Una notte a Siena con Mario Luzi
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Una notte a Siena con Mario Luzi
Una notte a Siena con Mario Luzi Lo studio vero di un autore è crescita sottile e silenziosa dello studioso. MARIO LUZI La tentazione di aprire questa mia testimonianza con la citazione dell’incipit della leopardiana Sera del dì di festa, mutando solo dal presente all’imperfetto il predicato verbale, mi ha incalzato fino al momento in cui mi sono seduto di fronte allo schermo del computer. Ma si è dissolta non appena i polpastrelli hanno cominciato a toccare i tasti. No, troppo retorico, troppo scontato, troppo oleografico l’ennesimo ricorso all’immagine ormai più che leggendaria della notturna quiete recanatese. Eppure… Eppure, se ripenso a quella notte senese del giugno 2003, stampata nella mia memoria con un inchiostro indelebile, mi riesce difficile definirla altrimenti che “dolce e chiara” e probabilmente anche “senza vento”, o tutt’al più accarezzata da una lieve brezza proveniente dalle colline del Chianti. Era quasi mezzanotte. Siena dispiegava tutte le sue seduzioni. Un piccolo corteo scendeva dalla Contrada della Tartuca lungo via di Città: una decina di persone che facevano da scorta affettuosa e reverente a un signore magro, alto, anziano ma vitale e vivace, canuto ma ancora elastico nel passo. La giuria (al completo) del Premio di poesia “Alessandro Tanzi” non riusciva a separarsi, dopo la festosa cerimonia di premiazione e il rustico banchetto intorno a tavoli en plein air, dal proprio presidente, dall’insigne Maestro, dal mito vivente, dall’eterno candidato al Nobel per la Letteratura: l’allora ottantanovenne Mario Luzi. Per tutta la sera, come membro di quel sodalizio critico, avevo invano tentato di aggiudicarmi un ritaglio personale della sua attenzione. Presidiato durante la cena dai notabili della Contrada e da un paio di giovani “pretoriane” fiorentine, nel corso della susseguente promenade digestiva (simile per certi versi alla deambulazione del filosofo Protagora attorniato dai discepoli nell’esordio dell’omonimo dialogo di Platone) Luzi si era concesso generosamente ai più intraprendenti tra i giurati. Ma io non avevo approfittato della sua disponibilità. Fino all’ultimo, un eccesso di riserbo mi aveva trattenuto ai margini di quel drappello schierato intorno al grande Protagonista. Avevo solo captato, in itinere, brandelli di suoi dialoghi con gli interlocutori “privilegiati”. Giunti in Piazza del Campo, mentre iniziava il rituale dei commiati e io spiavo ansiosamente il profilarsi di un’estrema occasione per un sia pur volatile colloquio vis-à-vis, il Maestro venne, di punto in bianco, “sequestrato” dalle sue premurose accompagnatrici per un sollecito ritorno in macchina a Firenze, benché il suo volto non mostrasse il minimo segno di stanchezza. Una stretta di mano, due gentili parole di circostanza, un sorriso affabile non mi furono da lui negati. Ciononostante, rientrai deluso in albergo. E il seguito della notte non fu, per me, né dolce né chiaro. A distanza di tanti anni, un onesto esame di coscienza retrospettivo mi impone una serena ma anche inflessibile autocritica. Non era stata soltanto la mia irresolutezza (o l’altrui maggiore disinvoltura) a privarmi di una così eccezionale opportunità. Alla radice di tutto, c’era da parte mia un grado insufficiente di dimestichezza con l’uomo Luzi e con la sua opera in versi e in prosa. Certo, avevo letto parte della sua produzione in singoli volumi, ripercorrendola poi per intero in una copia del «Meridiano» L’opera poetica (Milano, Mondadori 1998) “autenticata” da una fervida dedica autografa dell’Autore, risalente al giugno del 1999, al nostro primo incontro per il varo del Premio istituito in memoria di Alessandro Tanzi. Certo, avrei poi avuto cinque minuti del Maestro “tutti per me” nell’autunno di quello stesso 2003, in una libreria di Firenze dove si presentava l’affascinante antologia Così pregano i poeti, curata per le Edizioni San Paolo da Giuliano Ladolfi. Ma – a essere spietatamente sincero – mi aveva sempre frenato, nel rapportarmi con lui, anche sulla pagina, la mancanza di una confidenza umana pari a quella che a lungo mi legò al suo fraterno amico Carlo Bo; la mancanza, in pari tempo, di una sintonia con il suo mondo poetico profonda come quella idealmente instaurata con il suo più maturo sodale Carlo Betocchi. In breve, dovevo ammetterlo: Luzi l’avevo molto ammirato, non abbastanza amato. Date queste premesse, la lettura in anteprima del raffinato saggio luziano-leopardiano di Francesco Medici, Luzi oltre Leopardi. Dalla forma alla conoscenza per ardore (Bari, Stilo Editrice 2007), non poteva non acuire il mio rimpianto per il temps perdu nei confronti dell’immenso intellettuale fiorentino. Contemporaneamente, però, lo ha anche lenito. La contraddizione, come subito cercherò di spiegare, è solo apparente. Con la sua intelligenza critica “ad alta definizione”, mai disgiunta da una controllata passione antropologica, il giovane Medici mi ha ridischiuso il paesaggio ondulato, quasi un correlativo letterario della Val d’Orcia, in cui consiste il lavoro poetico del giovane Luzi, dalla Barca a Onore del vero (la grande architrave del Giusto della vita), svelandomi le sue segrete e sempre feconde consonanze o dissonanze rispetto all’orizzonte cronologicamente remoto, ma culturalmente assai prossimo, formato dal tessuto dei Canti di Leopardi, dagli «ermi colli», dagli «interminati spazi», dagli «infiniti silenzi», dalla «profondissima quiete», e ancor più dall’abissale inquietudine del poeta-filosofo marchigiano, autentico fondatore della moderna lirica italiana ed europea. Non si limita, Medici, a svolgere un’indagine intertestuale, pur traboccante di indicazioni preziose per i filologi. Ma, componendo un mosaico nel quale le citazioni luziane e leopardiane si armonizzano con le acquisizioni della critica più recente e competente (non escluse le “autochiose” di Luzi) e soprattutto con le sue spesso penetranti osservazioni personali, conduce anche il lettore non-specialista, privo di un’approfondita conoscenza dei due universi poetici tangenti, lungo un percorso rigoroso, che non contempla scorciatoie divulgative e nondimeno risulta suggestivamente accessibile: un percorso che dalla “culla” dell’ermetismo, ricolma dell’“eredità di Leopardi”, procede, attraverso frequenti oscillazioni tra realismo e metafisica, fino all’approdo di Luzi alla piena maturità, a un “cristianesimo agonico” capace di travalicare la disperata speranza leopardiana nella riabilitazione, nella redenzione della sofferenza individuale e cosmica. Di qui, appunto, la mia duplice ma non contraddittoria reazione. Da un lato, le attrattive della panoramica tracciata da Medici inaspriscono il mio rammarico per non aver saputo porre maggiormente al centro dei miei interessi tanto Luzi quanto Leopardi (quest’ultimo comunque riaccostato, dopo gli studi liceali e universitari, nel ruolo di caporedattore della Mondadori a fianco di Mario Andrea Rigoni, curatore per i «Meridiani» dell’edizione 1987 delle Poesie). Dall’altro, l’ampio e profondo respiro di questa sintesi, estesa ben oltre i limiti dell’asse Leopardi-Luzi, offre una messe di informazioni, intuizioni, riflessioni che rendono possibile, a me e a quanti condividono il mio disagio, colmare almeno in parte certe spiacevoli lacune. Anche grazie alle letture complementari innescate da tanti spunti, da tanti stimoli disseminati nelle dense pagine del saggio di Medici. Se l’esplorazione dei rivoli leopardiani scorrenti nel territorio del Luzi ermetico e postermetico si concludesse con il capitolo dedicato alla coppia Primizie del deserto – Onore del vero, potrebbe risultare arduo comprendere come il giovanissimo italianista di fine XX secolo (le cui ricerche universitarie hanno finalmente raggiunto, in questo volume, il coronamento della pubblicazione) si sia rapidamente evoluto anche in altra direzione, sino a trasformarsi nel ferrato orientalista, e in particolare gibranista, di inizio XXI secolo: lo studioso, traduttore, biografo, commentatore che a partire dal 2001, accompagnato dal mio convinto supporto editoriale, ha incrementato in quantità e qualità determinanti lo scaffale italiano di Kahlil Gibran, divenendone uno dei maggiori esperti a livello internazionale e rivelandone, accanto alla dimensione poetico-profetica, anche il talento drammaturgico e il genio pittorico1. Ma è proprio l’epilogo di questo Luzi oltre Leopardi, e cioè la “conversazione” con l’Autore tanto studiato (non un’intervista genuflessa o encomiastica, bensì un dialogo rispettoso e tuttavia quasi paritetico, quasi orizzontale), a configurarsi come una cerniera tra le due fasi dell’impegno culturale di Francesco Medici. Il quale, all’epoca di quel colloquio, svoltosi nella casa fiorentina del poeta il 25 settembre 1998, aveva solo ventiquattro anni, ma già denotava una precoce maturità sia cerebrale sia – per così dire – cardiaca. Un vibrante esprit de finesse viene, in quest’appendice dialogica, a saldarsi con l’esprit de géometrie dominante nella trattazione saggistica. I temi intellettuali (la modernità di Leopardi, il problema della lingua poetica, la figura della donna ispiratrice…) si arricchiscono di un afflato spirituale. Attraverso le sue stringenti, suadenti sollecitazioni, Medici dimostra di saper decifrare e far emergere, del proprio interlocutore, non soltanto le parole scritte o pronunciate, ma anche i moti dell’animo, i palpiti del cuore. Affiora qui, insomma, la stessa capacità di leggere una “vita come letteratura”, e insieme come apertura all’Assoluto, che, unita alla conquista di uno specifico sapere settoriale, gli consentirà in seguito di penetrare con acuminato discernimento nell’intreccio di poesia, arte e misticismo di cui si sostanzia l’opera di Gibran. Accade così ciò che in un’intervista giornalistica sarebbe impensabile: “provocato” nella sua interiorità, Luzi discorre con singolare affabilità, persino con calore, della Weltanschauung cristiana quale si esplica nel lavoro intellettuale, ad esempio nell’approfondimento dei rapporti tra fides e ratio, nel perseguimento dell’«equazione tra poesia moderna e ricerca della verità», nella concezione della poiesis come canto umilmente incarnato nel mondo, come «coralità latente o manifesta». Davvero oggi, trascorsi diciassette anni da quell’incontro in riva all’Arno e dieci dalla scomparsa di Luzi (28 febbraio 2005), questa conversazione si carica, a posteriori, di un significativo valore testamentario. Francesco Medici sembra essere stato scelto, dall’erede novecentesco di Leopardi, come custode di una scheggia del suo stesso lascito letterario. E non è solo in questo volume luziano, ma implicitamente anche nelle numerose imprese gibraniane, che Medici trapianta, mettendola a disposizione di ogni lettore che abbia a cuore la sacralità della scrittura, la propria porzione – grande o piccola, non importa – dell’eredità di Mario Luzi. NOTA 1 L’elenco delle pubblicazioni gibraniane sfornate da FRANCESCO MEDICI, una sequenza tuttora “aperta”, è a dir poco impressionante. Di KAHLIL GIBRAN ha tradotto e criticamente inquadrato Lazzaro e il suo amore (Cinisello Balsamo, San Paolo 2001), Il cieco (San Paolo, 2003), La stanza del profeta (San Paolo, 2004), Il Profeta (nuova edizione con testo originale a fronte, San Paolo, 2005), oltre a documentare la sua opera pittorica in Venti disegni (Bari, Giuseppe Laterza 2006). Ulteriori contributi in termini di traduzioni e indagini critiche figurano nei volumi Poeti arabi a New York. Il circolo di Gibran (Bari, Palomar 2009) e Il profeta e il bambino (Brescia, La Scuola 2013). Per questi suoi meriti scientifici, Medici (che ha anche fatto conoscere in Italia un altro eccelso scrittore libanese, AMEEN RIHANI, traducendone il romanzo Il Libro di Khalid, Messina, Mesogea 2014) è stato nominato membro ufficiale dell’International Association for the Study of the Life and Work of Kahlil Gibran, che ha sede presso l’Università statunitense del Maryland.