estratto - Gingko edizioni

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estratto - Gingko edizioni
COLLANA BIANCA
Le bussole
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AUTOBIOGRAFIA
LICIA PRAISI
IO CAMMIO EL BUIO
NOTA DI OLETTA ROSSI
PREFAZIONE DELL’AUTRICE
GINGKO
Titolo dell’opera: Io cammino nel buio
© Copyright maggio 2009 by Licia Praisi
© Gingko edizioni - San Lazzaro di Savena (BO)
I EDIZIONE maggio 2009
Collana Bianca - Le bussole
ISBN 978-88-95288-08-6
Progetto grafico di copertina: ATALANTE.
Foto di copertina: Woman © 2007 by Adam Richt.
In quarta di copertina: Spleen © 2006 by Jim Lecther.
Per ordini rivolgersi a:
Gingko edizioni
via Fratelli Canova n° 66
40068 - S.Lazzaro di Savena
Bologna
Tel./Fax: 051.0868301
www.gingkoedizioni.it
www.fuggicalipso.net
NOTA
di Oletta Rossi
Che cosa hanno di speciale o di particolare le storie che leggiamo? La capacità di riconoscere un pezzo
di noi stessi negli altri.
Siamo abituati a pensare che la nostra vita non
meriti di essere raccontata e quando stiamo male, o
siamo in difficoltà, pensiamo che il nostro dolore sia
unico e incomprensibile agli altri.
Le cose belle o brutte che ci accadono nella vita
sono sempre già accadute, pertanto trovare il coraggio
di raccontarle o, ancora meglio, scriverle è un aiuto
che diamo a noi stessi, perché troviamo il coraggio di
uscire dal guscio dove ci eravamo rintanati, e agli altri
perché ritrovano sempre un pezzo di se stessi nel racconto che leggono.
Leggere, ascoltare storie di altri, è un modo per
ritrovare la voglia di portare la propria vita verso
spiagge o strade nuove per imparare a fidarsi di nuovo
di qualcuno o qualcosa. Anch’io, che sono un operatore che da tanti anni si occupa di persone che vivono
momenti di difficoltà, non sono immune o abituata
alla sofferenza. Forse la differenza sta nell’aver
imparato ad ascoltare storie, farmele passare dentro e
restituirle all’altro all’interno di una relazione d’aiuto
che tiene presente l’originalità di ogni singolo.
Oletta Rossi è educatore professionale presso il centro diurno
Domenico De Salvia del Servizio Psichiatrico Territoriale di
Portomaggiore (FE).
I
PREFAZIONE
M
i chiamo Licia, ho 54 anni, vivo sola in una
casa dell’Ente Case di Ferrara dove ancora
sono ammalata e lotto ogni giorno e sopravvivo con
fatica. Ho cominciato a scrivere questa storia come
terapia, sotto consiglio della mia dottoressa, ma man
mano che andava avanti mi sono ritrovata a pensare
che se la gente avesse potuto leggere tutto sulla mia
vita, le parole di questo libro sarebbero state una fonte
di riflessione e un forte spunto di conoscenza. Perché
i depressi non sono dei matti, come molti dicono,
sono persone che vogliono essere semplicemente aiutate. Ed esistono migliaia di donne, di uomini e di giovani che si ritrovano in situazioni difficili come la
mia, che hanno sofferto molte pene e che ancora soffrono, e vorrebbero urlare al mondo una richiesta di
aiuto.
Io, che di queste persone ne ho conosciute tante,
troppe, so che molte, troppe, non vengono aiutate. In
questo mio libro ho voluto raccontare di me, fin da
quando ricordo, la mia infanzia infelice in collegio,
senza una vera famiglia e senza un padre, una giovinezza trascorsa alla perenne ricerca di qualcosa che
mi desse una esistenza serena, mentre mi impelagavo
in diversi guai; poi il matrimonio, che sembrava perI
fetto, e l’attesa spasmodica di un figlio che non arrivava e che a un certo punto smisi persino di ricercare;
infine, per cause infinite, il sopraggiungere della
depressione in forma grave, di cui ancora oggi si sa
ben poco, e sulla quale c’è scarsa informazione.
Voglio far sapere alla gente di quello che succedeva durante quei giorni e di come ho sempre trovato il
coraggio di affrontare le cose, compreso il tumore al
seno che sono riuscita a combattere con coraggio.
La mia vita non è stata bella. Fin da quando ho
cominciato a capire, ho scoperto la sofferenza.
Voglio dire a tutte quelle persone che soffrono:
chiedete aiuto, prima che sia troppo tardi. Ci sono dei
centri specializzati, ormai in tutto il mondo, si chiamano C.S.M., centri di igiene e salute mentale. Fatevi
aiutare dagli assistenti sociali, dagli psichiatri, dagli
psicologi, e dalle persone che vi amano. Loro possono fare qualcosa, alzatevi in piedi e cercate di percorrere un’altra strada.
Io chiedo ancora aiuto, e lo ricevo, e mi sento più
sicura. Con il sostegno di queste persone sono riuscita non solo a debellare la malattia, ma anche il lungo
periodo del tumore al seno che ho superato con grinta
e volontà. Solo posso dire che se non ci fossero stati
loro, insieme alla mia famiglia e a mia figlia, da sola,
nella condizione in cui tuttora mi trovo, non ce l’avrei
fatta, avrei certamente combinato qualcosa di irreparabile.
Adesso, con la voglia di scaricare dalle mie spalle
tutto il peso che mi porto da anni, sono qua.
II
Sono qua dopo tante sofferenze e delusioni, dopo
tanti momenti angosciosi e distruttivi che credo,
spero, di aver messo alle spalle; sono qua dopo due
tentativi di togliermi la vita, dopo tante sofferenze
arrecate a mia figlia e ai miei cari, e a me stessa, e
sono qua dopo venticinque sedute di radioterapia e
con una pastiglia al giorno che devo prendere per cinque anni e i controlli che vanno seguiti con regolarità.
Questa è, ed è stata, la mia vita.
Licia Praisi
Portomaggiore, maggio 2009
III
IO CAMMINO NEL BUIO
Questa storia è dedicata a tutte le donne
che hanno conosciuto la sofferenza.
Licia Praisi è uno pseudonimo. L’autrice vive da sola
a Portomaggiore, un paese della provincia di Ferrara.
Ha 54 anni e una figlia che adora. Con i pochi euro
della pensione tira a campare e spera in un futuro
migliore.
I
P
erché ho deciso di raccontare la mia vita? Per
far sapere al mondo che esistono certe realtà;
per una sorta di analisi; e perché scrivendo scaricavo
la tensione ed elaboravo meglio ciò che ho vissuto e
che vivo tuttora. Perché ogni cosa tirata fuori dalle
viscere sarà come lasciar scorrere dell’acqua fresca
dentro di me. Ho vissuto tormenti, dispiaceri, dolori,
delusioni, amarezze e violenze. Credo che molte persone potranno identificarsi in questo, dal momento
che non sono l’unica ad aver sofferto. Non è facile
scrivere di se stessi, non si sa neppure se cominciare
dal presente o dal passato. Nel presente mi trovo qui,
in questa casa, e sto lottando per poter vivere una vita
più serena. Mi sto aggrappando a questi giorni con le
unghie e con le poche forze che ho, affinché possa
vedere un futuro migliore. Sebbene ancora incontri
parecchi ostacoli che mi segnano, so benissimo che io
sola posso, e devo, dare una svolta alla mia vita.
Seduta a questo tavolo, con un quaderno e la
penna, la televisione accesa che mi fa compagnia,
compirò gli anni la vigilia di Natale. Tra qualche
minuto suonerà il cellulare e mia madre, che tutte le
sere mi chiama per sapere come è andata la giornata,
mi augurerà la buonanotte. E dopo un po’ io farò lo
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stesso con mia figlia, Melissa, che è il mio amore e il
mio orgoglio, la mia fonte di luce. Questo è il mio presente. Nel passato, sono venuta al mondo in un piccolo paese della provincia di Rovigo, nel Veneto. Mia
madre mi ha raccontato spesso la mia nascita.
Abitavamo in una piccola casa molto vicina all’argine
del Po. Lì era molto bello allora, perché si viveva
ancora immersi nella natura non contaminata; c’erano
boschi, cedri, prati, l’acqua del fiume era limpida.
Quella sera del ventiquattro dicembre mia madre non
poté festeggiare con la consueta cena natalizia in
quanto nel pomeriggio cominciarono le doglie e
dovettero chiamare la levatrice. Venni alla luce esattamente al limite della mezzanotte; in casa erano presenti la nonna, le mie zie, e una sorella, Sandra, che
aveva quasi due anni. Mancava qualcuno, mio padre,
ma non l’ho mai conosciuto. Chi era, dov’era, non
l’ho mai saputo. Ricordo che una volta domandai a
mia nonna chi fosse, e lei mi rispose che era uno che se
ne era sbattuto dicendo a mia madre: « Arrangiati. » Da
quella volta non chiesi più nulla, non ne valeva la pena.
Dopo aver vissuto per tre anni in quel paese, mia
madre e le zie decisero di trasferirsi a Bologna.
Eravamo poveri e bisognava cercare lavoro. Due anni
prima mia madre aveva avuto un’altra figlia, Silvia.
Anche alla sua nascita mancava qualcuno, suo padre,
nostro padre, ma chi era, dov’era? La stessa cosa era
avvenuta anche prima, per la nostra sorella maggiore.
Anche a Sandra mancava qualcuno, chi era, dov’era?
Per quel che mi riguarda, all’epoca del nostro trasfe-
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rimento a Bologna ero molto piccola e perciò mi sembrava quasi normale la mancanza di un padre, non mi
ponevo il problema. Molto tempo dopo, quando
cominciai a capire, l’assenza di una figura paterna
diventò un problema, più che altro perché anche mia
madre mi mancava: non c’era quasi mai in casa. Cosa
faceva mia madre, ovvero cosa faceva veramente in
tutto quel tempo in cui non la vedevo, lo scoprii verso
gli undici anni non appena uscii dal collegio.
Della vita bolognese ho dei piccoli ricordi.
Abitavamo quasi in periferia. Quando mi compravano
il gelato, quando passava nella via l’uomo del ghiaccio con il suo carretto e portavano in casa dei pezzi, li
sistemavamo in una cassa avvolti in un lenzuolo e
sopra ci si metteva del cibo. Mi sovviene alla mente
che facevamo il bagno in una tinozza e, in un’occasione, per poco non affogai mia sorella. Rammento
anche i giochi in strada con gli altri bambini. Verso i
cinque anni, la mamma e una delle mie zie ci presero
- io e mia sorella Sandra - e ci portarono in una grande casa, molto grande. Non appena entrammo ci
venne incontro una suora che ci accompagnò in una
stanza un po’ buia, con delle panche di legno attaccate al muro, e lì ci fece sedere. Io e Sandra ci tenevamo
la mano molto forte, non capivamo cosa stesse succedendo, avevamo paura e non parlavamo.
Mia madre e la zia entrarono in una stanza. La
porta si chiuse con un tonfo che fece eco, e io e mia
sorella rimanemmo con un’altra suora che ci chiese se
avessimo sete. Quando la suora tornò con l’acqua e
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dei biscotti, entrambe non toccammo nulla.
Aspettavamo e ci guardavamo in silenzio. Dopo che
la porta finalmente si aprì, e vedemmo uscire per
prima la suora e poi nostra madre e la zia, mentre si
avvicinavano ci rendemmo conto che la mamma era
molto seria. Si inginocchiò davanti a noi e ci disse che
avremmo dovuto abitare in quel collegio per tanto
tempo e che sarebbe venuta a trovarci una domenica
io e una domenica Sandra. Non capivo esattamente il
motivo per il quale avrebbe dovuto farci visita a turno,
ma soprattutto perché dovevamo stare lì. La mamma
ci comunicò soltanto che doveva andare via e prima di
allontanarsi ci diede un bacio e una carezza. Si avviò
alla porta con espressione contrita e, solo in quel
momento, mi resi conto che aveva un po’ la pancia
grossa e così guardai Sandra. Senza che io parlassi, la
mamma tornò indietro e disse ad entrambe che aspettava un altro figlio. Io le risposi: « Avremo un’altra
sorellina ancora, ancora! » Per un po’ di tempo dimenticai quell’ episodio.
Fu qualche tempo dopo che venni a sapere il motivo del nostro abbandono. L’assistente sociale del
Comune aveva ritenuto necessario il nostro allontanamento per via del fatto che nostra madre non avrebbe
potuto mantenerci. La famiglia era già numerosa e
mia sorella Silvia si era ammalata di anemia mediterranea sicché, spesso, stava in ospedale. Anche mia
nonna a quell’epoca si stava ammalando gravemente
e la situazione era difficile. Si aggiungeva che le mie
zie e lo zio, che vivevano in casa con noi, non lavora-
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vano e tutto ricadeva sulle spalle di nostra madre.
Nostra madre lavorava come domestica, ma ciò che
guadagnava non bastava e ci occorrevano più soldi:
cosa si poteva fare? Venni a sapere che prima ancora
che l’assistente sociale, a costringerla a trovarsi un
altro lavoro furono proprio i membri della sua stessa
famiglia. L’avevano minacciata al punto che l’unica
soluzione per lei era rimasta quella di prostituirsi.
Nostra madre aveva dovuto cedere pur di proteggerci
e non farci mancare nulla, ma non era stata una sua
scelta. Io, anzi noi sorelle sapevamo che soffriva tantissimo. L’egoismo e la cattiveria della famiglia le
avevano rovinato la vita. Le dicevano che avrebbero
badato loro a noi, ma in realtà volevano solo fare la
bella vita giocando con la sua e le nostre.
Quando mia madre ci abbandonò, due suore presero le nostre cose e ci dissero di seguirle. Il corridoio
mi sembrava interminabile mentre lo percorrevamo.
Vi erano molte porte tutte aperte e noi camminavamo
lentamente. Dentro una stanza si scorgeva un grande
tavolo di legno e una macchina da scrivere, di quelle
nere, grandi, con i tasti grossi e una leva per mandare
avanti il rullo, e poi tanti libri disposti lungo una parete intera. Alla fine del corridoio ci ritrovammo in un
grande atrio e vidi una scala bianca e lucida. Salimmo
per quei gradini grandi, troppo grandi per le mie
gambe che facevano fatica ad arrivare di sopra, e, una
volta arrivate al piano superiore, ci fermammo in un
altro atrio dove anche le porte erano laccate di bianco.
Una suora aprì una di quelle porte e io rimasi blocca-
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ta a bocca aperta ritrovandomi davanti uno stanzone
pieno di letti, anch’essi tutti bianchi e molto ordinati.
In fondo alla camerata c’era una tenda, di colore bianco anche questa, alta, che racchiudeva un letto, un
comodino, e una croce affissa al muro, che seppi in
seguito essere il posto in cui dormiva la suora che
faceva il turno della notte. Percorsa la camerata, la
stessa suora che ci accompagnava spalancò un’altra
porta e ci intimò di seguirla attraverso un ambiente
uguale al primo. La suora, rivolgendosi a Sandra,
disse che lei avrebbe dormito lì, indicandole un letto
e il comodino. Quello era il reparto delle mezzane,
imparammo dopo. La suora aiutò mia sorella a sistemare le sue cose e si tenne la sua biancheria intima, e
poi toccò a me. Tornate nella prima stanza che avevamo veduto, lì la suora indicò quello che sarebbe stato
il mio letto e mi aiutò a sistemare le mie cose.
Trattenne anche la mia biancheria. Io facevo parte
delle ‘‘piccole’’.
Quel primo giorno mi sentii spezzare in due. Mi
avevano separata da mia sorella, mentre io volevo
stare con lei (avevo solo lei) e presi molto male la
separazione. Fui subito travolta da un profondo senso
di abbandono, il secondo abbandono.
In compagnia delle suore qualche minuto dopo ci
recammo in un altro corridoio dove c’erano i bagni e
una grande stanza per la biancheria; vi erano diversi
armadi con piccole ante e delle etichette attaccate
sullo sportello. Sopra uno di questi vennero scritti i
nostri nomi e il cognome. Dentro gli armadi le suore
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sistemarono la nostra biancheria. In un secondo
momento, dissero, ci avrebbero cucito sopra le nostre
iniziali.
In tutto quel tempo non avevo ancora visto nessuna bambina in giro. V’era solo un grande silenzio. Le
suore ci esortarono a seguirle ancora, giù per la stessa
scala e a me tremavano le gambe (il tremore non le
abbandonava). Avanzammo lungo un’ala esterna dell’edificio, con delle vetrate da una parte da cui si riusciva a intravedere un grande giardino con aiuole fiorite e alberi, e piccoli prati verdi; superammo un ennesimo corridoio, intervallato sempre da tante porte
chiuse, e ci ritrovammo dinanzi ad un’ennesima porta
bianca. La suora aprì questa e fummo catapultate in
una sala grandissima. Era ora di pranzo. Rimasi ancora una volta bloccata. Si trattava del refettorio.
Davanti a me vi erano tanti tavoli e tante bambine piccole, mezzane, grandi - sedute con le mani appoggiate sulle gambe. Le nostre accompagnatrici non ci
presentarono a nessuna di loro. Ci fecero avanzare
lungo le tavolate e, quando mi girai per salutare
Sandra che si era già seduta in fondo, all’improvviso
mi arrivò uno scappellotto in testa: dovevo stare
ferma e zitta, e questo per tutto il pranzo. Bisognava
mangiare tutto e non sprecare niente, anche se non
avessi avuto fame, altrimenti mi avrebbero punita.
Ricordo che mi fu detto che prima di mangiare si
doveva recitare una preghiera, e anche alla fine del
pranzo, per ringraziare il Signore che ci aveva dato il
cibo. Alla fine del pranzo, attente, in piedi, senza fare
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rumore con le sedie, ogni reparto si mise in fila per
due per uscire dal refettorio, sempre in silenzio; se ti
scoprivano a parlare arrivavano scappellotti in testa.
Ci scortarono in un grande salone dove capii subito si
poteva giocare. Vi erano giochi disposti in ordine
lungo le pareti. Una delle suore che avevo già conosciuto ci informò che c’era mezz’ora di gioco. In quel
breve lasso di tempo potei rimanere con mia sorella.
Ci prendemmo la mano, sedute per terra, e ci guardammo in silenzio. Notai che Sandra era molto seria,
tesa, pensierosa. Era molto traumatico rimanere insieme in quel modo. Dopo poco domandai alla suora
dove fosse il bagno perché avevo la pipì. La suora mi
accompagnò. Quando feci per chiudere la porta mi
bloccò dicendomi che avrei potuto fare cose peccaminose e così doveva vegliare.
Nel pomeriggio le bambine che già facevano le
elementari andarono a fare i compiti nelle aule scolastiche, sempre sotto sorveglianza. Con le piccole fui
mandata nella stanza del ricamo. Non avevo mai
preso in mano un ago, non sapevo fare niente. La
suora che insegnava in quell’aula mi consegnò un
pezzo di stoffa bianca, ago e cotone colorato, e mi
spiegò cosa fare per la prima volta, ovvero imparare
ad infilare l’ago e ricamare delle piccole astine sul
tessuto di cotone. Mi disse che con il tempo avrei
imparato. Tuttora odio i centri e i ricami!
Passò così quel primo pomeriggio e venne l’ora di
cena, che si svolse all’identica maniera del pranzo: in
fila per due, in silenzio, non fare rumore, non parlare
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e non sporcare nulla, le solite preghiere.
Dopo aver cenato ci fu fatto percorrere il solito
corridoio per raggiungere quella scala bianca lucida e
grande che portava fino al dormitorio, mentre io cercavo sempre di guardare indietro per scorgere mia
sorella. Prima di metterci a dormire ciascuna di noi
bambine dovette dapprima preparare il proprio letto
per la notte, e attendere dinanzi ad esso con le mutandine in mano. Poi le suore passarono a raccogliere le
mutandine e le controllarono. A quelle di noi che le
avevano sporcate troppo toccò uno scappellotto.
Dopo il controllo, in dieci per volta ci fu concesso di
andare in bagno per lavarci, ciascuna con il proprio
asciugamano, il sapone, il dentifricio e lo spazzolino.
Conclusa la pulizia intima tornammo davanti al letto
dove sopra c’erano le mutandine pulite e un fazzoletto. Ma non era ancora finita. Dovemmo aspettare lì
senza muoverci fino a che tutte avessero finito, per
poi recitare la preghiera della notte.
Non so che ora fosse quando riuscii a prendere
sonno. Ero dispiaciuta per non aver potuto salutare
mia sorella. Ero talmente stanca fisicamente e psicologicamente che nel frattempo avevo rimosso ogni
cosa che mi era capitata nel corso di quella giornata.
Riuscii a rilassarmi solo pensando intensamente a
Sandra, e desiderando di averla lì con me nel letto per
dormire assieme.
La mattina successiva, io che non conoscevo l’ora
del risveglio, fui destata di soprassalto da tre fischi
che mi squarciarono i timpani. Saltai sul letto con il
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cuore in gola e la prima parola che mi venne fuori fu:
« Sandra, dove sei? » Tutte in piedi dovemmo recitare la preghiera e poi andare di corsa in bagno, vestirci in fretta, sistemare il letto (che io non avevo mai
fatto e che quella prima volta mi fece la suora dicendomi: « Domani te lo fai da sola. »). In seguito tutte
in fila per due scendemmo giù per quelle scale che mi
mettevano paura e, sempre con una fretta che non
capivo, entrammo in chiesa per la messa del mattino.
Ancora una volta, sempre in fila per due, ci scortarono fino al refettorio per la colazione e lì, poiché non
ricordavo il mio posto, fui raggiunta da un altro scappellotto sulla testa. Quando vidi mia sorella, e per la
felicità alzai la mano per salutarla (lei invece appariva seria e triste), un altro scappellotto mi raggiunse
sulla nuca: dovevo tenere le mani ben ferme sulle
gambe. Ancora una volta, ritte in piedi, in fila per due,
ogni reparto prese una direzione diversa e noi piccole
raggiungemmo la stanza del cucito.