Leggi i primi capitoli

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IL ROMANZO
La vita sembra sorridere a Caterina. Ha finalmente una trasmissione televisiva tutta sua,
si è lasciata alle spalle una relazione ormai stanca a Roma e finalmente può tornare nella
sua amata Milano. Solo una cosa la turba: ritrovare la sua ingombrante famiglia.
Caterina è sempre stata determinata a non farsi coinvolgere negli affari familiari, ma la
morte della madre rimescola tutte le carte. Resta incredula quando – assieme ai suoi
fratelli – scopre che la madre ha lasciato in eredità la vicepresidenza dell’azienda di
famiglia all’amante del marito. Di fronte a una decisione così inspiegabile, prende il via
un’indagine nei “misteri” di casa che si intreccia ai grandi e piccoli drammi personali dei
cinque rampolli, tra gelosie, complicità e passioni improvvise.
Un frizzante ritratto familiare in cui il gusto per la narrazione si alterna alla passione per
il cibo (e per i tacchi alti); un romanzo sapido e piccante come possono essere solo la vita
e l’amore.
L’AUTRICE
Anna Alagi ha trascorso l'infanzia in un paese della provincia di Cosenza per poi
trasferirsi, con la sua famiglia, prima in Toscana e infine ad Alessandria, dove oggi vive
col marito (Roberto), il figlio (Federico) e un cane Corso di 50 kg (Kira). Si occupa da
sempre di marketing e comunicazione.
Puoi trovarla su facebook o su twitter (@Anny_giant).
Ricette di famiglia
di
Anna Alagi
© 2013 Libromania S.r.l.
Via Giovanni da Verrazzano 15, 28100 Novara (NO)
www.libromania.net
ISBN 9788898562008
Prima edizione eBook luglio 2013
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Progetto grafico di copertina e realizzazione digitale NetPhilo S.r.l.
Ricette di famiglia
–1–
La rimpatriata
Roma. La sera della partenza
Mancava davvero pochissimo prima che Raffaele bussasse alla mia porta e io
lasciassi bruciare il piatto forte di tutta una cena.
Chiamai Michele, il mio adorabile fratello gay, per farmi dare un consiglio.
“Ciao splendida donna!” mi rispose.
“Devi aiutarmi” gli chiesi implorando.
Lui se ne approfittò, prendendosi gioco di me e rispondendo: “Oh piccola, lo vorrei
tanto ma stasera gioca il Milan...”
“Ho solo bisogno di una ricetta veloce. Ti prego, ti prego!” continuai a insistere,
imperterrita.
La mia supplica però, non suscitò la sua compassione, infatti, aggiunse infastidito (e
sembrò quasi serio) “non potresti andare al take away sotto casa? Invece di rompere le
scatole a me...” poi dopo essersi fermato un attimo, rispose da solo alla sua domanda e
disse: “...certo che no! Senz’altro avrai i tuoi soliti trampoli ai piedi”.
Tornò così a usare quella affettuosa, ma tagliente ironia sulle mie tacco dodici (per la
precisione quella sera indossavo un paio di strepitose Louboutin).
“La tua è solo e soltanto invidia, acida!” gli risposi stizzita, facendo finta di essermi
offesa.
“Per favore! Tra poco arriva Raffaele e non c’è nulla di pronto, solo due stuzzichini
stile happy hour e una torta confezionata dell’Esselunga.”
“Come hai fatto a cadere così in basso?”
Finalmente sentii una vena di compassione. Ciò di cui avevo bisogno.
“Oggi ho visto quel tizio della trasmissione. Il tempo è volato.”
Non volendo mi giustificai.
“Spaghetti aglio, olio e peperoncino. Imbranata.”
Mi diede l’impressione di aver fatto una risatina di derisione, che ignorai.
“Cavolo, sì!” gli risposi, saltellando come una bambina e rischiando di rompere un
tacco.
“Sono perfetti. Facili e veloci. Ti voglio bene Michy!” dissi lasciandomi andare a uno
slancio d’affetto (e riconoscenza).
“Anch’io sorellina. Ciao.”
Attaccò.
Che meravigliosa routine la pasta: acqua che bolle in pentola e padella profumata di
spezie.
Quella cena fu un successone, tanto quanto la lingerie e i miei tacchi eccessivi, vistosi,
invadenti. Una notte di fuoco, al sapore del peperoncino piccante del sud.
Peccato che il giorno dopo partii per Milano. Mi aspettava la mia famiglia, al
completo. Una rimpatriata dopo ben tre anni; al solo pensiero provai emozione e paura.
Pensai all’effetto che m’avrebbe suscitato sedere allo stesso tavolo con la mamma. Da
quando decisi di abbandonare l’azienda di famiglia per spettegolare in TV di fornelli e
scarpe col tacco, mi bandì dalle sue attenzioni, relegandomi in un angolino della mente,
sperando che, prima o poi, rinsavissi.
L’E.G. Foods (sta per Ever Green) era il regno che mio padre, Guglielmo, costruì
circa vent’anni prima con l’aiuto di suo cognato, lo zio Paolo.
Rivendevano frutta e verdura a mezza Milano.
Io e i miei fratelli passammo da lì, tutti o quasi, almeno una volta.
Marco, il più giovane, a un certo punto desiderò solo ritrovare se stesso, dopo aver
militato nelle file dell’esercito. Rinunciò così a quella “vita facile”, rifugiandosi negli
studi.
Michele invece, trovò la sua vocazione nella legge, divenendo uno stimato avvocato
della “Milano bene”. La sua omosessualità non fu mai esplicita, nel vederlo primeggiare
ogni giorno con addosso deliziosi abiti dal taglio impeccabile e uno sguardo sicuro di sé.
Le donne prima morivano ai suoi piedi, poi inevitabilmente diventavano sue grandi
amiche.
Sara e Gianni erano rispettivamente il braccio destro e il braccio sinistro di mio padre.
Lei, un’affascinante quarantenne in carriera, abbandonò la scrivania di una delle
multinazionali più potenti del pianeta, per lavorare al fianco di mio padre. Nonostante il
suo matrimonio passò per una brutta crisi, poteva vantare due adorabili marmocchi di
appena tre e sei anni.
Lui, Gianni, era un uomo taciturno, introverso ma di larghe vedute, che aveva saputo
trascinare l’E.G. Foods nell’olimpo del commercio milanese.
Feci parte di quella squadra per lunghissimo tempo e mi divertii moltissimo.
Sara e io ereditammo da nostro padre la passione per le pubbliche relazioni e così
girammo le cucine della città, pubblicizzando la nostra azienda.
Per anni osservai incantata la bellezza di quegli ambienti in acciaio inox, dove donne e
uomini indossavano una divisa che non rimaneva mai troppo a lungo immacolata.
Ognuno aveva il proprio ruolo in un processo che realizzava autentiche opere d’arte,
destinate a finire al tavolo di uomini d’affari, coppie clandestine e famiglie che
celebravano il pranzo della domenica.
“Cat, io ti aspetterò. Questo lo sai, vero?” mi disse Raffaele.
Notai i suoi occhi lucidi, pieni di lacrime.
“Certo amore mio, tornerò, infatti! Domani incontrerò per prima cosa il produttore
del programma e...” mi fermai perché, per un istante, mi resi conto di non poter essere
così convinta delle mie affermazioni, fingendo lo stesso un’espressione rassicurante.
“Sì, ma se non dovessi riuscire a convincerlo, noi come faremo?” dicendolo, la voce
di Raffaele tremò un pochino.
“Insomma... lo sai! Io non posso trasferire tutta la mia vita a Milano e poi hai sempre
predicato di vivere meglio lontano dalla tua famiglia.”
“Ehi, ehi, ehi, sei un fiume in piena. Stai tranquillo. Si farà a modo mio, vedrai, ho un
ruolo importante all’interno della produzione. La rubrica di moda e cucina è un’idea mia.
Le casalinghe impazziscono per queste stronzate.”
Risi poggiando dolcemente il dito indice sulle sue labbra.
“Va bene, proverò a crederti ma quest’addio mi sta angosciando.”
Non era per niente convinto che sarebbe stato tutto così semplice, come io volevo
fargli credere.
“Sarà solo per pochi giorni, credimi amore” dissi usando il tono più dolce possibile.
L’indomani mi accompagnò a Fiumicino.
Quando mi voltai al varco d’ingresso della pista, sentii una strana morsa allo stomaco
e alzai la mano in segno di saluto. Mi sembrò quasi un gesto solenne.
Stavo per spegnere il cellulare, quando sul display lessi il nome di Gianni. Mi chiamò
per avvertirmi che sarebbe venuto a prendermi in aeroporto ma non feci in tempo ad
attaccare che mi chiamò anche Marco e gli risposi, senza pensarci, che sarei stata felice
se fosse venuto a prendermi.
Il mio fratellino più piccolo era una specie di pulcino spelacchiato, un aquilotto
sperduto, la pecora nera della famiglia.
Uscì malconcio da una missione in Afghanistan e iniziò ad assumere sostanze
stupefacenti. Dapprima per lo più farmaci, per superare uno stato d’ansia perenne
procuratogli, forse, dal ritorno alla vita di tutti i giorni. Poi però finì per abusarne,
passando all’uso di cocaina e altre schifezze del genere.
Da qualche tempo pareva riprendersi ma i successi negli studi di medicina non
arrivarono.
“Sorellina, sei in splendida forma!” disse Marco allargando le braccia.
“Oh, grazie, anche tu non stai male, sai?” risposi.
Non fui sincera, mi sembrò deperito.
“Vuoi mangiare un boccone? Prima di entrare nell’attico più cool della città” scherzò
per superare l’imbarazzo dell’incontro con la mamma.
“Hamburger con salsa chili da Burger King?” tagliai corto.
“Delizioso. Accetto!” fece lo stesso anche lui.
Ci fermammo in piazza Duomo a gustare il nostro fast food. Non era cambiato.
Passare del tempo insieme fu piacevole.
Sapevo che la mia famiglia mi avrebbe tartassato di domande e sapevo anche che,
con lui, ero libera di raccontare solo ciò che desideravo.
Amavo profondamente i miei fratelli, mia sorella e i miei genitori ma nei miei
confronti, in ogni occasione fino a quel momento, erano stati invadenti, detestabili,
totalizzanti.
Seduti attorno a una gigantesca tavola imbandita, ci saremmo immersi nel piacere di
un buon bicchiere di Barolo, facendoci ognuno i fatti degli altri.
Lo scoglio più grande da superare sarebbe stato quello di rivolgere di nuovo la parola
a mia madre, Martina, con cui non avevo un dialogo da tre anni ormai.
Così dopo il cibo al sacco e un bel po’di risate, giunse il fatidico momento. Dovevamo
raggiungere il resto della tribù, che ci aspettava nell’appartamento dei nostri genitori, a
San Babila.
I preparativi per la rimpatriata
“È la prima volta che vengo a cena dai tuoi genitori Michy. Ti prego aiutami! Mi
parlano di queste famose rimpatriate da mesi...” disse Max, il neofidanzato di mio
fratello Michele, in preda al panico.
“Ho il diritto di essere un po’ nervoso?”
“Un po’ nervoso sì, ma così è troppo tesoro!”
Michele lo afferrò per le braccia strattonandolo.
“Stai benissimo con la camicia nera, fa molto gay!” gli disse ridendo di cuore.
Si era cambiato d’abito almeno sei volte.
“Perché tua madre e Caterina non si parlano da anni?” chiese girandosi verso di lui,
dopo essersi osservato ancora una volta allo specchio.
“Vuoi che ti spifferi un po’ di gossip prima di sedere a tavola, eh?! Mia madre, è una
donna molto particolare. Lei tiene alla sua famiglia più che a qualsiasi altra cosa al
mondo!” Si fermò a meditare su come formulare la sua risposta a quella domanda.
“Caterina tiene molto alla sua privacy. L’idea che mia madre si imponesse, l’ha fatta
impazzire Così hanno iniziato a discutere, eppure la mamma non credeva che avrebbe
mollato tutto davvero. Quando lo fece, non le rivolse più la parola.”
Tentò di raccontare tutto di un fiato.
“Scusa... Cat non ha mai provato a spiegarle, a riavvicinarsi in qualche modo?”
“Sì, ma nulla da fare!”
“Scherzi?” chiese stupito Max, provando a estorcergli dei dettagli con lo sguardo.
“No. L’avevo detto che mia madre è una donna particolare!”
“Ok. Vada per la camicia nera allora, mi mimetizzerò in un angolo.”
Max non pronunciò più una parola, sino a che non tirò il freno a meno del SUV,
lasciando l’auto in un parcheggio a pagamento a due passi da San Babila.
“L’appartamento dei miei ha dei posti auto riservati, perché ti fermi qui?” esclamò
Michele esasperato.
“Non sono riuscito a far lavare la macchina, ok?”
“Sei matto? Non ti giudicheranno dalla polvere sul parabrezza!”
“Scendi Michele!” gli ordinò perentorio.
“Ok, ok.” E lui alzò le mani in segno di resa.
“Amore, hai visto le scarpe di Ludovica?” chiese Sara avvicinandosi agli orecchi di
Federico che sedeva sul divano, assorto e col joypad in mano.
Provò ad alzare leggermente il tono della voce: “Amoreee?” ma niente da fare.
Il suo bambino di sei anni appena non si girò neppure, rimase lì, impalato davanti al
televisore a giocare a uno stupido videogioco di mostri, mentre lei impazziva nella folle
ricerca delle scarpe di sua sorella.
“È inutile che urli. È immerso nel suo mondo fantastico” la ammonì Francesco.
“Ciao marito in terapia!” finse allegria dando un bacio alla sua bocca, che restò
inerme.
Si erano sposati solo da qualche anno e si erano subito ritrovati a lottare per tenere
insieme i cocci del loro fallimentare matrimonio.
“Non le vedi Sara? Sono qui le scarpe di Ludo.”
Francesco usò un tono irritante per le sue orecchie. Le scarpe di Ludovica
penzolavano dalle sue mani, come un trofeo.
“Cosa ci fanno in cucina le scarpe della bambina?” chiese con poco garbo.
“È tardi! I miei genitori ci aspettano” aggiunse esasperata.
“Scusa se non sono un bravo mammo” chinò il volto ansimando per la rabbia.
“Faccio quello che posso, Sara. Ho addosso il peso della casa e dei figli, oltre a quello
di non essere un buon marito... tieni le tue scarpe del cazzo!” e lanciò le ballerine di
Ludovica risalendo le scale, con un piede decisamente pesante.
Fu un periodo difficile per lui.
Anche per Sara a dire il vero, perché ricominciò tutto da capo.
La sua carriera in una multinazionale del cibo era in forte ascesa. Il suo reparto
marketing era ogni giorno più competitivo. Eppure, mollò tutto!
Se a ciò contribuirono i suoi errori, per prima cosa lo fece per salvaguardare la sua
famiglia e impedire una crisi che si rivelò, purtroppo, inevitabile.
Così tornò all’E.G. Foods, sicura che stare nell’azienda di famiglia le avrebbe lasciato
più tempo da trascorrere con i bambini e altrettanto sicura che non incrociare più
quell’uomo (il suo amante) li avrebbe tirati fuori da quel casino.
“Pronti per uscire ragazzi?” urlò, dopo aver infilato le scarpe a Ludo.
“Sono pronti, andiamo!” disse Francesco, visibilmente irritato.
Si diresse verso la porta d’ingresso e lei lo attaccò ribellandosi al suo atteggiamento:
“Non trattarmi così! Io ci sto provando e sono stanca quanto te!”
“Non abbastanza. Non ci stai provando abbastanza, cazzo” lui provò inutilmente ad
abbassare la voce, per non farsi sentire dai bambini, ma Sara percepì tutto l’odio che
provava nei suoi confronti.
“Perché se ci stessi davvero provando, capiresti la mia posizione.”
Cercò poi di ricomporsi e continuò dicendo: “È peggiore della tua, te lo assicuro”.
“Perché sono stata io a tradirti? Rispondi!”
Sara si stava addentrando in un terreno pericoloso.
“Non urlare e sali in macchina!” le disse lui, senza rispondere alla sua domanda.
“Quante volte dovrò chiederti scusa?” tentò invano di cercare il suo perdono, come
mille altre volte prima di allora.
“Forse non saranno mai abbastanza!” fu lapidario.
E salì in auto dopo essersi stampato un sorriso finto in volto, chiudendola in un angolo,
distrutta dai sensi di colpa.
Parcheggiarono nei posti riservati all’appartamento dei nostri genitori, in piazza San
Babila, dopo essere rimasti in silenzio per tutto il tragitto.
“Tesoro, stasera vorrei arrivare prima che inizi la cena, devo discutere con papà di
alcune cose di lavoro” disse Gianni, parlando alla porta chiusa del bagno.
“Ciao...” si affacciò Giulia, splendida.
“Ciao amore mio...” lui usò quel suo stesso tono dolce.
“Ha funzionato!”
“Cosa? Che cosa ha funzionato?” la implorò di rispondergli, con un sorriso ansioso.
“L’inseminazione, sono incinta di tre settimane!” dalla sua voce trasparì evidente
emozione.
“Oh mio Dio!” le gambe iniziarono a cedergli. “Tu sei...”
“Sì.” Non lasciò dubbi.
La strinse tanto forte che gli chiese di lasciarla.
Erano trascorsi tre anni da quando decisero di provare ad avere un bambino.
“Spermatozoi troppo lenti” sentenziarono i medici. Pochissimi riuscivano a risalire e le
probabilità di fecondare erano così inique da farli desistere.
Furono i miei fratelli a proporre di donare entrambi, di procedere con
un’inseminazione. Nessuno di noi doveva sapere chi realmente fosse riuscito
nell’impresa di portare a termine la fecondazione.
Giulia e Gianni stavamo insieme dai tempi del liceo e dalla vita avevano avuto tutto,
un figlio era l’anello mancante di quell’idillio.
Quando costatarono che forse non ne avrebbero mai avuto uno, fu come prendere
coscienza del fatto che l’inferno esiste.
Quella sera invece, dopo un lungo viaggio, atterrarono in paradiso.
Prepararsi per la cena fu l’ultimo dei loro pensieri e, infatti, arrivarono in ritardo.
Troppo in ritardo...
Mio padre mi salutò dall’altro capo del telefono con una voce terribilmente triste.
“Ciao Cat” disse solamente.
“Ciao papà! Siamo sotto casa con Sara e Francesco. Michele e Max sono nel viale.
Giulia ha chiamato, tarderanno solo dieci minuti...” risposi tutto d’un fiato ma lui mi parlò
sopra: “Tesoro? Tesoro, sono in ospedale”.
“Che succede? Perché in ospedale?” vidi la vita passarmi davanti.
“Tua madre ha avuto un infarto.”