commento eternit_Layout 1 - Associazione Ambiente e Lavoro
Transcript
commento eternit_Layout 1 - Associazione Ambiente e Lavoro
Approfondimenti ETERNIT: PROCESSO BIS O NUOVO PROCESSO? NE BIS IN IDEM PROCESSUALE E PRINCIPI CEDU di Bruno Giordano* e Cecilia Valbonesi** Un secondo o un nuovo processo per le vittime dell’Eternit? L’annosa vicenda giudiziaria relativa alle nefaste conseguenze dell’uso industriale dell’Eternit si arricchisce di un ulteriore capitolo che sembra costituire una battuta d’arresto nel già complesso percorso di accertamento delle responsabilità. Con una recentissima pronuncia, il Giudice per le indagini preliminari di Torino ha accolto la richiesta avanzata dai difensori dell’imputato Stephan Ernst Schmidheiny di rimettere alla Consulta la decisone sulla costituzionalità dell’art. 649 c.p.p., che sancisce il principio del ne bis in idem processuale, ovvero il divieto di essere sottoposti ad un secondo procedimento penale per fatti che siano già stati oggetto di un processo ormai conclusosi. In particolare, come emerge chiaramente dal corredo giurisprudenziale offerto dall’ordinanza in commento, sussiste un potenziale conflitto fra l’art. 649 c.p.p. così come interpretato in modo univoco dalla giurisprudenza di legittimità ed il portato dell’art. 4 Prot. 7 della CEDU. Il giudice, ritenendo di non potersi discostare in via interpretativa dal suddetto orientamento e parimenti valutando insussistente la necessità di adire la Corte di Giustizia dell’Unione Europea in ordine alla questione interpretativa pregiudiziale dell’art. 50 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (che sancisce il principio del ne bis in idem), ha sollevato la questione di costituzionalità dell’art. 649 c.p.p. per violazione dell’art. 117 Cost.. Si è evidenziato infatti come “il divieto di doppio giudizio sancito dall’art. 649 c.p.p. ha, nell’ordinamento processuale italiano, un ambito di applicazione limitato ai casi in cui si riscontri la coincidenza di tutti gli elementi costitutivi del reato e dei beni giuridici tutelati, non operando invece il divieto in presenza del mero accertamento della coincidenza dei fatti storici oggetto delle successive differenti imputazioni che siano state formalizzate ed esaminate nei due distinti procedimenti”. Sotto questo profilo la legge italiana si porrebbe in contrasto con la disciplina CEDU - così come interpretata dalla Corte di Strasburgo - la quale costituisce parametro interposto di costituzionalità ai sensi dell’art. 117 Cost. L’ordinanza in commento si colloca nel contesto del secondo processo a carico di Stephan Ernst Schmidheiny che, nella sua qualità di “effettivo responsabile della gestione della società Eternit S.p.a. esercente gli stabilimenti di lavorazione dell’amianto siti in Cavagnolo, Casale Monferrato, Napoli Bagnoli, Rubiera ed effettivo responsabile della gestione delle società” nei periodi indicati nel capo di imputazione, avrebbe cagionato con coscienza e volontà ed in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, “la morte di 258 fra tra lavoratori operanti presso i predetti stabilimenti, familiari degli stessi e cittadini residenti nelle zone limitrofe tali stabilimenti”. La contestazione di omicidio doloso plurimo aggravato ai sensi degli artt. 81 comma 2, 575, 577 comma 1 n.2 e 4 e 61 n.1 c.p., si fonda su numerosi profili puntualmente evidenziati dall’accusa che qui sono così compendiabili: 1. L’imputato, pur consapevole del nesso eziologico fra l’esposizione all’amianto e l’insorgenza delle malattie polmonari, anche cancerogene, non riteneva di investire sufficienti risorse economiche per fronteggiare simile rischio ed anzi consentiva che negli stabilimenti di sua proprietà permanesse una condizione di polverosità da amianto enormemente nociva sia per i lavoratori che per la popolazione locale; 2. Lo Schmidheiny dunque, “per mero fine di lucro” decideva di continuare le attività negli stabilimenti senza apportare le dovute modifiche ed anzi risparmiava sulle spese necessarie ad una “radicale revisione degli impianti e delle procedure di lavoro, con il consapevole e voluto risultato che le fibre di asbesto continuarono a disperdersi abbondantemente nelle fabbriche e negli ambienti di vita … e determinarono tra lavoratori e cittadini una epidemia dilatata nel tempo di patologie” delle quali l’imputato conosceva la gravità e la diffusività; 3. Inoltre, allo Schmidheiny si rimprovera non soltanto l’omissione totale di tutte le cautele tecnico - organizzative prescritte per la gestione industriale dell’amianto, ma altresì il compimento di una volontaria opera di disinformazione nei confronti della collettività, resa falsamente edotta dell’adozione di misure prevenzionistiche idonee al contenimento del rischio. Pertanto, all’imputato sono contestate le aggravanti del compimento della condotta per mero fine di lucro e con mezzo insidioso “in quanto ometteva l’informazione a lavoratori, familiari e cittadini circa i rischi specifici derivanti dall’amianto e circa le misure per ovviare a tali rischi e promuoveva la sistematica e prolungata opera di disinformazione … in guisa da rendere più difficile per le vittime la difesa”. * Magistrato della Corte di Cassazione – Ufficio del Massimario f.r. Professore di Diritto della Sicurezza del Lavoro, Università degli studi di Milano. ** Dottore di ricerca in Diritto Penale, Università di Firenze Rivista Ambiente e Lavoro 2015 1 Approfondimenti Questo nuovo processo segue ad una precedente vicenda giudiziaria a carico dello stesso imputato in relazione alla quale la Corte di Cassazione si è pronunziata in via definitiva il 19 novembre 2014. In quella sede, la Suprema Corte, chiamata a decidere sulla responsabilità in ordine al reato di disastro doloso1 ex art. 434 c.p. ne aveva dichiarato l’estinzione per prescrizione, affermando come il disastro innominato si fosse consumato al momento in cui le polveri di amianto avevano raggiunto la massima concentrazione nell’ambiente, ossia alla chiusura degli stabilimenti. La scelta processuale di ascrivere all’imputato una responsabilità per disastro ambientale (sub specie di disastro innominato) è da ricondursi alle difficoltà probatorie che possono riscontrarsi nel diverso caso in cui le condotte vengano sussunte, come nell’odierno processo, nella fattispecie di omicidio volontario che richiede il complesso accertamento dei singoli rapporti di causalità tra l’esposizione all’amianto e l’insorgenza delle patologie asbesto-correlate. ’imputazione oggettiva del reato di cui all’art. 434 c.p. aveva imposto invece la verifica della c.d. causalità generale, dimostrata sulla base di evidenze di natura epidemiologica, fondate sul significativo aumento dell’incidenza delle malattie asbesto-correlate tra i soggetti esposti all’amianto. Al rigurado, i difensori dell’imputato evidenziano come i fatti posti a carico dell’imputato nel primo processo conclusosi con l’assoluzione in via definitiva siano i medesimi dell’odierna cognizione, ancorché ora qualificati sotto un diverso nomen iuris. Infatti, secondo la difesa, le condotte sarebbero state commesse negli stessi luoghi e periodi temporali ed il contenuto della condotta omissiva, in precedente sussunta nelle fattispecie di cui agli artt. 437 e 434 c.p., sarebbe confluita nell’odierno capo di imputazione. Non solo, ma nel primo processo le condotte omissive erano aggravate dalla malattia e dal decesso di duemila persone, 186 delle quali risultano indicate quali vittime nell’attuale vicenda giudiziaria. Il rilievo in ordine alla sussistenza della violazione del principio del ne bis in idem processuale si incentra sulla latitudine interpretativa conferita alla nozione di “medesimo fatto” sulla quale insiste la portata preclusiva dell’art. 649 c.p.p.. Come evidenziato dall’ordinanza in commento, infatti, vi sarebbe una difformità fra la connotazione offerta da una consolidata giurisprudenza di legittimità e l’indirizzo offerto dalla Corte di Strasburgo con riferimento al medesimo principio enunciato all’art. 4 Par. 7 CEDU. Ecco che, per una più puntuale comprensione della questione giuridico - interpretativa sottesa all’ordinanza in esame, giova qui di seguito approfondire, se pur senza pretesa di completezza, taluni aspetti di centrale importanza che attengono: 1. Alla disciplina del principio del ne bis in idem nell’ordinamento italiano; 2. Al contrasto formatosi fra la giurisprudenza della Suprema Corte e della Corte di Strasburgo; 3. Alla rilevanza assunta dalla CEDU nel nostro ordinamento. Infine si darà conto anche delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle difese e non accolte dal giudice remittente. Il principio del ne bis in idem processuale Il GUP di Torino rimette alla Consulta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. in ordine alla sua compatibilità con l’art. 117 Cost. in relazione all’art. 4 Prot. 7 CEDU. L’art. 649 c.p.p, che sancisce nel nostro ordinamento il principio del ne bis in idem processuale, e dispone: “1. L’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado e per le circostanze, salvo quanto disposto dagli artt. 69 comma 2 e 345; 2. Se ciò nonostante viene di nuovo iniziato procedimento penale, il giudice in ogni stato e grado del processo, pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo”. Per comprendere la portata del divieto in esame occorre muovere dalla nozione di cosa giudicata. L’art. 111 comma 7 Cost. afferma, infatti, che avverso ogni sentenza di proscioglimento o condanna è possibile per il pubblico ministero come per l’imputato, proporre impugnazione quanto meno innanzi alla Corte di Cassazione. Nei tempi e nei modi previsti dalla legge, è prevista la possibilità di proporre appello. Se per l’esaurimento dei mezzi di impugnazione previsti dalla legge o per l’inerzia delle parti la sentenza diviene inoppugnabile, la decisone sul fatto storico attribuito all’imputato non è più modificabile poiché il potere di accertamento conferito al giudice risulta ormai estinto2. In ragione di una stringente esigenza di certezza dei rapporti giuridici (nonché di ragionevole durata, efficienza ed economia processuale), infatti, quando il giudice si sia già pronunziato in modo ormai immodificabile, si ritiene che la sentenza irrevocabile abbia “autorità di cosa giudicata”. Il giudicato ha peraltro un duplice effetto: preclusivo e vincolante. Se quest’ultimo impone agli altri giudici di ritenere vero il fatto accertato3, l’effetto preclusivo comporta che l’imputato prosciolto o condannato non possa essere sottoposto ad un nuovo procedimento penale per lo stesso fatto storico. Ove un pubblico 1 Il reato di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro ex art.437 c.p. era stato dichiarato estinto per prescrizione dalla Corte d’Appello di Torino con sentenza del 3 giugno 2013. 2 TONINI, Manuale di procedura penale, Milano, 2014, p. 913 3 Nel contesto della giustizia penale il valore vincolante del giudicato importa l’immodificabilità dell’accertamento della sussistenza del fatto illecito e della responsabilità dell’imputato, mentre nel giudizio civile ed amministrativo la sentenza irrevocabile ha efficacia vincolante nei soli casi previsti dalla legge (artt. 651-644 c.p.p.) 2 Rivista Ambiente e Lavoro 2015 Approfondimenti ministero inizi un nuovo procedimento per il medesimo fatto ascritto allo stesso imputato il giudice ha l’obbligo di pronunciare sentenza di non luogo a procedere (in udienza preliminare) o di proscioglimento per improcedibilità (in dibattimento). Il principio del ne bis in idem processuale4 è comune a tutti gli ordinamenti giuridici continentali ed angloamericani (divieto di double jeopardy). Nell’ordinamento italiano la preclusione dettata dal ne bis in idem è legata alla presenza come imputato nel secondo giudizio di un soggetto già condannato o prosciolto in via definita, al quale viene contestato il medesimo fatto oggetto della precedente imputazione, ancorché diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze. Il principio del ne bis in idem si fonda dunque su un duplice presupposto, soggettivo ed oggettivo. Quanto al primo, esso risiede, come facilmente intuibile, nell’identità fra la persona già giudicata e colui che si vorrebbe sottoporre a nuovo giudizio. Giova peraltro precisare che possono essere sottoposte a processo penale persone diverse dall’imputato alle quali è attribuita la commissione di un fatto su cui è già intervenuto il giudicato. Allo stesso tempo, colui il quale ha assunto le vesti di imputato in un procedimento penale conclusosi in via definitiva, può essere sottoposto a processo per lo stesso fatto storico come responsabile civile o civilmente responsabile per la pena pecuniaria5. Per vero, il giudicato penale formatosi in relazione ad un imputato per un determinato fatto non vincola il giudice chiamato ad accertare i fatti con riferimento alle responsabilità di altri imputati. La ratio di garanzia che sorregge il principio del ne bis in idem esplica i suoi effetti solo nel caso in cui vi sia identità fra i soggetti coinvolti nei processi: pertanto l’accertata responsabilità di un soggetto ben potrà incidere sulla valutazione del grado di responsabilità del concorrente imputato nel nuovo procedimento. Quanto al presupposto oggettivo, esso risiede nel “medesimo” fatto storico: medesimo, non identico, perché il principio del ne bis in idem opera anche quando il fatto storico sia rappresentato secondo modalità spazio – temporali differenti, ovvero “per il titolo, per il grado o per le circostanze”. Se il titolo è la definizione giuridica del fatto, il grado è la minore o maggiore gravità concreta del fatto; infine, le circostanze sono quegli elementi che aggravano o attenuano il reato o che si riferiscono alla persona del colpevole. Centrale, risulta la nozione di medesimo fatto: la giurisprudenza lo ritiene configurabile solo in presenza di una identità di condotta, evento e rapporto di causalità. Questi elementi, come vedremo, possono essere intesi non solo in una prospettiva storico – naturalistica, ma anche in quella giuridica, quali elementi espressivi di una medesima offesa. Quando un elemento fra condotta, evento e nesso di causalità risulti diverso si ritiene possibile instaurare un nuovo procedimento penale a carico dello stesso imputato. Peraltro, per espressa disposizione legislativa il ne bis in idem non opera in caso di sentenza che abbia dichiarato estinto il reato per morte dell’imputato, quando si accerta che la morte è stata erroneamente dichiarata e neppure nel caso in cui la sentenza abbia prosciolto l’imputato per difetto di una condizione di procedibilità quando essa sopravenga successivamente. È altresì opportuno nell’economia di questa breve trattazione richiamare la disciplina del ne bis in idem in rapporto al concorso formale di reati. Quando si verifica un concorso formale di reati per la violazione di precetti penali distinti, perpetrata attraverso la stessa condotta, si ritiene che non operi la preclusione di cui all’art. 649 c.p.p. poiché il giudicato formatosi con riferimento ad uno degli eventi cagionati non impedisce l’esercizio dell’azione penale con riferimento all’altro. Entrambe le incriminazioni sanzionano una parte dell’offesa cagionata dalla medesima condotta e sono pertanto entrambe necessarie alla repressione del fatto storico antigiuridico. Per vero, perché l’effetto preclusivo rimanga inerte, la giurisprudenza si richiede che il giudizio sul secondo evento sia compatibile logicamente con il primo (il quale, ad esempio, non potrebbe essersi concluso con una sentenza di assoluzione per insussistenza del fatto). L’interpretazione interna e convenzionale del principio del ne bis in idem: i profili salienti del contrasto. Il contrasto prospettato dal giudice remittente si appunta sulla diversa portata applicativa del principio del ne bis in idem conferita dalla giurisprudenza interna con riferimento all’art. 649 c.p.p. e dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo in relazione all’art. 4 Prot. 7 CEDU6. Il giudice remittente muove dalla considerazione secondo la quale nel nostro ordinamento il divieto del doppio giudizio non opera in caso di concorso formale di reati, ricordando come il delitto di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, aggravato dalla morte dei lavoratori, (art. 437 comma 2 c.p.) e il delitto di omicidio colposo (art. 589 c.p.), aggravato dalla violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro, possano costituire un concorso formale di reati quando 4 Che non deve essere confuso con il ne bis in idem sostanziale, principio di equità e certezza del diritto che, desumibile principalmente dall’art. 15 c.p. non consente di addebitare più volte lo stesso fatto allo stesso autore. Cfr. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2013, 482. 5 TONINI, Manuale, cit. p. 915 6 La disposizione recita: “1. Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato. 2. Le disposizioni del paragrafo precedente non impediscono la riapertura del processo , conformemente alla legge ed alla procedura penale dello Stato interessato, se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni o un vizio fondamentale nella procedura antecedente sono in grado di inficiare la sentenza intervenuta. 3. Non è autorizzata alcuna deroga al presente articolo ai sensi dell’art. 15 della Convenzione”. Rivista Ambiente e Lavoro 2015 3 Approfondimenti da un’unica azione (o omissione) scaturiscano più eventi penalmente rilevanti. Per vero, infatti, le due previsioni normative non solo hanno ad oggetto due diversi ambiti di tipicità (la prima, la dolosa omissione di misure antinfortunistiche cui consegue il disastro; la seconda, la morte non voluta di una o più persone), ma altresì trovano una diversa collocazione sistematica nel Codice in ragione del difforme bene giuridico protetto (pubblica incolumità e vita umana). Inoltre, le due fattispecie divergono quanto all’elemento soggettivo che sorregge la condotta (dolo e colpa). Questo principio, sancito per il concorso formale di reati, è stato oggetto di una notevole interpretazione estensiva: non sarà violato il principio del ne bis in idem quando la nuova norma contestata vada a sanzionare un fatto diverso rispetto a quello oggetto del giudicato poiché per fatto, come abbiamo visto, deve intendersi la compresenza dei tre elementi di condotta-evento e nesso di causalità. Attesa la non coincidenza fra evento in senso giuridico ed evento in senso naturalistico è ben possibile che la prima contestazione e decisone coprano solo un aspetto di questo evento e lascino spazio per la cognizione di quella parte di fatto (in senso giuridico) non coperta dalla prima norma incriminatrice applicata. Dall’esame delle numerose sentenze richiamate emerge chiaramente come la Suprema Corte sia “ancorata a valutazioni che non apprezzano affatto, in via prioritaria, in fatto storico”. Si delinea così una contrasto ermeneutico che vede la giurisprudenza di legittimità, ancorata saldamente all’adozione di un criterio interpretativo astratto, contrapporsi alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che privilegia l’adozione di una verifica in concreto, di tipo storico - naturalistico, in ordine al “medesimo fatto”. Con maggiore sforzo esplicativo, sulla scorta dei richiami giurisprudenziali offerti dall’ordinanza in esame, possiamo affermare che il criterio astratto, privilegiato dalla giurisprudenza nazionale, sembra funzionale a garantire una maggiore latitudine applicativa al principio sancito dall’art. 649 c.p.p.. La Suprema Corte, infatti, nel tentativo dei perimetrare il concetto di “stesso fatto giudicato” pone a “confronto gli elementi costitutivi dei reati, secondo la classica tripartizione di condotta- -evento –nesso di causa, con riferimento alle stesse condizioni di tempo, di luogo, di persona”7. La centralità del profilo astratto, legato alla valutazione in ordine agli elementi della struttura del reato, conduce la Suprema Corte ad affermare che la preclusione di cui all’art. 649 c.p.p. “opera solo in caso di corrispondenza biunivoca fra gli elementi costitutivi dei reati descritti nelle rispettive contestazioni, che vanno valutate anche con riferimento alle circostanze di tempo, di luogo e di persona”. Così, legando la nozione di fatto ad elementi di portata squisitamente giuridica (condotta, evento, nesso di causa) la Cassazione mostra di privilegiare un approccio che prescinde quasi totalmente dai profili di concretezza, finendo così “inevitabilmente per sovrapporre al fatto storico i concetti propri della descrizione del tipo legale”. L’analisi del fatto storico alla luce della fattispecie astratta, ovvero la proiezione sull’episodio storico – naturalistico delle categorie del fatto giuridico scomposto nel prisma dei suoi elementi costitutivi, incarna la cifra di fondo ed il criterio ermeneutico consolidato nella giurisprudenza nazionale, a tal punto che il giudice remittente ritiene di non potersene discostare in via interpretativa. Pur tuttavia, lo stesso giudice non può esimersi dal rilevare come siffatto criterio si discosti pienamente dal quel parimenti consolidato criterio “storico naturalistico” adottato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Come acutamente sottolineato dai primi commentatori della sentenza Grande Stevens ed Altri contro Italia8 (la quale richiama la fondamentale sentenza Serguei Zolotukhine contro Russia n. 14939/03 del 10 febbraio 2009), la Corte EDU sembra affermare che “al di là della qualificazione giuridica utilizzata nei procedimenti dei quali uno chiuso con il passaggio in giudicato e l’altro pendente, ciò che conta è confrontare le condotte specificamente poste in essere dai medesimi soggetti per verificarne la sovrapponibilità. La verifica positiva porterebbe alla dichiarazione della sussistenza del ne bis in idem”. Questo approccio interpretativo di matrice concreta, si contrapporrebbe al criterio ermeneutico astratto, del confronto fra le fattispecie tipiche, aprendo così “spazi di dissonanza rispetto ai canoni interpretativi ordinariamente accolti dalla giurisprudenza costituzionale interna e da quella anche recente delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione”.9 Il preconizzato contrasto si materializza oggi nell’ordinanza in commento che rimette alla Corte Costituzionale la decisone in ordine alla compatibilità dell’art. 649 c.p.p. con i principi CEDU, parametro interposto di costituzionalità alla luce dell’art. 117 Cost. La pronuncia del Giudice per le indagini preliminari di Torino costituisce a tal proposito una tappa fondamentale ed un indice significativo della rilevanza sempre crescente, nel nostro ordinamento, dei principi espressi dalla CEDU. 7 In questo senso Cassazione Sezioni Unite, n. 34655 2005. 8 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 4 marzo 2014, in proposito si veda CORTE DI CASSAZIONE – UFFICIO DEL RUOLO E DEL MASSIMARIO – SETTORE PENALE, Considerazioni sul principio del nebis in idem nella recente giurisprudenza europea: la sentenza 4marzo 2014, Grande Stevens ed altri contro Italia, Roma, 8 maggio 2014, p. 13 9 Ibidem, p. 14 4 Rivista Ambiente e Lavoro 2015 Approfondimenti La rilevanza dei principi CEDU nel nostro ordinamento. Cenni. Le ulteriori questioni sollevate dalle difese. Considerazioni conclusive. La remissione della questione alla Corte Costituzionale impone un cenno in ordine al rilievo assunto dalla CEDU nel nostro ordinamento. Secondo l’orientamento prevalente dettato dalla Corte Costituzionale, alla Convenzione dei Diritti dell’Uomo deve essere riconosciuta natura di “parametro costituzionale interposto” giacchè “il nuovo testo dell’art. 117 CEDU se, da una parte, rende inconfutabile la maggiore forza di resistenza delle norme CEDU rispetto a leggi ordinarie successive, dall’altra attrae le stesse nella sfera di competenza di questa Corte, perché gli eventuali contrasti non generano problemi di successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale …”.10 In quanto norma pattizia, la CEDU non rientra nell’ambito di operatività né dell’art. 10 comma 1, né del’art. 11 Cost. ma piuttosto nella disciplina dell’art. 117 Cost. come novellato dalla legge Cost. n. 3 del 2001 che condiziona l’esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni al rispetto degli obblighi internazionali tra i quali si annovera la CEDU. Le norme CEDU hanno pertanto una maggior forza di resistenza rispetto a quelle ordinarie e gli eventuali contrasti con il diritto nazionale sono risolti, come abbiamo visto, dalla Corte Costituzionale ove il giudice non possa operare una interpretazione conforme. Occorre dar conto peraltro di un indirizzo interpretativo che ha sostenuto l’intervenuta comunitarizzazione della CEDU, con tutte le conseguenze applicative che ne discenderebbero in termini di diretta applicazione delle disposizioni nel nostro ordinamento (art. 11 Cost.) e di obblighi per il giudice nazionale di disapplicare direttamente la norma interna ritenuta contrastante. La tesi muoveva dalla portata dell’art. 6 del Trattato di Lisbona il quale sancisce che “l’Unione aderisce alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati”. Tuttavia la dottrina maggioritaria, suffragata da una recente pronuncia della Corte Costituzionale11, ha respinto siffatta interpretazione sottolineando da un lato, come dal diverso rango attribuito alla Carta di Nizza discenda una interpretazione in senso restrittivo della portata della CEDU nel nostro ordinamento e dall’altro, come la consentita adesione dell’Unione alla CEDU non sia peraltro ancora avvenuta, rendendo così impossibile la diretta applicazione dei precetti. Le difese dell’imputato avevano chiesto al Giudice per le indagini preliminari di sollevare questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 157 u.c., 575 e 577 c.p. per violazione degli artt. 24, 27comma 3, 11 Cost. nonché per violazione degli art. 6 CEDU, 10 e 117 Cost. I difensori ritengono infatti che la possibilità offerta dall’art. 157 c.p. di perseguire oggi condotte commesse trenta – quarant’anni fa leda il diritto dell’imputato ad essere processato in tempi ragionevoli, il diritto a difendersi provando e contravvenga al principio della finalità rieducativa della pena. Il giudice respinge la richiesta di proporre questa ulteriore questione di legittimità costituzionale sottolineando come, nel caso in esame, si chieda l’accertamento della penale responsabilità in ordine all’insorgere di malattie polmonari la cui latenza si protrae per decenni. È dunque fisiologico che il processo si instauri all’insorgere della malattia o comunque nel momento in cui si ipotizzi la sussistenza di un nesso di causa fra la stessa ed una determinata condotta. Non vi sarebbero peraltro profili di incostituzionalità neppure con riferimento ai decessi più risalenti poiché da un lato, è rimessa alla discrezionalità del legislatore la determinazione dei tempi di prescrizione del reato e dall’altro, il carattere “pluridimensionale” della pena, caratterizzato da una finalità retributiva e preventiva, consente di ritenere meritevole di applicazione una sanzione ancorché irrogata a significativa distanza temporale dalla condotta. Peraltro, si ricorda come la Corte EDU nella sentenza ALIKAJ contro Italia (29 marzo 2011) abbia condannato l’Italia per la violazione dell’art. 2 CEDU, giacchè troppo brevi sarebbero i tempi di prescrizione che il nostro ordinamento riserva all’omicidio colposo. Così, anche ove non ritenga sussistenti gli invocati profili di contrasto fra la norma interna e la CEDU, il Giudice mostra una spiccata attenzione per le istanze provenienti dal diritto sovranazionale cui il nostro ordinamento deve armonizzarsi. In via di primo e superficiale commento, questa ordinanza segna certo una battuta di arresto nel complesso procedimento di verifica delle responsabilità legate alla triste vicenda dell’Eternit, ma le questioni giuridiche sollevate sembrano necessitate da una tendenza ormai consolidata (e costituzionalmente imposta) a ricercare una interpretazione del diritto nazionale che sia conforme ai principi sanciti dalla CEDU. La parola passa ora alla Consulta. 10 Corte Costituzionale, 24 ottobre 2007, n. 347 e 348. 11 Corte Costituzionale, 11 marzo 2011, n. 80. Rivista Ambiente e Lavoro 2015 5