Michele Minolli ADOLESCENZA: DIPENDENZA

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Michele Minolli ADOLESCENZA: DIPENDENZA
Michele Minolli
ADOLESCENZA: DIPENDENZA-INDIPENDENZA O DRAMMATICITA’ DEL DIVENIRE.
Del tema di questo Convegno Dipendenza, dolore, depressione nel diventare adulto
dell’adolescente, ho ritenuto da subito importante l’argomento della Dipendenza. Mi scuso se
questa scelta, è risultata essere una voce isolata rispetto alle altre relazioni, tutte incentrate invece
sul Dolore dell’adolescente. Ma ritengo che i collegamenti tra dolore e drammaticità siano più
stretti, almeno in un certo senso, di quanto la diversità delle parole non lasci pensare.
Ho scelto di parlare del tema della dipendenza poiché esso viene automaticamente e abitualmente
inserito nella sequenza dipendenza-indipendenza, comunemente pensata quale focus specifico
dell’adolescenza.
Molti, se non tutti i modelli dello sviluppo, in effetti, sembrano viaggiare in Psicoanalisi su tale
schema concettuale.
La Mahler dà per scontata la partenza dello sviluppo da uno stato di indifferenziazione iniziale da
cui lentamente e dolorosamente, per agganciarmi agli altri relatori, il bambino ha da emergere.
Winnicott ipotizza una simbiosi di partenza pensata come fusione-confusione tra madre e bambino,
specie di magma originario da cui lentamente e dolorosamente ha da prendere forma la separazione
e la distinzione.
Lo stesso Freud ipotizza un narcisismo primario alla radice dell’essere umano. Un ripiegamento,
connaturale su di sé, che implica isolamento, chiusura e fuga dagli stimoli e che solo lentamente e
dolorosamente potrà sciogliersi.
E’ da questa modellistica dello sviluppo che è partita l’idea, oggi molto diffusa, che l’adolescenza
sia appunto il momento del passaggio dalla dipendenza all’indipendenza.
Vorrei accennare invece al fatto che il proprio dell’adolescenza sta nell’essere il momento
dell’elaborazione della propria identità e quanto assumersene il processo acquisti inevitabilmente
colorazioni drammatiche. La drammaticità di chi per la prima volta si confronta con il mettersi al
timone della propria vita. La drammaticità di chi al timone scopre di essere solo sulla barca perché
gli altri hanno perso significato e non hanno più l’importanza determinante di prima. La
drammaticità di chi sta scoprendo che ce la può fare e che ha ora la possibilità vera di contare solo
su di sé.
E’ abbastanza recente la visione dell’adolescenza come “fase” a se stante. Non più un punto
d’arrivo logico dell’infanzia, caratterizzato dall’accesso alla genitalità come conseguenza scontata
dello sviluppo psicosessuale, ma un “momento” specifico del processo evolutivo cui è demandato
fare i conti in modo originale e unico con l’affermarsi della genitalità, dei cambiamenti corporei e
dell’intelligenza “adulta”. Il lento e progressivo affermarsi di una psicoanalisi dell’adolescente,
nonostante i problemi inevitabili di ri-modellamento richiesti dall’intervento dell’adolescente, ne è
la prova e la conferma.
Ritengo anch’io che l’adolescenza sia un “momento” specifico e particolare dello sviluppo. Solo
non sono d’accordo con chi sostiene che il suo specifico sia dato dall’elaborazione-raggiungimento
della differenziazione, della separazione e del superamento del narcisismo. Non concordo cioè con
chi vede l’adolescenza come il tempo caratterizzato in primis e fondamentalmente dal binomio
dipendenza-indipendenza. Non ho una visione dell’adolescente incentrata sul passato, sullo
sciogliere i legami del passato, ma una visione incentrata sul futuro. Sono convinto che
l’adolescenza è caratterizzata dal guardare avanti e che se guarda avanti risolve di conseguenza la
propria infanzia, il passato.
Non è un partito preso, non è un capriccio intellettuale. Non è neppure una visione illuministica
dell’adolescenza. E’ una visione che accentua per dirla con Khan il problema della
“soggettivazione”: l’adolescenza “E’ l’età in cui l’identità e le identificazioni dell’essere umano
sono globalmente modificate, cioè a dire che vengono riorganizzate in una forma stabile, che siano
vivibili o meno, patologiche o no. Questa prospettiva è la sola che ci può evitare la minaccia sempre
più incombente di una psichiatria dell’adolescente centrata sul sintomo piuttosto che sul soggetto”.
E’ comunque la deduzione che traggo dai cambiamenti epistemici degli ultimi anni e che ritrovo
esplicitata dalle ricerche sperimentali dell’infant research.
Dopo le affermazioni di Heisenberg, non è più corretto e accettabile occuparci della realtà ossia
della comprensione della realtà, in un’ottica lineare. Lo schema positivista che dà per scontato un
osservatore immacolato che si interessa a senso unico dell’oggetto, non sembra più sostenibile.
Oggi l’epistemologia si è decisamente attestata sul costruttivismo. Ormai il sapere viaggia su strade
a doppio senso o meglio su strade in cui è permesso viaggiare nei due sensi della stessa corsia.
Certamente sono quasi inevitabili gli incidenti tra le nostre certezze a aprioristiche, le nostre verità e
le certezze, le verità che ci provengono dall’oggetto, ma il costruttivismo dice che è proprio da
questi incidenti, più o meno frontali, che possono nascere certezze e verità rispettose della realtà e
del sapere. Dopo Popper non è più pensabile un osservatore neutrale, pulito, immacolato.
Osservatore e osservato costruiscono assieme la certezza e la verità. Una verità sempre relativa e
funzionale alla possibilità costruttivista di quel momento dato.
I dati che ci fornisce l’infant research sullo sviluppo del bambino sono dati sperimentali. Al metodo
dell’osservazione, l’infant ho sostituito il metodo della sperimentazione. Un cambiamento che
poggia sull’utilizzo delle capacità del bambino per verificare ipotesi formulate in precedenza. Non
più quindi un’osservazione dall’esterno, inevitabilmente inquinata dagli occhiali da sole
dell’osservatore, ma sperimenti mirati a prendere atto delle capacità proprie del bambino e questo
fin dalle prime ore di vita extrauterina. E’ ormai risaputo quanto la visione dell’indifferenziazione,
della simbiosi e del narcisismo primario iniziali siano deduzioni inquinate dell’adulto, quanto cioè i
modelli evolutivi storici della psicoanalisi siano vittime, inconsapevoli e incolpevoli, ma vittime
comunque di osservazioni o constatazioni fatte nella clinica dell’adulto e utilizzate, per deduzione, a
costruire i vari modelli dello sviluppo.
A superamento dello schema concettuale dipendenza-indipendenza mi sia permesso ora dare
consistenza, alla luce di queste premesse, alla mia visione del momento proprio dell’adolescenza.
Specifico del momento dell’adolescenza è lo spazio ora pienamente possibile del diventare adulti.
Con l’emergere della genitalità, la sessualità non è più solo una tendenza al piacere vagamente
affettivo-emotivo, ma una propria e reale spinta al piacere genitale e all’accoppiamento. Con il
sopraggiungere dei cambiamenti del corpo (caratteri secondari, e statura), il rapporto dal basso
all’alto del bambino si trasforma concretamente in un vis à vis ad eguale altezza visiva. Forse di
conseguenza, l’intelligenza, non più incastonata in una dimensione della realtà mediata dai grandi,
sembra rimandare ad uno spazio di comprensione del mondo e ad una possibilità di attuazione di
progetti e di idee, nuove e personalizzate. Sono i cambiamenti strutturali dell’adolescente, dati
facilmente osservabili dall’esterno, constatazioni operate su di sé dall’adolescente. Qualcosa e
qualcosa di molto significativo si è fatto presente e rimanda ad un significato almeno
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implicitamente colto di essere grandi, di avere lo spazio di movimento dei grandi. Non sono più il
bambino bisognoso di cure e di attenzioni, non sono più nell’incapacità strutturale ad occuparmi di
me in prima persona, non sono più nel bisogno che qualcuno mi prepari da mangiare, mi lavi o
stabilisca il ritmo della mia giornata sulle basi di una realtà la cui gestione non dipendeva da me.
Ora, finalmente, sono attrezzato per decidere, per vivere, per essere. Ora i miei desideri, i miei
progetti, la mie aspirazioni sono mie e dipende da me perseguirli e attuarli.
Un diventare adulti che viene reso possibile per la prima volta nella vita dal momento
dell’adolescenza come spazio di elaborazione di un diventare adulti, fatto proprio e assunto come
proprio. In altre parole, diventare adulti non può essere semplicemente lasciato al dato oggettivo
dello sviluppo sessuale, corporeo o intellettivo. E’ fondamentalmente un’acquisizione psichica, un
definirsi soggettuale, un pronunciamento identitario.
E’ in questo spazio ora realmente possibile di un’assunzione definitoria di sé che entrano in gioco
prepotentemente il costruttivismo e l’Infant research.
Dalla nascita alla morte l’essere umano diviene all’interno dell’interazione e della dialettica. Ma c’è
un momento nella vita in cui questo divenire è più di casa perché si pone per la prima volta in tutta
la sua novità e in tutta la sua apertura: il momento dell’adolescenza.
L’interazione, nella linea dell’accomodamento e assimilazione di Piaget, regge il confronto sé-altro
a livello di coscienza diretta, come la chiama Jervis, una coscienza cioè incentrata sull’oggetto del
desiderio e sulla sua raggiungibilità.
L’interazione è un processo molto complesso che sappiamo essere governata dalla legge dell’auto e
della mutua regolazione (Beebe, Lachman, 1999). Il processo interattivo non funziona cioè in
assoluto, e in astratto in quanto tale. Negli esseri viventi l’interazione è retta o dipende dalla
regolazione ottimale sia del proprio equilibrio sia dell’ottimale equilibrio dei due poli in interazione
o della relazione tra loro. Non si intende per “ottimale” una corrispondenza con un modello
desiderabile o supposto buono di relazione. Ottimale vuol dire: migliore possibile per entrambi
nella situazione data. Non esiste quindi un solo criterio interattivo, per esempio l’attuazione del
proprio “desiderio”, ma un duplice criterio ossia l’attuazione di un proprio desiderio all’interno di
un’interazione che rispetti anche l’equilibrio dell’altro. Il desiderio potrà trovare attuazione solo se
la risposta dell’altro sarà reggibile dal proprio equilibrio e se la nostra proposta sarà reggibile
dall’equilibrio dell’altro.
A rendere concreta l’interazione credo utile ricordare che l’interazione stabilisce il risultato
raggiunto come risultato del 50 % messo dall’adolescente e l’altro 50 % messo da parte
dell’ambiente. Non esiste adolescente che non metta il suo 50%. Non esiste perché sappiamo che
fin dalla nascita il cucciolo dell’uomo si pone attivo nell’interazione. Non è pensabile un
adolescente che non sia in grado di mettere sul piatto della bilancia il suo 50%.
Ma non c’è solo la coscienza diretta. C’è anche la capacità riflessiva che entra in gioco nel
confronto sé-altro e in particolare quella che con Hegel preferisco chiamare autocoscienza. Una
capacità specie-specifica dell’essere umano.
Una capacità quella dell’autocoscienza di cui l’adolescente è scontatamente dotato che lo porta a
ritornare in se stesso dal proprio coinvolgimento cieco e meccanico proprio dell’interazione sui
contenuti del desiderio. L’autocoscienza come strumento operativo per vedersi e cogliersi nel suo
divenire adulto all’interno dell’ambiente che è il suo e con cui interagisce. L’autocoscienza come
possibilità concreta di essere presente a se stesso in quello che è, sta divenendo e vorrebbe essere.
Un ritorno a sé e una presenza a sé che fonda e determina la propria identità. Non sto parlando di
insight, di illuminazione o di razionalità. Sto parlando della capacità-potenzialità di entrare in un
processo che offre ad ogni essere umano di riconoscersi nei suoi desideri e di imparare a gestirli
attivamente in funzione del proprio progetto di vita.
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Non sarei uno psicoanalista se non fossi convinto che proprio e solo all’interno del processo
dell’autocoscienza è in agguato lo spazio della rimozione. Una rimozione pensata come
oscuramento dello specchio, come chiudere gli occhi, come girare lo sguardo altrove. Non già un
non significare, ma un’opera di de-significazione di quanto di proprio viene colto ma ritenuto
difficile, duro, pesante da riconoscere e da accettare. Una rimozione che viene ad esprimere la
dimensione più personalizzata e soggettuale del proprio diventare adulti nella misura in cui sembra
costituire una rinuncia, una negazione o per lo meno un adagiarsi e un soprassedere.
Il bambino nonostante le sue capacità interattive e autocoscienti può arrivare a partire seriamente da
se stesso solo fino ad un certo punto. C’è nel suo essere bambino un bisogno oggettivo di cure e di
attenzioni dell’adulto. Il bambino può interagire e porsi ma non può fare a meno dell’adulto. Un
adulto che rimane necessariamente sullo sfondo di cui non può non tenere conto per crescere e
divenire.
L’adulto ha invece stabilizzato le sue soluzioni storiche. Si è andato configurando nelle soluzioni
ottimali per lui. Soluzioni che hanno acquisito colorazioni di stabilità, a volte, se non spesso, di
rigidità. L’adulto come chi raramente conserva la plasticità del cambiamento e la disponibilità alla
revisione delle sue strutturazioni storiche. L’adulto come chi ha perso o non crede più, sovente, al
suo divenire all’interno del mai terminato processo dell’autocoscienza.
L’adolescente invece, contrariamente al bambino, si ritrova progressivamente nello spazio di non
obbligato bisogno dell’adulto.
E’ oggettivamente che l’adolescente sviluppa e si ritrova presenti le proprietà fisico-psichiche
dell’adulto. Ha le capacità concrete di guidare il motorino, avere le chiavi di casa, uscire con la
fidanzatina, fare una festa con gli amici, andare da solo a comprarsi i jeans seppur con la paghetta o
con i soldi di papà.
I genitori hanno spesso difficoltà ad accorgersi di quanto i loro adolescenti sono cresciuti e di
quanto quindi meriterebbero venisse loro riconosciuto uno spazio di movimento nuovo e maggiore.
Più facile che se ne accorgano e che l’abbiano riconosciuto dai nonni.
L’adolescente poi contrariamente all’adulto non si è ancora, con evidenza, stabilizzato in soluzioni
identitarie definitive, più o meno rigide.
E’ per definizione che l’adolescente è in mezzo al guado ed è la sua peculiarità confrontarsi con gli
altri e con se stesso per scegliere e decidere chi vuole essere, che cosa vuole essere.
Non è certamente facile vedere trattare l’adolescente da adulto. Sono convinto che più spesso i
grandi sono più sovente portati a vedere in lui il bambino che non è più che non l’adulto che sarà un
giorno. Potranno anche esserci rigidità e durezza, esagerazioni e reattività nel comportamento
dell’adolescente, ma è difficile pensare che siano tratti definitivi e stabili. Anche per questo si
discute molto se sia legittimo configurare una patologia specifica dell’adolescenza.
Penso l’adolescenza come il momento evolutivo della definizione di sé e della costituzione della
propria identità.
Un compito caratterizzante l’adolescenza quale momento specifico. Il senso vero di questo tempo
particolare che va dalla fine dell’infanzia all’età adulta.
E’ a questo significato che collego la drammaticità come elemento proprio dell’adolescenza.
Non sto pensando alla drammaticità romantica del giovane Werther intrisa di ripiegamento sterile
su di sé e neppure ad una drammaticità che potremmo definire esistenziale, intrisa più o meno
velatamente di pessimismo e neppure alla drammaticità più comprensibile insita nella caduta degli
dei idealizzati.
Sto pensando ad una drammaticità reale e vera insita nel proprio definirsi e costituirsi soggetto,
separato e distinto, nei confronti dei genitori, dei fratelli, degli amici e del mondo tutto.
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Chiaramente sto ponendo l’accento sulla dimensione elaborativa interiore del chi sono io e del chi
voglio essere. Una dimensione chiaramente incentrata sulla dimensione dell’autocoscienza che
forse mai come nel momento dell’adolescente si fa presente e si pone aperta ad ogni sorta di stimoli
e di opportunità.
In concreto, l’adolescenza è certamente il periodo della vita in cui con più pregnanza si pone lo
spazio di confronto e di rielaborazione di quello che sinteticamente chiamerei con Kaes il “legame”
di cui egli scrive: “ Il legame impone a ciascuno di noi delle esigenze di lavoro psichico. Sono le
esigenze alle quali dobbiamo sottometterci per esistere, ma dalle quali dobbiamo separarci e
slegarci quando queste esigenze e le alleanze inconsce collegate, danno luogo alla nostra
autoalienazione e all’alienazione che imponiamo agli altri” (2004).
E’ questo il lavoro psichico proprio dell’adolescenza ed è a questo lavoro che collego più
concretamente la drammaticità. E’ drammatico porsi o tendere a porsi a partire da se stessi.
Implica pronunciarci sui legami che ci legano a papà e mamma. I legami inconsci su cui è stata
costruita nell’infanzia la relazione ottimale con loro. I legami vincolanti che hanno permesso come
ponte di mantenere unite le due rive del fiume. I legami che hanno costituito l’ossatura delle
interazioni e dell’accettazione reciproca.
Implica affrontare i legami che uniscono al gruppo di pari nel quale si è stati portati o si è portati ad
appoggiarsi per avere rinforzo e sostegno nel buio del nuovo e dell’ingovernabile. Legami subiti e
sottaciuti per avere forza e sentirsi meno soli. Legami spesso soffocanti e vissuti nella pericolosità
della delega e dello spostamento fuori di sé.
Implica mettere ordine nei legami con se stessi. Il mondo antico delle convinzioni acquisite nel
tempo su di sé. Le costruzioni più o meno funzionali adottate in passato per darsi comportamento e
dignità. Ora non reggono più. Non sono più adeguate. Manifestano tutta la loro relatività e la loro
povertà. Si rivelano inadeguate e insoddisfacenti.
E’ qui la drammaticità dell’adolescenza: nel ritrovarsi davanti a se stessi e nel dover, non poter non
farsi carico del partire da se stessi nello scegliere chi voglio essere e chi voglio diventare. Nel
trovarsi davanti un compito di vita che per la prima volta ha tutte le carte in regola per essere preso
sul serio. Nel avere chiaro nonostante tutto che nessuno e niente potrà sostituirsi a noi stessi, perché
la vita e nostra e ci appartiene in prima persona.
Considerazione finale: per poco che si sia sensibili, il dolore dell’altro, specie di un figlio, ci spinge
naturalmente a farcene carico e a trovare mille modi per alleviarlo e/o attenuarlo.
Di fronte alla drammaticità dell’adolescente è giusto che noi adulti si abbia rispetto e comprensione.
Mi auguro solo che non si ceda mai alla tentazione di sostituirci a lui tentando di fornire, servite su
un piatto d’argento, le nostre soluzioni o soluzioni preconfezionate. Mi auguro che nessun adulto si
lasci tentare dal proprio bisogno di eliminare la sofferenza del suo divenire.
Si diventa adulti nella solitudine dell’elaborazione soggettuale e si diventa grandi assumendocene
tutto il peso e tutta la laboriosità. Le soluzioni esterne, le pressioni altrui, le risposte già pronte
attenuano forse la drammaticità dell’adolescenza, ma spostano il problema e lo rimandano nel
tempo.
Come si muore da soli, così si diventa adulti da soli. Una solitudine che può essere rispettata anche
perché diventare adulti è morire al passato e alla propria storia per rinascere ad una vita più assunta
e più propria. La drammaticità ineliminabile del partorire la propria vita.
Grazie.
Genova, 30 novembre 2004
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