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A ORIENTE! ISTANTANEE LEVANTINE Massimo Pacifico dal 10 settembre 2011 Chiostro delle Clarisse Via Porta Putignano, 18 NOCI (Ba) mostra foto grafica Ingresso gratuito. A ORIENTE! Quando frequentavo il liceo l’Oriente era rosso. Colore che inquietava molti. Tutti leggevamo il libretto di Mao che milioni di cinesi sventolavano e qualcuno aveva letto Marco Polo. Chi fumava andava in Afghanistan in Deux chevaux, o in VW bus, e chi non fumava andava a Riccione. L’India era misteriosa e il Viet Nam il posto dove risuonava sempre la stessa nota: ta ta ta ta. La Malesia era ancora quella di Sandokan e la Thailandia sui vecchi francobolli era ancora Siam. Il vicino Oriente era diventato Medio e Israele era già il problema. L’Egitto non aveva Sharm e non era frequentato da shampiste. L’Iran si chiamava Persia, e l’Irak non interessava a nessuno. Del Giappone si conosceva la Seyko. E la Nikon. Molti giovani avevano una camera oscura e sognavano una F. La reflex componibile e indistruttibile dei Fotografi. La comprai dopo aver tritato una Minolta Srt 101 ed essermi iscritto all’università. Il ‘68, che da noi era stato invero il ‘69, coinvolgeva e le fotografie dovevano essere in bianco e nero. E impegnate. In americano si diceva concerned. Fotografai qualche Italia e un po’ d’Europa del Nord. Senza troppa convinzione. Blow up in provincia aveva influenzato il giusto. Quando anche l’università finì mi ritrovai con una laurea, un album di negativi Tri X, una Nikon F, una Nikkormat, qualche obiettivo e la presunta incoercibile impellenza di documentare un mondo che stava scomparendo, inghiottito dal Progresso. Diventai fotografo. Professionista. Dopo un po’ per fortuna qualche editore se ne accorse e mi spedì in giro per il mondo. In Europa spesso, in Africa poco, in America, soprattutto del Nord, parecchio. In Asia qualche volta. Questo continente mi prese più degli altri. C’erano, più diffuse che altrove, evidenze delle radici della nostra civiltà. E l’umanità appariva ancora importante in un mondo con pochi motori. Scoperto questo, quando potevo, ci andavo e ci vado. E faccio fotografie. Tento di congelare attimi di vite normali. Una sorta di Findus del quotidiano. Se mi riesce, prima di scattare, divento trasparente, per non influenzare, con la mia presenza, il copione delle scene che ritraggo. Più raramente mi paleso. Allora il mio obiettivo incrocia sguardi spesso increduli di aver attirato attenzione e che si distraggono, per un batter d’occhio, dalla loro consueta occupazione. Quello di apparire al soggetto scelto è il prezzo da pagare per documentare, se non ci sono altri modi, comunque una realtà, effimera come ogni altra, e mutevole a ogni miliardesimo di secondo. Tutto scorre, infatti, ancora. E cambia di continuo. Come ogni fotografo coltivo, comunque, l’illusione di sconfiggere il Tempo. So che Lui alla fine vincerà, io avrò però, forse, contribuito alla cicatrizzazione delle ferite inflitte all’aspirazione di molti all’immortalità. E avrò la presunzione di aver preservato irripetibili attimi scanditi dalla luce, e assecondato una personalissima necessità di condividerli con altri. Un Facebook iniziato ante litteram, e tutto giocato, in questo specifico caso, con strumenti analogici. Le immagini di questa pubblicazione sono state difatti prodotte su pellicola invertibile durante una trentina d’anni di saltuarie peregrinazioni nelle terre del sol che si leva. Non sono state manipolate in alcun modo e si debbono a compagne di viaggio attente, silenziose e preziose complici di confessabili segreti che si chiamano Olympus e Nikon. Sia scritto senza che io debba ottemperare a contratti pubblicitari di sorta. Le ringrazio per la compagnia che mi hanno fatto, per decenni, senza chieder nulla in cambio e per essere state complici di tante intrusioni nelle vite degli altri . Come ringrazio tutti gli interpreti involontari delle mie fotografie e tutti i colleghi giornalisti e gli editori che mi hanno incoraggiato a non desistere dal mio progetto, non privo di superbia, di essere testimone del mio tempo.