IL VIAGGIO A ORIENTE ITINERARI SIMBOLICI DEL PERCORSO DI

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IL VIAGGIO A ORIENTE ITINERARI SIMBOLICI DEL PERCORSO DI
Relazione:
IL VIAGGIO A ORIENTE
ITINERARI SIMBOLICI DEL PERCORSO DI INDIVIDUAZIONE
Di
Claudio Widmann
Autori diversi hanno argomentato in passato che il viaggio è una diffusa ed efficace metafora
dell’esistenza. Hanno anche evidenziato che non è solo una generica metafora del tragitto temporale della vita, ma è un preciso simbolo del percorso individuativo: è “immagine completa e complessa dell’intera sequenza di esperienze attraverso cui la personalità acquisisce progressivamente configurazione, matura la propria fisionomia soggettiva, realizza la propria individuazione”.
La letteratura viatoria, soprattutto quella fantastica, racconta per immagini il percorso di individuazione, che più precisamente è il percorso della coscienza nelle sue interazioni con l’inconscio. Tra i
mille esempi possibili, mi limito a richiamare la Tokaido, mitico e celebrato viaggio da Edo (antica
capitale del Giappone, nell’attuale periferia di Tokyo) fino a Kyoto, la città dalle guglie dorate.
In questa prospettiva, i vettori direzionali del viaggio non costituiscono solo un riferimento topografico, ma sono precisi indicatori simbolici. La caduta di Lucifero è esempio di vettore discendente,
mentre l’ascesa del Profeta trasportato dall’arcangelo Michele è volo ascendente e Durand scrisse
pagine di grande limpidezza in cui dice che i simboli ascensionali e la loro inversione discensionale
rappresentano l’elevarsi della coscienza al disopra dell’inconscio e il suo rifluire nella profonda inconscietà.
Se la luce è il più universale, audace, archetipico rappresentante della coscienza, l’occaso o
l’aurora sono luoghi estremi della parabola della coscienza. Propongo di leggere in questa prospettiva i viaggi verso Oriente e verso Occidente ovvero come rappresentazioni della coscienza che inclina all’alba oppure all’occaso; scenari in cui la coscienza si offusca oppure si rischiara. A Occidente sono le regioni del tramonto, della notte e della morte, a Oriente le regioni dell’alba, della vita
e della (ri-)nascita. I viaggi a Oriente puntano verso l’origine della luce, verso il luogo in cui nasce e
rinasce la consapevolezza, verso il mistero da cui origina la coscienza. I pellegrinaggi a Occidente
sono un’esplorazione del tramonto, un’esperienza ravvicinata con i paesaggi dell’estinzione e della
dissoluzione, dell’indifferenziato. Sono caratteristici i pellegrinaggi a Mont Saint Michel, baluardo
occidentale della civiltà occidentale, presidiato da S. Michele che è il mitologico guardiano dei cancelli dell’Ovest. I pellegrinaggi a Mont Saint Michel sono viaggi verso l’occaso, esplorazioni sul
bordo estremo che confina con le nebbie oceaniche dell’indifferenziato, con le maree rapide e travolgenti dell’inconscio, con le dimensioni d’infinito dove l’Io si dissolve e la coscienza si estingue.
Se assumiamo questo paradigma psico-spaziale, Esilio in occidente è espressione fin troppo eloquente, che parla dell’esilio della coscienza nelle regioni dell’occidente archetipico, nel mondo serotino della limitata consapevolezza umana. Il Racconto dell’esilio occidentale è un racconto di iniziazione di Sohravardi, nato in Azerbaigian nel XII secolo e morto martire ad Aleppo all’età di trentasei anni. Egli narrò una metafisica della luce, che si manifesta in sette “climi” popolati da fotismi
colorati attraverso cui il corpo spirituale migra alla terra celeste. In una “drammaturgia in cui
l’anima è il soggetto e la scena”, l’ottavo clima è “l’oriente minore” il luogo dove “l’anima umana si
solleva alla coscienza di se stessa” (Corbin, 1986 p. 95). E’ alam al mithal, mundus immaginalis,
luogo elettivo dell’immaginazione attiva e del fare anima. Nella topografia spirituale di Sohravardi,
Oriente è il mondo dove abitano gli esseri di luce, ma non è un luogo geografico, bensì un momento esistenziale; è l’esperienza in cui al pellegrino dello spirito si leva l’aurora delle conoscenze (ib.
p. 124). Quell’aurora, alchimisti come Tommaso d’Acquino, la chiamarono aurora consurgens ed è
l’aurora della coscienza.
Per raggiungere quell’aurora viaggiatori di tutti i tempi e di tutti i generi immaginarono itinerari che
puntano a oriente; non fece diversamente nemmeno Cristoforo Colombo, inventando una rotta assolutamente anticonvenzionale per raggiungere le stesse regioni geografiche e per fare analoghe
esperienze psichiche.
Il viaggio a Oriente di Sohravardi è poetico, speculativo e tutto spirituale; Alessandro Magno, invece, intraprese un viaggio molto concreto e militare verso i confini orientali del mondo. La sua fu una
campagna di conquista, fu esuberanza e anche hybris dell’Eroe che conquista le regioni del sole
levante, ma anche il suo viaggio fu empiria della ricerca di coscienza. Narra Curzio Rufo nel De
rebus gestis che dopo aver esteso le proprie conquiste dalla Macedonia fino all’India, Alessandro
voleva essere certo che fosse lì il territorio dell’alba, dove il cielo si congiunge con la terra e ogni
mattina sorge il sole. Per esserne certo fece catturare due enormi uccelli bianchi e li aggiogò a un
carro, facendosi trasportare verso l’alto. Il volo di Alessandro alla scoperta dei confini del cielo fu
rapidamente arrestato da un essere alato e antropomorfo (noi lo diremmo un angelo), ma fu perpetuato su cattedrali e pitture come viaggio aereo dell’eroe verso la sorgente della luce. Alessandro
fu l’eroe alla conquista della luce nell’iconografia cristiana e ancor più nella mitologia iraniana. Con
il nome di Iskandar è al centro di racconti morali e iniziatici che sviluppano il tema del ricongiungimento con le origini non della luce ma della coscienza. Uno di questi narra che egli sognò la propria precoce morte: vide un albero che cresceva robusto per un po’ di anni e che scompariva nel
corso di una tempesta. Leggendo questo sogno come una rappresentazione della propria morte,
egli radunò i suoi compagni e disse loro di non occuparsi della parata funeraria, ma di aiutarlo ad
aprire la sua corte all’unione con il sole: il suo desiderio di raggiungere la sorgente simbolica della
luce era ancora inappagato. Storicamente, verrà trasportato da Bagdad ad Alessandria d’Egitto,
lungo un percorso inverso, verso la fine e lo spegnimento della coscienza.
Il viaggio di Sohravardi è mistico ed estatico, quello di Alessandro Magno è storico e concreto, ma
entrambi ruotano attorno al motivo archetipico della ricerca della luce e s’intridono di elementi non
solo fantastici, ma propriamente simbolici. L’esperienza viatoria coniuga in maniera indissolubile
l’immaginale con il reale; nei termini di Sohravardi, il viaggio a Oriente è viaggio nel mundus immaginalis, dove immaginario e reale si contaminano. A volte il viaggio a Oriente viene descritto in
maniera puramente fantasiosa, a volte viene realizzato in maniera concretistica, come fece Marco
Polo, che partì da Venezia nel 1271, attraversò l’Asia, visitò Mongolia, Tibet, Cina, Giappone, India, Sumatra e altri luoghi; soggiornò nelle regioni del Sole Levante per vent’anni e rientrò a Venezia nei primi anni Novanta. Nel 1298 fece concreta esperienza di esilio occidentale: fu imprigionato
nelle carceri genovesi, dove narrò del suo viaggio a Rustichello da Pisa. La trascrizione di quei
racconti costituisce ciò che è noto in Italia come Il milione e in Francia come Livre des merveilles;
al raffinatissimo duca di Berry, Giovanni Senza Paura fece omaggio di una copia miniata
nell’entourage del maestro Boucicaut. Il viaggio a oriente di Marco polo fu il viaggio epico di un
mercante, ma basta sfogliare le miniature del Livre des merveilles per vedere che è una narrazione
intrisa di simboli e di passaggi topici; è un viaggio attraverso i territori dell’inconscio e le vicende
della coscienza, compiuto fisicamente a piedi e in barca, a dorso di cammello e di cavallo, a volte
in carovana e sempre da solo. Il simbolo è un’esperienza psichica vissuta sul piano fisico; è
un’esperienza immaginale, un incursione nell’ottavo clima dell’oriente minore.
Ne offre testimonianza ulteriore Ibn ‘Arabi, che all’età di trentasei anni lascia l’Andalusia ed emigra
in Oriente. Apparentemente è solo un trasferimento, ma per Ibn Arabi la realtà fenomenica è il riflesso di una realtà soggiacente; lo aveva appreso in giovane età, da quando frequentava il mondo delle visioni (il piccolo oriente di Sohravardi), dove aveva fatto amicizia con due shaykha o
“maestre” sufi, una delle quali era solita ripetergli: “io sono la tua madre divina, la luce della tua
madre terrena”. Ibn ‘Arabi, dunque, è troppo consapevole che dietro agli accadimenti empirici si
dispiega sempre il mondo reale dei principi archetipici. Un giorno ha una complessa visione teofanica, dove vede il trono divino, dove Colui che dal Trono Domina risplende di una luce velata in
modo che lo sguardo possa reggerne la visione; un uccello di bellezza tale da superare in bellezza
tutti gli uccelli del paradiso avvolge il trono divino con il suo volo e invita Ibn ‘Arabi ad andare a Oriente. Il viaggio a Oriente di Ibn ‘Arabi inizia con una visione interiore e si svolge nello spazio esteriore; egli è l’eroe-pellegrino del Racconto dell’esilio occidentale, che vaga per le diverse regioni
del Vicino Oriente. Sarebbe tedioso ricostruire la topografia del viaggio di Ibn ‘Arabi fino a quando
si stabilì a Damasco; fu a Bagdad, ma non per raggiungere il cuore dell’oriente islamico, fu alla
Mecca ma per visitare la Ka’ba mistica. La particolarità del suo viaggio non sta nei luoghi geografici che attraversa, ma sta in questo: che nasce nella dimensione spirituale e viene attuato in quella
materiale, si snoda fra luoghi reali, ma punta a mete spirituali. L’uccello della visione (che Ibn Arabi
riconosce per l’arcangelo Gabriele) fu compagno e guida celeste. L’itinerante shaykh non ebbe mai
una guida nei suoi viaggi, perché la sua guida era lo spirito Santo interiore; non ebbe mai un maestro perché suo maestro era Al Kadir. Al Kadir è un personaggio mitico della mistica e della mitologia islamica; è l’archetipo del Viaggiatore ed è detto il Maestro dei Senza Maestro: è la guida di coloro che compiono i viaggi dell’anima affidandosi alla funzione guida del Sé.
La mitologia egizia offre testimonianze originali del viaggio a Oriente attraverso due narrazioni parallele contenute in due testi molto noti agli egittologi: Il libro egizio degli inferi, noto anche come
Testo iniziatico del Sole Notturno e il Libro per uscire al giorno, più noto come Libro dei morti. Il
primo narra il viaggio notturno del sole, il secondo quello infero del defunto; entrambi sono viaggi a
oriente. Nella concezione egizia, difatti, il sole vespertino si chiama Aton; ha navigato tutto il giorno
il grande fiume del cielo a bordo della barca diurna mandjit ed è arrivato all’orizzonte di ponente,
dove esce dalla nostra vista. Lì cambia imbarcazione e sale sulla barca notturna, mesquetet accompagnato da un corteo di dei che lo seguono nel viaggio periglioso che durante le dodici ore
notturne lo porta a Oriente, dove al mattutino sorgerà nuovamente con il nome di Keper. Il Libro
per uscire al giorno narra un viaggio analogo compiuto, però, non dal sole, ma dal defunto: quando
la persona muore raggiunge l’orizzonte di ponente, al tramonto sale sulla barca mesquetet e compie l’identica navigazione notturna in compagnia del Sole e del suo corteo di divinità. Così, al mattino egli ha raggiunto come il Sole il luogo orientale ed è pronto “per uscire al giorno”.
Non considereremo il viaggio attraverso la Dwat come la descrizione fantasiosa dell’orbita invisibile
che il sole compie nel suo movimento apparente attorno alla terra e nemmeno come la descrizione
escatologica di un viaggio che avviene dopo la morte. Lo considereremo come la descrizione simbolica di un passaggio dalle tenebre dell’inconscio alla luce della coscienza, come una rappresentazione dell’itinerario che la psiche compie attraversando le cieche regioni dell’inconscietà, per uscire alla luce di una nuova consapevolezza. La Dwat non è un luogo dello spazio, ma uno stato
dell’essere e le descrizioni dei testi egizi non sono mappature di un territorio, ma appunti di viaggio
e spunti di introspezione.
In questa accezione, la prima cosa da rilevare è che ogni sera si fa notte: la coscienza non si affranca una volta per tutte dall’inconscio, non si afferma con una configurazione identica per sempre. Periodicamente si ottenebra, puntualmente si intride di nuovi contenuti inconsci, ogni volta si
riformula e si ripropone in forme diverse rispetto a quelle precedenti. Intrattiene con l’inconscio un
rapporto dinamico di cambiamento e trasformazione: nessuno di noi ha la medesima coscienza di
sé che aveva dieci anni fa ed è auspicabile che fra dieci anni abbia una consapevolezza diversa
da quella di oggi. Il viaggio a oriente attraverso la Dwat è un percorso di rigenerazione; seguire il
Sole o lo Spirito del defunto nel loro attraversamento significa ripercorrere passaggi psicodinamici
di riformulazione della coscienza. E’ un viaggio che offre innumerevoli spunti di riflessione alla psiche in cammino, sviluppati qui in modo molto parziale, a titolo poco più che esemplificativo.
1.
E’ la prima ora dopo il tramonto; dietro all’orizzonte d’Occidente, in un verdeggiante locus amoenus Ra sale sulla barca mesqetet. A volte viene contrassegnato con il geroglifico iuf, Cadavere;
spesso ha accanto una figura mummiforme; nel Libro per uscire al giorno gli siede accanto il defunto nella forma di Osiris mummificato. Queste immagini qualificano l’Occidente dell’anima come
luogo della fine, dell’epilogo, della conclusione di un ciclo. Il viaggio a Oriente comincia, dunque,
con la percezione cupa che qualcosa è finito, un’esperienza è terminata, una fase della vita è conclusa; che una persona, una relazione, una proiezione, una sfera di interesse è ormai uno spettro.
Qualunque cosa, quando non è più alimentata dall’eros vitale, si trasforma nello spettro di se stessa. Spettri, quindi, si affacciano alle porte del primo Arit e il Sole-Sé li aggredisce con parole forti:
“Voi siete entrati in essere dalle mie membra; voi appartenete al mio corpo”. Le cose della nostra
vita “entrano in essere” per dare progressivamente forma alla totalità individuale; non sono categorie assolute e oggettive, ma passaggi relativi sulla via individuativa. Così come entrano nella nostra
sfera di interesse, attenzione o attrazione, altrettanto escono. “Gli dei di questa Arrit dicono a Ra:
‘Entra, illumina la tenebra profonda, fa respirare il Luogo della Distruzione. Tu hai preso possesso
della Notte e apporti il Giorno’”. Quegli dei spettrali hanno forme di babbuini, gli animali che al primo intuirsi della luce fanno un gran frastuono, quasi esultassero all’anticiparsi di una nuova coscienza, perché il viaggio della coscienza è sempre mistero doloroso e mistero gaudioso insieme.
2.
E il Sole entra, spalanca le porte della seconda Arit, perché “giunga aria alle vostre nari e non siate
distrutti e sopraffatti dal vostro cattivo odore, né soffocati dai vostri escrementi”. Chiama gli dei di
questa regione per nome, perché “chi conosce il loro nome esisterà con loro”, confermando con
largo anticipo su Bion, che fare coscienza significa “dare nome al non dicibile”. In analisi come in
altri processi di coscienza, la nomazione comporta sottrarre contenuti all’indefinitezza e introdurre
differenziazione nell’inconscio. Stai psichici nebulosi e confusi (il disagio, il fastidio,
l’insoddisfazione, un generico desiderio di cambiare vita, l’impressione indistinta che una relazione
sia frusta, la strisciante percezione di essere trascinati dalla vita) esigono una visione esplicita dei
moti inconsci che li alimentano, richiedono una visione distinta degli impulsi nuovi che si agitano.
Chiamandole per nome, il principio di coscienza precisa e vitalizza le figure dell’inconscio; impedisce che imputridiscano nel loro cattivo odore e che marciscano nei loro escrementi. Perché
l’inconscio è un lago di energie incandescenti che alimentano la coscienza, ma è anche uno spettrale ricettacolo di larve, che soltanto grazie all’intervento della coscienza “sollevano le gambe e
distendono le braccia per entrare in essere”.
3.
E giunge l’ora dei Massacratori. Figure minacciose, armate di coltello s’aggirano nelle tenebre; sono un pericolo archetipico per ogni viandante dell’anima, psiconauta sulla via dell’individuazione
Marco Polo dà descrizioni infernali dei Massacratori umani più cruenti di quelli inferi. Questi motivi
sviluppano il potenziale distruttivo e di disgregazione dell’inconscio, il principio thanatos. Lo Spiriti
del defunto grida atterrito “non lasciare la testa di un uomo decapitato nella Dwat”; il Sole non si
lascia atterrire né li atterrisce; consegna loro campi, celebra il rito delle offerte, fa scorrere le acque
del Nun. Ciascuno di questi passaggi verrà sviluppato con maggiori dettagli; qui si sottolinea che
nei viaggi a Oriente una complessa idrografia dà rappresentazione ai forti flussi non solo delle pulsioni distruttive, ma della libido generale. Non è senza significato che il Libro dei Due cammini narri
di un percorso terrestre e di uno acqueo attraverso la Dwat; Le livre des merveilles raffigura le correnti tumultuose e le minacce di naufragio psicotico o esistenziale; la Tokaido ritrae più pacifici attraversamenti di ponti o faticosissimi guadi a spalle (40). Tutti ritraggono quanto sia arduo e rischioso ricanalizzare l’energetica psichica e tutti colgono il potenziale di relazione e di arricchimento simbolico e non solo commerciale legato ai flussi della libido.
4.
Nell’Inferno dantesco la porta che dà accesso agli inferi è scardinata; nella Dwat la porta che dà
accesso al Ro-stau è perennemente aperta, il suo nome è Colei che Occulta i Percorsi. Il simbolismo delle porte scandisce in maniera didascalica i passaggi di stato e di coscienza, l’accesso
all’ignoto e il varco dove il conscio confina e sconfina nell’inconscio. Ro-stau è la residenza di Osiris, il dio morto e smembrato, mummificato e risorto. Al cospetto di Osiris, il defunto declama solennemente la propria “dichiarazione d’innocenza” e al centro della sala Maati si sottopone al rito
della “pesatura dell’anima” o psicostasia: il suo cuore viene posto su un piatto della bilancia e
sull’altro la dea Maat, Signora di Verità e Giustizia, depone la propria piuma. Il defunto enuncia una
cinquantina di norme, che ogni volta dichiara di non aver mai violato; Thot registra che in nessun
momento di questa “confessione negativa”(cap. 125) la bilancia registri degli scostamenti e Amint,
la Divoratrice di Morti è pronta a ingoiare definitivamente il defunto se non dovesse avere un cuore-coscienza leggero come una piuma. Se la sua anima è retta e integra, viene proclamato “giusto
di voce”; diventa, cioè, come Osiris, viene identificato con il dio risorto e da quel momento procede
la navigazione notturna col titolo di “Osiride Giustificato”. E’ uno dei momenti più intensi del passaggio a Oriente e ogni dettaglio meriterebbe una considerazione simbolica; in alternativa deve
bastare la potenza dell’immagine: per confrontarsi con il mondo infero e con le sue immagini è indispensabile un cuore “giustificato” e limpido; Jung dice un “atteggiamento etico”, perché
l’inconscio non si presta a mistificazioni né a strumentalizzazioni.
5.
Luogo è nella Dwat dove “un serpente vive delle fiamme che escono dalla sua bocca”; quattro “teste fiammeggianti” (umane) sono sormontate da fiamme e delimitano un lago le cui acque sono
“come fuoco per coloro che vi sono dentro”; e coloro dentro vi sono corpi straziati di trapassati. Nel
Lago di Fuoco galleggiano resti smembrati di esperienze che ebbero il potere di riscaldare e infiammare: antichi innamoramenti, vecchie passioni, passati investimenti. Ogni passaggio di coscienza brucia (consuma ed esaurisce) interessi ed entusiasmi, motivazioni e obiettivi. Il sinistro
Lago di Fuoco minaccia di inghiottire la barca con il Sole e lo Spirito del defunto che navigano nella
notte della coscienza. Il libro per uscire al giorno raccomanda di invocare Vatchit, la Signora del
Fuoco perché è indispensabile conoscere di persona la capacità di ardere, riscaldare e consumare, lasciando sul fondo scorie di passate cotture. Dopo il battesimo nell’acqua dell’ora precedente,
il battesimo nel fuoco costituisce un passaggio archetipico. Il motivo del fuoco ctonio e divoratore è
insistente nel mondo infero e nei viaggi a Oriente: Marco Polo narra come esso fosse temuto e venerato. Sviluppa il motivo dell’attivazione della libido nei suoi aspetti di vivacità e vigore (et ello è
bello et iocundo et robustoso et forte!), ma pone in evidenza l’aspetto distruttore dell’energetica
psichica. La passione infiamma gli individui, ma consuma ed esaurisce.
6.
La maestà del Sole ordina che vengano dati i Campi per le Offerte agli dei della Dwat e gli dei inferi prendono possesso dei loro campi e dei loro beni. Nella loro opulenza fiabesca (l’orzo è alto tre
metri e mezzo e la sola spiga è di oltre un metro) i Campi Iaru dell’Abbondanza sono luoghi di rinascita osiriaca, di rivitalizzazione e di riformulazione. Le invocazioni dello Spirito (“dare un cuore
al defunto”, “donargli dell’aria”, “alzare i piedi e andare avanti sulla terra”, eccetera) testimoniano
un disegno di dare vita a contenuti spenti e latenti.
I Campi delle Offerte Hotep sono luoghi di ristoro e di nutrimento non materiale, ma spirituale. La
dea Nut, in forma di Sicomoro Celeste, nutre e vivifica con acqua e frutti dolci. Qui si mangia e si
beve, si semina il grano, si miete orzo, si caccia, si pesca, ma si tratta di occupazioni simboliche,
come catturare i contenuti dello spirito, pescare immagini dell’inconscio, coltivare abilità personali o
alimentare la possibilità di rigenerazione (Tilapia, Bennu). Il tema delle offerte è centrale
nell’iconografia egizia ed è ricorrente in tutte le religioni; non va inteso alla lettera, ma come esigenza di rinunciare a parti care alla coscienza e consegnarle a istanze dell’inconscio; di sacrificare
ideali dell’Io agli ideali del Sé. A ben vedere, commenta de Rachewiltz (p. 99), gli dei della Dwat
“prendono possesso dei loro Campi e dei loro beni”: “è più un restituire che un vero donare, un dare a Cesare quel che è di Cesare”: al corpo, all’istinto, allo spirito quello che spetta al corpo,
all’istinto e allo spirito.
7.
Non è per essersi fisicamente rifocillato nei Campi dell’Abbondanza, ma per essersi simbolicamente rinforzato nello spirito che può affrontare le forze degli inferi nel passaggio più terribile. Nella letteratura viatoria lo scontro inesorabile con le forze infere e le potenze delle tenebre è un topos
centrale e spesso costituisce l’acme del viaggio a Oriente.
Le forze degli inferi assumono una molteplicità inenarrabile di forme, accomunate da una caratteristica mostruosità. Talvolta il mostro è una patente deformazione dello specifico umano (blemme,
sciapode e ciclope); altre volte è una intensificazione e una corruzione della natura animale (drago,
coccodrillo: “arretra coccodrillo Shui!”) e altre è una contaminazione della natura umana con quella
animale (uomini-lupo). Nella Dwat il drago delle tenebre ha l’aspetto del serpente “Apep che è il
Male” e il Gatto sacro (personificazione del Sole) ne decreta la fine o, identificandosi con lui, lo uccide lo Spirito del defunto.
Il confronto con l’animalità è al centro di questi passaggi viatori e costella la cruenta, inestinguibile
lotta dell’Io contro l’istintualità dell’inconscio. Nulla più dei bestiari fantastici evoca l’orrore che le
potenze dell’inconscio agitano davanti alla coscienza e nulla più delle mostrificazioni rende evidente il costante pericolo che, contaminandosi con la propria animalità inconscia, l’uomo non regredisca nell’animale, ma degradi nel mostro.
8.
Nell’ora della Signora della Notte il Sole giunge al Sarcofago degli Dei, dove immagini antropomorfe e mummiformi si ergono nell’immobilità della mummia. E’ uno scenario di immobilismo che non
corrisponde solo ai rischi di devitalizzazione e depersonalizzazione. Il Libro per uscire al Giorno
contiene le formule chiamare per nome uno ad uno tutti questi dei, non per diventare come loro,
ma per essere loro. “Che essi siano nel mio ventre”, dice il testo, indicando un processo di identificazione attraverso cui l’Io impara a mantenere una posizione eretta e salda, una fermezza immobile che richiama la dantesca “torre che non crolla già mai la cima per soffiar de’ venti”. Il viaggio a
Oriente verso nuove forme di coscienza prevede e richiede anche questo: un Io eretto e impassibile alle tormente delle contingenze; a volte può sembrare imbalsamato nella sua compostezza, ma
“non è respinto dalle porte misteriose della Dwat”, non viene sbalzato e rigettato in tutte le direzioni
dalle forze turbolente dell’inconscio.
9.
Forte della sua forza, eretto e fiero (compos sui) il Sole “dalla sua barca dà ordini agli dei” che sono in questa regione della Dwat, che ha nome Colei che Introduce nelle Forme. Egli si tiene ritto in
tutti i luoghi dei Giustificati, tra tutti Coloro che Contano i Giorni.
Ha relazione con questo passaggio psicologico l’erigere il pilastro di Osiris, il magico Djed, che
fonde in un’unica immagine i motivi simbolici dell’albero cosmico, del pilastro e della la colonna
vertebrale. Molto semplicisticamente, ma molto efficacemente il linguaggio comune richiede all’Io
di avere “spina dorsale” nell’assolvere le sue funzioni di coordinamento della coscienza e soprattutto nel riformulare gli assetti della coscienza.
I Giustificati sono coloro che si identificano con Osiris, il dio morto e smembrato, risorto a nuova
consapevolezza e capace di riformulare le proprie visioni e le proprie concezioni ad ogni passaggio
dell’esistenza. Osiris è il Grande Verde (verde come Al Kadir) è colui che ogni primavera rinasce,
che perennemente è in viaggi di trasformazione; è immagine dell’inestinguibile potenziale di rigenerazione della psiche, motore ultimo di ogni viaggio a Oriente, alla ricerca di una nuova visone di
sé e del mondo, di una nuova consapevolezza delle proprie motivazioni e dei propri scopi.
10.
Nel regno acqueo di Colei che Introduce nelle Forme il Sole giunge scortato da figure d’acqua: sono I Sommersi, I Nuotatori, I Galleggianti. I Testi delle Piramidi dicono liricamente “calme sono le
acque del diluvio dopo che oggi hanno inondato i canali del re Neferkara”.
Dopo che il fuoco e l’acqua hanno devastato certe acquisizioni della coscienza e certi stati consolidati dell’Io, le acque oceaniche dell’inconscio avvolgono nell’indifferenziazione. Gli dei che accompagnano il Sole “spogliano i corpi dei morti delle loro bende”, perché questo è il regno dell’amorfo,
del senza forma; queste acque sono quelle del Nun, dello strato pre-conscio e psicoide che precede ogni origine, ogni forma , ogni cosa che “viene in essere”. Queste acque profonde sono pura
potenzialità psichica sepolta nelle profondità dell’inconscio. Il viaggio a Oriente è un’immersione
nelle dimensioni in cui ancora non ha forma un progetto, un tratto del carattere, un bisogno evolutivo: il futuro. Sekhmet la Divoratrice a testa di leonessa ingoia le forme delle cose già vissute; gli
dei spogliano delle forme anche i cadaveri delle esperienze passate. Nel farsi e rifarsi della coscienza, allo Spirito del defunto come all’animo del Vivente viene chiesto di sommergersi in stati
d’animo privi di forma e di disegno, in stati esistenziali di liquefazione, di spenta indifferenza; è
chiesto di nuotare fra i resti disciolti di cose che più non contano, di galleggiare sulle acque di un
mare senza confini e di rimanere a galla per un periodo privo di prospettive e perfino di chimere.
Nelle sue profondità acquee l’inconscio è la Procreatrice delle Forme; chi conosce queste cose di
persona, chi conosce di fatto la Procreatrice delle Forme e la chiama per nome “è nello stato di colui che percorre la Dwat, a lui non è impedito di illuminare con Ra -il Sole- il cielo”, che è il proprio
notturno cielo interiore.
11.
Forse è per anticipare l’imminente capacità di illuminare il cielo che sulla prua della barca mesquetet nell’undicesima ora si posa l’astro Psedj; è un precursore rosso del sole mattutino, il cui nome
significa “illuminare”. E’ ancora buio, ma sulle acque abissali del Nun risplende un piccolo astro
luminoso; dalle profondità dell’amorfo qualcosa prende forma e nell’omogeneità di cose disciolte si
comincia intravedere qualcosa. Nel viaggio iniziatico di Apuleio (come nella raffigurazione simbolica del presepe) nel cuore della notte s’accende una luce, risplende un’anticipazione del sole diurno: media nocte vidi solem coruscantem (Metamorfosi). Il Libro per Uscire al Giorno racchiude la
complessità simbolica dell’astro Psedj in un geroglifico che è costituito dall’albero-della-vita-pilastro
cosmico-colonna vertebrale (Djed, in una parola sola) sormontato dal disco solare: in cima
all’individuo, nel luogo anatomico della testa e nella sede immaginaria dell’Io si accende una nuova
luce, si dischiude una nuova visione, si configura un nuovo assetto della coscienza. La consapevolezza è una scaturigine dell’inconscio; il farsi e rifarsi della coscienza non è una scelta conscia, ma
un’esigenza che sgorga dall’inconscio. Il testo che accompagna il Djed con il sole sulla sommità
recita: “io sono l’ieri, l’oggi e il domani; io ho la facoltà di essere nato una seconda volta”. Il viaggio
della coscienza è creatio perennis e la fantasia universale di rinascere è archetipo di reiterata riformulazione dell’assetto individuale, della consapevolezza di sé; è rinascita della coscienza.
12.
Ormai il viaggio a Oriente volge al termine. Il Sole è arrivato alle estremità orientali della Dwat, nel
luogo che ha nome L’Evoluzione dell’Oscurità; sceso nelle tenebre come Aton, il Sole-deltramonto, ora risorge come Keper, il Sole-del-mattino. Keper è un termine più volte incontrato lun-
go questo viaggio a Oriente e significa “entrare in essere” (diventare). Il Libro egizio degli inferi parla da solo; se riferiamo le sue parole ai processi psichici dell’incessante rinnovarsi della coscienza,
del continuo riformularsi dell’assetti psichico, non ha bisogno di commenti: “L’estremità delle spesse tenebre che il Sole attraversa nella Dwat è l’inizio dei raggi solari. Gli affari misteriosi compiuti
da questo grande dio nella Dwat è lo stretto passaggio dei misteriosi scritti della Dwat. Chiunque
non li conosca è condannato alla miseria, ma chiunque conosca queste immagini misteriose è ben
munito di Akh”, di vita.
Il viaggio a oriente, nelle sue infinite versioni e nelle sue concrete attuazioni, è un viaggio esemplare verso la fonte della luce e verso i regni della coscienza; è una narrazione archetipica del percorso di individuazione; non verso un’astratta conoscenza, ma verso la vita, verso la dimensione esistenziale del sentirsi consapevoli e presenti a se stesso, spiritualmente vivo.
Corbin H. (1979), Corpo spirituale e terra celeste, Milano, Adelphi, 1979.
Corbin H. (1958), L’immaginazione creatrice, Bari, Laterza, 2005
Polo M., Le livre des merveilles, Pasis, Biblithèque de l’image 2002