Qui - Casa editrice Le Lettere

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Qui - Casa editrice Le Lettere
Alice nel paese
delle domandine
a cura di
Monica Sarsini
Le Lettere
Cibo
Vanna
Piove, dietro questa finestra, sul campo e sulle panchine.
Sopra queste mura screpolate piove, il rumore è come un lamento che porta via il vento. La tristezza della pioggia ci penetra piano, è insidiosa, tanto che anche il letto sembra bagnato. È pioggia? Sono lacrime? Ormai non lo so più, ma
fuori piove. Leggo, altrimenti impazzisco, certe volte non
capisco e devo rileggere. Chissà perché quando uno è in queste condizioni preferisce le letture tristi, forse è meglio cambiare, troppi pensieri neri, è tutto buio, ma forse è meglio
così, se si ricordassero i tempi felici sarebbe peggio. Anche
i pensieri si adeguano naturalmente al posto. Però guarda,
sono ancora autocritica, mi prendo in giro, questo è un bene,
allora forse dentro di me scorre ancora un po’ di sangue battagliero, speriamo che non mi abbandoni. Qui non può passare niente di buono e così restiamo immobili. Facciamo le
cose svogliatamente, è assai se riesci a stare viva. La maggior
parte dei miei soldi se ne vanno in medicine, integratori e
vitamine. Qui si ammalano anche le più giovani, figurarsi chi
della gioventù ha un ricordo remoto. Oggi sono vestita con
una tuta pesante, calzettoni, struccata, con gli occhiali da
vista, e anche se non mi vedo mi sento vecchia e brutta. Sono
sempre più taciturna, gli anni passano e gli acciacchi aumentano. E arriverà anche il dodici maggio. Spero di non ricordarmelo quando arriverà, un anno in più, sono quasi an38
ziana. Che vita sprecata. È meglio riascoltare il ritmo della
pioggia, sperando che gli occhi si chiudano, per non pensare, per non vedere più niente.
La ragazza piccola di statura che viene da un Paese dell’est arriva spesso in ritardo perché lavora in cucina. Lava le pentole
e mi ha raccontato che quella per bollire l’acqua per la pasta è
così grande che per sciacquarla bene ci si infila dentro. Da un
po’ di tempo il portavivande che collega la cucina ai piani è
guasto, così lei sale le miriadi di scalini trascinando con sé quel
pentolone bollente in cui galleggia la pasta. Assistente di una
fucina di fate maldestre svolge il suo compito come un’ospite
del mondo, che non ha avuto modo di scegliere. La donna dai
movimenti veloci e lo sguardo intelligente che d’improvviso
ha sciolto le trecce spigolose e ha rivelato una cascata luminosa di capelli, è contenta di essere stata di nuovo arrestata, almeno le tolgono i denti che le sono rimasti, due spunzoni cariati agli angoli delle labbra, e le fanno la dentiera, fuori non
avrebbe potuto permetterselo. Un’altra alta, africana, che
scrive in francese, a stare qui ha scoperto il piacere dell’amicizia, per via del suo lavoro non faceva che viaggiare, ora ha
tempo per riflettere, leggere e seduta con garbo, la schiena
eretta, sorride tranquilla, interessata ad apprendere. È una
delle poche che approfitta dell’isolamento dalla vita fuori da
qua nonostante la nostalgia per il marito e la famiglia per prendersi cura di sé con i pochi strumenti a disposizione, le altre
spesso si lamentano, criticano il sistema carcerario, vogliono
solo uscire e litigano. Una donna magra, senza trucco, gli occhi
limpidi e le mani delicate non fuma e non mangia la carne, ha
due figli, i genitori li accompagnano al colloquio, se le hanno
fatto un disegno non ha il permesso di prenderlo. Scrive spesso
di loro, di quanto le manchino, a casa senza di lei i bambini affidati ai nonni soffrono, la bambina non dorme, il bambino
non va più bene a scuola. Un giorno una ragazza siciliana,
dopo averla ascoltata leggere a voce alta il suo racconto, è andata nel corridoio, dove spesso si allontanano a fumare, e
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quando è tornata con gli occhi azzurri liquidi di lacrime ha
detto che era stufa di sentire le storie sui bambini, la maggior
parte di loro non li vede da anni, non li vedrà mai più, ha il terrore che vengano dati in affidamento e il dolore atroce per
averli perduti lo tengono chiuso dentro di sé, in uno spazio
dove le intuisco potenti, figure tragiche ridotte a identità di
marionetta dallo squallore delle circostanze in attesa di qualcuno che sappia riconoscerle. Quando scendono in biblioteca
per il nostro appuntamento se una concellina non è rimasta
nella cella portano i loro averi con sé, le sigarette, l’accendino,
la penna, nel piano che accoglie la sezione penale a ore stabilite le celle sono aperte, in modo che possano entrare, uscire e
farsi visita, ma c’è sempre qualcuna che ruba, anche il cibo, i
quaderni, per questo a volte per la paura di perdere i loro ricordi addirittura non vengono. Nel corso dei mesi ho visto mutare i loro corpi, quelle appena giunte via via se prendono dei
farmaci diventano più ottuse, il corpo rannicchiato in una sorta
di gonfiore, un antro, una caverna dentro cui le emozioni arrivano attutite. Altre invece diminuiscono le dosi, così gli
occhi, prima tenuti aperti a fatica, mantengono curiosi l’attenzione, e loro smettono di fare il gesto improvviso di ridestarsi dal letargo da cui sono pervase, pronte infine a sorridere.
L’una con l’altra si fanno belle, fiere della femminilità si truccano e si vestono con cura nonostante la mancanza degli specchi. Ridono per via dell’uomo che ha l’incarico di acconciarle,
è l’unico parrucchiere che nel salutare delle clienti esclami, signora spero di non rivederla.
Vanna
Il cibo preferito degli zingari è la gallina in brodo. Fa parte
della tradizione, anche recluse fanno il possibile per mangiarne ogni tanto. Si offrono di leggerti il futuro se compri
per loro la carne. Nella loro lingua ha un nome che non ricordo. Non so come viene cucinata, una volta una di loro
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mi ha chiesto se potevo acquistargliene due. La figlia mi
aveva prestato un paio di vecchi pantaloni macchiati di varechina. Mi sentivo di contraccambiare, nel libretto però
avevo pochi soldi, e ne ho comprata una sola. Si sono offese!
Nemmeno mi hanno offerto un cucchiaio di brodo. Manifestano il disprezzo per una persona sputando per terra. Lo
noto in giardino. Sono sedute in gruppo, parlano slavo, passano le tossicodipendenti e la saliva esce dalla bocca con un
rumore secco. Sul piccolo fornello da campeggio mettono
una pentola e per l’intero pomeriggio l’odore di carne lessa
invade le altre celle. Io sono alla sezione giudiziale, pure due
di loro c’erano, quando hanno visto che non tiravo fuori i
soldi per le loro spese si sono trasferite sopra, al penale.
Meno male! Nelle loro celle c’è di tutto: pentole, padelle,
una volta una mi ha mostrato la sua collezione di scarpe: regalo dei figli. Sono spesso in chiesa, durante il rito si alzano
e pregano davanti alla madonna. Sono venuta a conoscenza
delle loro gioie e tristezze tramite le lettere. Con la posta in
arrivo vengono in cella; leggo e rispondo basandomi su ciò
che trovo scritto. Una rom, non più giovanissima, è molto
bella. Lineamenti perfetti, occhi neri e furbi, i lunghi capelli
color rosso mogano sono quasi sempre raccolti in due trecce.
Striscia davanti alla mia cella, mi guarda, entra e siede sullo
sgabello. Sorride, le manca qualche dente, due o tre luccicano. Il marito è morto, pure un figlio, un altro è in affidamento, verrà espulsa dopo il carcere, i suoi capelli si stanno
sciupando con lo shampoo che passa la struttura, ne chiede
un po’ del mio; sa che non fumo, oggi però è giorno di spesa,
se magari posso comprare un pacchetto di sigarette… va via
senza salutare. Patrizia mischia limone e zucchero e ottiene
un intruglio che ha la stessa funzione della ceretta. Le celle
delle zingare le riconosco subito: al cancello è legato un nastro rosso, contro il malocchio. Molte lo hanno anche ai capelli. Però partecipano alle varie attività. Si sono appassionate al corso di bambole, non so quante ne hanno realizzate.
Non pare che la reclusione le affligga troppo. Il giudice che
le reclude per due o tre anni è pietoso nei loro confronti?
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Sotto ci sono le giovanissime con i neonati. Escono con i passeggini, i bambini sono puliti e accuditi. Tina, una mia cara
amica, mi dice che almeno qua dentro godono di ciò di cui
hanno bisogno.
Due ragazze cinesi oggi hanno fatto la spesa. Le ho aiutate
a compilare la lista, visto le difficoltà con l’italiano. Sorridono, il loro passatempo preferito sono le carte. Le portano
in giardino, siedono sopra ai tavoli e con le mani ben curate
le dispongono stando attente al colore. In occasione di una
festa all’aperto ci siamo preparate con cura; Yang era appena arrivata da un altro carcere. Vestita di bianco, la bocca
truccata con cura, emana freschezza al primo sguardo. Si è
avvicinata con il suo profumo, mettendone una goccia un
po’ a tutte. È grazie a lei che ho messo in bocca un wafer al
gusto di vaniglia. Li ha divisi con me e la compagna di cella.
Quando sono fuori al supermercato difficilmente sogno di
comprarne. Ora però il biscotto mi invita, lo mastico con
avidità e rimane nel palato il dolce sapore.
Laura
Quando sono arrivata in carcere mi hanno fatta entrare in
una stanzina nella quale c’era una finestra abbastanza grande
con il vetro all’altezza della mia pancia, dal quale vedevo
nella stanzina adiacente cosa stava facendo l’agente con la
mia roba. Prese un sacco grande nero, della spazzatura, dentro ci buttò la roba che avevo nella valigia e potevo portare
con me in cella. Infine due piatti, una forchetta, un cucchiaio, un coltello e una brocca, naturalmente tutto di plastica. Erano circa le sedici e mi portarono in una cella
sporca. Appena entrai appoggiai il grande sacco nero in terra
e sentii sbattere per la prima volta dietro le mie spalle una
porta con delle sbarre di ferro spesse. E per la prima volta
sentii il rumore delle grandi chiavi color oro entrare nella
serratura e il rumore delle possenti mandate. Mi guardai intorno, non so quantificare quanto tempo era passato quando
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arrivò di nuovo un’agente e sentii di nuovo il rumore di
quelle forti mandate, e quell’agente con una voce gentile in
contrapposizione al rumore di quella porta mi portò in
un’altra stanza, dove c’era una psicologa. Questo medico mi
parlò e mi fece qualche domanda, dopo mi salutò e mi disse
con cortesia che mi avrebbe fatta mettere in una cella insieme ad altre ragazze. L’agente mi riaccompagnò a prendere il grande sacco nero e mi misero in una cella con altre
due ragazze. Ormai erano quasi le 17.30 e una delle due ragazze mi disse che non facevo in tempo a rifare il mio letto
perché stava arrivando la cena. Feci attenzione e sentii in
lontananza il rumore delle ruote di un carrello e il picchiettio di coperchi che sbattevano sulle pentole. Tirai fuori dal
sacco nero i piatti e le posate e mentre il rumore si avvicinava
alla cella mi apparve davanti una ragazza vestita di bianco, i
capelli raccolti in una cuffietta bianca, che tirava il carrello.
In contrasto con quei vestiti bianchi aveva delle scarpe con
una para grossa e di colore marrone piuttosto vecchie e macchiate. Ero frastornata e per la prima volta avvicinandomi
alle sbarre mi accorsi che erano irregolari e che all’altezza
del mio viso c’era uno spazio più largo e corto, come un piccolo rettangolo. Osservai quello che facevano le altre ragazze
e vidi che solo in quello spazio era possibile passare il piatto.
La ragazza vestita di bianco, che poi seppi si chiamava portavitto, da lì prendeva i nostri piatti, li riempiva e ce li restituiva. Attraversare con la mia mano quella sbarra per farmi
riempire il piatto fu una grande mortificazione. A volte questa scena l’avevo vista in qualche film, ma adesso i miei occhi
non osservavano una finzione, vedevano la realtà in cui ero
precipitata. Le mie mani esili dalla pelle morbida e dalle unghie ben curate attraversarono quelle sbarre che intrappolavano il mio corpo e per qualche secondo la mia mano che
sporgeva era come se oltrepassasse il confine nel quale ero
rinchiusa. Sul carrello ci sono sempre tre portate, le porzioni
sono abbondanti ma gli odori e i sapori sono diversi da ciò
che cucinavo io. Ho lavorato un breve periodo in cucina. È
una stanza grande, pulita e tutto è igienico. Penso che gli ali43
menti da cucinare vengano decisi da un dietologo e le cuoche devono seguire le istruzioni. Ma nelle celle possiamo
anche cucinare da noi. All’interno del carcere c’è un servizio chiamato sopravvitto, cioè una lista di prodotti che si
possono acquistare attraverso un conto corrente personale
che ci viene portato a giorni alterni. Su questo conto corrente a chi lavora vengono messi i saldi direttamente dal
carcere, oppure vi possono essere fatti dei versamenti durante i colloqui o tramite vaglia postale. Il lunedì, il mercoledì e il venerdì viene portato il conto corrente, dentro ci
sono segnati i soldi che abbiamo e quelli che spendiamo. In
ogni cella c’è una lista di cose che possiamo ordinare: da
mangiare, prodotti per l’igiene personale, carta igienica, tovaglioli, sigarette, io ho acquistato il fornellino da campeggio ed essendo vegetariana spesso mi cucino arrangiandomi
a fare la pizza, la frittata, la frutta cotta e semplicemente la
fettunta e il caffè. La spesa che faccio io comprende soprattutto cioccolatini, biscotti, acqua minerale che porto ai
miei bambini durante i colloqui. A volte tra amiche ci portiamo il cibo cucinato da noi, per esempio Fanta, che ho conosciuto proprio nel corso di scrittura creativa, sapendo che
mangio poco e che sono vegetariana mi porta le sue squisitezze. Da qualche settimana non so se perché è cambiato il
modo di cucinare o perché io in questo posto ho cambiato
anche il mio gusto e il mio odorato, mi sembra che le minestre e la verdura siano migliorate. Comunque durante i
colloqui i miei genitori mi possono portare, ma solo quattro
volte al mese, il mangiare. Quando vedo i sacchetti portati
da casa e i prodotti scelti dai miei bambini li mangio con
un gusto particolare. Rivedo i contenitori colorati di mia
madre e nel cibo preparatomi risento il sapore e l’odore di
casa, ma assaporo anche l’amore con il quale mia mamma
ha cucinato per me. E questo cibo per me non è solo il nutrimento per il mio corpo, ma soprattutto per il mio cuore,
diventa un nutrimento affettivo, insostituibile da tutti gli
altri alimenti.
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Alice
Sono figlia degli anni Ottanta, così insieme al trucco marcato ho ereditato la pancetta classica di chi ha mangiato il
famigerato “pollo agli ormoni” che quando ero piccola io
fece scandalo perché faceva crescere le tette anche ai maschi, e soprattutto sono cresciuta con nonni e zie che hanno
sopportato la fame dei tempi di guerra e che con il cibo
hanno un rapporto sacro: le porzioni sono extra large, è vietato far avanzare qualsiasi briciola, il piatto deve brillare.
Oltre a un tipo di cucina casalinga, per niente dietetica, ricca
di soffritti, olio e roba ipercalorica.
L’ombelico in bella vista, con i pantaloni a vita bassa, per
quelle della mia generazione sono una tortura, ce ne sono
poche tra noi, più o meno quarantenni, che abbiano il pancino piatto come queste ragazzette per le quali è pure aumentata la “statura media”. Io poi sono una golosa grave,
ho fisicamente bisogno di cose dolci ed esattamente come
ho le fissazioni periodiche leggendo i libri prendo le fittonate ora per la marmellata di castagne, ora per i corn flakes
al cioccolato. Naturalmente mi sto riferendo a quando sto a
casa mia e sono libera di mangiare ciò che voglio.
Adesso sono detenuta a Sollicciano, dove come cibo ti passano il minimo indispensabile per sfamarti, senza troppo impegno. A colazione, tanto per cominciare, un po’ di latte e
un po’ di caffè d’orzo, per fortuna abbiamo il fornellino e la
caffettiera perché senza un caffè come si deve non inizierebbe nemmeno la giornata; e se per grazia ricevuta mi caricheranno qualche soldo sul conto, magari riuscirò a comprare una confezione di Kellogs, li ho visti sulla spesa e li sto
puntando da quando sono qui… le bimbe che sono in cella
con me nel caffellatte mettono il pane avanzato, come faceva
mio nonno, ma io di mattina non riesco. Per i pasti principali l’amministrazione penitenziaria distribuisce primi, secondi e verdure poco conditi e poco appetitosi. Gli alimenti
più gettonati sono: uova sode, risotti e verdure a tocchetti,
a riprova che in cucina c’è una cinese. Devo però essere sin45
cera dicendo che se qui a Firenze il mangiare è poco gustoso
a Pisa, dove ho soggiornato in passato, non è proprio commestibile, infatti era tutto un girare di pentole e padelle, un
passaggio continuo di piatti e ingredienti, che alla fine è
anche un modo per passare il tempo; per esempio facendo
la marmellata con i chili di mele e altra frutta che l’amministrazione lascia al mattino. Una volta io e la mia concellina
Fantaghirò per ringraziare l’intera sezione che ci aveva aiutato a ripulire dopo che avevamo spanato la valvola del termosifone provocando un’onda anomala nera e bollente, abbiamo fatto delle pizze, facendo lievitare la pasta, spianandola con il manico della scopa e cucinando queste benedette
pizze sulle padelle e il fornellino da campeggio, ed erano veramente buonissime.
Va beh, è inutile che dia la colpa della mia pancetta cronica
alla guerra e agli ormoni, sinceramente sono una buona forchetta!! Infatti io e Sheherazade, quando sono libera, passiamo le domeniche a fare delle merende memorabili in Garfagnana o a Bolgheri, vicino a Castagneto Carducci, in vecchie botteghe di alimentari dove ti propongono insaccati artigianali e formaggi e miele, accompagnati dal vino rosso e
chiacchiere in abbondanza. Ma essere una “buona forchetta” quando sei detenuta si traduce, nella maggior parte
dei casi, in fame nervosa, cosicché stai sempre a sgranocchiare qualcosa, più la terapia che gonfia per ritenzione
idrica, moltiplicato per le ore che stai chiusa in cella a lievitare stando stesa sul letto, o al massimo seduta, ha come risultato un appesantimento generale, molto poco edificante,
con particolare accanimento sul punto vita. Ed eccoci qui
rinchiuse e all’ingrasso, come mucche da macello, a sperare
che l’amministrazione passi da mangiare qualcosa di decente
o a raccomandarsi con la porta vitto che “tante le volte avanzasse una ricotta confezionata”… non avrei mai pensato di
attaccarmi a una ricotta, o a guardare la pubblicità degli yogurt in televisione come se fosse un’apparizione celeste; ma
anche questo è il carcere: avere preclusa ogni piccolezza che
normalmente faresti o vorresti. Ora che ci stiamo avvici46
nando all’estate poi si comincia con i gelati e il Brancamenta,
darei un mese di vita per un bicchiere di francamente! (dalla
regia, cioè dal letto di sopra, mi dicono: esagerata!). Di
porta-vitto ce ne sono attualmente due: M., che la senti arrivare con un gran sbattimento di stoviglie, è scorbutica ma
equa; l’altra è più silenziosa e tutta sorrisini e “buon appetito” e intanto il latte scarseggia, di zucchero te ne deve bastare mezzo cucchiaio pro capite e per le ricotte è inutile che
ti raccomandi tanto non avanzano mai. Nella cella 13 la
chicca durante i pasti riguarda il modo di mangiare dato che
essendo in tre e avendo due sedie e una specie di ripiano fissato al muro largo un metro e profondo quaranta centimetri, ci siamo dovute ingegnare stendendo una coperta e una
tovaglia come per un picnic, solo che non ci sono erba e natura a fare da sfondo ma piuttosto letti, sbarre e panni appesi: una vita in tre metri quadri.
Maria
Il cibo è il sostegno della nostra vita, ma dire cibo in un carcere è come dire fare un pappone misto, forse era più buono
il pappone che facevo, anzi cucinavo, da piccola quando giocavo a fare la mamma con quel povero bambolotto che
guarda caso lo chiamavo Massimo Galeotti, perché oltre a
farlo mangiare lo mandavo a scuola insieme alle altre bambole che avevo e tutti avevano un nome perché gli facevo
anche da maestra. Ma ritorniamo al discorso cibo, non
prendo spesso dal carrello quello che ci passa il carcere, ma
da quel poco anzi pochissimo che prendo e dalle lamentele
che ci sono da parte delle detenute non mi viene proprio da
dire uh, che buono. Specifico meglio, una semplice polpetta
è fatta a forma di una mezza palla rotonda, cruda dentro e
di un gusto che almeno a me lascia nel palato una sensazione
che non so spiegare come definirla. Il riso abbonda, fatto
più o meno nello stesso modo, con il pomodoro, alla cantonese, che di cantonese ha ben poco, e se si parla di pasta,
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beh, la pasta al burro, la pasta aglio olio e poco peperoncino, pasta al ragù che sembra un optional quando arriva,
anche quando ci sono gli gnocchi ai funghi o al sugo, ma
vince il riso, lui è sempre al primo posto, dimenticavo la verdura, scotta naturalmente, e che dire dell’insalata! Ti viene
servita in apparenza condita e compreso c’è l’acqua della
loro lavatura. Oltre ad avere tutti i giorni pranzo e cena consegnato insieme, questo è il menù di Sollicciano più o meno,
so solo che siccome la carne fa bene di quella proprio ne vediamo veramente poca, qui si ingrassa solo con la terapia o
se ti cucini da sola, cosa che io non faccio. Mi compro tramite spesa crackers e philadelphia. A colazione la mattina ci
portano latte e caffè d’orzo, un mestolo a detenuto, e che
dire dello zucchero? O mezzo cucchiaio o un cucchiaio raso
raso, a una come me basta a malapena un cucchiaio e mezzo
per addolcirmi.
Claudia
Da piccola mia madre insisteva sempre perché mangiassi,
non facevo in tempo a finire quello che avevo nel piatto che
lei subito mi chiedeva, ne vuoi ancora? E io, che ero di buon
appetito, non rifiutavo mai. Di conseguenza ero piuttosto
grassa e me ne vergognavo molto, anche perché gli altri bambini, con la crudeltà tipica dell’infanzia, non perdevano occasione per prendermi in giro. Nell’adolescenza crebbi molto
e di conseguenza dimagrii, e questo mi fece acquistare più fiducia in me stessa. Verso i venti anni a seguito di gravi problemi psicologici cessai di studiare e di frequentare gli altri e,
sola e depressa, mi buttai sul cibo ingrassando paurosamente.
Quando dopo qualche anno iniziai a lavorare come impiegata in un’azienda privata, di fronte alle altre mie colleghe, in
linea e curate, mi sentivo vergognosa e goffa, e iniziai così
una drastica dieta per raggiungere il mio peso forma. Sono rimasta così, con il mio giusto peso, finché nel 2003 entrai in
questo squallido posto. I primi mesi lo stomaco mi si chiuse
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e rifiutai il cibo arrivando a pesare 42 chili. Dopo circa un
anno, come reazione al prolungato digiuno, iniziai a mangiare in modo eccessivo, e di conseguenza ingrassai troppo di
nuovo. Adesso sono quasi giusta di peso, ma sto cercando di
calare un altro po’ perché se mi sento snella mi sento meglio
psicologicamente e più sicura e fiduciosa in me stessa. Cerco
di non mangiare troppi dolci e farinacei in generale, preferendo le verdure che qui portano ai pasti. Con la spesa interna possiamo integrare la dieta acquistando prodotti da
forno, formaggi, dolciumi, yogurt, sottaceti. Molte persone
fanno delle grosse spese perché amano cucinare con il loro
fornellino: io non ho mai avuto queste abitudini, e mi limito
ad acquistare l’acqua minerale (perché l’acqua qui dentro è
imbevibile) e qualche scatola di biscotti. Quando vengono a
trovarmi i miei familiari mi portano in genere dei prodotti da
forno, come schiacciatine secche aromatizzate in vari gusti,
che qui dentro non è possibile acquistare. Qualche volta, in
occasione di compleanni, le mie compagne di sezione organizzano dei “festini” con bibite e dolci a volontà. È un modo
simpatico di trovarsi insieme e scambiare quattro chiacchiere.
Personalmente cerco di essere regolata nel mangiare e non
prendere niente fuori posto, ma qualche volta mi viene una
voglia irresistibile di sgranocchiare qualcosa, e allora mangio
un frutto o un pezzetto di pane, qualcosa che non sia troppo
pesante e che mi riempia lo stomaco.
Fanta
Salve! Sono Fanta, sono carcerata da sette mesi, il mio passatempo qui è la lettura, e la cucina. Le nostre celle sono
aperte dalle 9 alle 20.30, io passo sei ore di questo tempo a
cucinare, adoro preparare da mangiare, poi però non mi
piace mangiare, adoro guardare la gente assaporare quello
che ho preparato con tutto il mio amore. La prima volta che
ho dovuto cucinare nella nostra cella, siamo in tre, la più anziana doveva andare a lavorare dalle 15 alle 17.30 e mi ha
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detto: “Puoi preparare una salsa con la gallina?”. Io ho risposto: “Non c’è problema”, lei lo ha ripetuto, io ho riso e
dopo il cambio delle assistenti, che prima devono fare il
conto di noi per cui non possiamo uscire dalle celle, ho cominciato a preparare la gallina, qui non ci sono coltelli così tagliamo la gallina con le forbici della Chicco, per i bambini, e
la più piccola mi ha detto: “Fantina, è meglio che aspetti
Elena, quando torna dal lavoro cucina lei”. Le ho risposto:
“Va bene”. Ho capito che pensa che non posso cucinare e
appena è andata dalle sue amiche ho fatto una buona salsa
con questa gallina e il riso bianco… buonissima per le ragazze, perché è la prima volta che assaggiavano la mia cucina.
Vorrei descrivervi la cucina del carcere: il bagno è lungo 3
metri, largo 1 metro e 20 cm, è buffo che dico che descrivo
la cucina e parlo del bagno, ma la mia cucina è il mio bagno,
che abbiamo diviso in due parti, nella parte senza lavandino
c’è uno spazio vuoto dove c’è la tavola 1 metro x 50 cm. Ci
abbiamo messo sopra una tovaglia deliziosa abbastanza lunga
per farci anche una tendina perché sotto il tavolo ci sono le
spese sistemate con ordine. È il nostro armadio segreto,
chiuso con la tovaglia. Sulla tavola ci sono i piatti nello scolapiatti, tre contenitori per lo zucchero, il tè e il caffè e un
piccolo spazio in cui si può mettere il gas, le bombolette sono
piccole, non si sa quanto costino fuori, non le avevo mai viste
quando ero libera; qui il fornellino costa 12 euro e il gas 1
euro, lo tengono le assistenti e ogni volta che lo hai finito
rendi il vuoto e te ne danno uno nuovo se hanno dei buoni
per il gas sul registro. In settimana la Spesina ci porta dei fogli
per ordinare la spesa, ci scrivi quello che vuoi comprare, il
codice, la quantità, per esempio se voglio la gallina scrivo il
suo codice, due galline, il prezzo, e in tutti i carceri è su per
giù la stessa cosa, ci sono delle differenze nei tempi di attesa,
ho fatto due carceri in sette mesi, ma gli altri carceri li conosciamo perché le ragazze girano e raccontano. La cosa più
dura è se non hai denaro, non puoi fare la spesa, devi fare
piano piano con il denaro, cercare di non spendere più di 15
euro la settimana. Se hai detersivo, bagno schiuma, dentifri50
cio, intimo, shampoo, la tua spesa può essere otto euro la settimana. Io ho lavorato in cucina due mesi, è pesante, il problema è che il tempo è poco, in due ore e mezzo massimo tre
devi cucinare per più di cento persone e in cucina devi aspettare il carrello del vitto che arriva dalla sezione maschile, dei
giorni arriva in ritardo, ma il nostro pranzo non può arrivare
in ritardo… ci sono dei giorni in cui mangiamo insieme
quando ci sono delle ricorrenze.
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Poi...
Maria è stata trasferita in un carcere punitivo, dove è sempre
chiusa. Così ha smesso anche di rispondere alle lettere delle
compagne.
Martina è entrata in comunità e ha perfino smesso di fumare
le sigarette.
Patrizia è stata trasferita in un altro carcere, ogni tanto
scrive.
Azzurra, incensurata, è uscita dopo pochi mesi e non si è
fatta più sentire dalle compagne.
Stefania dopo il processo è uscita dal carcere, adesso è a casa
con suo figlio.
Silvia, le hanno dato gli arresti domiciliari. È morta il primo
giorno che è uscita, per overdose.
Odalys è stata trasferita in un altro carcere, dovrebbe aver
scontato la pena.
Vanna ha scontato la sua pena ed è tornata a casa.
Anonima malgrado l’integrazione, ha fatto 4 anni di arresti
domiciliari durante i quali ha fatto l’università e ha avuto un
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diploma di educatrice per l’infanzia, dopo la sua pena di cinque anni è stata espulsa in Albania.
Leba, la piccola, qui la chiamavamo così, quando è uscita è
tornata in Sardegna. Quando è partita io, Fanta, avevo
troppo male al cuore. Senza denaro non sapeva dove andare
e l’unica cosa che volevo dirle era rimani, non partire, ho
riunito dei vestiti, ci ho messo anche la crema Nivea, il dentifricio, il deodorante, lei mi diceva, no, no, io le ho detto, almeno per la prima settimana, poi li butti.
Monica C. è uscita con un sorriso che andava da un orecchio all’altro perché non se lo aspettava. Dopo pochi mesi è
stata di nuovo arrestata.
Alice
Sono in stand-by da mesi; devo trasferirmi in un altro carcere, da lì in comunità; solo che il mio grande amore Oz ha
una scadenza a giugno e, per non ingarbugliare ancora di
più una relazione già molto ingarbugliata sto tentando di rimandare il più possibile la data del mio trasferimento. Per
me è di vitale importanza ma dubito che gli operatori che
mi vogliono nell’altro carcere la possano considerare una
motivazione sufficiente e quindi: fino a ottobre devo scalare
la terapia, molto lentamente, troppo lentamente; fino a novembre gli appuntamenti con il dentista; a dicembre avevo
il processo; ormai passavo le feste con le ragazze qui con cui
vado d’accordo; a gennaio dovevo finire il mese lavorativo e,
ciliegina sulla torta, a febbraio ho iniziato un corso professionale che terminerà a fine maggio. Et voilà. Preciso! Sono
sicura che i sopraccitati operatori, che hanno tra l’altro
molto poco senso dell’umorismo, purtroppo, mi stanno tacciando di irresponsabile, immatura e insomma come una tossica che cerca scappatoie per non guardare in faccia la re218
altà e rimandare la presa di coscienza sull’enorme bordello
che è la mia vita; ma tanto lo so che sono esperienze che verranno e poco ci posso fare, però adesso ho bisogno di pensare, sognare, incazzarmi e di nuovo sciogliermi in questo
sentimento di cui non posso fare a meno e che voglio vivere
fino a giugno, dopodiché mistero. Poi verrà il trasferimento;
più tardi la comunità… 4 o 5 anni, luogo che non conosco
per niente e mi intimorisce un po’, per i meccanismi usati,
per il lungo tempo che vi dovrò trascorrere e per i legami familiari che dovrò riconquistare. E dopo? Magari lui, forse,
chissà…
Claudia
È difficile pensare al futuro stando chiusi, i pensieri sono incentrati sulle piccole difficoltà quotidiane e tutto sembra più
duro da affrontare a causa della pena maggiore di chi è recluso, vale a dire la mancanza di libertà. Però qualche spiraglio allo stato attuale mi si sta aprendo: l’anno prossimo
potrò iniziare a chiedere permessi per trascorrere qualche
giorno fuori di qui e avere, in seguito, la possibilità di ottenere un lavoro esterno ed essere trasferita in una struttura
più libera e meno opprimente dell’attuale. So già adesso in
che posto andrò a vivere quando otterrò la completa libertà,
avendone parlato spesso con i miei familiari e, se tutto procede secondo l’idea che mi è stata prospettata dagli educatori, dovrei anche avere un lavoro sicuro e più che soddisfacente. L’aiuto per un inserimento lavorativo per ora è solo un
progetto su carta che spero si realizzi ed è un caso eccezionale rispetto alla normalità degli altri detenuti che, una volta
liberi, hanno enormi difficoltà a trovare un impiego per sostentarsi. Dico spesso a me stessa nei momenti bui che bisogna stringere i denti e affrontare con coraggio e forza di
carattere la durezza della mia situazione attuale e che il peggio è effettivamente passato. Il lavoro e lo studio sono un
grande appoggio, tengono occupata e allenata la mente e la
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abituano alla disciplina e all’attenzione. Inoltre servono a
passare il tempo in modo costruttivo. A volte penso a cosa
potrò fare quando sarò libera di uscire almeno per qualche
giorno. Sicuramente controllare tutte le mie cose, vestiario,
mobili, libri e altre carabattole, e poi fare qualche passeggiata nel bel quartiere dove ho sempre vissuto ai piedi delle
colline di Fiesole. Ho mantenuto alcuni amici con cui sono
sempre in corrispondenza e sicuramente andrò a trovarli. È
importante mantenere legami affettivi con persone al di fuori
dei familiari stretti, come afferma sia la religione che la filosofia l’uomo non è nato per vivere solo.
Monica Pace è uscita sotto la tutela del suo avvocato.
Laura spera di ottenere gli arresti domiciliari.
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Indice
Presentazione, di Mara Baronti
In carcere
Cibo
Il panneggio
Madri
Tra donne
Scrivere
Uomini
Disperazione e speranza
Figli
Colloqui
Famiglie
Storie
Poi...
Nel corpo di questo libro, di Roberta Mazzanti
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