Ovidio e Vintila Horia

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Ovidio e Vintila Horia
Ovidio e Vintila Horia: destini incrociati
Due vite a confronto, lontane nel tempo ma con molti punti di contatto: l'attrito col potere
costituito, in un caso l'impero di Augusto, nell'altro il regime comunista; i patimenti
dell'esilio; la Romania, terra natia per Horia, luogo di confino per Ovidio; una vena poeticoletteraria che si alimenta alla fonte della nostalgia per la patria; l'amarezza di subire una
censura ideologica sulla propria opera; la morte in terra straniera...
Ovidio: vita e opere durante l'esilio
Correva l'ottavo anno dopo Cristo, quando Publio Ovidio Nasone, cinquantunenne,
sbarcò a Tomi, piccola guarnigione romana sperduta nel Ponto Eusino, sulle rive del Mar
Nero.
Il poeta vi fu relegato per ordine di Augusto e lì morì una decina d'anni più tardi,
durante l'impero di Tiberio, senza aver ottenuto quella grazia che aveva implorato con
disperato accanimento. La condanna lo colpì per ragioni rimaste oscure. Taluni sostengono
che, dedito com'era alla mondanità più sfrenata, abbia finito per trovarsi invischiato in
qualche imbarazzate pettegolezzo ai danni della stessa casa imperiale. L'ipotesi invece più
probabile è che sia stato allontanato dall'Urbe per il contenuto dei suoi scritti, bollati come
immorali e licenziosi. Nell'Ars Amandi, in particolare, si ravvisavano un incitamento
all'adulterio e una minaccia per l'educazione dei giovani. Le sue opere vennero perciò bandite
dalle pubbliche biblioteche.
Nemmeno questo smacco riuscì però a fiaccare la vena letteraria di Ovidio. Sebbene
distante dall'elegia lieta d'un tempo ed estraneo ormai al suo cliché di artista frivolo e
disimpegnato, continuò infatti a scrivere anche durante l'esilio, forse cercando nel sacro fuoco
dell'ispirazione un po' di conforto alle sue pene.
Nei Tristia si lamenta di abitare nell'ultimo lembo del mondo, in una terra lontana
dalla sua terra, ove non vi è niente se non freddo, nemici e solido ghiaccio. I luoghi sono
pieni di barbarie, di voci animalesche e di una paura che lo angoscia. Ovunque volge lo
sguardo, altro non vede che lo spettro della morte. È pieno di acciacchi e si regge in piedi a
fatica, mentre la bianca vecchiezza tinge i suoi neri capelli. Lo affligge l'insonnia e la barba
gli brilla di ghiaccio, eppure si consola sperando che, con la morte, non saranno eterni i suoi
mali.
Tematiche non troppo dissimili ritornano anche nelle Epistulae ex Ponto. Ovidio si
batte contro il freddo, le frecce e il suo destino. Ossessionato da incubi spaventosi e
circondato dai Geti inumani e feroci, vorrebbe diventare di pietra. I giochi che gli piacevano
da giovane non lo appassionano più, la tavola apparecchiata gli dà la nausea e, nel suo corpo
spossato, vitalità e forza illanguidiscono. Chiama la morte e subito dopo la respinge, per il
terrore che la terra sarmatica possa ricoprire le sue ossa. Incapace di scacciare il commovente
ricordo del suolo natale, anela a un esilio più vicino alla patria, per poter respirare un'aria
meno straniera.
Horia: l'attività diplomatica per conto di Antonescu; l'esilio sotto il regime comunista; il
romanzo intitolato «Dio è nato in esilio», ispirato alla figura di Ovidio, un testo
splendido ma introvabile.
Alcuni autori contemporanei minori - David Malouf, Christoph Ransmayr, Marin
Mincu - hanno ripreso in chiave romanzata quell'immagine di sé che Ovidio ha consegnato
alle sue opere dell'esilio. Ma è stato solo grazie al romanzo di Vintila Horia, «Dio è nato in
esilio», che Ovidio è approdato alla modernità con tutto il suo carico di straziante, dolcissima
umanità. Attraverso i patimenti di Ovidio, Horia ci descrive l'esilio come un inferno
esistenziale, dove la nostalgia è resa ancor più pungente dal senso atroce e doloroso di un
distacco definitivo. Un tormento che, comunque, non si rivela fine a se stesso. Horia in effetti
farà dire Ovidio: «Augusto non saprà mai quale servigio mi ha reso facendomi soffrire: solo
ora sto scoprendo il vero volto di me stesso».
Per l'impareggiabile lirismo e la profondità dei contenuti, «Dio è nato in esilio»
risplende come un astro di prima grandezza nel firmamento narrativo del '900. Ciononostante
sono pochissimi i fortunati che hanno avuto l'opportunità di leggerlo. Stampato in prima
battuta nelle edizioni "Il Borghese", nel nostro Paese questo testo fu pubblicato per l'ultima
volta da Fogola, nell'ormai lontano 1979. E oggi risulta vergognosamente ignorato a causa
delle scelte miopi e faziose d'un'editoria asservita alle ideologie dominanti.
A spiegare le ragioni d'un simile boicottaggio basterà tuttavia una semplice occhiata
alla biografia di Horia. Egli nacque a Segarcela, nel 1915, in quella stessa Romania che quasi
duemila anni prima aveva appunto ospitato l'esilio di Ovidio.
Durante la II guerra mondiale ricoprì alti incarichi diplomatici per conto di Ion
Antonescu, il Maresciallo che fu a capo della Romania dal '39 al '44 e che, il 22 giugno '41,
dichiarò guerra all'Unione Sovietica, schierandosi a fianco dell'Asse. Quando poi, nel '44, il
regime comunista s'insediò in Romania, Horia fu condannato a morte. Ma riuscì a fuggire,
imboccando la via dell'esilio. Una vittima di più, trascinata in quell'esodo di dimensioni
bibliche cui la sciagurata alleanza fra comunismo e democrazie costrinse, in quei tragici anni,
milioni e milioni di europei.
Nel suo lungo e mesto peregrinare, Horia raggiunse dapprima l'Italia, ove strinse un
intenso sodalizio con Giovanni Papini. Dopodiché si trasferì nell'Argentina giustizialista di
Peron. Finché, nel '53, fece ritorno in Europa.
Inizialmente riparò nella Spagna franchista e, in un secondo momento, a Parigi. Nella
capitale francese legò con alcuni intellettuali dissidenti, anche romeni, come Cioran ed
Eliade. Nel '60, con «Dio è nato in esilio», Vintila Horia avrebbe vinto i 5.000 vecchi franchi
del «Goncourt», il più ambito premio letterario di Francia. Viceversa fu costretto a
rinunciarvi, a causa di una violenta campagna denigratoria montata contro di lui da
l'Humanité, il quotidiano del partito comunista.
Tutto chiaro, in definitiva: con un curriculum così, difficile sperare che Horia avesse
accesso ai sancta sanctorum della cultura occidentale, inespugnabili fortini del politically
correct. Ecco perché i suoi libri sono stati messi all'indice. Un'ulteriore umiliazione,
insomma. Benché postuma. Eppure un premio di consolazione Horia se lo sarebbe davvero
meritato, almeno post mortem. La sorte, con lui, non fu certo troppo generosa. Un'esistenza
poco fortunata, la sua. Epilogo compreso.
Nel 1990, quando il regime che l'aveva osteggiato era finalmente caduto, ed egli
s'apprestava quindi a rientrare in patria, Horia si ammalò. Dimenticato dai media, si spense a
Madrid, il 4 aprile del '92. Morendo in esilio. Proprio come il suo amato Ovidio.
L'umanità ha da saldare dunque un grosso debito morale nei confronti di Horia. Se
non altro per rendere omaggio al suo genio letterario e riparare alle tribolazioni da lui patite
nel corso d'un esilio durato quasi mezzo secolo. Invece neppure l'eco soave dell'opera di
Horia giungerà ai nostri posteri. Poiché l'intellighenzia di sinistra - già d'accordo con quella di
destra - ha decretato di estirparne il ricordo. Dalle radici. E per i millenni a venire.
Chi si è macchiato di connivenza col nazionalsocialismo deve pagare in eterno. Non
ha diritto al perdono. Né a sconti di pena. E questo genere di reato non cade in prescrizione.
Nemmeno nel regno dei defunti.
Lidia Sella