michele urrasio e “la metafora della parola”

Transcript

michele urrasio e “la metafora della parola”
MICHELE URRASIO
E “LA METAFORA DELLA PAROLA”
Credo sia necessario, giunti ormai alla settima raccolta di Michele Urrasio, riprendere il discorso che feci alcuni anni fa su un autore al quale mi legano
non solo antichi e saldi vincoli d’amore per la comune terra d’origine (entrambi
siam nati e cresciuti ad Alberona, in provincia di Foggia) ma soprattutto la convinzione della straordinaria qualità di questa poesia che, attraverso una strenua
passione di quasi un trentennio, sembra aver trovato risorse imprevedibili
nell’ordine dell’approfondimento della verità: per questo appare ardua e richiede pazienza critica.
Non è sicuramente, infatti, con poche rapide battute che possiamo illuderci di delimitare un’area lirica che esige tempo e spazio molto più ampi e di
riconoscere meglio quella che è stata e resta la funzione di Urrasio in una storia
come quella della poesia pugliese (e nazionale in senso lato) del Novecento, così
ricca di invenzioni e di soluzioni che superano di gran lunga il quadro particolare. Semmai va osservato che in quest’alveo Urrasio si è conquistato un posto
importante, subito dopo i grandi della generazione cosiddetta ermetica e postermetica (Fallacara, Comi, Carrieri ed altri poeti dell’area salentina), scoprendo
qualcosa che non era stato sufficientemente affrontato.
La metafora della parola si innesta direttamente sul tronco dell’ultima opera
poetica di Urrasio, Il segmento dell'esistenza (Foggia, Bastogi, 1983, con prefazione
di G. BARBERI SQUAROTTI), mostrando una maggiore scioltezza che peraltro non tradisce l’intensità e la complessità di quel tipo di vocazione: ci sono
ancora alcuni temi, alcune cadenze e ritmi che
141
costituivano la grande novità di quel libro, ma si ha ora l’impressione di una
maggiore trasparenza, di una più ricca libertà di movimento, e questo può essere facilmente spiegato e giustificato con il dato dell’urgenza, dell’ansia di fronte
ad avvenimenti sempre più incalzanti che conducono quasi inevitabilmente alla
catastrofe.
Si vuol dire, in fondo, che l’attuale sua “ripresa” poetica ma anche i vari
traguardi delle raccolte pubblicate in precedenza testimoniano di una tenace
fedeltà vincolata alla ratio e ci mostrano un poeta ben saldo nelle sue certezze;
egli, comunque, sembra essere di gran lunga più insidiato nelle sue speranze, più
esposto, più ansioso, più turbato di fronte ai mille segni di sommovimento e di
sconvolgimento del nostro tempo (poc’anzi abbiam parlato, forse esagerando
un pò di “catastrofe”). Alla dissipazione drammatica dei nostri giorni egli contrappone l’esigenza di una sintassi lucidamente organizzata, in cui la parola si
assesta nuda e certa, rispondendo anzitutto al bisogno d’impegnarsi, che equivale anche al suo contributo di certezza e di confronto.
Insomma, l’esigenza di chiarezza concettuale e morale, perseguitata per
alcuni decenni con tanta caparbietà da Urrasio, si è tradotta e realizzata in chiarezza espressiva, definitivamente, in questa Metafora della parola: il poeta si è reso
vigile contro ogni artificio formale e stilistico, mostrando amore per la frase
intera e distesa, il verso modellato, il periodo ritmico compiuto.
Con questa operazione si comprende non solo il valore del messaggio di
Urrasio ma anche il valore semantico della poesia in senso lato, suggerito proprio dal titolo, La metafora della parola appunto. Il linguaggio della poesia, si sa, si
fonda, strutturalmente parlando, su un meccanismo dotato di una duplice azione: posizione dello scarto e sua successiva riduzione. Ciò che si infrange con
tanta sistematicità nella poesia è solo il codice della comunicazione prosastica o
del linguaggio ordinario, che i linguisti chiamano “denotativo”, opposto a
quello “connotativo”, scaturito dalla soggettività e dall’affettività. La poesia segna la morte del linguaggio ordinario, per ricostruire col testo un universo di
significati su un piano superiore, grazie all’intervento della pura soggettività e del
suo principale strumento di manifestazione che è la “metafora”. Da qui si origina, secondo molti, l’improponibilità della poesia contemporanea sul piano
dell’esplicazione logica. La semanticità della parola sarebbe come sospesa tra
comprensione e incomprensione. Eppure la fede nella parola, in Urrasio come
in tanti altri validi poeti del nostro Novecento, tesa a scavare dura e pesante
come roccia
142
ma, nello stesso tempo, capace di divenire incorporea e di innalzarsi, è costante
ed infinita.
Non esiterei, per questo, a sottolineare il carattere di “modernità” della
poesia urrasiana, carattere che si palesa e si afferma già nelle prime raccolte ma
che ora, in questa silloge della piena maturità, si impone all’attenzione di tutti,
ché risulta essere libera da suggestioni ermetiche, che pure qua e là, specie nei
suoi primi libri, erano sotterraneamente operanti.
In quest’ultima raccolta la ricerca linguistica di Urrasio corrisponde
all’urgenza di una ricchezza interiore da esprimere, perciò egli rifiuta ogni scaltrita sottigliezza espressiva come ogni macerata reticenza e continua, con tono
franco e convinto, a leggersi ininterrottamente, a conoscersi in ciò che il mondo
gli offre: non è un caso che le sue meditazioni molte volte nascano come epiloghi essenziali dei suoi viaggi. Da qui scaturisce la riassuntività gnomica e pregnante di molti versi, che costituisce uno dei tratti caratteristici del tessuto poetico urrasiano.
Un risultato di misura esemplare sia sotto il profilo contenutistico che
sotto quello formale è raggiunto nel poemetto di apertura al volume, Lungo
rotte impossibili, dove tutti i motivi presenti nell’invenzione poetica di Urrasio
compongono il sostrato di un discorso di solida struttura, in cui il realismo dei
particolari si decanta nella sfumatura di toni estremamente rarefatti ma di piena
trasparenza e godibilità per la lettura.
A confermare questa sua ansia di una sensibilità lirica e drammatica insieme non è solo il poemetto d’apertura, ma tutte le varie altre sezioni del libro
che stiamo esaminando; soprattutto affiora, in una visione complessiva,
l’intensità di una passione morale che illumina di sé, di volta in volta, la ricchezza
del lessico, che si accompagna alla varietà dei timbri e dei toni.
Ma leggiamola tutt’intera questa raccolta, magari affidandoci alla cifra
dell’insicurezza, al tentativo di voler chiarire, anzitutto a noi stessi, le ragioni sia
di una struttura così bene organata e compatta sia l’asciuttezza e significatività di
un linguaggio che arriva fino al cuore. Leggiamola anche con l’idea di cogliervi i
segni e gli indizi di un’ansietà che, senza intaccare le certezze, rende più franto, o
più diviso, il discorso, moltiplicandone gli approcci e i versanti.
E, si badi bene, anche quando Urrasio sembra affascinato e conquiso da
sollecitazioni occasionali, scalfendo così un pò l’omogeneità del suo discorso,
occorre, anche allora, recuperarlo lungo l’itinerario d’una intenzione organica ed
occorre saper riconoscere la sua volontà di costruirsi secondo un continuum, una
storia unitaria, che resta la sua conquista
143
migliore e il segno più evidente, in questa Metafora della parola, della sua autenticità.
In tal senso diventa emblematica la serie iniziale di Lunghe rotte impossibili,
come abbiamo poc’anzi notato, ma anche tutte le altre sezioni del libro (Il segno
e l'enigma, Il respiro dell'arnia, La variegata monotonia, La filigrana del nulla, Occasioni
razionali): tutto va letto distesamente, come un unico discorso per gradi e per
capitoli, rispettando la disposizione del poeta a meditare, la sua pazienza di riflettere e di riflettersi; soprattutto è necessario disporsi a cogliere, dietro la già
avvertita autunnale malinconia degli anni, dietro il rovello delle apprensioni individuali e storiche, una ostinata volontà di proporci soluzioni o ancoraggi di
speranza, segno verace dell’umanità e della modernità di questo schivo cantore
della Daunia.
Nel poemetto Lungo rotte impossibili Urrasio pare voglia suggerirci che la
storia dell’uomo non si esaurisce nello spazio della sua esistenza, ma si rivela
come il risultato del tempo che scandisce il respiro, l’ansia, l’aspirazione alla
conquista di generazioni e generazioni, scrutate nel loro “fatale andare”: un itinerario di conquiste e di cadute, di errori e di ravvedimenti, di sogni e di speranze disattese; un itinerario che spesso, seguendo un disegno del tutto imprevedibile, ci porta lontani dal nostro mondo, dalle nostre origini, tanto da ritrovare il segno delle nostre radici proprio quando si è costretti a percorrere altre
strade, a battere altri lidi.
Ma è proprio in questo peregrinare che scopriamo un’identità diacronica,
la consapevolezza critica cioè d’essere uomini veri, che si fan carico di tutte le
incertezze di quanti ci hanno preceduti lottando, per aprirci un varco su un
domani migliore. Spesso questa lotta è risultata vana, per cui, sopraffatti da una
sorte crudele (“...Nel groviglio delle dune cadde / il vento e i simboli abbattuti/ si eressero — inutili barriere —/ ai nostri passi” 1, I), fummo costretti a
iniziare il nostro viaggio per evitare che il silenzio riempisse totalmente la nostra
esistenza. E l’avventura inizia tra la fragilità del tempo, a volte tempestoso, a
volte in agguato, e i lidi cui approdiamo, che si presentano come terre aride,
poverissime, cariche di lunghi rimpianti, di una storia, in fondo, le cui istanze
attendono ancora di essere risolte o di avere almeno una risposta confortante
ed umana. In queste plaghe non siamo che numeri di comodo, sillabe vuote,
che inspiegabili eventi avviluppano nelle maglie di un disegno che mira al conforto, alla parità, ma che non raccoglie se non lutti, ingiustizie, proteste e scontenti.
Per ritrovare serenità - avverte ancora il poeta - non resta da fare altro
che dimenticare, dissolvere nel nulla quanto dì più caro riempie la nostra
144
esistenza. Dobbiamo sforzarci di realizzare la nostra imperturbabilità, ma il desiderio di condensare in poche battute ciò che siamo stati (il colore degli occhi
che inventarono il nostro destino, le mani che graffiarono i monti per rendere
agevole il nostro cammino), torna dal fondo della coscienza cosmica a ripercorrere e a riaprire i nostri solchi, a ripetere le sillabe che rimbalzano dalle rughe
del nostro satellite, per farsi nomi, stele, proiezioni nel futuro, speranze il più
delle volte deluse (“... E noi / lucidi di pioggia e di silenzio, / aspettavamo le
estati e il calore / la carezza e il perdono. / Invano. “ - 3, I).
Rinnegarsi è impossibile, poiché si è costretti a misurarsi con il tempo, il
cui rapporto, inversamente proporzionale al suo scorrere, dilata la nostra ricerca, le nostre aspirazioni, mentre affonda nelle “sabbie dei giorni” il profilo del
nostro Promontorio, l’approdo sospirato, dopo il lungo vagabondare,
nell’oceano delle età.
Spesso le nostre attese sono tradite e il silenzio torna a ingigantirsi nella
memoria, nell’immaginazione, ma anche negli attimi vissuti con il fiato sospeso,
con il timore di chi attende e non sa, di chi cerca e non trova (“ ... Oltre il giuoco / dell’orizzonte che celava di speranze / i nostri sguardi non riaffioravano /
isole, né terre nella memoria” - 4, I). Silenzio soltanto o, peggio ancora, dubbio
che non tarda ad insinuarsi, subdolo e discreto, nelle incertezze e nei fremiti
della nostra solitudine, tra spiragli di luce, per ridurla ad ombra, a negazione di
pur legittime aspirazioni e realizzazioni.
Al di là di ogni attesa non rimane che “un lungo richiamo”, pronto a rimontare le dimensioni del tempo, le tappe della nostra storia, a riservarci, in
ultima analisi, quel grumo di speranza che accomuna età ed intelletti con
l’intento di rendere sicuro il prosieguo del nostro viaggio: un viaggio appena
intrapreso, sebbene scandito da precedenti millenni, interrotto solo da qualche
sosta, per dare al poeta e ai suoi compagni il tempo di approdare allo scoglio
dove tentare di vivere una nuova, ritentata avventura. Un momento di sosta,
dunque, non del tutto riposante però. Qui la metafora di questa moderna odissea prende quota e lo scavo che il poeta fa nel proprio subcosciente diventa
severo, più pretenzioso.
Ripercorso l’itinerario dell’entrotempo, Urrasio concentra la sua attenzione sul suo destino di uomo, sul senso della sua esistenza. Sa bene di aver
perduto la coincidenza e di tentare “rotte impossibili”, ma accetta di affrontare
ugualmente il proprio destino, vivendone fino in fondo gli scompensi e le asperità, per cercare di riannodare il filo esistenziale che “si era spezzato da tempo”.
Soffre del suo presente il “mare di incertezze” nel
145
quale è costretto a navigare, il “taglio dell’indifferenza” che caratterizza il modus
vivendi attuale, cerca, con tutta la forza che gli resta, di difendere i valori in cui
crede, di salvaguardare la propria identità dal rischio della dimenticanza e del
disinteresse; per questo egli è costretto a seguire, ad inseguire anzi, “rotte impossibili”, itinerari che non danno la certezza dell’approdo, né promettono soste durature. Unico conforto è di attendere che la “verità misuri i nostri giorni”,
che la luce fughi le ombre e i dubbi, illuminando di nuove certezze le scadenze
cui si va incontro, senza timore di essere schiacciati dalla loro tragica realtà. Sono momenti, come si può notare, estremamente dolorosi, se il bilancio segna
sempre cifre al passivo e se del nostro esistere non sopravvivono che i segni di
uno sfacelo che annulla la dignità degli esseri umani e la proiezione del tempo
aperto a nuove avventure.
Questa constatazione così amara (“Tralci di generazioni stellari
/approdammo anche noi /al nostro scoglio, /ma non ci fu dato vivere” - 5, I)
deve spingerci non certo ad abbandonare i remi o a deporre le armi, per attendere passivamente la spinta del vento liberatore, ma deve abituarci a lottare
contro noi stessi e contro le avversità della vita, per farci ritrovare “rinnovati”
dalla forza del nostro volere, dall’ardire di impugnare gli estremi “di un disegno
crudele”.
Lungo rotte impossibili è un poemetto scavato nella memoria alla ricerca
della propria dimensione, vista come summa di esperienze generazionali, come
tralcio di silenzi stellari, come risultato di sofferenze che convergono nello spazio ristretto di ogni uomo, indicandone il paziente e il profeta; come il raccordo, infine, da cui si diramano altre uscite, ma dove, soprattutto, confluiscono “i
solchi / tracciati a fatica lungo i nostri /monti”: solchi di ricerche, di analisi affannose di barlumi colti ad ogni indizio, nella speranza che possano diventare
fuochi, luce e certezza che “non tutto si scioglierà nel nulla”. Un “non tutto”
che, pur attraverso la negazione e il fallimento dell’azione umana, vuole insegnarci a vivere e a lottare.
Ne Il segno e l'enigma, secondo “momento” di questa raccolta poetica, Urrasio è alla ricerca della verità, tenta cioè di conoscere se i suoi “segni” hanno un
valore reale e se il colloquio aperto con il mondo può restare senza interlocutori. Mentre lo spazio e il tempo si restringono, il poeta si arricchisce di altre dimensioni: diventa il “prodotto di più vite” in cui convergono gli affetti e le voci, gli echi e le proiezioni, le assenze e il desiderio di ritrovare il proprio equilibrio. Per semplificare questo concetto, basta esaminare solo qualche lirica.
146
In Quando il pensiero dell’eterno, ad esempio, il poeta sostiene che la vita allarga i propri confini quando tenta di proiettarsi nell’infinito e nell’eterno: le
memorie si dissolvono e lo spazio a noi riservato si carica di interrogativi e di
inquietudini che traspaiono nel “dubbio se l’entrotempo [il passato] e il dopo [il
futuro] saranno ancora nostri”. Si insinua il desiderio della sopravvivenza, che
però presto si dilegua di fronte alla constatazione che il nostro viaggio è così
labile da lasciare appena qualche scia che “rasentiamo da sempre, inosservati”.
Così anche nella poesia I segni più certi, dove Urrasio si auspica che le sue
parole sopravvivano nel tempo, per quanto egli si renda conto che esse sono
labili e incerte a confronto dei “segni” che altri ascrivono a loro favore. Il vivere per gli altri, come fanno le madri, riduce i versi a “fragili sillabe raccolte/a
caso in un groviglio/di suoni indecifrabili”, minacciandone la sopravvivenza.
Il solo mezzo che può tenere in vita affetti ed amicizie - aggiunge il
poeta in Con il brusio delle sillabe - è il colloquio: la mancanza di comunicazione
rende grigia la vita, accentua la solitudine, rende più profondo il solco che divide e spezza la solidarietà umana. In tale stato “nessuno colmerà / la solitudine
che minaccia / le nostre ore” e persino le memorie più care e i volti più amati
saranno testimonianza di un passato inutile, che facilmente si dileguerà nel nulla.
Soltanto oltre i termini della vita umana e terrena - conclude Urrasio in
Dove il tracciato della vita - potrà avere fine il nostro esilio, questa forza che ci
spinge altrove, disperdendo ogni nostra energia e ogni nostro affetto: cadrà
così per sempre anche l’agguato del dolore e sarà il poeta ad attendere, “dentro
il respiro eterno”, che la sua razza, la sua generazione si ricompongano, quietando la sua ansia di dimensioni atemporali e infinite.
Nel terzo “tempo” di questa raccolta, Il respiro dell'arnia, la riflessione del
poeta è rivolta ai numerosi eventi che, inevitabili e sconcertanti, sconvolgono la
vita umana. La partenza dei figli, l’assenza della persona amata, il ricordo delle
dolcezze vissute suscitano ansie profonde, sentimenti insueti, che si caricano di
significato allorché si dà uno sguardo al proprio passato per tracciarne un bilancio. L’ispirazione insegue il poeta che non fa fatica a fissare sulla carta le sue
emozioni; difficile è stato semmai ordinarle, lasciarle decantare in un angolo,
per evitare di non sceglierne l’essenza, quella parte cioè che sa diventare poesia,
oltre che confidenza e lamento umani.
I ricordi si affollano alla mente e ci si accorge - dice Urrasio in L'ultimo
accordo - che qualcosa ha spezzato “l’anello/che salda il nostro
147
equilibrio”: si cerca di rivivere l’attimo, di rivedere l’ultima curva dove i binari,
“le parallele del tempo”, hanno staccato da noi una parte di noi stessi.
C’è da osservare, inoltre, che il poeta vorrebbe distruggere a volte tutto il
suo passato: da qui quel desiderio, così bene riassunto in Vorrei, di rivisitare la
propria vita, evitando incertezze ed errori per il futuro. Pensando a ciò che si è
e alle proprie incapacità, ci si accorge che basta un attimo di raccoglimento e di
silenzio per valutare tutto quanto si è avuto e chiudere in parità il proprio bilancio.
Di tutte le dolcezze vissute - conclude Urrasio in Dei tuoi abbandoni — resta soprattutto il ricordo che si acuisce nel silenzio e nella solitudine. Non c’è
rifugio, infatti, che possa isolarci o che possa costituire come un riparo ai nostri
affanni: anche le pareti diventano schermi, su cui tornano, prepotenti e severe, le
immagini del passato (nella poesia immediatamente precedente Urrasio paragona la sua dimora a un’arnia, nella quale è costretto a muoversi in attesa che la
sua, e la nostra anche, inquietudine si plachi e la sua voce diventi serena: “La
nebbia discesa improvvisa / a cancellare il tuo volto, / ha disperso il respiro
dell’arnia / dove raccogli paziente / il volgere dei tuoi giorni...” - Nei raggiri del
vento). Sono pochi gli attimi di conforto e di distensione.
Purtroppo il nostro destino è di trascinarci, stanchi e delusi, tra volti che
spesso ignorano la nostra pena. “... Una stanchezza infinita / si accompagna al
mio lento / incedere tra volti / muti al richiamo del tempo” - Dei tuoi abbandoni.
L’insoddisfazione di essere testimoni impotenti del proprio tempo non
tarda a trovare un’eco incisiva anche in un’altra lirica, Più non basta, in cui l’autore
fa notare come le voci, i motivi e i ritorni che riscontriamo nei cicli delle stagioni, eternamente puntuali, non ci soddisfano più: eppure tante volte ci siamo
stupiti e li abbiamo ammirati! Ora l’aria, il silenzio, il mutare delle primavere
non appagano più le nostre esigenze e tendiamo lo sguardo al di là dello
“spazio breve / delle cifre”. Ma vano è il nostro sforzo, dal momento che non
è dato conoscere altro che le nostre misere storie: anche il futuro è protetto dal
velo “dell’incerto” che grava, come lama tagliente, sulle nostre attese.
La variegata monotonia, quarto “tempo” di questa nuova raccolta, comprende poesie che vanno dalla riflessione alla celebrazione di un evento, dalla
constatazione suggerita dall’esperienza della vita al desiderio, mai completamente pago, di trovare compagni di viaggio. Una poesia
148
dai toni “variegati” appunto. Non mancano versi in cui il poeta tenti di fare un
bilancio della sua vita (In bilico, Che cosa posso ancora, La tenda sollevata) o cerchi di
ritrovare la propria identità tra tanta incoerenza e inutili parole.
A darci la misura esatta del nostro sapere, della nostra cultura - osserva
in La presunta certezza - è l’età matura; ma, a farci ricredere su questo, a farci intendere il valore reale delle nostre parole e dei nostri gesti, basta la parola, disarmante e illuminante, di un bimbo: “La presunta certezza di sapere, / strappata a pochi titoli corrosi, / urta contro la tua disarmante innocenza”.
In Che cosa posso ancora c’è, poi, il rimpianto di non potersi più stupire
come un tempo, di non avere più i facili entusiasmi giovanili. Ora egli ha una
visione più chiara, e dunque più amara, del mondo, ha la misura esatta degli
eventi e delle cose (lo spazio si restringe, le illusioni cadono, i desideri si dissolvono “in un deserto d’aria”, dirà In bilico). Come per l’agave, in lui resta ben
saldo quel filo misterioso che lo lega agli affetti, alle radici: “... Non sopravvive
che la generosità / del povero che cede / felice il suo nulla, / la trasparenza
dell’oliva / matura, il gioco delle parole / inchiodato al travaglio della coesione”.
Anche il “furore”, la necessità di arrabbiarsi, il desiderio di gareggiare e
di vincere appartengono al passato - insiste ancora il poeta in Quella dei furori
accesi - e vengono “dissolti nella lusinga / del silenzio”, ché il presente incede
con ben altre cadenze: ha interessi e inquietudini che ignorano le età e le memorie. L’ansia solamente sopravvive unitamente alla speranza di continuare a
“rifiorire / al primo cenno del vento”.
La filigrana del nulla è una sezione in cui il poeta studia e misura se stesso
attraverso motivi che lo riguardano non certo singolarmente, ma piuttosto come componente di una razza, come testimone del proprio tempo, come cellula
di un organismo che cerca “altrove” o al di là dei propri confini una dimensione nuova. In questo fermento di tentativi, di deboli approcci, il poeta, quasi, per
contrasto, trova la forza di confessare i propri timori, le proprie incertezze, di
inseguire l’ansia di scandaglio dell’imprevedibile, pur sapendo bene che dietro il
vetro opaco della vita non ci sono che ombre e ipotesi, difficilmente interpretabili.
In All’alt del semaforo guasto egli osserva che si è testimoni impotenti del
proprio tempo, costretti a registrare le assurdità e gli scompensi di un mondo,
come quello attuale, che rivela incoscienza e superficialità (“... testimone inopportuno seguo / dagli spalti del tempo consumarsi / la
149
foglia e l’uomo cedere / al peso della nostra incoscienza”). La nostra piccola
cronaca trova agganci e conferme nelle notizie che riempiono le prime pagine
dei quotidiani, attenti a denunciare il sequestro della nave, gli scandali, le ingiustizie, ecc. Il poeta, a dispetto di tanto assurdo clamore, vorrebbe scrivere nel
tempo il nome di chi soffre in silenzio e in silenzio vive la sua storia (“ ... Se
potessi - ma non me n’è dato / privilegio - inciderei il tuo nome /nel silenzio:
troppo dura/è la stele per essere scalfita / dal soffio lieve del nostro passaggio”).
L’attaccamento alla terra è uno dei motivi più fortemente sentiti da Urrasio; egli, però, non lo limita alla stretta del ricordo o alla tematica ormai scontata e superata del meridionalismo tout court, ma ne comprende e ne decanta le
ragioni di fondo, guardando all’uomo e ai suoi travagli, per scoprire meglio la
propria identità.
In Il nostro altrove e in Cedere non era il nostro forte il poeta affronta con ferma voce poetica questo tema, sottolineando come l’amore dell’uomo per la
propria terra è profondo; eppure il desiderio di scoprire spazi e mondi nuovi
lo spinge a superare l’orizzonte e a proiettarsi nell’atmosfera: l’uomo vinse la
forza di gravità, la paura, il disagio di non essere più padrone del proprio peso,
del proprio corpo e vide franare la terra, oltre i confini del tempo, nel regno
dei silenzi. Ma il nostro “male di vivere”, forte oltre ogni misura, ci riportò nei
nostri “tratturi”, per farci riscoprire vivi tra tanti problemi e sofferenze.
L’occasionalità, auspicata vari anni fa da Mario Sansone per la poesia di
Urrasio, si rivela in tutta la sua efficacia nell’ultima parte di questa raccolta, intitolata appunto Occasioni razionali, dove compaiono poesie suggerite da immagini
improvvise e inattese (Si legga, ad esempio, Al girasole solitario, il cui “ ... occhio
/ rompe il crepitare dell’aria, / il battere monotono del silenzio”. Il girasole,
nato per caso sui margini di un fosso o lungo un pendio, non è che l’immagine
della solitudine che ci devasta: esso è anche un monito ad avere coraggio, a superare i momenti difficili, i punti morti, l’agguato della disperazione. Il suo tenace modo di cercare la luce è un invito a cogliere anche il più esile segno di
speranza, per continuare a difendere le nostre origini, i nostri valori in un presente difficile e rissoso. Corre facile qui il pensiero all’uorno quasimodiano
“trafitto da un raggio di sole” che riceve il privilegio dell’attimo fuggente di
luce come un dono, senza tuttavia rincorrerlo; in Urrasio, invece, il girasole è
costretto a volgersi quotidianamente su se stesso per appagare la sua sete di
luce, che in questo caso va vista con un significato metaforico
150
ben più ampio e profondo: quel bisogno equivale alla proiezione dell’uomo nel
tempo nell’affannosa ricerca di una certezza, della propria ricerca esistenziale);
dal ricordo che riaffora alla mente dopo anni di assenza; dall’urgenza di esternare qualche considerazione da tempo maturata o di rendere omaggio a nomi
che hanno segnato, in qualche modo, il nostro destino.
Sono versi, questi delle Occasioni razionali, che conservano una loro forza
d’urto, ché sono scavati in interiore homine, ché sono sofferti e selezionati e perché, alfine, sono stati scelti tra tanti altri che pure avrebbero avuto un loro motivo di essere.
Le orme del passero sulla neve - osserva il poeta in Il messaggio cuneiforme,
fornendo così a se stesso un’occasione di canto e a noi un motivo di riflessione
- riportano alla memoria inverni ormai trascorsi, sofferenze patite da uomini
coraggiosi e tenaci, semplici e saggi, amati senza altri motivi che per la loro capacità di lottare e di tacere; ricordano, inoltre, le stagioni trascorse con tracce
indelebili, che sembrano ora riaffiorare dalla neve, il cui candore è l’unico segno
che la vita continua, che l’esistenza non è memoria, anche se noi, scampati al
naufragio, ci ritroviamo, smarriti e delusi, quasi stranieri in un mondo che non
ci appartiene: “ ... Il candore /che riveste le ombre del mondo, / i nostri sogni,
è il segno certo / della vita rapita alla memoria, / la calma scampata al naufragio / che ci sorprese smarriti / su altre rive”.
Nell'intrico dell'aria è annunciato l’arrivo della buona stagione, evento che,
sempre, ci rallegra confortandoci. Esso diventa triste, acquista cadenze drammatiche solo quando l’uomo tenta di distruggere ciò che la natura vuole sottrarre alla morte: “...Sulle ali di un vento maligno / il volto minaccioso della nube /
trafigge la nostra ebbrezza / con oscure ipotesi di morte” (E’ evidente
l’allusione al triste episodio di Chernobyl, avvenuto nella primavera del 1986).
Sono tutti questi elementi, di cui si è data qui una cospicua esemplificazione, che compongono il carattere di complessa modernità della poesia di
Michele Urrasio, la cui inquieta spiritualità contiene sempre una problematica
umana, un discorso fermo e chiaro, rivolto fraternamente a tutti.
Giuseppe De Matteis
151
BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE POETICHE
M. URRASIO, Fibra su fibra, Prefazione di G. DE MATTEIS, Foggia, Leone,
1965;
IDEM, Ancora un giorno, Prefazione di G. DE MATTEIS, Lucera, Catapano,
1970;
IDEM, Nel visibile e oltre, Prefazione di G. DE MATTEIS, ivi, 1974;
IDEM, Dal fondo dei Dolmen, Prefazione di M. SANSONE, Quarto d’Altino, Rebellato, 1977;
IDEM, Lettere dall'Inferno, Lucera, Catapano, 1981;
IDEM, Il segmento dell'esistenza, Prefazione di G. BARBERI SQUAROTTI, Foggia, Bastogi, 1983;
IDEM, La metafora della parola, Introduzione di MARIO SANSONE, Pescara,
Tracce, 1990.
BIBLIOGRAFIA DELLA CRITICA
G. DE MATTEIS, prefazione a Fibra su fibra, Foggia, Leone, 1965;
M. ROMANO, in «Il Gazzettino Dauno», 23 novembre 1978, e in «Il Corriere di
Foggia», 25 novembre 1970;
E. GUGLIOTTA, in «Il Meglio», XII, 1970, Numero Sesto;
G. DE MATTEIS, prefazione a Ancora un giorno, Lucera, Catapano, 1970;
G. VOCINO, in «Il Corriere di Foggia», 11 giugno 1971;
A. DI MURO, in «Il Tempo», 20 giugno 1971; in «Il Mattino», 24 settembre
1971;
M. MAZZA, in «Il Mattino», 26 giugno 1971;
N. SCALISI, in «Il Pungolo Verde», XXV, giugno 1971, n. 6;
G. DE MATTEIS, in «Il Meglio», XV, 1973, Numero Primo;
152
G. DE MATTEIS, in «Il Tempo», 28 marzo 1974; in «Il Gazzettino Dauno», 13
aprile 1974;
G. DE MURO, in «Sud Express», 16 maggio 1974;
G. DE.MATTEIS, prefazione a Nel visibile e oltre, Lucera, Catapano, 1974;
G. NASILLO, in «Il Narciso», VII, luglio 1974, n. 7;
G. DE MATTEIS, in «Il Meglio», XVI, 1974, Numero Secondo e Terzo;
G. DE MATTEIS, in «Ausonia», maggio-agosto 1974;
V. TERENZIO, in «Oggi e Domani», II, ottobre 1974, n. 10;
C. SIANI, in «Stampa di Puglia», 16 ottobre 1974;
C. SIMONELLI, in «Il Tempo», 26 novembre 1974;
F. GRANATIERO, in «Il Meglio», 1974, Numero Sesto;
C. SIMONELLI, in «Italia Nuova», 28 febbraio 1975;
G. DE MATTEIS, in «Galleria», gennaio-giugno 1975;
N. PALUMBO, in «La Fiera Letteraria», 25 gennaio 1976; in «Il Narciso», novembre 1975;
G. DE MATTEIS, La poesia di Michele Urrasio, Lucera, Catapano, 1975;
F. GRANATIERO, in «Controcampo», III, 1976, n. 3;
G. DE MATTEIS, in «Il Narciso», IX, 1976, n. 4; in «Opinioni libere», 1976, n. 3-4
(marzo-aprile);
DI MURO, in «Avvenire», 9 giugno 1976;
G. DE MATTEIS, in «Rassegna di Studi Dauni», gennaio-giugno 1976;
M. SANSONE, prefazione a Dal fondo dei Dolmen, Quarto d’Altino, Rebellato,
1977;
G. ALABISO, in «Il Tirreno», 1 ottobre 1977;
G. DE MATTEIS, in «Il Gazzettino Dauno», 1 ottobre 1977; in «La Nazione», 4
novembre 1977;
V. TERENZIO, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 2 novembre 1977;
A. DI MURO, in «Il Tempo», 12 novembre 1977;
153
C. SERRICCHIO - MOTTA - SIANI, Poeti Dauni Contemporanei, Foggia, Editrice Apulia, 1977, pp. 293-305;
G. DE MATTEIS, in «Ausonia», settembre-dicembre 1977;
F. DESIDERIO, in «Oggi e Domani», dicembre 1977;
G. DE MATTEIS, in «La Capitanata», XV, 1979, n. 23;
M. DELL’AQUILA, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 10 gennaio 1978;
G. JORIO, in «La Gazzetta di Foggia», 4 febbraio 1978;
G. NASILLO, in «Controcampo», V, 1978, n. 3;
G. DE MATTEIS, Critica, poesia e comunicazione, Pisa, Editrice Tecnico- scientifica, 1978, pp. 174-183;
N. PALUMBO, in «Cenobio», Lugano, 1978, n. 4 (luglio-agosto);
G. DE MATTEIS, in «Il Pungolo Verde», XXXII, marzo-aprile 1978;
G. DE MATTEIS, in «Galleria», settembre-dicembre 1978;
G. DE MATTEIS, in «Il Meglio», gennaio-marzo 1979;
F. D’EPISCOPO, in «Esperienze Letterarie», IV, 1979, n. 1;
L. PAGLIA, Inchiesta sulla poesia, Foggia, Edizioni Bastogi, 1979, pp. 367-368;
C. SERRICCHIO, in «L'Ariete», luglio 1979, n. 11;
N. CASIGLIO, in «Opinioni libere», 1979, n. 2-3 (settembre-ottobre);
M. DELL’AQUILA, in «Critica Letteraria», VII, 1979, n. 23;
M. DELL’AQUILA, in «Opinioni libere», 1980, n. 5-6 (luglio-ottobre);
A. MANUPPELLI, in «La Gazzetta di Foggia», 11 settembre 1980; in «Puglia», 5
ottobre 1980;
F. GRANATIERO, in «Il Meglio», ottobre-dicembre 1980;
F. DEL BECCARO, in «Rassegna Lucchese», 1980, n. 5 (nuova serie);
G. DE MATTEIS, in «Opinioni libere», 1981, n. 1-2 (gennaio-febbraio);
A. SPAGNUOLO, in «Opinioni libere», 1981, n. 7-8 (luglio-ottobre);
154
F. DI GREGORIO, in «Opinioni libere», 1981, n. 9-10(novembre-dicembre);
A. MANUPPELLI, in «Corriere Meridionale», 13 febbraio 1982;
D. GIANCANE, in «La Vallisa», I, 1982, n. 2;
C. SIANI, in «Opinioni libere», 1982, n. 3-4 (aprile-giugno);
G. BARBERI SQUADROTTI, prefazione a Il segmento dell'esistenza, Foggia,
Bastogi, 1983;
L. VOLPICELLI, in «Opinioni libere», 1983, n. 3-4;
F. ROSSI, in «La Gazzetta del Mezzogiono», 14 luglio 1983;
D. GIANCANE, in «La Vallisa», II, 1983, n. 5;
A. DI MURO, in «Il Tempo», 23 settembre 1983;
M.G. LENISA, in «Opinioni libere», 1983, n. 5-6; in «Sintesi», gennaio-dicembre
1983;
M. DELL’AQUILA, Parnaso di Puglia nel ’900, Bari, Adda, 1983, p. 267;
M. MARTI, in «Corriere del Giorno», 17 novembre 1983;
V. TERENZIO, in «Oggi e Domani», novembre 1983;
R. NIGRO, «Obiettivo oggi: incontro con il poeta» - intervista -, Bari, RAI DUE, 5
gennaio 1984;
M. MARCONE, in «La Gazzetta di Foggia», 19 gennaio 1984;
M. Coco, in «Puglia», 2 febbraio 1984;
G. FLORIDIA, in «Vasto Domani», gennaio 1984;
G. DE MATTEIS, in «Risveglio», 29 gennaio 1984;
G. FLORIDIA, in «Opinioni libere», 1984, n. 1;
S. FOLLIERO, in «Fermenti», 1983, n. 11-12 (novembre-dicembre);
M. CAPUANO, in «Il Centro», 23 marzo 1984;
G. DE MATTEIS, in «Nuovo Mezzogiorno», Roma, n. 1, 1984;
A. SPAGNUOLO, in «Qui Foggia», 1 maggio 1984; in «Il Gazzettino Dauno», 19
maggio 1984;
155
V. VETTORI, in «Opinioni libere», 1984, n. 2;
A. PENSATO, «Opinioni libere», 1984, n. 2;
G. DE MATTEIS, Cultura letteraria contemporanea in Capitanata, San Marco in
Lamis, «Cittadella Est», 1984, pp. 135-153;
M. SANSONE, «Quaderno della Famiglia Dauna», Roma, n. 5, 1984;
G. DE MATTEIS, «Quaderno della Famiglia Dauna», ibidem;
S. FOLLIERO, «Risveglio», 6 novembre 1984;
IDEM, «Opinioni libere», 1984, n. 4;
R. TANTURRI, «La Gazzetta» (Pescara), 30 novembre 1984;
G. DE MATTEIS, «Quaderno della Famiglia Dauna», Roma, n. 7, 1984;
V. Rossi, «Eco-Risveglio ossolano», n. 7, 21 febbraio 1985;
IDEM, «Cronache Italiane», n. 4, aprile 1985;
IDEM, «Arte Stampa» (Genova), 1984, n. 3-4 (luglio-dicembre);
S. FOLLIERO, «La Vallisa», III, 1984, n. 9;
A. BORRA, «Il Centro», 30 maggio1985;
R. PETRERA, «Qui Foggia», 9 luglio 1985;
M. MARCONE, «Puglia», 1 settembre 1985;
F. DEL BECCARO, «Rassegna Lucchese», 1984, nn. 19 e 20 (nuova serie);
A. BORRA, «Il Corriere di Roma», 15 ottobre 1985;
D. LAMURA, «Singolare Plurale», 20 gennaio 1986;
M. Russo Rossi, «Il Centro», 27 marzo 1986;
C. TEDESCHI, «Percorsi d’oggi», 1986, n. 2 (marzo-aprile);
V. JACOVINO, «Puglia», 18 giugno 1986;
U. REALE, «Nuovo Mezzogiorno», Roma, n. 2-3, 1986;
C. SIANI, «Lingua e Storia in Puglia», XXVIII, 1985;
G. DE MATTEIS, «Il ragguaglio librario», Milano, n. 4, aprile 1986;
156
F. FIORENTINO, «Il Gargano Nuovo», Anno XIV, aprile 1988;
F. DI GREGORIO, «Critica letteraria», XVI, 1988, n. 58, pp. 175-188;
R. PETRERA, «Tribuna Stampa», Milano, n. 3/88;
M. SANSONE, introduzione a La metafora della parola, Pescara, Tracce, 1990;
G. DE MATTEIS, postfazione a La metafora della parola, Pescara, Tracce, 1990;
M. PETRUCCIANI quarta di copertina di La metafora della parola, Pescara,
Tracce, 1990;
C. SIMONELLI, «Progetto Cultura», 4 febbraio 1990;
G. BARBERI SQUAROTTI, «Proposte», 4 marzo 1990;
G. SAPONARO, Le parole e l'uomo, Fasano, Schena, 1989, pp. 486-488;
G. BARBERI SQUAROTTI, «Tholus», Anno I, maggio 1990;
IDEM, «Percorsi d'oggi», Anno VI, n. 2, marzo-aprile 1990;
G. TRINCUCCI, «Il Centro», 31 maggio 1990;
M. MARCONE, «Il Quotidiano», Foggia, Anno V, n. 134, 11 giugno 1990;
IDEM, «Singolare Plurale», 13 giugno 1990;
IDEM, «Il Rosone», Anno XIII, n. 4, luglio-agosto 1990;
C. SIMONELLI, «La Refola», Anno VII, n. 2, maggio-agosto 1990;
L. NIRO, «Corriere di San Severo», n. 573, 27 luglio 1990;
V. TERENZIO, «Il Centro», 31 ottobre 1990.
MICHELE URRASIO è nato ad Alberona (Foggia) nel 1937, ma vive ed insegna a Lucera
da molti anni. E’ giornalista-pubblicista; collabora a vari quotidiani e a riviste letterarie; è
anche redattore capo del periodico culturale-letterario «Opinioni libere» e direttore del
mensile di cultura e attualità «Tholus».
157