[105] - 122 AUGUSTO MURRI del Prof. GIACINTO

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[105] - 122 AUGUSTO MURRI del Prof. GIACINTO
[105] - 122
AUGUSTO MURRI
COMMEMORAZIONE
del Prof. GIACINTO VIOLA
ordinario di clinica medica generale
18 Marzo 1933-XII
Io penso che l'elettissimo pubblico al quale ho l'onore di parlare, in parte profano alla Medicina, non si
attenda da me che mi addentri nella analisi anche sommaria delle opere scientifiche del Grande Clinico,
cui è dedicata questa solenne commemorazione. Questa analisi, che sarebbe davvero la più eloquente di
tutte le commemorazioni, potrà essere fatta in altra sede. Dovrebbe essere forse un lavoro collettivo degli
allievi, di revisione di tutta la produzione del Maestro, che si inizia dal 1868 e va fino al 1924, la quale
mettesse in rilievo, al lume dei più recenti progressi della medicina, tutte le verità resistenti al tempo e
precorrenti i tempi, che quel Forte afferrò nella morsa dell'intelletto e rese terse e pure nella composta e
classica eleganza della sua prosa. Solo allora potrebbe risultare in tutta la sua reale importanza il valore di
quell'indirizzo metodologico, al quale dedicò la appassionata fede dell' Insegnante e del Ricercatore, dal
primo giorno che salì la Cattedra di Bologna al giorno in cui si spense la luce del Suo pensiero.
E neppure io ritengo di dover riepilogare qui la Sua biografia, quale è notissima per molti scritti che su di
Lui apparvero in vari momenti della Sua vita ed in morte, a soddisfare una legittima richiesta del
pubblico, poiché la Sua alta Personalità destò in Italia costantemente il più vivo interessamento.
Forse il grande amore dei suoi due più diletti allievi, Proff. Luigi Silvagni e Antonio Gnudi, che con Lui
furono in quotidiano contatto con esemplare fedeltà fino alla Sua morte, forse i Suoi famigliari potranno
arricchire la Sua biografia, quale è nota finora al pubblico, col racconto della Sua vita privata, quale
appare essere stata così semplice e raccolta, secondo il carattere dell'Uomo e pur così ricca di sentimento
ed alta di pensiero, da più di una pagina delle memorie della Figlia Sua: e forse la raccolta della Sua
ricchissima corrispondenza privata potrà dirci quali furono i Suoi contatti spirituali colle più alte
personalità del tempo Suo, contatti che tanto giovano sempre a illuminare l'intimo carattere di un grande
intelletto di fronte ai più diversi problemi della vita e dei tempi.
In questa breve ora a me spetta forse più opportunamente di prospettare nelle sue linee principali la figura
del Pensatore e del Maestro, quale mi apparve seguendo le linee fondamentali del Suo pensiero attraverso
ai Suoi scritti. Mentre io stesso battevo la medesima via della Clinica e dell'insegnamento, ho derivato
talvolta dalla Sua chiaroveggenza e dal Suo equilibrio mentale, in alcune questioni generali, quel conforto
e quello specchio di verità, nel quale ama ritrovare fede ed incoraggiamento chi per ventura muova i suoi
passi, come a me è accaduto, per vie nuove e deserte della ricerca scientifica, per le quali è ancora mal
sicura la meta e universale la incomprensione e ostilità del pubblico. Dubbi e sconforti ci assalgono nel
lavoro e grande forza si trae in quei momenti dal contatto cogli spiriti eletti, ricchi di sicura esperienza.
Per quel conforto ch'io ne ebbi per via e per la grande dignità della tradizione della Clinica Medica di
Bologna, che ebbi l'immeritata ventura di raccogliere e che mi è di sprone e di altissimo esempio, è dolce
oggi alla mia riconoscenza rievocare del mio Grande Predecessore le opere e le insigni virtù.
Ne ciò sarebbe mai possibile se non mettendo in rapporto il periodo della Sua attività col periodo storico
che la medicina internazionale attraversava ai tempi Suoi.
Una parte notevole della produzione, la più alta e attraente, fu dedicata ai principi direttivi ed al metodo.
Non potrei non arrestarmi su questa parte. Essa presenta aspetti molteplici e sempre più vasti: principi e
metodo di insegnamento della Clinica; principi e metodo da adottare nella ricerca scientifica; grandi
principi correnti nella scienza medica contemporanea, considerati come idee madri conduttrici della
evoluzione storica della medicina.
Nè mi sarebbe possibile dare un' idea concreta e completa della mentalità del Murri, senza addentrarmi
alquanto nell'intimo di codeste idee fondamentali conduttrici, vale a dire dei problemi massimi trattati
solo dai sommi maestri e da Lui affrontati con straordinario acume e precisione: ogni argomento minore
ci darebbe del Suo intelletto una misura minore.
La vetta della Sua attività mentale fu senza dubbio toccata (come sempre avviene) negli anni ancor
giovanili e precisamente, secondo me, nel 1881, colle due prolusioni intitolate «Della scienza
sperimentale» e «Della teoria cellulare rispetto alla clinica».
Esse sono forse le meno citate e conosciute, e se ne comprende agevolmente il perchè. Man mano che il
pensatore si eleva nella trattazione di argomenti sempre più comprensivi e dominanti di tutta un'epoca
scientifica, sempre più si trova quasi in solitudine, nella rara compagnia di pochi spiriti magni: dai più i
fondamenti teoretici della, scienza sono accolti come verità dimostrate. Ma lo spirito profondo sa che
l'errore fu commisto mai sempre al vero nella storia delle conoscenze umane e vi è fatalmente commisto
anche nel giorno stesso ch'egli pensa e scrive: esso non si acquieta né nell'autorità dei maestri, né nelle
più celebrate dottrine. Tutto deve essere perpetuamente riveduto e corretto!
Quella assillante preoccupazione del Murri di bene fissare, fin dai primordi del Suo insegnamento in
Bologna, i principi direttivi generali; quella insistenza di sempre tornarvi sopra, sia in forma incidentale
sia ex professo, durante tutto lo svolgimento della Sua attività, sono il segno sicuro col quale si
riconoscono nella Storia della Medicina i condottieri del pensiero.
Questo bisogno nasce dal senso di responsabilità e dalla necessità di costruire solidamente per sé e per i
propri seguaci, e dalla convinzione che qualsiasi costruzione di dettaglio, cui dedichiamo in particolare la
nostra fatica, riposa fatalmente sulla base di qualche dottrina generale e se la base non è sicura, la
costruzione prima o poi crollerà, rendendo vano ogni nostro lavoro. Poiché scienza è costruzione, per non
fabbricare sulla neve è necessario in tutti i casi darsi una dottrina generale fin dove è possibile sicura:
dottrina che uno spirito profondo o crea talvolta da sé o accetta dai tempi, ma mai senza averne riveduta
egli stesso la resistenza e averla fortificata nei punti eventualmente manchevoli e chiarita in quelli ancora
oscuri, come fu appunto del Murri.
Nella seconda metà del secolo scorso, ai tempi giovanili dell'insigne Clinico di Bologna e del resto in
gran parte ancora ai tempi nostri, due dottrine, entrambe fertilissime e gloriose per le molte scoperte che
avevano promosse, si trovavano fra loro in disaccordo: la patologia cellulare del Virchow e la dottrina
batteriologica, che era stata recentemente creata dal genio del Pasteur.
La sede della malattia era per il Virchow nella materia vivente, nelle cellule onde è formato ogni
organismo. Il carattere speciale di ogni malattia era determinato dal carattere delle cellule che erano
cadute in stato morboso; chi « faceva » la malattia, come alterazioni della materia vivente e come
alterazioni funzionali, erano le cellule. Importantissimi i batteri come agenti esterni che penetravano
nell'organismo e lo perturbavano, ma non prendevano, secondo il Virchow, parte diretta a quelle
alterazioni : restavano al di fuori e si limitavano a provocarle. Nè la sede del male, nè la sua natura era da
ricercarsi nei batteri. Secondo la dottrina Virchowiana, nella malattia le cellule sono il grande attore, di
gran lunga il fattore più importante.
Per i batteriologi era tutto l'inverso. Il Klebs, patologo a Praga, batteriologo insigne, già allievo del
Virchow e suo principale avversario, affermava che erano i batteri che colla loro specificità
determinavano la natura delle malattie, agendo in un modo o nell'altro sulle cellule passive. Erano dessi
gli arbitri del processo morboso: in essi era contenuta la ragione essenziale del morbo, che senza di essi
non poteva aver luogo e solo per opera loro poteva assumere un determinato carattere. Un uomo ha due
ferite dei suoi tegumenti, adduceva il Klebs : una suppura e l'altra non suppura. Questi due differenti
caratteri delle ferite non dipendono dalla individualità, perchè l'individuo è il medesimo; non dipendono
dalla diversità dei tessuti, perchè essi sono i medesimi. Solo l'intervento o non intervento degli agenti
esterni può determinare la natura suppurativa o non suppurativa delle due ferite.
Come oggi sappiamo, fondamentalmente le due dottrine avevano entrambe del vero, altrimenti non
avrebbero potuto dare frutti così fecondi: dovevano quindi trovare a fortiori un loro punto naturale di
conciliazione! Ma esso era così nascosto, che le menti più acute del tempo non seppero vedere codesto
punto. Anzi i pionieri delle due correnti alla loro volta caddero in esagerazioni e in errori secondari, i
proseliti peggiorarono gli errori dei maestri e ne nacque un groviglio inestricabile, prolungatosi fino ai
giorni nostri. Il dualismo creava un disagio grandissimo negli spiriti meno superficiali. Nella medicina
applicata, ossia nella Clinica, nella Igiene pubblica, nella Medicina sociale, il disagio si acuiva, perchè
passava dal campo dottrinale all'azione pratica.
Perchè Augusto Murri portava nella Scuola questi alti problemi, perchè nel formare il modesto medico
pratico, compito precipuo che gli spettava, sentiva il bisogno di chiarire le profonde oscurità del pensiero
direttivo della medicina moderna?
Perchè antivedeva, come fu in effetto, le gravi conseguenze che sarebbero derivate alla stessa pratica
medica da quella confusione dottrinale, da quella incertezza di indirizzo, da quel dualismo rimasto
inconciliabile.
Di fatti, se si concentra tutta la importanza della malattia nelle cellule dell' organismo, mettendo molto in
soft' ordine gli agenti esterni, come voleva il Virchow, non si provvede più alla difesa dalle infezioni, alla
distruzione degli agenti infettivi nell'ambiente, alla eliminazione delle occasioni della loro diffusione e del
nostro contatto con essi. E senza codesti agenti, osservava il Murri, il concetto stesso di malattia rimane
monco, perché sconosciuto nelle cause determinanti. Il sapere che un dato quadro morboso è da causa
luetica oppure tubercolare oppure reumatica, infinitamente contribuisce ad illuminare la natura del morbo,
la prognosi, il decorso, la cura. Lo studio degli agenti esteriori ha dunque una immensa importanza in
pratica, ed è parte sostanziale del concetto di malattia.
D'altra parte, se si concentra tutta la importanza della malattia negli agenti esterni e si svalutano le cellule
dell'organismo considerandole passive, come volevano i batteriologi, si cessa dallo studiare le naturali
difese dell'organismo che da quelle cellule derivano, la individualità del malato, il suo vario modo di
reagire, le sue difese organiche. Più non si comprende come, dinnanzi alle medesime cause esterne, taluni
individui ammalino ed altri no, taluni ammalino gravemente ed altri leggermente, taluni muoiano ed altri
guariscano. Non si comprende come il modo di reagire morbosamente cambi colla natura funzionale dei
tessuti caduti in sofferenza. Si disperde ogni nozione della costituzione individuale. Nel curare si
concentra tutta la attenzione nella disinfezione dell'ambiente e nella protezione dell'individuo dal contatto
colle infezioni o con qualsiasi altro agente morboso e si dimentica di rinvigorire l'organismo e di abituarlo
alla lotta con l'ambiente, dal quale potrà prima o poi, a malgrado di ogni protezione esterna, esser còlto di
sorpresa e soggiacere. Nella Pubblica Igiene, nella Medicina Sociale si dimentica che uno dei massimi
problemi dello Stato è il rinvigorimento della razza. Non vediamo ancora oggidì la Pubblica Igiene
orientata quasi esclusivamente verso l'indirizzo batteriologico? Non è essa rimasta completamente assente
dall' immenso movimento giovanile verso gli esercizi fisici, che invece essa stessa avrebbe dovuto
promuovere? Non è anche oggidì quasi completamente assente nel dirigerlo ai fini igienici?
Tutte queste deficienze sono conseguenza diretta dell'esclusivismo batteriologico. D'altra parte la Clinica,
che è la scienza dell'individuale, svalorizzata nel massimo suo campo di indagine, che è quello del vario
modo di reagire delle singole individualità ammalate, dalle quali la malattia può essere trasformata così
da rendersi talvolta irriconoscibile, prevalendo il concetto dei batteriologi della trascurabile importanza
della reazione organica, viene profondamente esautorata, cade in discredito e si sterilizza.
Ecco evidentemente perchè Augusto Murri portava nella scuola questi alti problemi! Ecco perchè Egli
asseriva che «nel clinico insegnamento bisogna bene spesso abbandonare lo studio positivo
dell'ammalato, per chiarire i dubbi scientifici che hanno attinenza con esso, senza di che sarebbe vano
sperare di conseguire... il primo e vero fine dell'arte nostra, ossia la guarigione dell'ammalato». «Sono gli
alti voli dottrinali, Egli esclamava, che conducono talvolta là dove le vie troppo pedestri non condurranno
giammai».
Non fu dunque iattanza del giovanile ingegno che spinse il Murri nel 1881 ad intervenire in quella storica
disputa, armato solo della esperienza clinica e del Suo forte e sereno equilibrio mentale, di fronte ad un
Virchow, l'autorità massima che la Medicina abbia avuto da 80 anni a questa parte, autore di quella
«Patologia cellulare» che ognor più pare giganteggiare nella Medicina; di fronte ad un Cohnheim, il
cultore più geniale del suo tempo, della patologia sperimentale, batteriologista all'eccesso; di fronte ad un
Klebs e a tutta la gloriosa falange degli scopritori dei germi patogeni, che in pochi anni avevano inondato
di immensa luce la Medicina. In questa nostra Italia, che era rimasta quasi completamente estranea al
contributo sostanziale in quello storico periodo, che nel volgere di pochi lustri determinò tali rapidi
progressi nelle conoscenze mediche da sorpassare tutti i secoli che lo precedettero, vi fu Ohi ebbe l'animo
e la mente forte così da abbracciare ecletticamente l'intero movimento, mettersi al di sopra della mischia,
valutare lucidamente i grandi meriti ma altresì le esaltazioni e gli errori di ambe le parti, e, in nome
appunto dei fatti clinici, corrette le une e gli altri, ritrovare quel punto di contatto conciliativo invano
cercato, senza del quale l'intelletto o si gettava interamente da un lato o interamente dall'altro, e la
indagine scientifica, come la applicazione pratica, rimanevano fatalmente monche per qualche parte.
Mise Egli in evidenza come la disputa, imperniata sulla relativa maggiore importanza degli agenti esterni
o delle cellule dell'organismo, fosse per se stessa viziosa e priva di interesse, trattandosi non già di
istituire una scala gerarchica di «importanza relativa» per la conoscenza del processo morboso, ma
piuttosto di apertamente riconoscere che nè l'uno nè l'altro elemento poteva venire svalutato e tenuto fuori
del calcolo. Entrambi erano parte sostanziale del concetto di malattia, come già il divino genio latino del
Morgagni aveva insegnato un secolo prima, fissando, nel titolo stesso della grande sua Opera De sedibus
et causis morborimi, il principio che non solo la sede ma anche le cause dei morbi erano elementi da quel
Grande ritenuti inseparabili nel concetto di malattia.
Quanto al punto sostanziale dei batteriologi, di trasportare la essenza della malattia negli agenti infettivi,
considerati come arbitri assoluti della produzione della malattia e della sua natura di fronte alle cellule
passive, Egli si schierò apertamente dalla parte del Virchow contro una tale svalutazione e passività, con
nuovi argomenti. «Una malattia contagiosa nè in tutti gli organismi attecchisce, nè dovunque abbia
attecchito si riscontrano uguali per estensione e intensità i danni sopravvenuti». Una tale differenza di
effetti, non potendo essere attribuita al contagio, deve essere attribuita di necessità alle cellule, che non
possono quindi considerarsi come passive, se per se stesse dominano l'attecchimento o meno della
malattia e la sua estensione e gravità. Argomento grave questo addotto dal Murri e di pretta indole clinica
e costituzionalista. .
Un altro argomento fortissimo contro la passività delle cellule, addotto dal Murri, era questo: siamo tutti
concordi nell'ammettere con Virchow che le cellule godono di una vita autonoma, la mercè di una loro
intrinseca forza cellulare, la cui sorgente sta nelle forze fisico-chimiche della materia vivente di cui sono
fatte. Come potrebbero quelle cellule vive ed autonome, e dotate di una forza propria, comportarsi come
materia inerte e passiva? Giammai la materia vivente potrà perdere la propria attività e farsi interamente
passiva.
È questo il primo accenno a quella utilizzazione del concetto energetico nello studio della causalità in
medicina, che fu merito grandissimo dello Hueppe l'avere introdotta circa otto anni più tardi, traendola
dalle scienze fìsiche. Esso si risolveva sostanzialmente in questa obiezione ai batteriologisti: i batteri
mancano di una sorgente energetica sufficiente che, trasformandosi, possa dar luogo ai fenomeni clinici.
La sorgente energetica non può dunque venire che dalle cellule dell'organismo, nella piena loro «attività».
Per questo suo concetto e per le vaste ricerche delle quali l'ha corredato, fu detto dello Hueppe che «in
tutta la storia della Medicina, da noi possibile ad abbracciarsi, le sue indagini avevano raggiunto nel
campo patologico la stessa importanza che tutti i più severi ricercatori avevano da tempo riconosciuto alle
classiche ricerche di Roberto Mayer, il celebre medico scopritore della grande legge della conservazione e
trasformazione della energia» (Martius). Ora il Murri in quello spunto energetico in qualche modo
precorreva l'orientazione energetica dello Hueppe.
Del Cohnheim il Murri era ammiratore illimitato, parendogli ch'esso avesse «toccato il più elevato punto
cui possa salire la scienza sperimentale». Tanto che, giunto appena a Bologna, si propose di rinverdire la
Clinica, innestandovi oltre alla fisiologia la patologia sperimentale.
Ma anche qui, come già per il Virchow e per il Klebs, come nei primissimi favori giovanili pei propri
grandi Maestri Traube e Frerichs, per quanto ammiratore, rivendicò intera la libertà della critica. Era la
interna sensazione della propria forza intellettuale che consentiva alla Sua natura, originariamente timida
e modesta per sè, questa superba indipendenza del pensiero di fronte a chiunque.
Si elevò dunque il Murri contro la nota e infelice affermazione del Cohnheim: «Tutto dipende dalle
particolarità del virus e della sua azione. Diventa tubercoloso chiunque, nel corpo del quale si stabilisce il
veleno tubercolare», per cui ancora una volta, a proposito del problema della tubercolosi, si affermava la
passività dell'organismo di fronte ai batteri.
E il Murri alla sperimentazione del grande patologo tedesco posò di contro la osservazione clinica:
«Certamente in ogni coniglio inoculato con sostanza tubercolosa, Egli scrisse, segue lo sviluppo del
tubercolo, ma non per questo diventa men vero che alcuni uomini nascono o diventano grandemente
disposti a morire tisici e altri invece noi sono che poco o punto». Vi sono terreni più o meno fertili negli
uomini, continua il Murri, e i clinici riconobbero in non pochi casi che i terreni più fertili si rivelano da
alcune apparenze speciali che costituiscono l'abito tisico. Ora non in tutto, ma certo fino ad una certa
misura:
Ben si può giudicar che corrisponde
A quel che appair di fuor quel che s'asconde.
«Io ho visto, Egli scriveva, parecchie coppie di sposi sopravvivere veramente desolate allo sterminio di
molti o di tutti i loro figli. Per solito una cattiva igiene, talora forse l'età del padre troppo avanzata
avevano procacciata una costituzione ai figli cotanto misera, che questi perirono di tubercolosi, mentre il
padre e la madre s'esposero impunemente ai pericoli davvero innumerevoli della infezione». Ed
esclamava: «Non tutto dunque dipende dalle proprietà del virus! E quella particolare composizione e
proporzione dei solidi e dei liquidi, da cui provengono le varietà individuali», può avere dunque la sua
grande importanza nel determinare la tisi.
Con ciò il Murri rivendicava l'importanza e la funzione «attiva » dell'organismo e delle sue cellule nella
produzione della malattia, risalendo francamente al concetto costituzionalista della predisposizione,
riposante questa sulla variabile individuale mescolanza quantitativa delle parti componenti il corpo
umano..
Questa perfetta orientazione nel problema costituzionalista, in un tempo nel quale della costituzione si era
smarrita fin la definizione che fu di poi faticosamente ricostruita dalla Scuola costituzionalista italiana
negli esatti termini nei quali viene esposta dal Murri, non può non colmare di meraviglia chi conosce il
grande confusionismo di idee che regna tutt'oggi in questo campo.. Non altrimenti ci colma di meraviglia
che il concetto della unità dell'organismo, perdutosi interamente in quel tempo di analisi ad oltranza, e
rivendicato di poi dalla stessa Scuola costituzionalista, sia stato difeso con dovizia di argomenti clinicofisio-patologici eloquentemente dal Murri di contro alla errata concezione Virchowiana che, in omaggio
alla autonomia cellulare ch'Egli difendeva fuor di misura, considerava l'organismo come un aggregato di
infinite unità cellulari prive di qualsiasi relazione fra loro.
Io non voglio andar oltre con questi eloquenti rilievi che dimostrano nel Murri una mente eclettica e
sovrana, la quale delineava nel 1881 i precisi rapporti fra i postulati fondamentali sui quali si erige il
superbo edificio della Medicina contemporanea, limpidamente così, che ancor oggi si cercherebbero
invano, impostati con eguale chiarezza ed equilibrio nella mente e negli scritti della maggior parte dei
nostri contemporanei, e saranno forse diffusamente conosciuti ed ammessi solo fra parecchi lustri!
Frattanto, quasi a contrasto di quel misurato e prudente eclettismo che illuminava la solitaria Scuola
Bolognese, la Medicina internazionale, acciecata dallo splendore stesso delle proprie scoperte, veniva
fatalmente travolta dalle esclusivistiche direttive batteriologiche.
Bisogna riflettere che in 10 anni, fra il 1874 e 1' '84, erano stati scoperti i germi patogeni della febbre
ricorrente, del carbonchio, della febbre puerperale, delle suppurazioni, del tifo, della malaria, della
tubercolosi, della difterite, della blenorragia, della polmonite, del tetano. Era il mondo nuovo della
Medicina.
La concezione eclettica, che riduceva i batteri patogeni alla funzione di semplici stimoli esterni, aventi
affinità stimolatrice ora per alcuni ora per altri territori cellulari dell'organismo, donde la loro specificità,
mentre li considerava estranei alla formazione del quadro morboso, provocatori ma non fabbri di esso,
nell'impeto delle scoperte batteriologiche non soddisfaceva nè l'intelletto nè l'animo non solo degli
scopritori, che ogni giorno davano in possesso all'umanità, per la sua salvezza, nuovi germi e i relativi
vaccini di quelle malattie che erano state ignorate per secoli nella loro causa determinante e nella cura, ma
neppure appagava l'entusiasmo del grande pubblico medico e profano, che assisteva con commossa
meraviglia al nascere dei nuovi veri. Vi fu chi in una solenne seduta accademica, dinnanzi ai risultati delle
vaccinazioni Pasteuriane, invaso da ditirambico entusiasmo, aveva rievocato i celebri versi del Racine
nella tragedia d'Athalie:
Mes yeux s'ouvrent
Et les siècles obscurs devant moi se découvrent.
È evidente che in quel periodo glorioso prevalse il fattore emozionale sulla ragione scientifica e non sono
bastati 50 anni per liberare interamente i medici dalla illusione mentale che i batteri creino essi l'intera
malattia, determinandone la natura e rappresentando la essenza del male!
Come sempre accade, le nuove scoperte avevano determinato un generale restringimento della coscienza,
per cui null’altro più si vide che la gran luce sorgente, e la dottrina Virchowiana passò nell'ombra delle
coscienze assieme alla importanza spettante alla reazione cellulare dell'organismo.
Non la voce del solitario veggente della Clinica di Bologna, ma neppure la grandissima autorità del
Virchow valse ad arrestare questo fiume in deviazione del .pensiero medico, che ancora una volta, coinè
tante altre nella storia, era uscito fuori dell'alveo della verità sotto la influenza suggestiva di una
impressionante scoperta.
La voce del Virchow nei Congressi nazionali e internazionali e in quasi tutti gli scritti suoi non cessava
dall'ammonire che si era nell'errore, che esso era la conseguenza di una grande illusione e di una grande
superficialità di pensiero, che le cellule erano desse che creavano le lesioni, i segni funzionali, la natura
del quadro morboso. La possente sua voce restava clamans in deserto. «Da quando si scoprirono i
microrganismi, cominciò quella deplorevole confusione senza fine (egli scriveva) per la quale il concetto
«ens morbi» e «causa morbi» venivano arbitrariamente fusi insieme. A varie riprese, colle mie
comunicazioni io ho sempre cercato di separare fra loro questi due concetti ma con poco seguito. E
tuttavia si sarebbe dovuto pensare che nulla fosse più facile che separare i confini fra anatomia patologica
ed eziologia, poiché effettivamente si tratta di ciò» (R. Virchow, Hunder Jahre Allgemeiner Pathologie.
Berlin, Hirschwald, 1895, pag. 22).
Resistere a quello stato d'animo, a quella universale corrente emozionale, per lasciare il dominio
incontrastato alla ragione, fu in quel momento il grande merito del nuovo Clinico di Bologna. Egli si
gettò nel pieno di quella corrente straripante e fu veramente la forza del metodo logico puro e il peso dei
fatti clinici che Gli permisero di dominare entro il proprio intelletto quella corrente e di inalvearla
giustamente ad uso (questo era il suo scopo precipuo) delle generazioni dei medici che educava. Fu quello
forse il momento più felice e più alto del Suo ministerio di insegnante. Agli occhi dei Suoi scolari in
quelle due Prolusioni apparve veramente móndo da ogni debolezza verso le opinioni dominanti, da ogni
oscurità dello spirito, esempio perfetto di applicatore del rigorismo metodologico, freddo calcolatore,
sensibile ed acuto scrutatore del vero, sordo al frastuono della grande fiumana in deviazione, le pupille
Asse al punto centrale del dibattito, in mezzo alla confusione dei fatti secondari contraddittori e degli
errori.
Per illuminare la Sua Scuola, Egli seppe nel 1881, in mezzo all'universale disorientamento del pensiero
medico, costruire con assoluta precisione e compiutezza quella che è l'impalcatura di sostegno del
moderno edificio della Medicina, nel rapporto fondamentale fra sede e causa delle malattie ed unità e
variabilità dell'organismo, aprendo così le porte dell'avvenire a quella Scienza delle Costituzioni che
occuperà di sè forse tutto il nostro secolo.
Fu l'umile tormento di una coscienza di fronte al sacro ministerio dello insegnamento, fu il turbamento
profondo che ad un insegnante veniva dal dubbio di seminare l'errore, colle sue incalcolabili conseguenze
pratiche, in migliaia di allievi, che spinsero il Murri a quel grande ardimento di misurarsi coi pionieri del
movimento medico contemporaneo!
Ogni uomo ha le sue manchevolezze, spesso fatalmente derivanti dalle sue stesse qualità.
Egli ci insegnò a guardare ai Maestri con grande rispetto ma con indipendenza!
Perchè il Minuti confinò la sua grande e giusta visione alla applicazione scolastica e alla formazione dei
medici pratici? Perchè non mirò più in alto, al campo della produzione scientifica, creando metodi nuovi,
corredandoli di fatti nuovi, organizzando intorno a sè ben altra scuola, quella scientifica, che dal suo
Istituto e da altre Cattedre, occupate da allievi Suoi, diffondesse il nuovo e giusto pensiero?
Mirabile certamente fu in Lui questa altissima coscienza dell'insegnamento. Tutto l'arco del suo intelletto
fu teso nella interpretazione dell'ammalato e nello scrupolo della applicazione logica dei principi generali
come di ogni cognizione che a vantaggio della comprensione di esso si potesse utilizzare. E certamente,
parlando dalla cattedra di Bologna di principi generali ed insegnando ad applicarli sull'ammalato, non
parlava soltanto ai suoi uditori immediati.
Ma i principi, per sè stessi, hanno presa duratura sullo spirito umano soltanto quando sono corredati da
una imponente raccolta di fatti nuovi. Ora, da uno dei lati la grande piena dei fatti batteriologici aveva
rotto l'argine e la corrente era. (Straripata tutta da quella parte: l'argine distrutto era quello della
individualità dell'ammalato, da contrapporsi a quello delle cause esterne di malattia: perchè non cooperò
alla ricostruzione di quell'argine, creando i metodi nuovi per la valorizzazione di quel fattore e
raccogliendo dovizia di fatti nuovi da far contrappeso agli altri? Era l'unica via per vincere.
In un momento inspirato Egli aveva veduto il vero e giusto volto della Medicina, quale essa doveva
assumere più di mezzo secolo dopo: aveva veduto con precisione l'errore dei contemporanei, la
dimenticanza della individualità del malato e indicata la via della verità ; aveva aperto, per così dire, la
porta di quel nuovo campo d'indagine, che è lo studio della individualità stessa, ma non passò per quella
porta, pago di averla indicata.
Per quel grande arco passarono Beneke, De Giovanni, Hueppe, Martius e molti altri poi: ciascuno portò
un contributo proprio alla costruzione del nuovo argine, ma Egli se ne stette pago alla sua Scuola e Gli
bastò di essere un sapiente, soprattutto per essere un grande didatta.
Nel 1893 si radunò in Italia il Congresso Internazionale di Medicina. Rodolfo Virchow continuò la sua
grande ed incompresa battaglia, esaltando il genio italiano nel «pensiero anatomico del Morgagni». Chi
meglio del Murri avrebbe potuto, come italiano, unire la propria voce a quella inascoltata del grande
patologo di Berlino rivendicando del Morgagni non solo il pensiero anatomico, come fece il Virchow in
una veduta parziale del problema, ma anche quello causale?
La sua voce si tacque. La inspirata Sua parola di 12 anni, prima che si era alzata tant'alto, non trovò
un'eco in quel Congresso. Fu naturale timidezza e modestia? Fu l'indifferenza profonda, colla quale la
nostra Nazione suole accogliere - e di più a quel tempo - l'opera dei connazionali, che lo tenne silenzioso?
Fu la mancanza di una propria documentazione scientifica che servisse da podio al Suo dire?
Io credo piuttosto che il divulgare nel campo scientifico la propria produzione, senza di che non solo le
dottrine ma neppure i fatti si fanno strada oggidì, non era fatica molto gradita al Suo spirito. Solo la
Scuola Gli seduceva veramente la mente ed il cuore. Qualche suo lavoro giovanile dimostrò in Lui
eccezionali doti di sperimentatore, ma la passione della interpretazione fenomenica dell'ammalato e
quella per l'ideale altissimo dell'insegnamento sempre più Lo conquistarono. Gli inni del Suo intelletto,
sparsi fra i Suoi scritti, vanno assai raramente alle doti intuitive e creative dello scienziato, nel quale Egli
vede piuttosto uno spirito unilaterale, disadatto per l'insegnamento: vanno sempre alla Scuola. Egli fu un
genio della interpretazione clinica dell'ammalato secondo tutte le conoscenze del tempo, non un genio
della ricerca scientifica, dove pure lasciò impronte notevoli specialmente nella patologia nervosa,
cardiaca e del ricambio. Ma la funzione didattica per essere portata a tanta altezza e per la grande cultura
che esigeva parve talmente assorbire la sua attività, da non lasciargli molto altro tempo né molte altre
forze.
Giudichiamo dunque l'Uomo per quel che fece, non per quel che non fece!
Per fondare una Scuola scientifica in queste nostre poverissime Università, non basta volerla. La gran
parte di un simile programma è anche oggi soffocato dalla povertà e dalla incomprensione del pubblico a
malgrado dell' opera iniziata dal Fascismo a vantaggio della cultura superiore. Figurarsi ai tempi del
Murri.
Consideriamolo adunque come riformatore dell'insegnamento clinico.
Egli inaugurò l'insegnamento in un periodo, nel quale l'indagine sul malato pareva aver perduto ogni
credito per deficienza di rigore nel metodo, che era in molti clinici. La Clinica, che dal suo seno aveva
generato tutte le altre branche dello scibile medico, era dalle stesse sue figlie, rinnovantisi nell'abito
scientifico e ricche di frutti ubertosi, deprezzata e messa in disparte. Pareva che il rigore della ricerca, del
quale andavano orgogliosi i nuovi tempi, non si adattasse più alla sua natura. D'altra parte in causa della
unilateralità dell'indirizzo eziologico, sul quale ci siamo intrattenuti, l'ammalato per sè pareva avere
perduto ogni importanza. Deficiente nei metodi, priva di interesse per la natura dei suoi fenomeni, la
Clinica era relegata nel piano inferiore dello scibile medico. Tale corrente era quasi universale. Augusto
Murri parve erigersi titanicamente contro questa deviazione del genio della Medicina dalle classiche
direttive che l'Italia gli aveva impresse nella Storia con Mondino, Malpighi e Morgagni. Egli rimase
fermo sul terreno dei fenomeni clinici e, armato formidabilmente, come abbiamo veduto, della coltura e
del rigore scientifico moderno, tutto lo trasfuse nella indagine dell'ammalato, mostrando come la
spontanea sperimentazione di natura, ossia l'uomo infermo, insegnasse ai medici la verità quanto e più
della sperimentazione di laboratorio: ridonando così alla Clinica, intera la sua dignità e supremazia.
Questo raddrizzamento della corrente, colla quale venivano riprese le sane direttive storiche italiane, fu
salutare, se anche l'Italia, per lamentevole deficienza nella organizzazione scientifica, dovuta a fatale
indifferenza politica dei tempi, non portò alla luce grande dovizia di nuovi veri. Augusto Murri ebbe in
questa lotta alcuni forti colleghi (Guido Baccelli già suo Maestro, Antonio Cardarelli, Achille De
Giovanni), ma nessuno si presentò più di Lui catafratto nella aristocratica armatura dell'abito scientifico,
il solo che poteva convincere e vincere.
Noi oggi raccogliamo i buoni frutti di questa felice reazione. Se la clinica è restituita nella sua dignità di
scienza, se invece di essere tenuta in disprezzo come strumento di applicazione, è riconosciuta centro
unitivo dello scibile medico, se a lei tendono sempre più ad accostarsi tutte le branche della Medicina; se
noi stessi siamo stati severamente educati al rigore del metodo e possiamo assiderci in qualsiasi consesso
di dotti e dirvi la parola precisa che deriva dalla nostra personale osservazione severamente controllata,
gli è che i grandi Maestri che ci precedettero bandirono questo indirizzo e il Murri fra tutti lo portò a
grande altezza.
Così fu che negli ultimi decenni del secolo scorso la Clinica italiana rivendicò quasi unanimemente
l'importanza scientifica dello studio dell'ammalato e, pur raccogliendo dal laboratorio tutto ciò che
potesse integrare la ricerca, rimase strettamente vincolata allo studio di esso.
Augusto Murri combattè vigorosamente la vana illusione che ci veniva d'oltralpe, che per mezzo di esatte
reazioni, quasi senza fatica mentale, si potessero riconoscere i morbi, per così dire, automaticamente.
Egli seppe rendere fruttifera in estremo grado la fenomenologia clinica, che era da tutti negletta. Colla
Sua potenza analitica, utilizzando ogni dettaglio messo in luce dalle penetranti pupille, Egli scomponeva
dell'ammalato dapprima tutte le parti e, ognuna per sè considerando, col sussidio della Sua sapienza e
delle più disparate associazioni, dimostrava di ogni parte la complessa natura e la poliedrica utilizzazione,
come pietra isolata di costruzione dell'edificio diagnostico. Infiniti problemi scaturivano da queste analisi
e, nel porre codesti problemi in modo che neppur uno rimanesse, se possibile, dimenticato, Egli
impegnava tutte le proprie forze logiche e culturali, perchè paventava che una sola possibilità dimenticata
potesse di fatto infirmare la conclusione finale.
Quando le parti decomposte della fenomenologia giacevano così tutte staccate e messe in luce
separatamente, d'un tratto, come se un invisibile filo le tenesse avvinte in un ordine determinato e, tirando
quel filo dal suo cappio, tutte dovessero ricomporsi fatalmente in una determinata figura, Augusto Murri,
coll' impeto della inspirazione e col calore dell'arte, d'un tratto, dopo la lunga e fredda meditazione
analitica, passava alla ricostruzione sintetica della catena morbosa. Si sentiva che nessuna parte era
sfuggita, e colla certezza diagnostica penetrava la coscienza degli uditori attraverso alla compiutezza
analitica e alla ferrea potenza persuasiva della logica costruttrice.
Egli esercitò con immenso prestigio il Suo ministerio di insegnante e di consulente, e se pensiamo che
queste Sue potentissime forze analitiche e ricostruttive erano messe a servizio delle vite umane che
versavano in grave pericolo e potevano da quel possente lavoro di penetrazione essere forse salvate,
possiamo ben comprendere come coloro che in gran numero, medici e profani, assistevano alla estrema
tensione della Sua mente e al nobilissimo fine ch'essa perseguiva, nella emozione vivissima che sempre si
prova dinanzi alla verità nascente, trovassero ragioni indimenticabili di intense vibrazioni dello spirito e
del cuore e gliene fossero perennemente grati.
Perchè, oltre a ciò, si sentiva che una ragione umana muoveva ab origine dal suo fondo tutta questa
macchina pensante, al sommo grado perfezionata dallo studio e dalla lunga meditazione.
Come ogni sapiente che tocchi il fondo delle cose e senza l’universale fragilità del sapere, Augusto Murri
contemplava con amarezza nella sua cruda verità, senza infingimenti e vane illusioni, l'ironico contrasto
fra tanta sapienza conoscitiva e tanta impotenza di soccorso terapeutico. Egli era troppo nella luce della
dura realtà per non essere un critico della terapia. Ma come la commozione delle sofferenze altrui aveva
un'eco sempre nel Suo cuore, nella frequente impossibilità del curare, esaltava 1' unica parte della
moderna terapia che poteva dal malato e dal medico essere sempre benedetta, la terapia del dolore. Egli
applicava come uno stretto dovere, come un sollievo, direi, al cruccio della impotenza di ogni altro
efficace soccorso, pazientemente la modesta terapia del dolore.
L'uomo appare grande nell'intelletto, solo quando si misura con altri uomini. È una grandezza relativa. Ma
nel sentimento, ma nella pietà, ma nel mettersi in comunione colla universale anima dolorante della
umanità e sentirne e dividerne i dolori, l'uomo può attingere una grandezza ben maggiore, ad una
grandezza assoluta. Il sentimento è la sola, nostra facoltà che ci avvicina a Dio!