ovidio e l`esilio - POLO PSICODINAMICHE

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FRONTIERA
DI
PAGINE
POESIA ANTICA
OVIDIO E L’ESILIO
DI ANDREA GALGANO
I
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Prato, 3 ottobre 2012
Q
uando Le Metamorfosi erano appena
terminate e non ancora rivedute, e i Fasti
erano per metà compiuti, nell’8 d.C. al
poeta Publio Ovidio Nasone (43 a.C.-17
a.C.) giunse un editto di Augusto, che lo
relegava a Tomi, sul Mar Nero, presso la foce del Danubio.
Non se ne conosce il motivo preciso: forse alcuni
suoi rapporti con Giulia Minore, che per la sua condotta
scandalosa e libertina, costrinse suo nonno a relegarla su
un’isola, o per aver assistito a sfoghi di ira dell’imperatore,
illeciti, o congiure, o perché la didascalia amorosa ovidiana
inquinava i costumi e la morigeratezza della società, che,
specie con la legislazione augustea in materia di matrimonio,
avrebbe potuto creare una certo disequilibrio a corte.
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Partito per Tomi (l’odierna Costanza) nell’autunno dell’8 a.C. rimase in quell’angolo
sperduto, fino alla morte, con la speranza vana di una revoca.
Nel 1923 J. J. Hartman propose la teoria (continuata nel 1985 da Fitton Brown), poi messa in
crisi successivamente, che in realtà il poeta non abbia mai patito la relegatio e che, in realtà, fosse
una sorta di escamotage poetico. Oggi si ritengono poco credibili queste fantasiose revisioni. Sta di
fatto che le colpe che Ovidio sintetizza in carmen (l’Ars amatoria) e error, rappresentano la cifra
di un sigillo di lontananza.
Giuridicamente, l’allontanamento da Roma poteva spesso assumere diverse connotazioni,
trattandosi o di vero e proprio esilio oppure di una relegatio ad insulam, senza confisca dei beni o
perdita dei diritti civili, come scrive il giureconsulto Ulpiano: “c’è molta differenza tra la relegatio
e la deportatio; infatti la deportatio toglie i diritti di cittadinanza e i beni, la relegatio conserva
entrambi”.
I Tristia, 5 libri per 50 componimenti e le Epistulae ex Ponto, 46 composizioni epistolari
raccolte in quattro libri, sono il margine più indicativo della sua esperienza, il colore fosco di una
relegazione e di un distacco.
Egli lamenta la propria sorte di relegato nella fluidità di forma ed espressione. Trovandosi
nell’ospitalità del mondo che vive, nella rigidità di veduta e paesaggio, teme per la sua sorte e per
la sua situazione a Roma, poiché alcuni nemici cercano ulteriormente di danneggiarlo.
Le tempeste sui mari, l’inverno rigido e la primavera sul Ponto, divengono lo specchio di una
stanza interiore attraverso l’allusione e il richiamo. Il paesaggio, quindi, acquista una dimensione
spazio-temporale percossa e attonita.
Le distesa di ghiaccio e i movimenti di cielo e mare, il vento che scoperchia la superficie,
risuonano nel canto rauco e funesto di una monotonia e di una solitudine agitata. Ecco il suo
scenario di ombre gelide e il ricordo di un paradiso perduto, ora occupato da tristezza e rammarico:
«O quattro volte felice, o infinite volte felice/ chi può godersi Roma che non gli sia stata interdetta!
Io godo invece della neve disciolta dal sole primaverile, / e dell’acqua che si estrae non più solida
dagli stagni».
La ferita della sua punizione è lo spettro di una caduta rovinosa: egli giace in terra calpestato
dal nemico, come scrive nell’apertura dell’elegia ottava del quinto libro: «Non sono caduto a tal
punto, benché abbattuto, da trovarmi addirittura al di sotto di te, di cui non ci può essere nulla di
più basso. Quale motivo ti rende rancoroso nei miei confronti, malvagio? O perché calpesti me che
sono caduto, quando tu stesso puoi subire la stessa sorte? E i miei mali non ti rendono indulgente e
benigno verso di me che giaccio a terra? … Perché calpesti me che sono morto ponendo sopra di
me il tuo piede?».
Sotto l’attacco di un nemico, che vuole la sua rovina completa e definitiva, egli giace, come un
soldato caduto, subendo l’infamia di chi sale sopra il suo corpo e lo calpesta.
È una poesia di lontananza e di ferita. Il poeta vorrebbe cicatrizzare questo colpo, ma i fantasmi
e nemici ne impediscono l’attuazione, riaprendo i varchi e le ferite del suo corpo e affondando il
coltello nelle piaghe.
Il relegato viene, pertanto, assimilato a un soldato ferito o spesso a un morto, come scrive Carlo
Vittorio Di Giovine: “L’esilio, o meglio la relegazione, viene avvertito come una vera e propria
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II
‘morte’ civile, e conseguentemente incontriamo una serie di termini utilizzati dal poeta per
presentare se stesso come un ‘morto vivente’ “.
Le sofferenze, i timori, le speranze nascono dalla memoria di un’esperienza, prima gioiosa e
serena, poi improvvisamente ricolma di desiderio, di ritorno e di patria raggrumata, sospesi in
un’alba di un lungo torpore (torpuerat longa pectora nostra mora).
L’angoscia del cuore di Ovidio diviene lo sgomento lacero che riporta al chiarore lunare del
Campidoglio e il sentirsi estirpare l’anima («et pars abrumpi corpore visa suo est»).
Il poeta si sdoppia in un accostamento di livello e metafora, realizzando un effetto straniante.
Colloquia con se stesso, mette a fuoco le sue evidenze interiori, getta le parti di una difesa
personale.
Gli interrogativi della coscienza vivono di punti di meditazione e ribadiscono lo sconfinato
trasporto per la poesia e la consapevolezza della propria arte, del proprio ingegno e tecnica accesa:
«Ma una triste pena ha seguito i miei giochi. /Infine fra tanti che scrivono ne vedo uno solo/ che sia
stato perduto dalla sua Musa: ho trovato me solo (II, vv. 494-496)».
Cerca di accattivarsi la benevolenza dell’imperatore e di affermare l’autonomia artistica delle
parallele di vita e poesia.
Attraverso la similitudine mitologica, il piano della realtà attinge alla profondità di una
rivelazione e di un’indagine che richiamano non solo vicende personali, ma il mito tende ad
impastarsi con il presente, richiamando di continuo a una patria-madre, a un solco lontano. La sua
esperienza non è solo l’ ‘alienazione’, ma diviene il risultato della spoliazione di una coltre
guerriera, di una trincea che cerca riparo contro la desolazione, tramite l’istituzionalizzazione dei
rapporti, tra letterati, tra nobiles amici e congiunti.
Le elegie dirette alla moglie Fabia – nome immortale e inextictum – recano luce sul coraggio e
sul sacrificio di una donna che difende l’anima del poeta dagli avvoltoi, abbraccia il suo destino e il
suo nomadismo esule, attraverso l’amore e la fedeltà coniugale.
Anche le Epistulae presentano una vertigine di sofferenza e di superamento del mito. Egli non
può (e non riesce) a sperimentare la soluzione di una metamorfosi, che potrebbe compensare la
tragedia in atto. Il mondo dell’esilio è plasmato e unito con il vertice della poesia. La forza
creatrice non permette solo una consolazione di transito, ma è la caratteristica di uno sfogo
interiore, laddove anche l’immedesimazione con la lingua getica, lingua barbara per eccellenza,
permette la sua assimilazione a una frontiera e a una terra spaesata.
Lo spleen ovidiano corrode le ragioni del suo esistere, annodando la ruvidezza e il battito di un
sentimento pauroso e sublime, come scrive Luigi Galasso: “La costruzione letteraria (…) alla fine
lascia intatto un denso nucleo di irrisolta umanità, nel quale ogni lettore finisce per ritrovare
un’immagine di sé. Forse è proprio questa l’ultima metamorfosi ovidiana”.
La forte autoaffermazione finale delle Epistulae, attraverso la tradizione che si ricollega al
catalogo dei poeti della sua generazione, scoperchia uno spirito indomito, nonostante l’inanità e la
scomposizione dell’anima, come un ballerino nel buio: « … è la stessa cosa prodursi nel buio in
gesti di danza/ e scrivere un carme che a nessuno leggerai./ Il pubblico accende il tuo impegno e la
virtù che è lodata/ cresce e la gloria ha un immenso sprone».
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III
Quando mi si presenta la visione tristissima di quella notte
in cui vissi le ultime mie ore in Roma,
quando ripenso alla notte in cui lasciai tante cose a me care,
tuttora dai miei occhi scendono le lacrime.
Si affacciava ormai il giorno, in cui Cesare mi aveva ordinato
di partire dagli estremi confini dell'Ausonia.
Non ebbi tempo né volontà di preparare le cose più utili:
a lungo l'animo aveva languito immerso nel torpore;
non mi curai dei servi, né di scegliere i compagni,
né delle vesti adatte o delle cose che giovano a un profugo.
Ero stordito non diversamente da chi, colpito dal fulmine
di Giove, è rimasto in vita e non sa lui stesso di essere vivo.
Quando tuttavia lo stesso dolore dissipò questa nube
dell'anima, e finalmente i miei sensi si ripresero,
prossimo a partire, parlo per l'ultima volta agli afflitti amici,
dei quali solo due vi erano, dei molti che avevo poco prima.
Piangevo e la sposa amorosa, in un pianto più amaro, mi teneva
abbracciato e una pioggia continua cadeva per le guance innocenti.
La figlia era assente, lontana, migrata sulle libiche
IV
rive e nulla poteva sapere della mia sorte
Dovunque si guardava, risuonavano pianti e lamenti
e dentro pareva ci fosse un funerale con le sue alte grida.
Uomini, donne e pure bambini si struggono al mio funerale
e nella casa ha lacrime ogni angolo.
Se è permesso ricorrere ai grandi esempi nei piccoli casi,
questo era l'aspetto di Troia mentre era presa.
Già tacevano le voci degli uomini e dei cani
e la Luna guidava alta nel cielo i cavalli notturni:
io guardandola e distinguendo al suo chiarore le moli
del Campidoglio che invano furono attigue al mio Lare,
«O Numi, dico, che avete sede in quelle dimore vicine,
o templi che i miei occhi non potranno mai più rivedere,
o Dèi, che io debbo lasciare e che la città alta di Quirino
racchiude, siate da me salutati per sempre. (Tristia, I, 3)
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