Dopo il Nobel a Vargas Llosa Un`ampia
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Dopo il Nobel a Vargas Llosa Un`ampia
Dopo il Nobel a Vargas Llosa ECCELLENZE ED ECCEZIONI NELLA NARRATIVA LATINOAMERICANA Un’ampia riflessione ed una panoramica critica a proposito dei protagonisti della letteratura dell’America del Centro-Sud. Un continente assai prolifico sia di prosatori che di poeti, ma soprattutto capace di offrire numerose ramificazioni: dagli scrittori argentini ai cileni, dai peruviani ai colombiani, dai cubani agli uruguayani, dai messicani ai nicaraguegni, ai guatemaltechi, per tacere dei brasiliani che operano in lingua portoghese. Appunti sul ruolo culturale seminale in Perù di José Carlos Mariategui e sul problema delle civiltà indigene, largamente insondate, produttrici di miti e di archetipi, che la psicologia europea si è rivelata insufficiente ad esplorare. Il solo Borges, peraltro, ha contraddetto apertamente il senso della letteratura ispanoamericana del XX secolo, impegnata vittoriosamente a negare qualunque perifericità e subalternità rispetto alla Metropoli, al Centro, all’Europa. _________________________________________________________________________________ di Ignazio Delogu Il conferimento del Premio Nobel per la letteratura allo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa, sollecita più di una riflessione sulla narrativa latinoamericana. Non è in discussione l’assegnazione del premio, non solo trasparente e legittima ma meritatissima. Si tratta invece di riflettere sul ruolo da protagonista che quella narrativa si è conquista nell’ambito della narrativa mondiale. Nessuno narratore di quel Continente aveva avuto il Nobel, prima del guatemalteco Miguel Angel Asturias. Successivamente il Nobel è stato assegnato al messicano Octavio Paz, al colombiano G. García Márquez e adesso al peruviano Vargas Llosa. Prima che ai narratori il Nobel era andato a due poeti, entrambi cileni, Gabriela Mistral, nel 1945 e Pablo Neruda nel 1972. Contrariamente all’opinione diffusa, non senza qualche buon motivo, che i latinoamericani siano più poeti che narratori sta l’innegabile esistenza di narratori cileni, colombiani e peruviani, per non citarne che alcuni, che operarono fin dalla metà de XIX secolo. Sono Alberto Blest Gana, cileno, Jorge Isac, colombiano, Domingo Faustino Sarmiento, autore di Facundo, argentino. Ma un precedente potrebbe essere rintracciato in un singolare “romanzo” di un oscuro impiegato postale uruguaiano, Concoloncorvo, il Lazarillo de ciegos caminantes del XVIII secolo E resta il fatto che su sei Nobel assegnati a latino americani, proprio i narratori ne hanno totalizzato quattro! A non tener conto di altri meritevoli, parlo di quelli di lingua spagnola, e non dei brasiliani come Juan Guimares Rosa e George Amado, che si chiamano Julio Cortazar e Jorge Luis Borges, argentini, José Lezama Lima, cubano, José Maria Arguedas peruviano, e ancora gli uruguaiani Carlos Onetti, M. Benedetti e altri. E prima ancora quel Juan Emar cileno, grande scrittore e narratore oltre Proust e Kafka, esploratore di anime insondabili, humboldtiano classificatore di piante e di animali, del quale Neruda scrisse: Adesso che i cantori del coro si riempiono la bocca con Kafka, eccovi il nostro Kafka, dirigente di sotterranei, interessato al labirinto, continuatore di un tunnel inesauribile scavato nella sua stessa esistenza non meno misteriosa perché silenziosa. Poco noto in patria, in Italia esiste la sola traduzione di un libro di racconti, Diez (J. Emar, Diez, a cura di I. Delogu, Parole gelate). Ciò non significa che non ci siano stati nello stesso scorcio di tempo e non ci siano attualmente poeti di grande rilievo, alcuni dei quali possono pretendere legittimamente a qualche universalità. Mi riferisco a poeti come l’uruguaiano Herrera y Reissig, autore dello splendido Pascuas del tiempo, della fine del XIX secolo e, per venire al XX, un poeta come il nicaraguense Rubén Dario che col suo libro Azul ha rivoluzionato la poesia spagnola liberandola dalle pastoie di un romanticismo che, fatta eccezione di Gustavo Adolfo Bequer, era ormai arrivata al capolinea. E un grande poeta anche lui peruviano, è Cesar Vallejo, l’autore de Los heraldos negros, dell’ancora insondato Trilce e, negli anni della guerra civile spagnola, del poema España aparta de mi este caliz, fondatore a Parigi della originalissima rivista Favorables Paris Poemes alla quale collaborarono il grande poeta basco in lingua francese Juan Larrea e Pablo Neruda. Nascono da Azul, un libretto di un centinaia di pagine del poeta guatemalteco, cileno di adozione, Rubén Darío, e dall’influenza esercitata dal Creacionista Vicente Huidobro, il cileno promotore di avanguardie, finanziatore della rivista Nord Sud del surrealista Reverdì, una nuova estetica e una nuova poetica che ha avuto come protagonisti il grande lirico J. Ramón, Jiménez, premio Nobel 1928, A. Machado, F. García Lorca, M. Hernández R. Alberti, V. Aleixandre, premio Nobel, Jorge Guillén e altri di non minor valore. Ma l’archetipo della narrativa sul tiranno nel secolo scorso e dell’attuale è un piccolo romanzo Tirano Banderas, ambientato in un paese imprecisato, del grande drammaturgo spagnolo Ramón Del Valle Inclán. È il primo romanzo dedicato al tema della violenza e del dittatore latonoamericano ripreso dai premi Nobel Asturias col Il Signor Presidente, García Márquez con L’autunno del Patriarca, ma anche dal cubano Alejo Carpentier, e in maniera diffusa da J. M. Arguedas, dal compianto Manuel Scorza e dallo stesso Vargas Llosa. La varietà dei modi di affrontare quei temi testimonia della loro centralità, strettamente legata alla situazione politica di numerosi paesi dell’America latina e del Caribe. Che altro è, se non il tema della violenza, forse più sofisticata ma non per questo meno brutale, quando si denuncia la discriminazione non solo sociale ma anche etnica, la quasi impossibilità degli eredi delle civiltà, delle culture e delle lingue precolombine, come accade nella maggioranza degli stati dell’America centrale e meridionale, di inserirsi nelle società postcoloniali fortemente discriminatorie, nonostante le costituzioni e le legislazioni dicano il contrario. A quella impossibilità e non ad altro si deve il suicidio di Arguedas. A questi autori aggiungono il colombiano Jorge Zalamea, poeta, saggista e narratore di fama consolidata in tutta l’America latina ma sconosciuto in Italia, autore di due splendidi e intriganti racconti, La muerte del Gran Burundú Burundá e La metamorfosis de su Excelencia dei quali avvertiamo l’eco, a cominciare dal titolo, in alcuni racconti dell’anch’esso colombiano García Márquez, come il già citato Autunno del Patriarca e il Funerale della Mamá Grande. Stupisce che nel suo volume autobiografico García Márquez non faccia riferimento a un narratore, Jorge Zalamea, che è stato indubbiamente fra i suoi maestri e i cui libri costituiscono con tutta evidenza archetipi di alcune sue opere. Colombiano, di grande notorietà anche internazionale, era Germán Arciniegas, umanista che ha contribuito con i suoi studi sulle grandi scoperte geografiche di C. Colombo, di A. Vespucci e dell’Accademia dei Lincei fondata dal principe Cesi, Celivago, nel 1603, con lo scopo di vedere con gli occhi della lince, appunto, attraverso le tenebre dell’ortodossia la realtà antropologica, faunistica e della flora del Nuovo Mondo, a far conoscere anche in Colombia, il Rinascimento, la nuova scienza e gli aspetti meno indagati della personalità di Galileo Galilei. Il Cesi era diventato il principale informatore del Galilei, sulle scoperte del quale arrivavano notizie clamorose, e interprete della sua volontà di recarsi in America (il nome era già entrato nel lessico europeo), per studiarvi col cannocchiale da lui inventato, la costellazione della Croce del Sud, descritta da A. Pigafetta nel suo Primo viaggio di navigazione intorno al globo e da Amerigo Vespucci, fallito per l’opposizione dell’Inquisizione. Il processo di formazione di García Márquez è vario e complesso, ma non vi è traccia del problema del rapporto fra la cultura precolombina e quella successiva, per il semplice fatto che la Colombia, al pari dell’Argentina e dell’Uruguay, non ha conosciuto nessuna grande civiltà precolombina, e che la presenza indigena è assolutamente minoritaria. Non è un caso che in Cento anni di solitudine gli indigeni compaiano come ombre che sfilano all’orizzonte in un episodio marginale o come gli sconfitti di un’etnia non recuperabile. La Colombia è un paese del Caribe, cioè della costa orientale del Continente, che ha conosciuto diverse culture poco note perché insufficientemente studiate, come quella dei Chibcha, difficilmente paragonabili alle grandi civiltà dei Maya, degli Inca e dei Mexica, nel quale è consistente la presenza dell’elemento africano, che in un solo paese caribegno è maggioritario, cioè ad Haiti, ma che ha un gran peso in Brasile e a Cuba, dove è legittimo parlare di un gruppo etnico e di una cultura afrocubana. Anche la vicenda politica colombiana, nell’età postcoloniale cioé dell’indipendenza, attraversata da contrasti durissimi e dall’alternanza di brevi periodi di vita democratica con altri di autoritarismo e di severa dittatura, pur presentando considerevoli affinità con quella di altri paesi del Continente, si caratterizza, a partire dal 1948, per il fenomeno noto come La violenza in Colombia (vedi Mons. Guzmán, La violenza in Colombia, a cura di I. Delogu, Veutro editore, Roma 1969), corredato da una terrificante documentazione fotografica. Mons. Guzmán, direttore del Dipartimento di Sociologia dell’Università di Bogotá, era stato maestro del prete guerrigliero Camilo Torres. A lui si deve la denuncia della violenza scatenata nel 1948 dall’assassinio di Jorge Eliêcer Gaitán, capo del Partito liberale, voluto dai dirigenti del Partito conservatore per impedire che Gaitán, vincitore delle elezioni generali, assumesse la guida del paese. Gabo descrive con dovizia di particolari e con una prosa drammatica e concitata le strade ora deserte per la paura, ora affollate di uomini e di donne che si combattevano con furia, gli spari, le barricate, il fumo dei gas fumogeni lanciati dalle forze anti sommossa massicciamente impiegate. Si tratta di un racconto che ha un valore testimoniale che non esito a definire storico. Quasi un’anteprima di quella concezione del romanzo come “storia raccontata con altre parole” della quale Gabo è maestro. Sull’assassinio di Gaitán e delle tragiche conseguenze che provocò, ebbi una testimonianza di prima mano da Fiamma, la figlia del leader. La conobbi a Roma, me la presentò Alberto Zalamea, ambasciatore della Colombia presso il Quirinale. Alberto era un giovane di grande prestanza ed eleganza, aveva sposato un’italiana, parlava bene la nostra lingua, non nascondeva le sue simpatie per il PCI, per Togliatti e per Enrico Berlinguer. Era anche un lettore appassionato dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci. Di quelle letture parlavamo spesso nei nostri frequenti incontri. Fiamma era deputata al Congresso Nazionale, era una bella e giovane donna, di grande cultura e di altrettanto carisma. Era innamorata dell’Italia, amore trasmessole da suo padre che in Italia, a Roma, aveva studiato ed era stato allievo del grande giurista Cesarini Sforza, che considerava suo maestro. Seppi da lei che Gaitán aveva avuto simpatia per Mussolini e per il fascismo, motivata dall’ordine che il Regime aveva imposto al paese e che gli pareva l’obiettivo che un liberale colombiano dovesse perseguire nel suo paese, nel rispetto delle regole della democrazia. Quanto a lei simpatizzava per il PCI, in particolare per Berlinguer e aveva anche una buona conoscenza delle opere di Gramsci. Del lutto che aveva colpito lei e la sua famiglia, parlava con sofferenza ma anche con grande dignità. Descriveva quei giorni e i mesi e gli anni seguenti con riservatezza ed equilibrio, separando il ruolo nefasto della classe dirigente da quello che si voleva attribuire a tutto il popolo colombiano. La conseguenza di quella vicenda fu una radicalizzazione di certi settori cristiani, vedi mons. Guzmán e il prete Camilo Torres e altri, e il rafforzamento della guerriglia guidata dal leggendario Tiro Fijo impegnato non solo a contrastare la reazione militare e repressiva imposta dal partito al governo, ma anche ad operare trasformazioni nell’economia del paese: lotta alla coltivazione della marjuana, creazione di migliaia di Ha di vigneti, soprattutto degli altipiani controllati dalla guerriglia. Ho incontrato Tiro Fijo durante una sua breve sosta a Roma, in viaggio non so se di ritorno o di andata a Mosca. Lo accompagnai per incarico della Segreteria del PCI in una visita alla capitale. Era felice e stupito di trovarsi a Roma, affascinato dall’Altare della Patria e dal Colosseo, cosa che non gli impediva di pensare continuamente al suo paese, ai suoi guerriglieri. Azzardai qualche domanda, mi rispose con sincerità, non mi sembrò particolarmente ottimista sul futuro di quella che chiamava guerra di liberazione. Il potere è molto forte, mi disse, ed era sostenuto dai trafficanti di droga e dagli Stati Uniti i quali, a loro volta, sostenevano governo e narcotrafficanti. A tal punto che i carri armati dell’esercito colombiano non si limitavano alla più efferata delle repressioni, bruciando villaggi e torturando e assassinando indiscriminatamente uomini donne e bambini, colpevoli soltanto di non opporsi alla guerriglia, ma distruggevano coi cingoli dei carri armati le grandi distese di vigneti e delle altre culture, impoverendo definitivamente l’economia dell’intero paese. Voleva visitare San Pietro e, magari, mi disse maliziosamente, incontrare il Santo Padre. In definitiva, il padre Torres si era formato a Roma, a un passo dal Vaticano. Gli dissi che lo avevo conosciuto quando era studente del Colombianum, in Piazza Capranica e mi guardò con una certa ammirazione. Il tempo era scaduto, lo accompagnai alla modesta pensione all’inizio di Via 4 Novembre nella quale alloggiava, mi pare di ricordare. Volle abbracciarmi e ringraziarmi e: “Spero di rivederti in Colombia. Ti invito!” Non è sorprendente che nella sua autobiografia García Márquez faccia risalire il suo passaggio all’impegno politico a quell’assassinio e a quell’anno, il 1948, nel quale nella capitale si svolgeva il Congresso Panamericano degli Universitari con la partecipazione di Fidel Castro a capo della delegazione cubana e di Ernesto che Guevara in viaggio per l’America latina, e dell’incontro fra i due che portò Guevara ad arruolarsi con i membri di quella “columna invasora” che, a bordo del Granma, sarebbero sbarcati a Cuba. Nasce in quell’occasione l’amicizia fra Fidel, Gabo e Guevara e la fedeltà del secondo alla rivoluzione cubana senza pentimenti né discriminazioni. Ricordo bene l’incontro fra Gabo, Mario Vargas Llosa, il grande compositore Luigi Nono e il sottoscritto a Barcellona, nel quale si decise di esercitare una forte pressione su Fidel Castro per la liberazione del poeta dissidente Peralta. Gabo aderì pienamente, ma era preoccupato che si aprisse un conflitto che mettesse in dubbio la legittimità della rivoluzione cubana. Vargas Llosa dichiarava che la tutela dei diritti umani era prioritaria rispetto a qualsiasi realtà politica, definendosi un “liberal”, con sottinteso riferimento al liberalismo britannico. Gabo insisteva su un dato generazionale: io, Mario e tu siamo sostanzialmente coetanei di Fidel e del Che e questo ci impone di essere solidali con Fidel e con la rivoluzione cubana. I distinguo lo turbavano. E dimenticava che, se lui ed io, eravamo nati nel 1928, Mario era nato sette anni dopo, il che non è poco per quanto riguarda il sentimento di appartenenza generazionale. Gabo è un uomo di straordinaria umanità e semplicità. Devo a Vargas Llosa di averlo conosciuto. Abitavano in due palazzi diversi dello stesso barcellonese Carrer Brusi. Ero stato ospite di Mario, al quale avevo fatto una lunga intervista, ancora inedita, sul “modo di scrivere latinoamericano” e fu lui ad offrirsi di accompagnarmi dal suo amico. A lui mi aveva presentato il giovane e brillante scrittore Terençi Moix, mio amico da anni e mio ospite a Roma, in modo più che elogiativo. Lo compresi quando Mario mi presentò a Gabo, nel suo studio disadorno ma al riparo dai rumori cittadini. Gabo mi tese la mano con un grande sorriso. Ola, primo! mi disse, passandomi un braccio attorno al collo. Mi sentii subito a mio agio. Primo, cioé cugino si usa anche a Sassari per distinguere un amico da un semplice conoscente. L’arredo era spartano: un tavolino con sopra una macchina da scrivere e un grande posacenere colmo di mozziconi. Sulla moquette grigia del pavimento un gran numero di fogli attirò la nostra intenzione. Gabo si chinò, ne prese un fascio e disse, con tono desolato: É l’inizio del mio nuovo romanzo, ma non riesco a trovare il modo adatto. Alludeva a quello che si sarebbe chiamato L’autunno del patriarca. Mi porse una decina di fogli. Contenevano due inizi diversi, uno dei quali mi convinse di più. Glielo dissi e esposi anche quelle che mi sembravano le ragioni di quella preferenza. Tengo que pensarlo, mi disse e passammo a parlare d’altro. Quando uscì il romanzo trovai che il mio suggerimento era stato accolto. Mario era assai diverso. Alto, elegante, volto illuminato, modi signorili, affabulazione misurata ma avvincente, cultura vastissima e capacità critica, frutto anche delle sue frequentazioni internazionali. Contrariamente a Gabo, che confessava di sentirsi a disagio in Europa (un giorno in cui mi venne incontro in una strada di Roma, mi disse: “Suerte que estas tú, por que esta ciudad me da mareo”. E ciò nonostante conoscesse già Roma avendo frequentato per un anno il Centro sperimentale di cinematografia. Per tranquillizzarlo me lo portai a pranzo “da Carlo”, in Trastevere, Piazza San Giovanni della Malva), Mario si trovava perfettamente a suo agio in Europa, nel Regno Unito e, da ultimo, negli USA. Dava l’impressione di una grande sicurezza e di consapevolezza dei propri mezzi. Inutile dire che era affettuoso e leale con gli amici. Credo di poter dire che in virtù del forte senso di appartenenza si sentisse portatore di una grande responsabilità civile nei confronti del suo paese. Per questo, contrariamente ai più, non mi sorprese la sua, forse precipitata, candidatura alla Presidenza della Repubblica. Dipende da quel sentimento la delusione, forse anche lo shock che lo colpì, a causa della sconfitta e in particolare delle sue modalità. In una recente intervista apparsa sul “Corriere della sera” Vargas Llosa parla della sensazione di solitudine e di abbandono dei suoi concittadini, dalla quale dipese con tutta probabilità la decisione di lasciare il Perù e trasferirsi a New York con la famiglia. Ed è singolare che proprio a New York lo abbia raggiunto la notizia inaspettata del conferimento del Nobel. Quanto al Perù, occorre ricordare che si tratta di un paese andino, coi suoi altipiani, ma anche. caratterizzato da un’imponente presenza della selva ancora abitata da aborigeni irraggiungibili, con una capitale, Lima, opima e ricca di tradizioni architettoniche, lo splendido barocco coloniale è il suo vanto culturale e religioso che non hanno riscontro in nessun’altra capitale del subcontinente, aperta ai traffici intercontinentali attraverso il porto del Callao. Si pensi al barocco coloniale limegno e a Santa Rosa da Lima, uno dei mistici di maggiore spiritualità e intensità che la chiesa cattolica annoveri nel pur lungo elenco dei suoi mistici. Santa Rosa è anche una scrittrice affascinante, i suoi testi sono un documento unico per sincerità e carnalità. Il Perù è anche il paese che ha conosciuto una delle più straordinarie civiltà, quella degli Inca, distrutta con l’inganno e con la più cinica violenza dal conquistador Francisco Pizarro e dai suoi capitani, fra i quali Diego de Almagro, squartato per ordine di Pizarro, e di Pedro de Valdivia, che porterà a conclusione la conquista dell’Arauncania nella quale aveva fallito Diego de Almagro, cantata criticamente ne La Araucana, dal grande poeta epico spagnolo Alonso de Ercilla y Zuñiga. Dell’impero degli Inca conosciamo la storia e i segreti attraverso il romanzo epico-elegiaco Comentarios reales, concluso nel 1610, di un altro scrittore straordinario, Garcilaso de la Vega detto El Inca, ritenuto non del tutto impropriamente l’ultimo erede dell’impero, morto dopo un lungo e dorato esilio nel paese di Montilla in provincia di Cordoba, in Spagna. Il barocco di Garcilaso esercitò una forte influenza su scrittori spagnoli del calibro di Tirso de Molina e Calderón de la Barca. È assolutamente corretto affermare che il Perù è, insieme al Messico degli Azteca e dei Mexica, il paese nel quale, a oltre 400 anni dalla fine di quegli imperi, quello nel quale il trauma collettivo e individuale della Conquista non è stato ancora superato o rimosso. Basta essere stati anche un sol giorno a Lima o a Trujillo, a Città del Messico o a Cholula per rendersene conto. Gli Archetipi e i Miti prodotti dalla cultura incaica gravitano ancora e sono percepiti come attivi e capaci di influenzare i comportamenti fondamentali della popolazione indigena e da quanti, entrati in stretto contatto con essi, avvertono l’estrema difficoltà di inserirsi pienamente nella civiltà creola. La tragica vicenda umana del grande narratore J. M. Arguedas è emblematica della frattura che può verificarsi anche in un criollo fino a condurlo al suicidio. Il Perù è anche il paese nel quale il problema indigeno ha provocato la nascita di un movimento e di una cultura “indigenista” che ha ispirato numerosi scrittori romantici come Ricardo Palma, popolare autore delle Tradiciones peruanas e M. Gonzáles Prada, romantico ma con forti connotati realisti, che il maggior intellettuale e politico del Perù del XX secolo José Carlos Mariategui, definì “Il precursore della transizione dal periodo coloniale al periodo cosmopolita”, che fra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX ha caratterizzato la vita politica, culturale e letteraria del Perù, e al quale proprio Mariategui ha dedicato uno dei più acuti dei suoi Sette saggi della realtà peruana. E non è da sottovalutare il fatto che un segretario di Mazzini, Emilio Sequi, rifugiatosi a Lima dopo la sconfitta della Comune di Parigi, vi aveva fondato e diretto per un certo tempo “La voce d’Italia”. Quanto a Gonzáles Prada e alla disponibilità della cultura peruviana ad aprirsi agli influssi di altre letterature, è sua la seguente esternazione: “Abbandoniamo le stampelle dell’infanzia e cerchiamo in altre letterature nuovi elementi e nuovi impulsi. Allo spirito di nazioni ultramontane e monarchiche preferiamo lo spirito democratico del secolo”. Significava un invito a non guardare più alla Spagna, ma alle altre nazioni europee repubblicane e comunque democratiche. Per quello che i peruviani hanno soprannominato l’Amauta, in lingua incaica “il pilota”, la guida, l’Incaismo era “la fonte del nostro passato storico”. Se ne fecero interpreti, in misura e in modi diversi, due poeti della statura di J. M. Eguren e di Cesar Vallejo, entrambi di Trujillo e non pochi altri. È del tutto legittimo supporre che uno scrittore della cultura di M. Vargas Llosa ne sia stato fortemente influenzato, sia pure da una prospettiva come quella dalla quale può guardare la “realtà peruana” uno scrittore della seconda metà del XX secolo e degli inizi del terzo Millennio. La cultura peruana nelle sue componenti incaica, indigenista, romantica, estetizzante e cosmopolita costituisce indubbiamente il background del narratore nel quale convivono la vastità di un autore universale e un forte sentimento identitario e di appartenenza. Credo che il lettore italiano della sua vastissima opera non possa non tener conto dell’influenza che taluni autori italiani possono aver contribuito più o meno direttamente alla sua formazione. Il merito fu principalmente di Abrahám Valdelomar, dannunziano entusiasta. Scrisse di lui Mariategui: “Da quel creolo sveglio, pagano e visibilmente pagano che era, si sentì conquistato fin dal primo istante del gesto trionfale, olimpico di D’Annunzio... Lo sbalordiva quanto Il Fuoco, il fatto che il poeta calvo sfidasse le folle dei teatri quando non applaudivano i suoi drammi moderni, o si bagnasse come un efebo, in mezzo a una schiera di ninfe fiorentine. E quando torno in Perù, insieme a una bella collezione di cravatte, pigiami di seta e profumi, ne portava un’altra di pose altisonanti, ma anche una corrente inesauribile del più delicato lirismo”. Insieme a D’Annunzio, Carducci, Papini, Ada Negri, Annie Vivanti il Premio Nobel sardo G. Deledda. Quanto agli altri, come Moravia, Vittorini, C. E. Gadda, Pavese, Calvino, la loro diffusione nel mondo occidentale è avvenuta tramite le grandi case editrici e i loro corrispondenti nei vari paesi. É difficile negare l’interesse non superficiale che essi hanno suscitato fra gli intellettuali e gli scrittori della seconta metà del XX. In un’intervista resa a M. Lunetta per la rivista Aut a Roma nel 1973, Vargas Llosa dichiara di aver letto Gramsci, “l’autore italiano più tradotto e più letto in America latina”. Ho avuto occasione di parlare a lungo dell’influenza italiana su alcuni autori latinoamericani, a Santiago, ospiti entrambi di Matilde Urrutia vedova di P. Neruda e con Margot, la sola e ultima cantante nella lingua degli aborigeni dell’Isola di Pasqua, con Matilde Ladrón de Guevara, scrittrice, amica e biografa del Nobel Gabriela Mistral, moglie dello scrittore peruviano J. M. Arguedas, la quale visse la tragedia del grande scrittore, prima di legarsi al grande poeta cileno, sconosciuto da noi insieme a tanti altri, Jorge Tellier, l’indimenticato autore del “Para un pueblo perdido”, italianizzante anche lui, ammiratore Dino Campana, di U. Saba, di Montale, di Quasimodo. Oltre che di Gramsci. Era sua convinzione che numerosi autori italiani avevano trovato attenti lettori non solo nei due scrittori che essa aveva conosciuto intimamente, ma più in generale fra quelli argentini, cileni e peruviani. Non mancano, tuttavia, in America latina gli esempi: contrari. Il più clamoroso, anche se non unico, è Borges. Lettore vorace e inesausto, autore astutissimo e inafferrabile, oltre che agli autori inglesi da Shakespeare a Carlyle, da Blake a Stevenson, a Kipling, Conrad, Chesterton, nella sua biblioteca ideale aveva riservato un posto speciale a Dante Alighieri, la cui scoperta diceva di dovere a Carlyle, appunto, da un libro del quale aveva appreso l’esistenza di quei “tre libricini” che sono le tre Cantiche della Divina Commedia. Per Borges la Divina Commedia è l’unico libro nel quale “l’universalità” e il “particolare” si fondono in una completa unità formale e sostanziale, quella che egli stesso avrebbe voluto raggiungere. Ciò non vuol dire che Dante, il tanto amato e “inquisito” Dante, sia stato uno dei suoi modelli, e tanto meno che Borges abbia mai cercato modelli nell’area italiana. Per quanto avesse una conoscenza non del tutto superficiale della nostra letteratura, oltre a essere modesta essa è sicuramente datata. De Sanctis, Croce, Momigliano sono le sue guide, alle quali riserva giudizi lusinghieri. A Croce, in particolare, del quale disse: “Forse non sono d’accordo, ma lo amo, lo sento come un amico”. Quanto agli altri autori, l’elenco è significativo ma assai limitato, Petrarca, Ariosto, Marinetti, D’Annunzio, forse Montale. Il suo rapporto con la nostra cultura era mediato da concetti più retorici che storici: la romanità, l’impero, l’Italia e Roma, il centro, l’Europa, dalla quale lo scrittore argentino si aspettava tutto, mentre dichiarava di non aspettarsi niente dalla periferia. Per quanto non originale e, dopo duemila anni abbastanza peregrina, quell’idea suona certamente paradossale in bocca a uno scrittore che non ha perduto occasione per affermare e ribadire la sua argentinità. La contraddizione, ancorché palese, è stata sempre rifiutata da Borges, contraddiceva apertamente anche il senso della letteratura ispanoamericana di questo secolo, impegnata vittoriosamente a negare qualunque perifericità e subalternità rispetto alla Metropoli, al Centro, all’Europa. E per tornare a Vargas Llosa. Non è certo possibile individuare nella sua opera narrativa tracce di un’influenza diretta degli autori italiani che ho citato. Ma è innegabile che proprio lui si è formato nella temperie innovatrice della narrativa europea, non diversamente dal grande narratore argentino Julio Cortazar, che lo riconosceva ampiamente, con l’onestà intellettuale che lo caratterizzava. Quel debito va risarcito col riconoscimento da parte dei migliori e dei più innovativi autori italiani di un debito altrettanto significativo nei confronti della narrativa latinoamericana. Chi lo negherebbe rispetto a narratori come Borges, Cortazar e García Márquez? A questo punto è lecito chiedersi se la definizione di Balzac, “Il romanzo è la storia privata della nazione” conviene anche al romanzo latinoamericano? Di quale “nazione” sono figli il maya- guatemalteco M. A. Asturias, l’anglo-argentino Borges, il colombiano García Márquez, abitante di due città al limite dell’immaginario come Tarapacá e Macondo, l’abitante degli altipiani peruviani Manuel Scorza, il criollo cosmopolita M. Vargas Llosa, il messicano azteca-meschica O. Paz, il cileno santiaguino-parigino Juan Emar? In quali paesi del subcontinente la “nazione” coincide con lo “stato”? Forse è squisitamente eurocentrico pretendere che il romanzo latinoamericano coincida con le categorie del naturalismo, del realismo, del romanticismo, dell’erotismo, della recherche, dell’intimismo, del surrealismo, del noir. Si apre qui un campo di ricerca che abbraccia immense superfici nelle quali la foresta occupa grandi spazi inesplorati, abitati da decine di tribù di aborigeni, protagonisti di quell’originalissimo romanzo che è Il narratore andante, ancora quasi irraggiungibili, milioni di persone che parlano una quantità di lingue non ancora censite (l’Università di Cholula, Messico, ne avrebbe individuate alcune centinaia) difficilmente riconducibili a “dialetti” e invece espressione di civiltà e di culture ancora largamente insondate, produttrici di miti e di archetipi operanti nell’inconscio individuale e collettivo, che la psicologia e la psicoanalisi europea si sono rivelate insufficienti ad esplorare. E, per riprendere un titolo gidiano, di quali “nutrimenti terrestri” sono il prodotto l’immaginario e la ragione dei poeti, dei narratori, degli artisti plastici, dei saggisti, ai quali bisognerà pure riconoscere un posto e un ruolo non necessariamente contrastanti con quello degli operatori citati? Tentarne un inventario sarebbe impegno straordinario che condurrebbe ad incontrarsi coi grandi naturalisti spagnoli, ma anche italiani, del XVI e del XVII secolo, come il dottor F. Fernández, medico di Filippo II e da lui inviato in Messico per studiarne la geografia e la natura, e l’Aldrovandi, bolognese, che infiammarono la curiosità del principe Cesi, fondatore dell’Accademia dei Lincei e lo stesso G. Galilei, anche sulla scorta delle descrizioni di Colombo, Pigafetta e Amerigo Vespucci. E però anche con un viaggiatore come Alexander Humbolt, tutt’altro che un passivo classificatore, Come è innegabile – e non potrebbe essere diversamente! – l’influenza predominante dei modelli spagnoli. Basti pensare ai romanzi di cavalleria che, nonostante la proibizione assoluta della Chiesa – coloro che andavano “a conquistar y poblar” – in base all’accettazione di quel presupposto la “Casa de la contractacción” di Siviglia, a lungo diretta dal navigatore e uomo di fiducia dei banchieri Medici, Amerigo Vespucci. A quei modelli si aggiungono quelli provenienti dagli altri paesi europei, a partire dalla Francia illuminista, razionalista e romantica. I principi della Rivoluzione francese dell’89 illuminarono le lotte per l’indipendenza che i Paesi del continente latino americano condussero sotto la guida dei grandi “libertadores”: Bolivar, O’ Higgins, Martì per citare i più noti, come testimonia la presenza del “cappello frigio” in un buon numero degli stemmi dei vari Stati. Né può essere trascurata l’influenza italiana soprattutto in paesi come l’Argentina, il Perù e il Cile, non solo per la presenza di un gran numero di emigrati italiani ma anche per l’importazione di modelli italiani da parte di intellettuali frequentatori di Paesi come la Francia e l’Italia, soprattutto, tra la fine dell’800 e le prime decadi del‘’900. Ma si deve a J.C. Mariategui, giornalista prima, saggista e politico dopo (si deve a lui la fondazione del Partito Socialista Peruviano), che soggiornò per alcuni anni in Italia, a Roma principalmente, dove conobbe A. Gramsci, e a Torino dove frequentò Piero Gobetti, fu anche un analista acutissimo della situazione italiana. Vide la nascita del PC d’I., quella del Partito cattolico di Don Sturzo e del fascismo mussoliniano del quale denunciò, fra i primissimi, la natura di dittatura di classe. La sua analisi si spinse sino ad indagare la natura del divismo, fenomeno nuovo indotto più che dal teatro, dal cinema. E quanto alla sua complessiva esperienza italiana, valga quanto da lui affermato in una delle sue Lettere dall’Italia (a cura di I. Delogu, Editori Riuniti, Roma 1973): “Dall’Italia ho preso una moglie (la senese Anna Chiappe) e molte idee” Se letti nella loro successione diacronica, com’è necessario, romanzi come La città e i cani, Pichula Cuellar, Conversazioni nella Cattedrale, La casa verde Pantaleon e le consolatrici, La zia Giulia e lo scribacchino – per non citare che quelli della ‘prima’, ma lunga epoca della sua narrativa – configurano per Vargas Llosa una sorta di autobiografia indiretta. Sulla presenza e sul ruolo dell’autobiografismo non si finirà mai di discutere. Quando esso non è semplicemente autoreferenziale e narcisistico, non si vede come la scrittura possa farne a meno. D’altro canto, il Bildung roman è da secoli non solo una realtà nella letteratura europea, ma ne costituisce uno dei nuclei forti. L’inquisizione di sé e dell’altro è il fondamento della nostra narrativa e non si vede come se ne potrebbe prescindere. Insieme alla deriva saggistica, richiamata da ultimo dal grande Saramago, essa ne costituisce la sostanza In Vargas Llosa essa ha un andamento carsico, per così dire, ma non percepirne la presenza sia quando scorre sotterranea sia quando ritorna prepotentemente in superficie, sarebbe un errore gravissimo. Che poi essa assuma forme spesso distanti da quelle proprie della letteratura europea, risponde alle diversità storiche, climatiche e antropologiche dei paesi dell’America latina. Quanto alla biografia immaginaria essa completa o potenzia la biografia reale mettendone in evidenza oltre gli aspetti migliori, i lati più oscuri, quelli inconfessabili o sgraditi a se stessi e agli altri. Senza di essa, e senza stabilire rapporti meccanici da causa ad effetto, sarebbe estremamente difficile, oltre che abbandonata all’intuizione soggettiva dello storico e del critico, ricostruire la personalità dell’autore. Occorre naturalmente che il narratore interiorizzi pienamente la parte immaginaria della propria biografia, come dettato dall’etica della fiction e del narratore. È in questo quadro o meglio in questa cornice, che va letto l’autobiografismo di Vargas Llosa, che rivela la sua profonda lealtà verso il reale, senza rinunciare alla piena autonomia della fiction, sulla quale si fonda l’autonomia della novela o nouvelle. quella che lo ha liberato da ogni soggezione esterna consentendogli di uscire dagli antichi limiti di genere. L’assegnazione del Nobel non esime lo scrittore peruviano dal confermare le sue qualità e il suo impegno nelle prove che lo attendono e che i suoi lettori aspettano.