Vitamina D e diabete mellito

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Vitamina D e diabete mellito
G It Diabetol Metab 2012;32:173-175
Editoriale
Vitamina D e diabete mellito
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F. Cerutti , F. Cadario
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Dipartimento di Scienze Pediatriche e dell’Adolescenza,
Università di Torino, Torino; 2Clinica Pediatrica, Università
del Piemonte Orientale, Novara
Corrispondenza: prof. Franco Cerutti,
Unità Operativa Pediatria, Ospedale Regina Margherita,
piazza Polonia 94, 10126 Torino
G It Diabetol Metab 2012;32:173-175
La vitamina D (VD) è un secosteroide liposolubile presente in
natura in due forme: l’ergocalciferolo (VD2), di provenienza
vegetale, assorbito con la dieta e il colecalciferolo (VD3), di
origine animale sintetizzato dalla cute per mezzo delle radiazioni ultraviolette a partire dal 7-deidrocolesterolo. Nell’uomo
la VD deriva per l’80-90% dalla sintesi cutanea di VD2 e il
restante 10-20% dall’apporto alimentare di VD2 e VD3, di per
sé insufficiente per coprire il fabbisogno. I livelli circolanti della
forma biologicamente attiva della VD, la 1,25-diidrossi-vitami-
na D [1,25(OH)2D], ottenuta per idrossilazione sequenziale in
posizione 25 nel fegato e 1 nel rene, vanno incontro a variazioni stagionali correlate a fluttuazioni delle radiazioni solari
UVB: il picco e il nadir dei livelli sierici si riscontrano rispettivamente in autunno e tardo inverno/primavera. Ogni processo
che riduca l’assorbimento dei fotoni UVB a livello cutaneo,
come creme solari o indumenti coprenti, interferisce sulla produzione di VD; a livello dei 42 gradi di latitudine la quantità di
raggi UVB che attraversa lo strato di ozono è minima e di
conseguenza la VD prodotta dalla cute in autunno-inverno è
modesta. Uno stretto rapporto tra livelli di VD circolante e
quantità di melanina nel tessuto cutaneo è stato osservato in
indagini popolazionistiche: il fototipo 5/6 (pelle nera) ad alta
concentrazione di melanina richiede per produrre la stessa
quantità di vitamina D un tempo da 10 a 50 volte superiore di
esposizione alla luce solare, rispetto a una persona con fototipo cutaneo chiaro 2 o 31.
La carenza nutrizionale di vitamina D è diffusa non solo nell’adulto, ma anche nel neonato e nel bambino specie se
allattati esclusivamente al seno: il latte materno infatti apporta scarsa quantità di vitamina D pari a circa 20 UI/L. È stato
calcolato che circa un miliardo di persone presenta vari gradi
di disvitaminosi D. Con riferimento al livello circolante di
25OHD, lo stato di vitaminizzazione viene classificato come:
– ottimale se maggiore di 80 nmol/L;
– adeguato tra 50 e 79 nmol/L;
– carente al di sotto di 30 nmol/L, a sua volta distinto in
insufficiente (fra 20 e 30 nmol/L) o deficitario (< 20 nmol/L).
Un valore superiore a 372 nmol/L indica intossicazione grave
con associato rischio di calcificazione dei tessuti molli e
morte2.
La più conosciuta funzione della VD è la regolazione del
metabolismo calcio-fosforico: il deficit vitaminico determina
rachitismo a comparsa abituale in età pediatrica, mentre nell’adulto si manifesta con ampio ventaglio di sintomi quali
ridotte funzionalità muscolare e densità minerale dell’osso,
grave iperparatiroidismo secondario, calcificazioni vascolari.
L’azione genomica della VD è mediata dal suo legame ad
alta affinità al suo recettore (VDR) localizzato all’interno delle
cellule di osso, rene, cute e intestino. Dopo traslocazione al
nucleo, il complesso VD/VDR si lega agli elementi di risposta
della VD nei geni bersaglio che codificano gli effetti della vitamina. I VDR sono stati osservati anche in organi “non classi-
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ci” quali cervello, occhi, pancreas, muscolo, cuore, rene e
sistema immunitario suggerendo un coinvolgimento della VD
nella patogenesi di alcune patologie3. La presenza VDR e di
1-α-idrossilasi (enzima che interviene nell’attivazione di
1,25(OH)2D) nelle β-cellule pancreatiche di topi ha fatto ipotizzare che la VD intervenga sulla sintesi e secrezione di insulina: esperimenti in vitro su β-cellule di animali carenti di VD
hanno in effetti confermato una ridotta secrezione di insulina
in risposta allo stimolo con glucosio, che si normalizza con la
supplementazione vitaminica. Un miglioramento della morfologia è stato anche osservato in colture di β-cellule neonatali
suine addizionate di VD. Quest’ultima potrebbe influire sulla
secrezione e sulla sensibilità insulinica inducendo modificazioni del contenuto endocellulare di ioni calcio nella β-cellula
e nelle cellule dei tessuti bersaglio periferici attraverso meccanismi d’azione non genomici4,5.
L’elevata densità di VDR nelle cellule immunocompetenti ha
portato ad attribuire un importante ruolo della vitamina
anche nella regolazione dell’immunità naturale e acquisita e
nell’infiammazione. Nelle cellule dendritiche deputate alla
presentazione dell’antigene la VD è in grado di bloccarne la
maturazione mantenendole in uno stato di tolleranza immunologica, aumentare la produzione di chemochine implicate
nel reclutamento/induzione di cellule T regolatorie (Treg) e
diminuire la produzione di molecole proinfiammatorie. Nei
macrofagi e in monociti isolati la 1,25(OH)2D inibisce la proliferazione di cellule Th1 produttrici di IFN-γ e di IL-2 a favore della differenziazione di cellule Th2; in colture di linfociti B
umani inibisce la loro proliferazione e differenziazione in plasmacellule, la generazione di B cellule di memoria e la secrezione di IgG e IgM. L’insieme degli effetti della VD sulle cellule pancreatiche e immunocompetenti ha prospettato come
possibile un coinvolgimento nella patogenesi del diabete
mellito di tipo 1 (T1DM) e tipo 2 (T2DM) e della malattia cardiovascolare5-7.
La correlazione tra VD e T2DM nell’uomo è stata supposta
sulla base del rilievo di peggioramento della qualità del compenso metabolico durante i mesi inverno-primavera sia in
pazienti con T2DM sia in individui sani. Studi successivi
hanno evidenziato un’associazione significativa tra ipovitaminosi D e aumento dei livelli degli indici di infiammazione nell’adulto in buona salute e nell’obeso. Alcune metanalisi
hanno confermato una correlazione inversa tra livelli di
25OHD (inteso come marker della quantità di VD immagazzinata a livello corporeo) e prevalenza di diabete: peraltro la
significatività dell’associazione si riduceva o addirittura si
annullava quando nell’analisi statistica venivano introdotti fattori potenziali di rischio per la malattia, come l’indice di
massa corporea8. La carenza di VD è stata associata anche
a un aumentato rischio di mortalità in pazienti con T2DM, nei
quali l’iperparatiroidismo a essa secondario potrebbe favorire deposizione di calcio a livello vascolare, proliferazione
delle cellule muscolari lisce e fibrosi9.
Diversi studi sono stati indirizzati a valutare se la supplementazione di VD sia in grado di ridurre il rischio di sviluppare diabete e di migliorarne i parametri metabolici. In un’ampia
popolazione di donne senza storia familiare per T2DM seguite per 20 anni l’assunzione di 800 UI di VD e di supplemento
di calcio è risultata inversamente correlata all’incidenza di
T2DM se paragonata con coloro che avevano un ridotto
apporto vitaminico10. Un effetto positivo è stato osservato
anche in tre studi condotti su soggetti a rischio per T2DM nei
quali solo la somministrazione di VD ad alte dosi (2000 UI) ha
indotto un miglioramento dei parametri di secrezione e sensibilità insulinica6. Nell’ambito di trial di intervento condotti in
pazienti con alterata tolleranza glicemica o T2DM già diagnosticato la VD invece si è rivelata globalmente inefficace nella
correzione del compenso glicemico e degli indici metabolici11.
Dal momento che gli effetti della VD sono mediati attraverso
i VDR e le sue proteine di legame (D-binding protein, DBP),
si è ipotizzato che il polimorfismo dei geni che li codificano
potrebbe costituire un marker di predisposizione al T2DM: in
effetti, una relazione tra varianti del gene DBP e la tolleranza
glicemica è riportata negli Indiani Pima, e tra varianti di VDR
e T2DM in coorti asiatiche, mentre nessuna associazione è
stata riscontrata nelle popolazioni caucasiche7.
L’ipotesi che il deficit di VD svolga un ruolo patogenetico nel
T1DM è stata avanzata sulla base della dimostrazione che
animali da esperimento con ridotto apporto vitaminico nelle
prime fasi di vita hanno elevato rischio di sviluppare diabete
autoimmune e infezioni e che la somministrazione di VD a
dosi farmacologiche è in grado di inibire l’insulite e di ritardare la comparsa di malattia5-8.
I dati sugli animali hanno avuto riscontro in studi condotti su
bambini e adolescenti con T1DM di diverse nazioni nei quali
si è evidenziata:
– variazione dei tassi di incidenza della malattia a seconda
della stagione, della latitudine, dell’intensità di irradiamento di raggi UV e del colore della pelle della popolazione;
– elevata prevalenza del deficit di VD in bambini con T1DM
di recente diagnosi e in quelli con e senza complicanze
microvascolari paragonati con coetanei sani;
– correlazione negativa tra livelli di VD e marker di infiammazione;
– ampia variabilità dei dati sull’associazione con polimorfismi dei geni coinvolti nel metabolismo e nell’attività della
VD: studi condotti su coorti numericamente limitate
hanno correlato la suscettibilità a T1DM con varianti del
gene che codifica la 7-deidrocolesterolo-reduttasi o il
VDR, ma non sono state confermate indagini di popolazione5-8,12.
Una recente metanalisi evidenzia che il polimorfismo Bsml
del gene VDR è correlato a un aumentato rischio di diabete
autoimmune, ma solo nelle popolazioni asiatiche, suggerendo che differenze nel background genetico e nelle condizioni ambientali siano alla base della eterogeneità dei dati13.
Il possibile effetto positivo sulla prevenzione del T1DM
mediante la somministrazione di VD durante la prima infanzia è stato avanzato dall’EURODIAB Substudy 2 nel 1999 e
confermato in un’ampia coorte di bambini finlandesi e da
una metanalisi ricavata da quattro studi caso-controllo14,15.
L’efficacia dell’intervento preventivo è strettamente correlata
in primo luogo alla dose di VD impiegata: bambini che ricevevano un elevato apporto di VD avevano infatti una più
significativa riduzione del rischio di malattia se paragonati
Vitamina D e diabete mellito
con coetanei trattati con basso dosaggio. Un ulteriore fattore critico sembra essere l’epoca della vita in cui si effettua la
supplementazione vitaminica: lattanti che ricevevano VD a 712 mesi di vita dimostravano un minore rischio di sviluppare
diabete rispetto a quelli nei quali la VD era somministrata nei
primi sei mesi di vita. Questo rilievo può essere attribuito al
fatto che l’immunità adattativa del lattante inizia a svilupparsi a partire dal secondo semestre e di conseguenza la VD
somministrata in una fase più precoce della vita non è in
grado di esplicare i suoi effetti immunologici. Lo stesso meccanismo potrebbe essere alla base anche del mancato effetto protettivo osservato nei nati da madri che assumevano VD
durante la gravidanza o l’allattamento, periodi caratterizzati
da elevata prevalenza di disvitaminosi15 .
Trial di intervento in bambini e giovani adulti dopo l’esordio
di malattia si sono rilevati scarsamente efficaci: in due studi
la supplementazione di 1,25(OH)2D a basse dosi è risultata
sicura e ben tollerata ma non ha ridotto il fabbisogno di
insulina né migliorato il compenso glicemico. Di un certo
interesse è infine una osservazione relativa a un limitato
numero di adulti con LADA nei quali la somministrazione di
insulina sottocute e di 0,5 µg di 1-α(OH)D3 al giorno per un
anno ha consentito di mantenere un’adeguata secrezione di
insulina16.
Nel complesso, sebbene da un lato numerosi studi sperimentali indichino che la VD, per la sua attività sulle cellule
β pancreatiche e del sistema immunitario, è potenzialmente
in grado di prevenire e forse modificare il decorso della
malattia diabetica, il trasferimento degli effetti positivi conseguiti negli animali da esperimento all’uomo appare complesso per diversi motivi. In primo luogo va ricordato come i trial
di prevenzione e di intervento siano stati spesso condotti
basandosi su analisi post hoc e su coorti numericamente
limitate e disomogenee per caratteristiche cliniche (esposizione ai raggi UV, latitudine di residenza, stili di vita e di alimentazione) e genetiche: differenze nei polimorfismi dei geni
correlati con il metabolismo e trasporto della VDR potrebbero modificare sia la quantità di vitamina attiva circolante sia la
risposta alla sua somministrazione. Inoltre, la formulazione, la
quantità e la durata della supplementazione del preparato
vitaminico non è stata adeguatamente codificata nei diversi
trial; spesso la VD è stata somministrata senza conoscere i
livelli ematici di partenza e talora con dosaggio insufficiente
per raggiungere il livello di 80 nmol/L di 25(OH)D che sembra necessario per il controllo dell’aggressione autoimmune
e per la prevenzione dell’esordio di malattia. Esiste infine la
necessità di sviluppare parametri di laboratorio adeguati per
definire lo stato di vitaminizzazione della popolazione in
esame. Sebbene il 25(OH)D sia stato l’indice utilizzato nella
maggior parte degli studi, il metabolita più attivo della VD è
1,25(OH)2D, che in pazienti con malattia grave (vasculopatia,
trapianto cardiaco) è risultato un indice predittivo del rischio
di mortalità. Il dosaggio di questo metabolita richiede peraltro una quantità di campione ematico piuttosto elevata e
soprattutto presenta difficoltà di purificazione e separazione
che ne rendono difficile la standardizzazione17.
Al momento attuale, quindi, esiste un un’unanime opinione
secondo cui, pur in presenza di numerosi dati suggestivi di
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un possibile ruolo della VD nella patogenesi del diabete,
sono necessari studi controllati prospettici in ampie coorti
per definire la sua reale utilità e assenza di effetti negativi a
distanza (soprattutto in età pediatrica) per quanto attiene alla
prevenzione della malattia e alla terapia a lungo termine in
combinazione o meno con altri farmaci.
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