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Cassazione penale, sez. II, 11 novembre 2009, n. 44720
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BARDOVAGNI Paolo - Presidente
Dott. ESPOSITO Antonio - Consigliere
Dott. DE CRESCIENZO Ugo - Consigliere
Dott. DAVIGO Piercamillo - Consigliere
Dott. CHINDEMI Domenico ā€“ Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
G.G., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza della Corte d'appello di Firenze, sezione 2^ penale, in data 3.4.2007.
Sentita la relazione della causa fatta, in pubblica udienza, dal consigliere Dott. DAVIGO
Piercamillo.
Udita la requisitoria del sostituto procuratore generale, Dott. D'AMBROSIO Vito, il
quale ha concluso chiedendo che il ricorso sia rigettato.
Fatto-Diritto
Con sentenza del 9.6.2005, il Tribunale di Pisa dichiarò G.G. responsabile del reato di cui
all'art. 81 c.p., art. 61 c.p., nn. 7 e 11, art. 56 c.p., art. 640 ter c.p., comma 2, (commesso in
(OMISSIS)) e - concesse le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti, con la
diminuente per il rito abbreviato - lo condannò alla pena di mesi 6 di reclusione ed Euro
600,00, di multa, pena detentiva sostituita con quella pecuniaria.
Avverso tale pronunzia l'imputato propose gravame e la Corte d'appello di Firenze, con
sentenza del 3.4.2007, in parziale riforma della decisione di primo grado, giudicate le
attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti, ridusse la pena inflitta a mesi 4 di reclusione
ed Euro 400,00, di multa sostituita la pena detentiva con quella pecuniaria.
Ricorre per cassazione il difensore dell'imputato deducendo:
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Giurisprudenza
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1. violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla qualificazione del fatto come frode
informatica anzichè quale truffa, sull'assunto che egli non avrebbe indotto in errore nessuno,
limitandosi ad artifizi informatici, ma in realtà questi avrebbero dovuto infine condurre ad una
decisione della società che avrebbe determinato una depauperazione del patrimonio sganciata
dal sistema informatico; illogica sarebbe la motivazione in punto di esclusione della
desistenza volontaria sull'assunto che l'appellante aveva già ottenuto la disponibilità dei titoli
che costituiscono da soli mezzi di pagamento e del bonifico; per giurisprudenza consolidata,
nel caso in cui la truffa si risolva nella consegna di un titolo di credito, la stessa si perfezione
al momento dell'incasso del titolo o lo stesso venga utilizzato come mezzo di pagamento; in
ogni caso la truffa è reato di danno; l'imputato avrebbe comunque spontaneamente interrotto
l'iter criminis attivato;
2. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza della
circostanza aggravante di cui all'art. 640 ter c.p., comma 2, per l'abuso della qualità di
operatore del sistema; tale aggravante da un lato sarebbe una duplicazione di quella di cui
all'art. 61 c.p., n. 11 e dall'altro sarebbe limitata al solo webmaster (gestore del sistema
informatico proprietario delle infrastrutture di rete); nessun argomento ha svolto in proposito
la Corte territoriale;
3. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al diniego della circostanza
attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 6, ritenendola erroneamente inapplicabile a tutte le ipotesi
di delitto tentato e non solo a quella del recesso attivo, benchè l'imputato, al quale non è stata
riconosciuta tale specifica attenuante, si fosse operato efficacemente e spontaneamente per
elidere le conseguenze pericolose della propria condotta; a meno che la motivazione non
implichi la ritenuta sussistenza del recesso attivo, di cui però è mancato il computo nella
determinazione della pena.
Il primo motivo di ricorso è infondato.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, il reato di frode informatica (art. 640 ter c.p.) ha la
medesima struttura e quindi i medesimi elementi costitutivi della truffa dalla quale si
differenzia solamente perchè l'attività fraudolenta dell'agente investe non la persona (soggetto
passivo), di cui difetta l'induzione in errore, bensì il sistema informatico di pertinenza della
medesima, attraverso la manipolazione di detto sistema.
Anche la frode informatica si consuma nel momento in cui l'agente consegue l'ingiusto
profitto con correlativo danno patrimoniale altrui. (Cass. Sez. 6^, Sentenza n. 3065 del
4.10.1999 dep. 14.12.1999 rv 214942). Nella specie l'agente, utilizzando il sistema telefonico
fisso installato in una filiale della società italiana per l'esercizio telefonico, con la veloce e
ininterrotta digitazione di numeri telefonici, in parte corrispondenti a quelli per i quali il
centralino era abilitato e in parte corrispondenti a utenze estere, riusciva ad ottenere
collegamenti internazionali, eludendo il blocco predisposto per le chiamate internazionali per
le quali il sistema non era abilitato, così esponendo debitoriamente la società italiana per
l'esercizio telefonico nei confronti dei corrispondenti organismi esteri autorizzati all'esercizio
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telefonico. In senso conforme V. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 4576 del 24.11.2003 Cc. dep.
5.2.2004 rv 227459).
Il fatto che la manipolazione del sistema informatico alla fine possa determinare il
compimento di un atto di disposizione patrimoniale da parte di una persona fisica non vale a
cambiare la natura del reato.
Del resto, nel caso sopra richiamato qualche persona fisica avrà pur pagato le fatture del
telefono, ma ciò non ha indotto questa Corte ad una diversa valutazione.
La differenza rispetto al reato di truffa consiste nel fatto che l'atto di disposizione patrimoniale
consegue alle risultanze informatiche, anzichè ad una diretta induzione in errore.
Nel caso in esame, secondo la ricostruzione operata dai giudici di merito, l'imputato, dopo
essersi appropriato della password rilasciata a M.M., responsabile del centro liquidazioni di
Pisa della Compagnia assicurativa Unipol, Manipolava i dati del sistema predisponendo false
attestazioni di risarcimento dei danni così facendo erogare Euro 672.703,00.
Correttamente pertanto il fatto è stato ricondotto alla fattispecie di cui all'art. 640 ter c.p..
La doglianza relativa alla desistenza volontaria è infondata quanto al bonifico, dal momento
che questo fu effettivamente effettuato sul conto della madre dell'imputato (sicchè, sotto tale
profilo e limitatamente al bonifico, il delitto avrebbe dovuto anzi essere considerato
consumato se non ostasse a ciò il divieto di reformatio in pejus). Ma anche riguardo ai titoli la
doglianza è infondata. A prescindere dal fatto che uno dei titoli non è stato restituito, secondo
la giurisprudenza di questa Corte, la desistenza deve essere volontaria.
La volontarietà della desistenza nel delitto tentato, ancorchè non si identifichi
necessariamente con la spontaneità (cioè con autentico pentimento), esige tuttavia una libera
scelta, nei motivi che determinano la volontà, tra la continuazione dell'attività intrapresa e la
sua cessazione.
Pertanto la desistenza non é volontaria quando sia dovuta all'intervento di fattori estranei che
rendano irrealizzabile la prosecuzione dell'attività criminosa, giacche in tal caso essa non e il
risultato di un processo psichico proprio del soggetto, ma e lo effetto di circostanze estranee
non dominabili dalla sua volontà. (V. Cass. Sez. 2^, sent. n. 2291 del 19.11.1969 dep.
10.9.1970 rv 115248: fattispecie, giudicata dalla Cassazione sotto il profilo della omessa
motivazione sulla ritenuta volontarietà della desistenza, in caso in cui l'imputato di tentativo
di truffa, per avere fatto una falsa denuncia di un sinistro alla società di Assicurazione, rilasciò
una dichiarazione nella quale ammetteva di avere esposto fatti non veri e di non avere diritto
ad indennizzo, dopo che il perito liquidatore aveva accertato che il sinistro si era verificato in
circostanze diverse da quelle denunciate ed escludenti la garanzia assicurativa. Conf. 111741,
anno 1969, ed ivi citate V 112079, 110918, anno 1969, ed ivi citate).
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Nel caso in esame, nella sentenza impugnata si da atto che le raccomandate erano state spedite
il 22.7.2003 e che erano state restituite decorsi trenta giorni. Peraltro l'imputato aveva avuto
notizia fino dal 6.2.2003 dell'avvio di verifiche nei suoi confronti.
Correttamente pertanto è stata esclusa la volontarietà della desistenza.
Il secondo motivo di ricorso è infondato.
Per operatore del sistema deve intendersi, nella ratio della norma chiunque, nell'ambito del
sistema informatico svolge una funzione dal cui abuso può derivare un'agevolazione nella
perpetrazione del reato.
Non vi è alcuna sovrapposizione (e quindi rapporto di specialità) rispetto alla circostanza
aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 11.
Infatti la prima aggravante riguarda la possibilità di accedere lecitamente al sistema, mentre la
seconda aggravante riguarda l'abuso di relazioni d'ufficio.
Del resto, nel caso in esame, l'imputato ha abusato delle relazioni d'ufficio quantomeno nel
procurarsi la password del responsabile del centro liquidazioni.
Eā€™ irrilevante il fatto che sul punto la sentenza di appello sia carente di motivazione, giacchè
ciò che integra il vizio è l'omessa motivazione in fatto e non quella in diritto (v. Cass. Sez. 4^
sent. 6243 del 7.3.1988 dep. 24.5.1988 rv 178442: "il vizio di motivazione rilevante ai fini
della nullità della sentenza ex art. 475 c.p.p., n. 3 è quello in fatto e non già quello in diritto,
nel senso che non può esservi ragione di doglianza allorquando la soluzione di una questione
di diritto, anche se immotivata o contraddittoriamente ed illogicamente motivata, sia
comunque esatta, mentre, viceversa, ove tale soluzione non sia giuridicamente corretta, poco
importa se e quali argomenti la sorreggano", resa sotto la vigenza del codice di procedura
penale del 1930, ma che non vi sono ragioni che impongano una diversa valutazione sotto il
vigente codice di rito).
Il terzo motivo di ricorso è infondato.
La Corte territoriale ha escluso che la circostanza attenuante di cui all'art. 62 n. 6 sia
configurabile in ipotesi di tentativo.
Ciò è errato dal momento che l'esclusione dell'aggravante riguarda soltanto l'ipotesi di cui
dell'art. 56 c.p., u.c., che nel caso di specie non è stato ritenuto sussistente.
Tuttavia, l'attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 6, seconda ipotesi, (l'essersi il colpevole
adoperato per elidere od attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato) non è
applicabile ai reati contro il patrimonio, per i quali l'attenuazione di pena esige l'integrale
risarcimento del danno patrimoniale o non patrimoniale da parte dell'imputato. (Cass. Sez. 2^
sent. n. 3698 del 16.5.1990 dep. 5.4.1991 rv 186758).
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Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Ai sensi dell'art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta il ricorso, l'imputato che lo ha
proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 novembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 20 novembre 2009
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