PDF - Spaghetti Writers

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LA RAGAZZA DELL’ULTIMO PIANO, #1
DAVID VALENTINI
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Che Alice fosse diversa da tutto ciò che avevo conosciuto me lo confermò il suo zerbino. Lo
teneva rivolto verso l’appartamento anziché verso il pianerottolo. Quando le chiesi perché, mi
osservò in silenzio ascetico per un minuto intero. Poi disse che era un modo per non dimenticare
mai che il mondo era la sua casa.
La incontrai per la prima volta mentre aspettavo l’ascensore. Era estate. All’epoca vivevo
ancora con i miei sulla Casilina, in una cameretta da tardo adolescente piena di roba che
aspettava solo di essere imballata negli scatoloni. Ogni giorno io e Marzia contavamo i secondi
che ci separavano dalla nostra vita comune. Eravamo giovani e tutto ci andava stretto, anche
spazi che fino a poco prima erano stati immensi. Per quanto mi riguarda, poi, rientrare dal lavoro
e trovarmi davanti quell’ammasso di cemento in cui ero cresciuto mi nauseava: l’ultimo dei miei
coetanei, figlio anche lui degli anni Settanta cresciuto a rock psichedelico e boom economico, se
n’era andato qualche mese prima. Ora quel posto somigliava a un castello infestato. Persino il
giardino in cui avevamo giocato era ridotto a una boscaglia incolta da quando Angelo il fioraio
aveva perso la moglie. Ci cresceva la gramigna.
Quel giorno, nel sentire qualcuno cantare Another Day in Paradise per la tromba delle scale
pensai che l’afa mi avesse dato alla testa. La voce si spandeva nello spazio e nel tempo come
un’allucinazione che non ne voleva sapere di dissolversi, accompagnata da passi leggeri e
precisi. Saltellò fuori con un walkman in mano e nel vedermi si bloccò, forse sorpresa quanto me
d’incontrare qualcuno sotto i cinquant’anni. Ebbe un istante di esitazione prima di sfilarsi la
cuffietta e sorridere.
«Ciao!» disse, mentre mi raggiungeva l’odore di mandorla.
«Buona sera» risposi, vergognandomi del mio tanfo dopo una giornata di lavoro.
Restammo a guardarci così, come due estranei che s’incontrano nell’androne di un
condominio dai muri ingialliti.
«Be’, allora ciao» ripeté, poi salutò la vedova Martini, che rientrava in quel momento. Le tenne
il portone aperto e sventolò la mano prima di uscire.
In ascensore la signora Martini impiegò ogni secondo a disposizione per raccontarmi quello
che era venuta a sapere sulla nuova inquilina dell’ottavo piano.
«Quel tirchio di Pozzoni dovrebbe smetterla d’affittare a cani e porci» disse. «Meglio stare
lontano da una così.»
«Perché, che ha fatto di male?»
Abbassò la voce, come se qualcuno potesse sentirci chiusi lì dentro. «Da quando è arrivata le
scale puzzano di ristorante cinese.»
«Non c’ho fatto caso.»
«Perché tu stai al terzo piano. Al sesto arrivano cose strane. Molto strane. E non parlo solo
degli odori. Ma poi hai visto che capelli? È il modo di portare i capelli, quello?»
Era impossibile non notarli. A destra c’era questa chioma nerissima che scendeva fino ai
fianchi, mentre a sinistra la rasatura quasi a zero faceva risaltare un orecchio a sventola come
pochi. Era la cosa più assurda che avessi visto.
«Poi c’è sempre un viavai di uomini» concluse. «Io li ho visti. Brutti ceffi. Angelo dice che
sono albanesi. O rumeni, boh. Dammi retta, quella è una sciacquetta.»
Nel palazzo si diceva che la Martini mangiasse lo stesso cibo che dava ai gatti del quartiere. Il
suo alito mi diceva che un fondo di verità ci poteva essere. Le augurai buona serata, ma le sue
chiacchiere mi seguirono finché non chiusi la porta di casa.
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Tirai fuori qualche avanzo per cena, poi chiamai Marzia. Era nera per non so quale
discussione con la madre, ma si addolcì quando le proposi di andare a vedere le nuove case in
zona Talenti il giorno dopo.
«Non vedo l’ora» gridò. «Ci pensi? Casa nostra!»
«Tutta nostra» risposi. «Sei felice?»
«Scherzi? Amore mio, sono al settimo cielo.»
Al tg si parlava della guerra del Kosovo e degli sbarchi di clandestini. Papà e mamma
guardavano quelle scene di morte e disperazione chiedendosi che fine avesse fatto il mondo che
avevano costruito. Dentro di me pensavo che quello era il mondo che avevano costruito.
Esattamente come oggi, ritrovando scene simili su internet, penso che questo è il mondo che
anche io ho contribuito a costruire.
Cenai guardando un film, alle dieci e qualcosa ero già letto.
A parte l’incontro con Alice, quella doveva essere la mia giornata tipo in quel periodo. Ero
convinto fosse la normalità non avere tempo che per il lavoro, la famiglia, la fidanzata. Qualsiasi
turbamento mi angustiasse, ci pensavano la stanchezza e l’estremo silenzio del condominio a
dissolverlo. Mi addormentai con le parole di Phil Collins nella testa.
David Valentini
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