Circolo Pescatori “Balin” Viale Rimembranza 16039 Sestri Levante

Transcript

Circolo Pescatori “Balin” Viale Rimembranza 16039 Sestri Levante
Circolo Pescatori “Balin” Viale Rimembranza 16039 Sestri Levante
Antichi metodi di pesca e attrezzi. - U cann-na Sestri Levante 1950-53
Stanno stivando la “ric-cea du can-na”: Milanin (Mussi Franco sul carro),
Toti (Marassini Giorgio a terra a sinistra), Cungadin (Gueglio Giorgio a terra a
destra), Berturin (Bertorino Marco sulla barca) tipo di rete da posta, serve
principalmente per catturare i cefali, specie dall’ou, per le macchie dorate che
hanno sulle parti laterali della testa.
L’attrezzatura si compone in due parti, una. calata a cerchio, racchiude,
in fondale inferiore a m. 10-12, una zona di mare circolare con diametro circa
m. 100-150 (dipende dalla lunghezza, da ric-cea), u can-na, si vede sulla
barca dietro il carro, un tramaglio di altezza m. 3,5 – 4 armato di canne, che è
calato sopra la i sugheri da ric-cea.
Come si pesca, di solito avvistato il branco di pesce, si circoscrive con
la ric-cea, chiudendola a cerchio, in fretta senza far rumore per evitare che il
pesce si allontani, sempre alla svelta si cala u can-na sopra il cerchio di rete.
Quando l’attrezzatura e ben sistemata, si comincia a far baccano, con
qualsiasi mezzo, battendo sulla barca, buttando pietre a mare o altro, per
spaventare il pesce che in difficoltà si mette a saltare per evadere e quindi
rimane impigliato nel tramaglio di superficie retto dalle canne.
Si attende che i pesci siano saltati tutti, prima di salpare e quindi riporre
in barca, l’attrezzatura. Ci sono pesci saltando superano la rete e quindi
guadagnano la libertà. Il muggine dall’ou è tipico fare salti fuori superficie
mentre quelli neri, massoni, o altre specie, difficilmente compiono salti e
quindi l’attrezzo non è indicato per la loro cattura.
Gbertorino 04.10.2010
Circolo Pescatori “Balin” Viale Rimembranza 16039 Sestri Levante
[email protected]
Antichi metodi di pesca e attrezzi. - Le “Manaite”
Il classico metodo per la pesca delle acciughe prima del 1930-35.
Tipo di reti da posta realizzate in filo di cotone, le maglie di grandezza
tale da far si che le acciughe durante i trasferimenti vi rimangano ammagliate.
La lunghezza cento metri, l’altezza 1000 maglie del 21 (il numero indica
che ci sono 21 nodi in un palmo, cioè in 25 centimetri).
Erano “armate” con modesta quantità di sugheri infilati in una corda a
distanza definita in precedenza, “bremmu da nata”, è fissato alla rete dopo
averla rinforzata con l’operazione di “doppiatura”, per tutta la sua lunghezza.
Da lato opposto ai sugheri, è cucito il “bremmo da ciungiu”, con i piombi
al posto dei sugheri.
Le testate sono rinforzate e munite di lacci, per mezzo di questi ultimi si
formano giunture per raggruppare almeno cinque o sei elementi.
Durante la cucitura del “bremmu da nata”, si provvede all’inserimento di
6 – 10 “fuetti” per ogni spezzone di rete, dove durante la calata si allacciano i
“segnè”, parallelepipedi di sughero muniti di cordino con lunghezza compresa
fra cinque - dieci “braccia” (m. 1,75 circa).
La manaita calata in acqua, tende ad andare a fondo, disponendosi
come un muro, con oltre 10 - 12 m. di altezza in condizioni ottimali, grazie al
peso del piombo che precipita mentre i sugheri tendono a rimanere in
superficie.
Le reti erano calate nel mar ligure solitamente alla distanza di circa da
una a tre miglia dalla costa, si doveva considerare la direzione e l’entità della
corrente, stabilire la profondità di pesca della rete, regolata dalla lunghezza
della corda che si legavano i “segnè”.
Ultimata la calata, si badava a compiere una prova, lo scopo era
accertare della presenza di pesce, l’adeguata profondità di pesca, il corretto
comportamento della rete con la corrente, procedendo a eventuali rettifiche o
al cambiamento di zona di pesca.
Ho sentito raccontare di pescatori molto abili che riuscivano a
prevedere approssimativamente il pescato, dal modo con cui galleggiavano i
“segnè”, per queste previsioni condizione indispensabile era il tempo ottimo,
mare calmo, l’assenza di vento.
Un minore galleggiamento “du segna” indicava appesantimento della
rete e quindi cospicua presenza di pesce, considerato che l’acciuga morta,
precipita a fondo, contrariamente alle sardine che tendono al galleggiamento.
Non credo che ci siano sostanziali differenze di peso specifico fra i due
tipi di pesce.
Ritengo che il fenomeno si possa spiegare con molta semplicità,
l’acciuga morendo svuota la vescica natatoria mentre la sardina la riempie
d’aria.
Quando il pescato era scarso, alcuni equipaggi, i più validi, andavano a
fare la stagione sulle coste Toscane, e anche sui litorali Romani, per il
periodo da maggio fino ai primi di giugno.
Prima di partire facevano provviste, caricavano i barili, il sale e tutto
l’occorrente per la salagione del pesce, vettovaglie: olio, patate, cipolle, aglio,
gallette di pane, non mancavano il vino, le provviste fresche erano fatte
abbastanza di rado nei paesi costieri.
Il piatto quotidiano, era il tradizionale “bagnun”, che in mancanza di
pomodori, confezionato, con olio, aglio, acqua e sale, era cucinato dopo aver
smagliato le acciughe, pulite ed eventualmente asciugate le reti.
Solitamente la salatura era effettuata di pomeriggio dopo aver dormito,
il pesce cosparso di sale in superficie di mattino aveva perso buona parte di
sangue “sangume”.
Il ritorno a Sestri solitamente previsto per i primi di luglio, era
consuetudine contare i barili di acciughe alla ricorrenza della Madonna del
Carmine (2^ domenica di Luglio), solitamente alla fine del mese venivano i
Livornesi per l’acquisto dopo averne controllata la qualità.
Ho sentito dire che il prodotto era utilizzato principalmente per
realizzare la tipica pasta, per essere poi confezionata ed esportata in
Inghilterra.
La quantità del pescato variava secondo le capacità degli equipaggi,
anche la fortuna svolgeva il suo immancabile ruolo. Quaranta barili di
acciughe salate, per una stagione di pesca erano, una meta ambita
difficilmente raggiungibile (circa 1.500 Kg. di pesce fresco), da dieci a venti
barili era considerata ottima pesca.
Correva voce che qualche equipaggio si avventurasse sulle coste
dell’Africa, credo però che forse sia leggenda se consideriamo le dimensioni
delle barche che avevano a disposizione.
Sestri Levante 13.11.2010
G. Bertorino
Antichi metodi di pesca
Territorio
Ricordi e Racconti
02.10.2011
Q - 02
O
“La sciabica” (rè)
Uno dei più antichi metodi di pesca, praticata tutto l’anno, tempo
permettendo. Nella stagione buona solitamente si facevano due calate, una al
mattino e una alla sera.
La rete era calata con un gozzo, partiva dalla spiaggia lasciando la cima di
una corda, che variava a seconda dello specchio acqueo che si voleva coprire;
con tre corde, dalla spiaggia di ponente si arriva quasi a metà rada. La rete
veniva calata a settore di cerchio con raggio molto ampio, si ritornava a riva con
la corda dall’altro lato a circa 100 m. di distanza da dove si era partiti.
La zona di pesca più frequente era la spiaggia di Ponente di fronte ai bagni
Sempione, si tirava la rete di fronte al Grande Albergo, ma anche dalle
Fournaxe, attuali bagni Sporting, qualche volta a S. Bastian, a Pietracalante, una
volta anche a Cavi Borgo.
Si iniziava a tirare le corde da ambo i lati con la stessa velocità, i nodi di
giuntura delle corde erano recuperati nello stesso istante, e quindi si aveva la
verifica del corretto recupero della rete.
La rete era formata da una parte centrale “manica” e da due ali “bande” (le
ali circa 80 m., la manica circa 15m.).
Le bande avevano due tipi di maglie: la prima era grande circa 22 – 25
cm., la seconda parte (“spessi”) la cui lunghezza era di 10 – 12 cm.
La manica aveva la maglia del 20 – 22 con la parte terminale del 28: i
numeri indicano in questo caso in numero di nodi in un palmo; nella stagione dei
bianchetti la parte terminale della manica finiva con maglia molto fine, il veli, che
era adatto per la cattura del pesce novello.
Era un tipo di pesca per la quale non era necessario avere abilità, salvo
considerare la corrente durante la cala della rete; per tirare le corde, allo scopo
di faticare meno, si faceva uso del frenello, un attrezzo che, indossato su di una
spalla (come la fascia indossata dal sindaco), permetteva di tirare le corde e
quindi la rete, sfruttando il peso del proprio corpo.
Ci si attaccava alla corda con doppio collo in prossimità della battigia,
procedendo all’indietro, cioè con la faccia rivolta al mare, ci si staccava a metà
spiaggia in prossimità del pescatore, che riponeva a cerchio la corda, ritornando
quindi alla partenza per un’altra corsa.
Recuperate le corde, si iniziava a tirare la rete, si abbandonava il frenello
solo quando iniziavano gli spessi della rete e quindi la manica era tirata a riva.
Il frenello era una striscia di tela da vele ripiegata e cucita di 6 – 8 cm. di
larghezza, alle due estremità era fissata una corda di 30 cm. molto flessibile,
con Ø 8 – 10 mm., che terminava con un piccolo disco di legno.
Per fare una calata erano necessarie almeno 10 – 12 persone, talvolta si
arrivava a superare i 20 elementi.
Il lavoro era svolto principalmente, oltre che dai membri della famiglia, da
persone molto anziane solitamente senza alcun tipo di reddito pensionistico, e
quindi a carico di figli o parenti; l’utile di questa attività permetteva loro di andare
all’osteria a bere il bicchiere di vino senza chiedere i soldi a casa.
Il pescato, solitamente pochi kg., veniva portato subito, senza nessun
trattamento conservativo, in strada e sistemato sul carretto per essere venduto.
La gestione di questa attività non comportava spese di gestione se non
quelle relative alla manutenzione delle barche e delle reti, spese molto modeste,
fatte in proprio nel tempo libero.
Mi risulta che la famiglia che gestiva questa struttura riusciva a vivere con i
proventi; il tenore di vita era modesto, infine coglievano occasioni per avere
profitti saltuari.
Non so come veniva ripartito il ricavato, anche perché era difficile
quantificarlo con precisione; ricordo che il guadagno era molto modesto, di solito
i collaboratori erano pagati a fine settimana. Difficilmente si arrivava a
guadagnare 1.000 lire.
Quelli che andavano a calare la rete, guadagnavano qualcosa di più,
benché non tutti offrissero lo stesso contributo lavorativo; ognuno dava quello
che poteva, la paga era uguale per tutti.
In rare occasioni il pescato, se era eccezionale per qualità o quantità, era
ricordato per lungo tempo; ogni tanto se ne rievocavano i particolari, con il solito
aumento delle misure.
Della sciabica erano realizzate versioni più piccole, calate quasi in ogni
angolo di costa, per catturare limitate quantità di pesce, a volte il fabbisogno di
una famiglia; sovente era utilizzata anche da ragazzini.
Ricordo una sera di fine maggio del 1952, avevo quasi 14 anni;
all’imbrunire, mentre eravamo intenti a giocare sulla spiaggia di ponente, ci
siamo accorti che a una ventina di m. da riva guizzavano tantissime pase
(piccole sardine); in pochi attimi con gli amici abbiamo deciso di procedere alla
cattura: siamo andati di corsa nel magazzino degli zii, con un carretto abbiamo
portato la riseua in spiaggia, stivata su un gozzo e calata in fretta; recuperata la
rete, era piena di oltre un paio di ql. di pase. Abbiamo provato a venderle, ma
senza risultato, abbiamo cominciato a regalarle, ma alla fine ne sono avanzate la
maggior parte. Lo zio, uscito dalla tubifera alle nove, dopo il turno di sera, ce le
ha fatte seppellire in un paio di buche profonde sulla spiaggia. Il giorno dopo
abbiamo pulito, lavato e asciugata la riseua, e quindi l’abbiamo riposta con cura
nel cassone in magazzino.
Le pase, sardine piccole, (bianchetti già vestiti), dovevano essere utilizzate
entro un paio d’ore dalla cattura, a causa del precoce deterioramento: lavate,
infarinate, fritte e mangiate con un cipolline novelle intinte in olio, sale e aceto.
Un sapore rimasto solo nella nostra memoria.
Sestri levante 05.09.2011
Giovannino
Ricordi e racconti
Q - 12
Territorio
“Resagiu”
Antichi metodi di pesca
02.10.11
O
U “resagiu” è un tipo di rete usata individualmente e manualmente.
È un grande disco di rete con diametro di circa quattro metri e oltre, la
cui circonferenza è armata con bremmu e piombo; è realizzata con tessuto
leggero con filo in due capi, la grandezza delle maglie varia da 22 a 28 nodi a
palmo, al centro è fissata la sagola, che serve per il restringimento della rete
e il successivo recupero.
È utilizzato per la cattura di cefali di grandezza medio piccola, dove
l’acqua è poco profonda, di solito in 15 – 30 cm.; con tipi di rete provvisti di
maggiore quantità di piombo, si può pescare anche a profondità di circa un
metro.
La scelta della zona di pesca è determinante, la superficie del fondale
deve essere priva di pietre e avallamenti; spesso chi esercitava questo tipo
di pesca era solito preparare la zona, togliendo le pietre dal fondo, per uno
spazio di poco superiore alla superficie della rete, lasciando solo sabbia e
graniglia.
Era consuetudine bromeggiare, con piccoli pezzi di pane raffermo, per
attirare i muggini nella zona sotto controllo.
In attesa del raduno del pesce in zona, la rete era sistemata con cura
sulla spalla, pronta per essere lanciata, quindi, ruotando nell’aria come un
grande ombrello, precipitava fulmineamente in acqua intrappolandolo in una
gabbia mortale.
Tirando la sagola, il piombo si raggruppa intrappolando il pesce, quindi
l’attrezzo, tirato a terra, viene alleggerito del pescato.
Tante volte si procede a ripetere l’operazione, la pratica di questo tipo
di pesca necessita grande abilità sia nel riporre la rete sulla spalla che nel
lanciarla.
Viene praticata principalmente al mattino presto o in tarda serata,
quando il pesce è tranquillo, sfruttando condizioni di luce favorevoli e altri
piccoli particolari che a volte fanno la differenza sull’esito della battuta di
pesca.
Sestri Levante 11.07.2011
gbertorino
Ricordi e Racconti
Q - 13
Territorio
“Gambaia”
Antichi metodi di pesca
02.10.11
O
La gambaia, struttura in metallo (solitamente tondino di ferro Ø 8 – 10
mm.) ricoperta di rete, con apertura anteriore di cm. 80 x 30 circa, terminava
con un sacco.
Era munita di anelli o ganci dove si assicuravano le funi per il traino.
Si utilizzava questa attrezzatura in bassi fondali regolarmente
pianeggianti e senza avvallamenti, fondali misti, sabbia e alghe, habitat ideale
dei piccoli gamberi bianchi.
Zona ideale era la baia del silenzio, veniva trainata da piccoli gozzi o
lancette a remi e trascinata sul fondo; era necessario un discreto sforzo.
Si percorreva la baia in direzione parallela alla spiaggia fino ad una
profondità di circa quattro metri, spesso ci si fermava per controllare e
prelevare il pescato.
Qualche volta da ragazzi la trainavamo in due, facendo il bagno,
camminando in acqua poco profonda, dopo averla assicurata a due funicelle.
Era un tipo di pesca sempre esclusivamente dilettantistico, i padri di solito
costruivano l’attrezzo come giocattolo per i figli; i gamberetti catturati non erano
mai venduti, ma utilizzati come esca per palamiti o bolentino, oppure dopo una
risciacquata erano infarinati e fritti alla sera in famiglia.
Avevano il sapore e la fragranza del pesce appena pescato, diverso da
quello del pesce fresco conservato in frigorifero.
Contribuiva sicuramente ad aumentarne la bontà il fatto che a quei tempi,
la disponibilità di cibo era decisamente diversa rispetto a quella del giorno
d’oggi…
Sestri Levante 11.07.2011
gbertorino
Ricordi e Racconti
Q - 19
Territorio
“Grunscea”
Antichi metodi di pesca
02.10.2011 O
Una semplice attrezzatura per catturare i murici.
Era costituita da un qualsiasi cerchio in metallo, a volte era utilizzato un
vecchio cerchione di bicicletta dopo aver tolto i raggi, sul fondo era sistemato un
pezzo di rete in nylon, per evitare il deterioramento in acqua, oppure una leggera
griglia metallica, tesa e fissata con una legatura alla struttura metallica.
Al centro era sistemato un tipo di spugna, recuperata fra gli scogli; sovente
era possibile recuperarle in prossimità da lunga, secca situata subito dopo il
pontile Margherita, che da un paio di metri dagli scogli si protende verso il centro
della baia per almeno una ventina di metri e in condizioni di accentuata bassa
marea affiora dall’acqua.
La spugna veniva legata al centro, senza stringere eccessivamente per non
deteriorarla, dopo averne controllato la vitalità e averla ripulita eventualmente
delle parti affette da necrosi.
Si sistemavano sulla stessa un paio di murici della varietà senza spine,
ritenendo che, vivendo in simbiosi, contribuissero al suo mantenimento in vita.
Tutta la struttura veniva appesantita con piccole lastre di piombo facilmente
deformabili, oppure sistemando pietre con appropriata legatura.
Veniva imbracata sulla circonferenza con tre o quattro funicelle di lunghezza
m. 1 – 1,5 confluenti a mezzo nodo in un’unica fune; la lunghezza della fune era
calcolata in modo che l’estremità a cui era fissato un natello, o qualsiasi tipo di
galleggiante, rimanesse circa una braccia o anche più sotto il pelo dell’acqua; lo
scopo era quello di tenerla nascosta alla vista di altri pescatori, in modo da evitare
il rischio di furti di pescato, se così si può chiamare.
L’attrezzatura, una volta preparata, si calava sul fondale, di solito nel golfo di
ponente; era sistemata evitando di essere visti, in un punto rintracciabile in linea
di massima a mezzo di “amie-e”, l’incrocio di coordinate prese in punti fissi a terra,
mentre la localizzazione precisa veniva fatta a mezzo del natello sotto il pelo
dell’acqua.
L’ispezione della grunscea veniva effettuata ogni tre o quattro giorni, o
settimanalmente: si prelevavano i murici, si controllava la spugna e la si riponeva.
Non ho elementi scientifici per spiegare il motivo dell’attrazione dei murici
verso la spugna, penso che ne traggano sostanze necessarie alla loro
alimentazione.
Forse, per far capire meglio il lettore, narro una mia esperienza personale.
Nel 1954, a metà luglio, avevo posto a dimora una grunscea di fronte
all’attuale entrata del posteggio di S. Anna, a una profondità di circa 10 - 12 metri,
avevo memorizzato le debite coordinate per l’individuazione grossolana.
Prima di riuscire ad ispezionare l’attrezzo, il tempo si è guastato con
conseguente libecciata; migliorato il tempo, un mattino mi sono recato in zona per
salpare la grunscea, ma senza risultato; a seguito di ulteriore ricerca senza
risultato sono arrivato alla conclusione che mi era stata rubata.
Dopo una ventina di giorni andavo a fare il bagno in compagnia sotto le
rocche di S. Anna; il tempo era bellissimo, l’acqua perfettamente pulita e
cristallina. Nella zona dove avevo sistemato prima l’attrezzatura, guardavo in
mare quando, sul fondo, ho visto una macchia diversa dal fondo sabbioso: non
c’era il natello sistemato a suo tempo; memorizzata l’amia, mi sono accorto che
coincideva. Non ho detto nulla ai compagni e abbiamo fatto il nostro bagno come
previsto.
Il mattino dopo mi sono recato sul posto con maschera, pinne e una corda
per imbracare la grunscea.
Tuffato, raggiunto il fondo, è uno spettacolo: dell’attrezzatura non si vede
l’ombra, si vede però un grande cono di murici, in cima c’è n’è uno solo.
Ritornato in superficie, ho cercato di organizzare il recupero, riuscendo a
recuperare la maggior parte dei murici.
Con diversi di tuffi, riprendendo fiato tra uno e l’altro, sono riuscito ad
annodare la fune alle funicelle che legavano l’attrezzo.
Ritornato in barca e recuperata la grunscea , ho riempito quattro cassette di
murici e, una volta a terra, ne ho regalato a parenti e conoscenti; logicamente
durante il recupero ne sono caduti tanti e tanti erano fuori del cerchio, perché sul
fondo era rimasto il segno.
Sestri Levante 28.08.2011
Giovannino
Ricordi e Racconti
Q - 30
Antichi metodi di pesca
Territorio
26.12.2010 O
Lampare a gas
Quest’attrezzo per la pesca con manaite, cianciolo, fiocina, era in uso da
prima della guerra, fino al 1965 circa.
L’attrezzo è composto di una struttura in lamiera di ferro smaltata, per
resistere sia al calore sia all’erosione da parte dell’ambiente marino.
All’esterno sono situate le valvole per il combustibile, all’interno sono
racchiusi i tubi che terminano con nipples sui quali sono avvitati diffusori di
materiale refrattario dove sono legate le reticelle, realizzate in filato, una volta
bruciato, rimane la cenere, elemento caratteristico per la corretta combustione del
gas, un globo di vetro esterno protegge le reticelle da eventuali follate di vento
una reticella, in filo di ottone protegge il globo, ne mantiene la forma anche in
caso di venature del vetro.
I combustibili cambiavano nel tempo, secondo la disponibilità e l’evoluzione
dell’attrezzatura.
I primi esemplari funzionavano a carburo che sistemato in contenitore metallico
funzionante da gasometro, generavano acetilene, erano alquanto pericolosi.
Si passò alla benzina, sistemata in contenitore metallico, con tappo ermetico,
munito di pompa, compito di quest’ultima, realizzare all’interno del serbatoio la
pressione necessaria, per far giungere il carburante alle valvole, e quindi all’interno
dell’attrezzatura, nei tubi sotto l’effetto del calore, il combustibile, da liquido si
trasforma in gas espandendosi, escendo quindi dai diffusori, passa alle reticelle che
per continuità ardono, generando luce e calore.
In seguito si è passò al gasolio, petrolio, kerosene, senz’altro meno pericolosi
della benzina,
In ultimo si usava il GPL, utilizzando bombole da 20 Kg.
La maggior parte delle attrezzature è corredata di quattro reticelle, poiché
ognuna può fornire circa 2000 lumen, ogni attrezzature circa 8.000.
Su ogni natante si montavano spesso anche due attrezzature, per una potenza
di circa 16.000 – 20.000 lumen, attualmente con i generatori elettrici si arriva ad
avere disponibili potenze anche 200.000 lumen.
Ci sono attrezzature con sei reticelle, non tanto frequenti perché il loro
funzionamento è meno regolare, esistono tipi a una due e tre reticelle, questi tipi
sono utilizzati per fare pesca con la fiocina, per passare sopra le manaite, per
favorire la magliatura del pesce, ma non per la pesca con il cianciolo, a causa della
limitata potenza, le reticelle sono molto delicate, a volte un piccolo urto le distrugge,
si rompono,cadono.
Sestri Levante 26.12.2010
Gbertorino