
marinaresca di Manby era stata l’aver comandato, per
un breve periodo, una fregata. Questa nave – in rotta
per Dublino – aveva fatto naufragio in vista delle
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coste irlandesi. In seguito, Manby scriverà: “L’urto
della carena contro gli scogli a pelo d’acqua fu il più
atroce momento di cui avessi mai fatto esperienza.
Seguí un’attività frenetica: tutti sul ponte, mano alle
pompe, abbattere gli alberi, gettare a mare i cannoni.
Si udivano le urla dei feriti, i gemiti dei moribondi”.
Gli uomini dell’equipaggio gettavano in mare tutto
ciò che si potesse rimuovere. La marea montante pose
fine all’agonia della fregata. Di ritorno a Portsmouth,
Manby rifletté sul tragico evento e si convinse che lui
e il mare non erano fatti l’uno per l’altro. Inoltrò quindi domanda per diventare comandante di una caserma. Avrebbe potuto in tal modo seguitare a fare l’ufficiale di marina standosene al sicuro sulla terraferma.
Manby aveva ottime ragioni per essere prudente.
All’epoca, circa un terzo dei marinai moriva in attività di servizio, o in battaglia o in seguito a naufragio.
Quasi tutto ciò su cui il moderno marinaio fa affidamento era – allora – difettoso o inesistente. Il mare intorno all’Inghilterra era gremito di vascelli e le collisioni erano frequenti. Ciò che oggi è stabilito e ben
compreso, allora era discutibile. La navigazione era
più un’arte che una scienza. I marinai potevano fare
assegnamento solo sull’esperienza o sulla fortuna, per
evitare i pericoli. Non c’erano organizzazioni di soccorso. Fin verso la metà dell’Ottocento, era più difficile soccorrere le vittime che riscuotere i proventi dei
naufragi. La precedente legislazione si premurava più
del recupero dei relitti che non dei marinai; né il governo né gli armatori dedicavano molta attenzione
alle conseguenze dei disastri in mare. Perlopiù gli impegni miravano a proteggere il carico piuttosto che
provvedere a far sí che gli equipaggi arrivassero a de-
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stinazione sani e salvi, insieme con le merci. Per diversi secoli, le vite perdute in mare erano considerate, in gran parte dell’Europa, alla stregua di calamità
naturali. Si hanno resoconti di marinai che stavano a
guardare, con le mani in mano, dalla murata mentre
uno dei loro compagni annegava. Una volta che uno
era caduto in acqua – tale era il modo di pensare – egli
era stato “reclamato” dal mare e non spettava al genere umano contestare tale “diritto” di Nettuno. Tale
superstizione non era che una risposta ideologica ad
uno scomodo dato di fatto: il mare uccideva una gran
quantità di gente, anno dopo anno. E, tranne che rifiutarsi di salpare le ancore dai porti della Gran Bretagna, non c’era quasi nulla da fare.
Manby però si convinse che qualcosa si poteva e
doveva fare per scongiurare i naufragi lungo le indifferenti coste britanniche, per motivi – se non di compassione – di civiltà. Il naufragio del brigantino Snipe
sulla costiera di Yarmouth nel 1807 confermò tale sua
convinzione. Centoquarantaquattro vite andarono perdute quando lo Snipe si arenò, durante una burrasca,
ad appena cento metri dalla costa. Manby vide la nave
sfasciarsi sugli scogli e udiva, impotente, le grida disperate. Cominciò subito a fare esperimenti per trovare una soluzione. Concentrò i propri sforzi sull’idea
di lanciare una fune di soccorso dalla riva alla nave in
difficoltà, fissandola a una palla di cannone. I primi
tentativi fallirono miseramente: la corda prendeva fuoco e, nei rari casi in cui raggiungeva il bersaglio, la
cannonata danneggiava ulteriormente la nave, l’incendiava. Manby allora prese ad almanaccare intorno
all’idea di scialuppe di salvataggio inaffondabili. Durante un fortunale, le scialuppe usate per trasportare i
superstiti dal relitto alla terraferma colavano invaria-
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bilmente a picco, o capovolgendosi o imbarcando
acqua.. Manby sigillò alcuni barilotti di legno con la
pece e li fissò sui fianchi di una scialuppa a mo’ di rudimentali galleggianti.
Nell’estate del 1807 un prototipo di mortar line 3
era pronto per il collaudo. Finora, colleghi e vicini di
casa si erano fatti beffe degli eccentrici esperimenti di
Manby. Ma quando questi mise a punto qualcosa che
minacciava i wreckers – che traevano il loro sostentamento dal saccheggio delle navi incagliate – costoro
videro in lui un pericoloso avversario. Non solo Manby poteva privarli della loro principale fonte di reddito ma si poneva altresí in conflitto con la volontà di
Dio. Era Dio – ragionavano i saccheggiatori – a inviare le tempeste che facevano naufragare le navi e
cosí procacciavano loro un bottino. Qualsiasi interferenza era quindi, ai loro occhi, una diabolica intrusione. Pertanto, sapendo che Manby non sapeva nuotare,
tentarono di affogarlo. Diversi marinai del luogo, offertisi volontari per aiutarlo a collaudare la sua invenzione, invece, quando la barca con l’apparecchiatura
giunse al largo, deliberatamente la capovolsero. Manby riuscí a malapena a tenersi a galla finché non fu
soccorso da alcuni volenterosi.
L’infortunio valse solo ad accrescere la sua determinazione. Nel 1808, il piccolo brigantino Elizabeth,
con una ciurma di sei marinai, andò ad incagliarsi su
un banco di sabbia presso Yarmouth, durante una burrasca. Manby colse questa occasione. Si posizionò,
con la sua mortar line sulla spiaggia e riuscí a “spa3 FUNE DI SALVATAGGIO LANCIATA DA UN MORTAIO.
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rare” la sagola sul brigantino. Per far ciò, occorrevano calcoli esatti, dato che la visibilità era molto scarsa, poi c’era il rischio che il mortaio venisse danneggiato dalla pioggia e dall’acqua salsa. Manby fece
fuoco, la fune cominciò a srotolarsi verso il mare.
Seguí una pausa. Poi, lentamente, la sagola si tese.
Qualcuno a bordo, a quanto pare, era ancora vivo, e
aveva afferrato la cima. Non appena fu certo che il
collegamento fra la spiaggia e la nave era assicurato,
Manby inviò una delle sue scialuppe zavorrate. Quando questa fu di ritorno a riva, sei superstiti zuppi d’acqua saltarono sulla spiaggia. Come in seguito testimoniarono, sarebbero senz’altro periti senza l’ausilio
della mortar line. Manby, le cui eroiche intenzioni
erano state convalidate, si inginocchiò sulla battigia e
pianse.
Durante i successivi quarant’anni – fu calcolato –
più di mille persone furono tratte in salvo da navi pericolanti grazie alla mortar line. Ma se Manby pensava che la sua battaglia si fosse conclusa su quella caliginosa spiaggia, si sbagliava di grosso. Le sue invenzioni non ottennero la stima da lui sperata. Nonostante le energiche pressioni da lui esercitate in Parlamento, l’Ammiragliato restava sospettoso e i marinai
del luogo si agitavano per la sua rimozione. Al tempo
stesso si facevano avanti dei concorrenti i quali asserivano di aver inventato quella sagola di salvataggio
prima di Manby oppure di avere migliorato il marchingegno rispetto al disegno originario. Anche i suoi
successivi tentativi di organizzare un servizio di scialuppe di salvataggio per soccorrere i naufraghi su
navi rimaste incagliate a grande distanza dalle coste
non incontrarono che disapprovazione o silenzio.
Manby assistette alla riunione inaugurale della Royal
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Society for the Preservation of Life from Shipwreck 4
nel 1824, ove ove per prima cosa si decise di concedere cinque medaglie d’oro: una al Re, una al Duca di
York, una all’Arcivescovo di Canterbury, una a Manby ed una a Sir William Hillary. Manby ricevette la
medaglia ma non il riconoscimento dei suoi meriti.
Hillary, invece, un millantatore ma intraprendente cittadino dello Yorkshire, è oggi generalmente onorato
come padre fondatore della Royal National Lifeboat
Institution 5. Bisogna ammetterlo: non sempre Manby
giovò alla propria causa. Era pomposo e arraffatore,
nonché estremamente vanaglorioso. I suoi diari e le
sue lettere sono zeppi di piattezze e piaggerie. Spesso
brigava per la promozione di sé più di quanto non si
adoprasse per motivi generosi. Ma, nonostante la sua
megalomania, egli ha pur sempre realizzato grandi
cose. Dopo aver inventato la mortar line, dedicò il
resto della sua vita alla ricerca di quei riconoscimenti che era certo di meritare. All’età di 89 anni, decise
di erigere un monumento a sé stesso. E lo offrí alla
città di Yarmouth, che già aveva eretto a sue spese
una statua a Nelson. L’offerta fu respinta: non gli
restò che collocare il suo monumento nel giardino davanti casa.
Da Berwick alla Solway, la frastagliata costiera
scozzese misura 4.467 miglia marine. Già alla fine
del Settecento, quella costa godeva di una pessima re-
4 REGIA SOCIETÀ PER I SOCCORSI AI NAUFRAGHI.
5 REGIO ISTITUTO NAZIONALE PER LE SCIALUPPE DI SALVATAGGIO.
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putazione. Perlopiù i marinai se ne tenevano alla
larga, e quelli che la rasentavano preferivano seguitar
a navigare fino all’alba piuttosto che cercare un approdo durante la notte. Non soltanto la Scozia è cinta
da due opposti mari – il Mare del Nord e l’Atlantico
– ma le sue numerose isole litoranee sono di ostacolo
anche ai migliori nocchieri, persino oggidí. In passato, il mare era considerato talmente pericoloso d’inverno, che fu promulgata una legge che vietava a tutte
le navi cariche di “beni essenziali” di lasciare i porti
della Scozia dalla fine di ottobre all’inizio di febbraio.
Il ragionamento era ovvio. Oltre alle secche e ad altre
insidie comuni a tutte le coste del Regno Unito, quelle scozzesi sono minacciate da una congerie di correnti e di maree in conflitto fra loro. Il Mare del Nord
– che nel Settecento era l’unico a dar accesso al continente europeo, alla Scandinavia e alla Russia – è
soggetto a repentini mutamenti di clima e solcato da
correnti irregolari. Nello Stretto di Pentland, dove il
Mare del Nord incontra l’Atlantico, i marinai devono
affrontare correnti di marea turbolenta, incroci di
venti, banchi di sabbia, frangiflutti alla superficie e
scogliere sommerse. Spesso le correnti di marea superano la velocità di dieci nodi. Lo Stretto di Pentland
è noto come Bocca dell’Inferno. Certi nomi funesti
segnati sulle carte nautiche attestano ben più che una
storia pittoresca: i Blackstone Banks e le Black Deeps
hanno fatto molte vittime, di anno in anno. Più a sud,
lo Stretto di Solway è cosparso di sabbie mobili e gli
Stretti di Tay e Forth sono famigerati per i loro scogli.
Nel 1875 Thomas Stevenson, uomo certo non dedito
alle iperboli, calcolò che la pressione esercitata dai
marosi sulla costa arriva a 600 quintali per metro quadrato.
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Anche quando i nocchieri erano certi di essere in
salvo dalle correnti incrociate in prossimità delle
isole, c’era pur sempre da fare i conti con scogli e
scogliere: Sule Skerry 6 al largo di Capo Wrath, le
Torran Rocks davanti alla costa di Iona, lo Skerryvore oltre Tiree. L’ingresso allo Stretto di Forth è sbarrato da tre distinti ostacoli: l’Isola di May, la Bass
Rock e Inchkeith che sorgono sulla rotta dei navigli
diretti al porto di Leith. Un po’ più a nord-est sorge la
famigerata Bell Rock, scogliera sommersa durante
l’alta marea che, con la bassa, diventa una confusa
massa di scogli dentati. Sulla costa orientale, all’imbocco del fiume Clyde, c’è più calma ma anche il rischio di secche e di un clima capriccioso dovuto alle
circostanti isole. Là dove la placida corrente del Golfo si immette sull’Atlantico, la zona è famigerata per
le veloci correnti di marea e per cosiddette standing
waves 7 mentre il vortice di Corrievreckan – fra Jura e
Scarba – è considerato il più pericoloso d’Europa.
Persino col bel tempo, solcare la marea di Corrievreckan comporta accurati calcoli. Le imbarcazioni
che l’attraversano si tengono nervosamente vicine
alla costa per poi trovarsi a scarrocciare a 15 nodi o
più. Col maltempo, la gola assomiglia a Scilla e Cariddi, inghiottendo le barche nel vortice o sputandole
sull’una o l’altra sponda. I marinai che conoscono abbastanza bene la zona da evitarne il centro, spesso
vanno a naufragare sulla costa tentando la fuga.
6 SKERRY SIGNIFICA “SCOGLIO” IN DIALETTO SCOZZESE.
7 ONDE FERME, OSSIA FLUTTI CHE SCORRONO SOPRA OGGETTI SOMMERSI DANDO COSÌ L’IMPRESSIONE DI IMMOBILITÀ.
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Fin verso la metà dell’Ottocento, la navigazione
era un’arte sgangherata. I marinai che navigavano in
vista del lido potevano fare assegnamento solo sulla
loro familiarità con le coste: un campanile, un boschetto solitario, un villaggio litoraneo erano punti di
riferimento tanto affidabili quanto una più approfondita conoscenza della geografia marina. In Inghilterra, la Regina Elisabetta I aveva decretato “reato penale” lo smantellamento o l’alterazione dei più caratteristici punti di riferimento litoranei. La legge aveva
avuto scarso effetto. Col buio, poi, i punti di riferimento servivano a poco. Le cronache del tempo notano, laconicamente, riguardo ai naufragi, che il pilota
aveva scambiato una baia per un’altra, un porticciolo
per un altro e ciò gli era costato caro. Anche quando i
primitivi falò furono accesi sui promontori per indicare la strada, potevano facilmente venir confusi con
fuochi d’altra natura. Né era possibile basarsi sull’evidenza scritta. Nemmeno oggi, pur con il beneficio
dei sonar e dei satelliti di segnalazione, esistono carte
nautiche definitive. Alcune parti della costiera scozzese non vennero mai rilevate, in altre si possono fare
rilevamenti a non finire e, lo stesso, non riuscire a
tener il passo con la mutevolezza del mare. Verso la
fine del Settecento, le carte nautiche, le mappe, i
prontuari per nocchieri si disegnavano andando per
tentativi ed errori. A produrli erano sia mercanti sia
funzionari statali. Solo nel 1750 Murdoch Mackenzie
pubblicò una carta nautica delle isole Orcadi basata
su accurate triangolazioni. Più a sud, la situazione
restò pessima per alcuni altri decenni. Nel 1788 Murdo Downie, armatore della nave Champion, presentò
una lagnanza al governo poiché non era riuscito a trovare “alcuna carta nautica della costa orientale della
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Scozia che desse qualche affidamento”. Sulle vecchie
mappe, quelle con gli amorini agli angoli, le coste
erano scorciate e i promontori strabici: ciò oggi può
far tenerezza, ma per secoli furono le uniche informazioni disponibili sulle coste britanniche. Quando Daniel Defoe fece un giro della Scozia intorno al 1725,
scoprí che i fiumi Forth e Clyde non confluivano,
come invece segnato sulla sua mappa. “Quando mi
diedi a esaminare più attentamente il territorio, trovai
che i cartografi si erano sbagliati di grosso: non solo
il corso dei fiumi era stravagante, ma anche le distanze inesatte,” egli scrisse. Più a nord, nelle Highlands,
“quella regione brulla e montagnosa, spaventosa”,
peggio che andar di notte: “I nostri geografi sembrano tanto inetti a descrivere la parte settentrionale della
Scozia, quanto gli antichi romani a conquistarla,” notava, sconsolato, il creatore di Robinson Crusoe, “e
sono costretti a riempire il terreno con monti e colline, cosí come riempiono le regioni interne dell’Africa con leoni ed elefanti, non sapendo cos’altro metterci”.
La cose migliorarono in modo erratico, ammesso
che stessero migliorando, nell’Ottocento. Nel 1837,
un indignato comitato di esercenti, a Edimburgo, fece
presente al Tesoro che persino le migliori carte geografiche della Scozia erano talmente poco accurate
che “in alcune la grande isola di Arran è collocata a
sei miglia di distanza da Bute, in altre a nove o addirittura a dodici. Il faro dell’isola Pladda è collocato a
16° nord di Aisa Craig, laddove l’esatta distanza è di
appena 10°20’. Sono errori gravi.” Molti errori passavano inosservati, altri erroneamente corretti. I regolamenti per i nocchieri – zeppi di frasi come “Cinquanta tese di fanghiglia nera e nere pietre piscee fram-
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mezzo” – erano spesso più poetici che pratici. Certe
zone in cui l’ancoraggio veniva dato per “sicuro” risultavano invece notoriamente esposte al rischio di
naufragi.
Ma le avversità non impedivano al popolo scozzese, in forte aumento numerico, di far assegnamento
sempre più sul mare. La Scozia ne aveva bisogno, ne
traeva profitto e sostentamento. Il mare dava lavoro
agli scozzesi. Dal Cinquecento il traffico marittimo
intorno alle coste britanniche era in continuo aumento. Al contempo aumentavano i naufragi. Assieme all’agricoltura e all’industria manifatturiera, il mare era
una delle principali fonti di occupazione per una vasta
fascia della popolazione, nell’Ottocento. Direttamente, il mare forniva sussistenza e commerci; indirettamente conferiva forza e importanza politica. All’inizio del Settecento la Gran Bretagna era assiduamente
impegnata in guerre sul mare. La marina da guerra
aveva triplicato le sue navi, ma aumentava anche il
numero dei pirati, dei corsari e delle cosiddette press
gangs, coloro cioè che arruolavano gli uomini con le
cattive. Al termine delle guerre napoleoniche i pericoli diminuirono ma la minaccia restava costante.
L’incremento dei commerci esigeva che si incrementassero le misure militari atte a proteggerli. Fra il
1650 e il 1750 l’Inghilterra fu impegnata in sei guerre europee. Sulle vecchie rotte il traffico aumentava,
nuove rotte venivano tracciate. Nel 1755 Inghilterra e
Scozia avevano avviato regolari scambi di merci di
prima necessità – come grano, carbone, bestiame –
con la Francia, la Scandinavia e il Baltico. I francesi,
dal canto loro, erano coinvolti in tante di quelle guerre, all’epoca, da essere costretti a ridurre la marina da
guerra e fare maggiore affidamento sui corsari, molti
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dei quali effettuavano razzie sulle coste britanniche.
Al tempo stesso la Scozia, in particolare, dipendeva
dai paesi scandinavi come alleati e partner commerciali. I traffici fra i due scacchieri – sempre costanti –
aumentavano con la crescita delle industrie e l’espandersi del libero scambio. Dai porti sul fiume Clyde
salpavano vascelli diretti nel Nuovo Mondo, il quale
nel 1750 forniva tabacco, zucchero, manufatti e
schiavi. A nord e a sud si dava la caccia alle balene.
Al di là del continente europeo sussisteva l’esotica
minaccia di un nuovo impero. In ogni direzione c’era
da fare bottino, c’erano concessioni da ottenere.
La Scozia dava un suo ingente contributo ai traffici anche in altri modi. L’unione con l’Inghilterra stava
arrecando benefici, sia pure con lentezza. Immediatamente dopo il 1707 gli scambi erano soprattutto interni: bestiame per i mercati inglesi, frumento per i
mulini inglesi e uomini per la manodopera in Inghilterra. Ma dopo la ribellione “giacobita” del 1745, gli
scambi fra la Scozia e l’Europa accelerarono. I proprietari terrieri delle Highlands, gli altipiani scozzesi,
disboscavano le strath 8 per dare pascoli alle pecore,
si trasferiva forzosamente una parte cospicua della
popolazione verso poco fertili località rivierasche, si
insegnava alla gente l’arte della pesca e la si lasciava
libera di “arrangiarsi”. Alcuni di questi stanziamenti
scomparvero rapidamente, altri misero invece radici e
divennero centri per l’esportazione di legname, canapa e prodotti ittici. Reggimenti scozzesi prendevano
parte alle guerre a fianco degli inglesi. Molti migra8 GRANDI VALLI DAL FONDO PIATTO.
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vano al sud e trovavano lavoro nei cantieri navali di
Glasgow e Greenock. Diverse migliaia di scozzesi del
nord partirono per il Nuovo Mondo su navi insicure,
alcune delle quali non arrivavano a destinazione.
Edimburgo fungeva sia da base commerciale sia da
“guarnigione” fornendo sia merci per l’esportazione
sia uomini per le guerre. Quando le press gangs 9 cercavano “foraggio” ossia marinai per le navi da guerra, andavano a cercarli in primo luogo a Edimburgo.
Quale che fosse la causa, la popolazione della Scozia
era sempre in movimento, come mai prima — e gran
parte di quel movimento aveva luogo per mare.
Il mare si gremiva di navi e quindi i naufragi aumentavano. Intorno al 1795, ogni anno naufragavano
in media 550 vascelli in prossimità delle coste britanniche. Intorno al 1835 ne naufragavano più di due al
giorno. Alla forte crescita del traffico nautico intorno
all’Europa non era però corrisposto un adeguato miglioramento nella sicurezza della navigazione. Non
v’erano regole per la segnalazione di guasti o altre
difficoltà e i soccorsi erano alquanto precari e primitivi: le giubbe di salvataggio erano di cuoio pesante e
le scialuppe a remi inadeguate alla bisogna. Nel 1800
i Lloyds di Londra stimarono che ogni giorno andava
persa in media una nave intorno alle coste d’Inghilterra. Fra il 1854 e il 1879 furono registrati circa
50.000 naufragi. Tale cifra è probabilmente inferiore
a quella reale. Molti naufragi non arrivavano mai a
conoscenza del funzionario locale dell’Ammiragliato,
sia a causa delle pessime comunicazioni sia, soprat9 GLI ARRUOLATORI.
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tutto, perché i disastri venivano deliberatamente tenuti nascosti. Sia la marina da guerra sia gli armatori di
navi mercantili impararono, per amara esperienza, ad
aspettarsi che una certa percentuale dei loro vascelli
facesse naufragio ogni anno. Dato che il tasso di mortalità era molto alto e le condizioni erano pessime, gli
stessi marinai potevano soltanto rassegnarsi ad un
brutale fatalismo circa il loro mestiere. Essi vivevano
in un mondo crepuscolare, che aveva un proprio
gergo e propri codici di comportamento. Per lo più
non si aspettavano di raggiungere i quarant’anni di
età. Guardavano il governo con sospetto e la legge
con indifferenza, inoltre si facevano beffe dei loro
compatrioti che passavano la vita sulla terraferma: li
chiamavano, per dileggio, landlubbers 10. C’erano abituati, ai naufragi, alle ferite, accettavano il fatto che il
mare è insicuro, traditore, e guardavano con sospetto
tutti coloro che promettevano salvezza.
Dato un tale sinistro stato di cose, era ovvio che alcuni cambiamenti si rendevano necessari. Verso il
1781 l’agitazione del pubblico si era fatta troppo forte
perché il governo potesse seguitare ad ignorarla. Va
notato però che la pressante richiesta non proveniva
dai marinai maggiormente a rischio, bensí dai proprietari di navi, dagli armatori e dai comandanti, ansiosi di minimizzare i rischi e la perdita di preziosi carichi. Gli equipaggi – quelli che nei naufragi ci rimettevano la pelle – erano o troppo pessimisti circa le
probabilità di sopravvivenza, oppure troppo scettici
10 CHE EQUIVALE GROSSO MODO A “MARINAI D’ACQUA DOLCE” MA LUB-
BER SIGNIFICA ANCHE ZOTICO, MALDESTRO.
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riguardo alle innovazioni. Tanto che occorsero decenni per convincerli che i fari erano indispensabili. Furono i capitani di lungo corso, gli armatori e i mercanti ad adoprarsi con maggior tenacia. Il denaro, al
solito, poteva più della compassione. Ma da una siffatta necessità scaturí qualcosa di più eccezionale che
non i consueti sporadici sforzi miranti a contrassegnare e illuminare i luoghi litoranei più rischiosi. Sebbene l’impulso a costruire fari fosse, in Scozia, all’ordine del giorno, gli uomini che pervennero a svolgere questo ruolo erano di più rara stoffa.
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