non mi piace molto scriverle via mail (lo uso spesso, ma non ci ho

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non mi piace molto scriverle via mail (lo uso spesso, ma non ci ho
Quando sorride il mare – poesie e haiku di Floriana Porta
IMPRESSIONI DI LETTURA
DI GIORGIO MOBILI (POETA E SAGGISTA)
Ho letto con piacere le tre parti di “Quando sorride il mare” e le dirò quel che ho pensato.
Inizialmente pensavo di non essere davvero la persona adatta ad offrire una lettura di una
silloge che, di primo acchito, si presentava come un lavoro (faute de mieux)
“naturalistico”. Niente di male in sé, ovviamente, ma piuttosto un problema di
compatibilità. Ho un amico, finissimo poeta, che aborrisce il mare, anche fisicamente. Io,
pur non essendo della stessa persuasione (il mare mi piace), devo dire che sono assai
poco sensibile ai fenomeni naturali in se stessi, di qualunque genere essi siano, a meno
che non siano correlati e strumentali alla dimensione umana e inconscia, che vi si
riflettano, insomma, per vie più o meno traverse.
Che gradita sorpresa, invece, è stata rendermi conto, dopo i primi testi, che il suo mare
non è affatto naturalistico. Non è neppure, semplicemente, il mare. Il suo mare è un
sostrato, una materia: in particolare, la materia in cui l’artista/poeta/demiurgo mette le
mani per creare. Nel suo caso, creare versi, ma la matrice pittorica/cromatica della sua
poesia mi fa pensare che lei sia un’altrettanto abile pittrice. Il mare, nei suoi versi è
solido, è una patina di colore, ma non nel senso di un languido paesaggismo, o di un
impressionismo epigonale e oramai trito. Il suo occhio è piuttosto quello psicanalitico e
secco di un Böcklin (ricorda il capolavoro Ulisse e Calipso?), e il suo mare è stilizzato e
materico, modernista, come il fantastico mare finto in E la nave va di Fellini.
L’artificialità del suo mare, il suo carattere di mare altamente metaforico (un mare “alla
seconda”, diciamo, e chiaramente metafora dell’unheimlich) è sottolineata dalla
profusione di termini tecnici e ipertecnici, i quali delineano un mondo scintillante ma
ermeticamente chiuso, piatto e bidimensionale, iperreale e altro, come il mare
fantascientifico di Jules Verne.
Il suo mare è lo spazio di Solaris: un latte (o un sale) primordiale da cui emerge l’io
creativo (il suo “tu” mi sembra una convenzione, un pretesto; qui non c’è posto per un
“tu” romantico, per le ragioni del cuore; la voce poetica non si rivolge ad altri che a sé, e
a questa forza magmatica e primordiale come ragione e fonte di sé: non si interessa
d’altro). E la questione è urgente: si tratta di vita o di morte, si tratta di mettersi a mare
senza rete e senza sponda, per scoprire il segreto della genesi dell’io poetante. La posta in
gioco è alta, e come non pensare all’ultimo viaggio dell’Ulisse dantesco? Non era quello
stesso viaggio, poi, l’invenzione necessaria, il mare necessario a Dante per chiarire a sé
stesso l’altezza e gli oneri della propria missione ultraterrena? E non è proprio la
traumatica luminescenza del XXVI dell’Inferno a informare—non importa quanto
consciamente—il suo Inferno, alla cui ombra “incerta ma reale” “poesie e poeti si
sgretolano”?
C’`e un punto oltre il quale la poesia “si sfascia” come una chiglia contro una roccia
insidiosa (nella splendida Il ritorno della poesia), ed è come oltrepassare le colonne
d’Ercole (il mistero fisico, tellurico, orribile della creazione?) E se si torna (come
inevitabilmente accade, perché nell’universo moderno nessuno più ci impedisce nulla),
non si torna certo incolumi, ma malmessi e in fin di vita: ma è proprio con quel sangue
che si riimpasta la parola poetica. (Il suo Ritorno della poesia mi ricorda tanto un mio
testo analogo dal libro Waterloo riconquistata, anch’esso una riflessione metapoetica
sull’atto del poetare; ma anch’io ci ho pensato spesso).
Come intuirà, la parte che più mi ha appassionato della sua silloge è la terza, dove più
chiaramente si delinea la relazione mare-parola, una relazione erotica e materica, violenta
e traumatica, come tutto ciò che ha a che fare con la creazione. Il suo mare è la superficie
su cui e in cui si compie la costruzione del verso, una stringa di “parole di mareggiata”,
raccolte sulla spiaggia (Flotsam, è la straordinaria parola inglese che viene alla mente) e
appese ad asciugare come panni. Il mare rende possibile la parola, ma esso stesso, come
lei acutamente nota, “non sente le parole”: ne è il sostrato necessario, ma in sé è muto e
impenetrabile. (Tra parentesi, non è forse il mare la matrice della nostra prima poesia,
quella dei Greci?)
Negli ultimi testi (Domande, Sorrisi...) il poeta si trova a giocare con l’attrazione del
silenzio. L’ultima seduzione della voce poetica, infatti, coincide con il suo
annichilamento, con l’ “annegamento” nel leopardiano Infinito, con l’ingiunzione
nietzschiana a dimenticare, ad abbandonarsi alla perdita. È precisamente questa
predisposizione all’abbandono che poi permette alla voce di gioire della parola
ricuperata, magari in forma di conchiglia, pietrificata, incrostata del sale di secoli di canti
e discorsi; cose che il mare ha risputato e che sporcano le mani, ma che riaccendono in
extremis l’immaginazione.
È questa predisposizione che restituisce al suo mare una vitalità nuova e quasi
necromantica (come il violino dell’Histoire du Soldat che non vuol tacere) e che riesce a
rianimare miglia e miglia di silenzio; o peggio: la distesa oggi infinita del già detto e della
chiacchiera.
Questa, almeno, la mia lettura. complimenti vivissimi. Lei ha senz’altro una bella mano,
ma non solo; perché una bella mano, senza la passione del rischio, senza una scommessa
dantesca, non arriverebbe lontano.
GIORGIO MOBILI