T. Verdon - Claudio Sinigaglia

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T. Verdon - Claudio Sinigaglia
Il Risorto in Croce di Giuliano Vangi
Dall'era paleocristiana fino a oggi, l'arte a servizio della Chiesa ha descritto il "prodigioso
duello" di cui parla l'inno, ora in maniera astratta, ora in modo allusivo, presentando
Cristo crocifisso in vesti regali e sacerdotali, o con gli occhi aperti, o sostenuto (rialzato) dal
Padre. Tra le più splendide articolazioni di questo tema, vi è il monumentale Risorto in
croce di Giuliano Vangi, eseguito nel 1999 per il presbiterio del duomo di Padova, dove
l'artista visualizza il discorso escatologico del vangelo di Luca, in cui Cristo descrive il suo
ritorno con linguaggio drammatico: "Come il lampo, guizzando, brilla da un capo all'altro
del cielo, così sarà il Figlio dell'uomo nel suo giorno", dice, alludendo al "giorno" della
Parusia, il "giorno senza tramonto", l'"ottavo giorno" dell'eternità (cfr. Luca, 17, 24). È il
testo più adatto a quest'opera che, infatti, lampeggia, guizza, brilla. Realizzato in
un'inconsueta lega d'argento e nichel, con elementi d'oro e bronzo, si distingue
radicalmente dall'apparato decorativo del duomo e perfino dalle altre figure di Vangi nel
presbiterio, concepite in marmo bianco di Carrara, giallo di Siena, rosso veronese, pietra
tunisina color miele e nel blu reale del Portogallo: materiali, colori e incastri tradizionali
che troviamo nella scultura tardo imperiale, in quella della fine del Rinascimento, e nei
monumenti barocchi della stessa cattedrale padovana.
Il Cristo invece si distingue. È avveniristico, quasi tecnologico, quest'uomo che emana luce
dalla croce "tirata come un cristallo" (al dir dell'artista): una croce alta sei metri, la cui
gamma cromatica va dal blu scuro della base (la notte in cui l'uomo soffre e perde
speranza) al "dolce color d'oriental zaffiro" che rincuorò l'Alighieri (cfr. Purgatorio, 1, 13),
e infine al bianco limpido, incandescente della luce in cui abita il Padre.
Sono materiali e colori moderni - qualcuno dirà "da discoteca" - e nel contempo antichi,
plasmati dall'immaginazione dei profeti, dalle visioni nella notte del tempo. "Io guardavo
ed ecco un uragano avanzare dal settentrione, una grande nube e un turbinio di fuoco che
splendeva tutt'intorno, e in mezzo si scorgeva come un balenare di elettro incandescente",
dice un profeta d'Israele (Ezechiele, 1, 4). Bronzo lucido e topazio, un firmamento simile a
cristallo splendente, carboni ardenti come torce agitate, il fuoco che sprigiona bagliori:
ecco l'immaginario degli inizi del sesto secolo avanti Cristo, il linguaggio sacrale del figlio
di Buzi, il sacerdote Ezechiele che, sulle rive del Chebar, vide aprirsi i cieli (Ezechiele, 1, 1).
Questo linguaggio visionario, che ritroviamo nel libro di Daniele e infine nell'Apocalisse, è
quello preferito da Cristo stesso, nel già citato passo lucano e in numerosi altri passi, per
descrivere il suo "giorno", "quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi
angeli e si siederà sul trono della sua gloria" (Matteo, 25, 31). Ed è il linguaggio in cui
Vangi fa vedere i cieli aperti, il Figlio dell'uomo che brilla da un capo all'altro come un
lampo, la croce come trono di gloria, il "giorno" del testimone fedele, del primogenito dei
morti e principe dei re della terra, di colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il
suo sangue, facendo di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre; l'"oggi" in cui
Cristo "viene sulle nubi e ognuno lo vedrà, anche quelli che lo trafissero" (Apocalisse, 1, 7).
Al centro del presbiterio, dove in persona Christi il vescovo celebra la liturgia eucaristica,
l'artista cioè strappa il velo che copre i nostri occhi, traducendo in lingua corrente un
celebre affresco del Risorto di Ambrogio Borgognone in Sant'Ambrogio a Milano, dove
Cristo proclama (in parole scritte su un drappo d'onore sotto i suoi piedi): "Io sono il
Primo e l'Ultimo e il Vivente. Io ero morto ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la
morte e sopra gli inferi" (Apocalisse, 1, 17-18).
È significativo che questo Cristo di Vangi, raffigurato mentre passa da morte a vita, sia
stato concepito per l'altare di una chiesa. In immagini legate alla liturgia, come nella
liturgia stessa, i credenti sono invitati a cercare, oltre ciò che vedono, qualche cosa di più,
magari non vista perché ancora nel futuro o che c'è ma rimane nascosta, ma che in ogni
caso muta radicalmente il senso e l'aspetto delle cose viste. L'immagine si pone come
epifania e apocalisse, manifestazione e rivelazione: è il caso di una splendida pala d'altare
senese, opera di Giovanni di Paolo oggi alla Pinacoteca Nazionale di Siena, in cui vediamo
Cristo umiliato che regge la croce, a sinistra, mentre a destra, risorto e trionfante giudica
vivi e morti, mostrando le piaghe come trofei. Frammezzo, fra l'imago pietatis e l'imago
gloriae di questa doppia immagine, è raffigurato lo Spirito, operatore dei cambiamenti che
conducono alla vita eterna (tra cui quello eucaristico: il cambiamento del pane e vino nel
corpo e sangue di Cristo). La colomba è collocata all'apice dell'immagine, sopra il punto in
cui il sacerdote, consacrando, invoca lo Spirito Santo sui doni, ed è come se scendesse
contemporaneamente su Cristo sofferente per risuscitarlo alla gloria, e sul pane e vino per
transustanziarli. Quando si celebrava la messa davanti a quest'immagine, l'ostia e il calice
innalzati tra le due raffigurazioni di Cristo comunicavano che, come Cristo è risorto nello
Spirito e sotto lo stesso Spirito il pane diventa suo corpo, anche noi che ci nutriamo di
questi elementi siamo destinati a mutare forma. "Come abbiamo portato l'immagine
dell'uomo di terra, così porteremo l'immagine dell'uomo celeste: in un istante, in un batter
d'occhio, al suono dell'ultima tromba noi saremo trasformati" (1 Corinzi, 15, 49-52).
In modo analogo, il Crocifisso di Vangi ripropone l'intuizione dell'autore dell'Apocalisse,
che colloca la sua visione della fine delle cose nel contesto della domenica e di
un'esperienza mistica della liturgia. "Rapito in estasi nel giorno del Signore - dice - udii
dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: quello che vedi, scrivilo in un
libro" (Apocalisse, 1, 10). Giovanni vide sette candelabri d'oro in mezzo ai quali si muoveva
il sommo Sacerdote dei beni futuri, simile a un figlio d'uomo ma con gli occhi
fiammeggianti come fuoco e che teneva nella destra sette stelle (Apocalisse, 1, 12-15).
Il nuovo Crocifisso sopra l'altare riporta l'Eucaristia a questo contesto escatologico. Tra i
santi della città e diocesi (Prosdoscimo, Giustina, Antonio, Gregorio Barbarico) scolpiti
dallo stesso Vangi in atteggiamenti ruminativi, ora esplode Cristo. La comunione dei santi
- la comunione dei padovani con questi quattro santi patroni, la comunione di ogni
credente con coloro che lo hanno preceduto - ora ritrova il suo centro in Lui, nel suo corpo
e sangue offerti sulla croce.
Così ora nel presbiterio del Duomo di Padova contempliamo il Vivente rivelato nella
comunione dei santi, sopra un altare che sembra la pietra sepolcrale "rotolata via" dagli
angeli che la sostengono, esprimenti una sorta di tripudio cosmico. Perché, a differenza
del Cristo del Borgognone a Milano, in cui predominano i segni dell'umiliazione - e a
differenza dell'altro grande crocifisso a Padova, quello di Donatello all'altare del santo - qui
è il trionfo di Cristo che viene proclamato, la gloria della sua vita nuova. Scriveva infatti
Vangi nel 1999, per l'inaugurazione del Crocifisso: "Ho cercato di esprimere tramite gli
occhi aperti la vita, la vittoria di Cristo sulla morte, la risurrezione e quindi la Parusia, la
gloria finale promessa per tutti da Gesù nel passo di Giovanni: "Quando sarò innalzato
attirerò tutti a me". Il Signore qui non è inchiodato ma quasi appoggiato alla croce, con le
braccia spalancate non nel supplizio ma piuttosto in quest'abbraccio redentivo per l'intera
umanità".
Le mani del Salvatore non inchiodate ma "appoggiate" alla croce, i chiodi diventati punti di
luce: fa pensare alla mistica tavola conservata nella stessa Cattedrale, nella sagrestia dei
Canonici, opera di Nicoletto Semitecolo raffigurante il Figlio crocifisso davanti al Padre,
ma senza la croce. Le mani del Figlio, con i segni della sua obbedienza, sono
semplicemente "appoggiate" alle mani estese del Padre che lo sostiene con il suo amore. Le
parole di Cristo sulla Croce, "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?", vengono così
riportate al loro contesto d'origine: al salmo che sia Gesù che coloro che l'ascoltarono
conobbero, e che, dall'iniziale senso d'abbandono, porta all'affermazione conclusiva che
Dio "non ha disprezzato né sdegnato l'afflizione del misero, non gli ha nascosto il suo volto
ma, al suo grido d'aiuto, lo ha esaudito" (Salmi, 21, 25). E poi le ultime parole: "Io vivrò
per lui, lo servirà la mia discendenza. Si parlerà del Signore alla generazione che viene;
annunceranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: "Ecco l'opera del Signore""
(Salmi, 21, 30-32).
Questo Cristo sulla croce azzurra è già in cielo, Signore delle generazioni future, Redentore
del terzo millennio, Salvatore di popoli nascituri. Nel mistero del corpo crocifisso che,
splendente e senza sofferenza, vive davanti al Padre, Vangi rivela l'Uno di cui l'Antico
Testamento affermava: "Il suo splendore è come la luce, bagliori di folgore escono dalle
sue mani: là si cela la sua potenza" (Abacuc, 3, 4).
Timothy Verdon
(©L'Osservatore Romano, 9 aprile 2009)